Dancalia mordi e fuggi
4 e 5 novembre
Dancalia mordi e fuggi, così chiamiamo questo viaggio di sei giorni nella depressione più calda al mondo. Partiamo sabato sera 4 novembre da Malpensa, scalo a Roma, Addis Abeba e arrivo a Makale con Ethiopian Airlines. Tutto perfetto e in orario. Atterriamo domenica mattina 5 novembre un po’ stanchi perché gli aerei erano pieni e abbiamo dormito poco. Il sole africano ci scalda mentre al piccolo aeroporto attendiamo l’auto mandata dall’albergo. A Makalè si intuisce che è domenica: molto relax, molti giovani in giro, magri e sorridenti, localini pieni. Ci sistemiamo nel comodo e pulito hotel Atse Yohannis, dove è in corso una partecipata, elegante giovane, rumorosa festa di matrimonio e dove alcune ragazzine elegantissime ci fanno persino mettere la firma con dedica alla foto degli sposi. Andiamo in agenzia ETT – ottima per prezzo elasticità ed organizzazione e personale – a fissare il tour di 4 giorni in Dancalia e prenotiamo anche l’ultima notte all’hotel perché ci pare comodo. Un ottimo succo di avocado che tracima dal bicchierone: il buio è sceso all’improvviso in questa polverosa città africana; ci tuffiamo ancora per le vie, molto sporche e cosparse di plastica, alcune troppo buie, piene di gente passeggiante e indaffarata, molti chiedono l’elemosina. Cerchiamo il locale consigliato per la cena: è grande e caratteristico, ma la carne servita su coccio con carbonella che ne prosegue la cottura è dura e coriacea, anche se spezzettata. Vabbé, dieta forzata, ci godiamo lo spettacolo della gente del posto, gente con altre abitudini, ma stessi pensieri.
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6 novembre
Nottata di vero lungo riposo per il necessario recupero delle forze prima della partenza. Ci facciamo trovare pronti dall’autista che ci conduce all’agenzia ETT dove è in corso il carico delle jeep in partenza con scorte alimentari, acqua, materassini. 3-day-tour / 4-day-tour, coppie, gruppi, viaggiatori solitari, ci scrutiamo, scambi di sguardi, saluti coi più espansivi, aspettativa, perplessità, timore, adrenalina. Turisti da tutto il mondo, perlopiù giovani, attendono di partire per questo viaggio ai confini del mondo. Per ottimizzare gli equipaggi e comprimere i costi veniamo abbinati a un giovane olandese-indonesino, Dany, viaggiatore solitario, morettone dagli occhi curiosi e parlantina facile. Faremo insieme il 4-day-tour, con l’iniziale incertezza sulle tappe: i nostri programmi infatti sembrano differire, ma non c’è problema, qui decidono loro, gli autisti. Il nostro, un giovane etiope alto, magro, dal bel sorriso si chiama Uanduu, parla un buon inglese. La partenza è lenta, rilassata, non c’è mai nessuna fretta di arrivare; le strade sono buone e si entra in territorio Afar superando la loro frontiera fatta di corde abbassate dalle guardie armate. Si comincia a scendere dall’altopiano, la temperatura sale. Molto. La pausa pranzo è una sorpresa: locale costruito con alti bastoni in legno che sorreggono stuoie, tavolini improvvisati, qualche decorazione e ventole per l’aria traballanti; teli delle agenzie per i rifugiati che separano il bagno dalla cucina. Tappa per molti turisti che ricevono un piatto di pasta con verdure. Immangiabile.
A metà pomeriggio arriviamo a Hamede Ela, l’avamposto più isolato mai visto: un gruppetto di capanne in legno e pietre, distanti fra loro, poggiate in mezzo alla terra più scorticata, senza un albero o un cespuglio. Qui passeremo la notte, intorno al rifugio, su brande di legno e corda. Alcuni bambini svelti salgono sul tetto delle auto per aiutare a scaricare e guadagnarsi la loro pagnotta. In attesa della cena andiamo a vedere il primo vero spettacolo. La Piana del Sale, il salt lake, una linea di acqua azzurra che esce da un immenso mare di sale sotto il livello del mare, come un miraggio, 1000 metri di profondità di sale, a quest’ora l’orizzonte si confonde con il cielo, stesso colore e vastità; in lontananza file di cammelli arrivano lentamente e dinoccolati, un asino indica loro la strada, la loro immagine tremolante si avvicina. Tutto pare muoversi al rallentatore, anche il sole, che scompare dietro l’aria umida all’orizzonte; la luce si affievolisce, le ombre si allungano e i miraggi si dilatano. Torniamo alla nostra postazione della notte, la cena è buona, forse perché siamo affamati, ed è meglio non guardare la cucina e non farsi troppe domande su piatti, pulizia e altro. Nel buio totale ci muoviamo verso l’unico bar del paese e postazione militare dotata di tv dove si trasmette il calcio. Ci sdraiamo vestiti, pantaloncini e maglietta, ma si sta bene, anche il vento del deserto è caldo e solleva molta polvere, la luna sorge tardi e illumina il cielo come un faro, difficile addormentarsi, piano piano le voci si spengono: da tanto non passavamo una notte all’aperto.
7 novembre
Ci muoviamo celermente al sorgere del sole, per evitare il caldo. Si parte per visitare Dallol, la formazione vulcanica creata dalla frattura che ha fatto nascere la Dancalia, la frattura tra l’Africa e l’Asia. Si attraversa ancora la depressione e si giunge a vedere questa incredibile formazione rocciosa vulcanica, dai colori spettacolari, potassio fosfato e ferro hanno creato una tavolozza di colori accesi e fosforescenti, pozze , acqua che esce dalle viscere, un vulcano appiattito fiori di magma bianchi e gialli: impressionante davvero. Le guardie armate della tribù degli Afar, presidiano il territorio, da lontano ci tengono d’occhio e ti riprendono con toni secchi se sbagli percorso. Si vorrebbe rimanere lì all’infinito, ogni angolo, ogni prospettiva offre visioni uniche. Il sole è già alto e caldo occorre rientrare. Poi le montagne di sale, una versione in piccolo delle Dolomiti, altre formazioni; altre pozze verdi e gialle, con acqua in ebollizione. Una sorpresa. Ci fermiamo infine ad ammirare un buco nel terreno, apertosi da pochi mesi, pieno d’acqua. Custodisce e protegge al suo interno un enorme gioiello giallo di fosfato, una perla gigantesca. E’ chiaro che siamo proprio sopra un vulcano coperto ma attivo, una porta per il centro della terra. Ripartiamo, la temperatura arriva a 37 gradi, le magliette si appiccicano alla pelle. Pranziamo a temperature più sopportabili, la temperatura scende e si sta meglio. Nel pomeriggio ci dirigiamo verso Abela, dove dormiremo stanotte, stavolta in una casa/guesthouse, una stanzetta con materassini per terra. Incontriamo molti altri turisti grandi viaggiatori, una costante di questo viaggio, che ci trasmettono tante altre idee e proposte. Nel pomeriggio girovaghiamo per il paese, strade polverose, sassose e sporche, la plastica regna ovunque. Ci ritroviamo fuori dalla porta di una scuola con le mamme che aspettano i loro bambini e con ragazzine sui 10 anni curiose, che ci circondano, ridono, e ci fanno tante domande, riusciamo a comunicare, con un bastoncino in mano e segni sulla terra; vogliono veder le foto che scattiamo, si divertono a fare treccine a Laura e lanciano gridolini quando noi due ci scambiamo un bacio velocissimo sulla bocca dietro loro richiesta: pare sia molto inusuale qui. Cena alla guesthouse su sgabellini in plastica traballanti, senza tavoli, piatti sulle ginocchia, mix di legumi variamente conditi o colorati con pane tipico etiope, arrotolato e scuro, spugnoso. Chiacchierate piacevoli e di nuovo a nanna presto.
8 novembre
Notte lunga e tranquilla sui materassini per terra. Almeno non c’era il vento. All’alba esco per curiosare in paese: cataste di plastiche e immondizia ovunque, come in quasi tutta l’Etiopia. Gente che comincia a mettersi in movimento. Davanti ad alcune porte qualche falò, un tentativo di bruciare la pattumiera, incluse le onnipresenti bottiglie di plastica. Si commercia acqua, in baracchini di legno all’angolo, ci sono i bar e qualche artigiano. I bambini salutano e dicono “ciaina” /China! Chocolate. Shop. Il segno dei tempi: qui sono passati i cinesi ad asfaltare la strada principale. Molti bambini vanno a scuola con i quaderni in mano e indossano una divisa pulita. La moschea e la chiesa sono i centri di potere o di aggregazione, ma vi sono anche due piccole banche. L’ingranaggio del commercio e del turismo sta partendo e in contemporanea si intravedono gli inizi delle diseguaglianze, che solo la parificazione della cultura e della scolarità potrà equilibrare. Veramente non sapremmo cosa consigliare: ieri sera due giovani donne fuori dal loro piccolo ristorante speravano che noi entrassimo, ma avevamo già tutto organizzato. Laura è entrata lo stesso per vedere, due tavoli e tanta speranza, come vorremmo che la loro attività procedesse con successo. Torno alla guesthouse, sono tutti svegli e in piedi, facciamo una modesta colazione, le tazze sanno di sapone, non ci sono tavoli, siamo seduti su gradini o seggiolini di plastica spaccata. La porta del bagno aperta, con la turca e un bidoncino d’acqua; la bella giovane etiope dall’acconciatura bellissima ed elaborata si occupa di lavare stoviglie in un catino all’aperto. Qualche chiacchiera con altri turisti, una giovane coppia di inglesi e una coppia di italiani della nostra età. Ci rituffiamo per il paese, la via principale è piena di camion e camionisti appena usciti dal bassopiano, che fanno rifornimento di tutto, tanti simulacri di bar con pochissime cose, neppure sedie comode, ma tavolacci e cassette della birra come tavolini, plastica e sassi, sassi e plastica in ogni dove. Un mercato con poche verdure poggiate a terra e tanta plastica colorata. Cineserie. Si deve ripartire, gli equipaggi si ricompattano intorno alle jeep, salutiamo coloro che fanno il giro all’incontrario, due giapponesi, due italiani, coreani e spagnoli, tutta gente che ha viaggiato in ogni dove. Ci dirigiamo verso il vulcano, il punto di contatto con il centro della terra, scendiamo di nuovo nella depressione, è sempre più caldo, sempre più arido; una breve sosta e incontriamo due nuovi equipaggi: una coppia spagnola e 4 studenti da Usa e Canada, mandati forse per punizione in Uganda, ora in gita qui. Mangiamo tutti insieme e Danny, il nostro compagno di viaggio olandese-indonesiano, ci inonda di battute e parole, una costante di questi 4 giorni. Danny, da 10 anni in viaggio, intervallati da brevi periodi di lavoro nella sua orgogliosa Olanda.
Ora siamo a 40 gradi, nel nulla, neppure le montagne, solo alti vortici di sabbia e qualche cammello placido che pare sperduto. Lasciamo la strada asfaltata, per buttarci nella sabbia. Siamo in quattro auto che si tengono d’occhio, potrebbero perdersi e insabbiarsi: occorre stare insieme ma non troppo vicini, perché ci tuffiamo in un deserto, terra e sabbia fin dove l’occhio può vedere, qualche cespuglio qui e là, ma sempre di meno, vulcani spenti in lontananza, ma non è ancora l’Erta Ale. Cammelli e alcuni struzzi. La luce polverosa, un mare di polvere che non finisce; spunta una sorta di confine, alcune capanne, una trattativa? si paga qualcosa? non si sa e non si capisce. Si riparte e ora le jeep percorrono un impervio e irregolare sentiero su antico magma solidificato. Un’ora e mezza per 10 chilometri, si va pianissimo. Dal bush sbucano alcuni bambini impolverati che salutano, rincorrono la jeep, un maestro cui doniamo magliette e matite, alcune capanne di paglia fra le rocce laviche… ma come fanno a vivere qui? di che cosa? mistero. Un fazzoletto di piante a noi sconosciute, con grandi verdi frutti vuoti, coltivate chissà con quale fatica, forse per gli animali. Continuiamo pianissimo, a piedi si faceva prima. Il sole sta calando quando arriviamo al nostro campo base, in lontananza ora si vede il cono del vulcano Erta Ale, non molto alto, sbuffi di fumo. Il campo base: capanne di pietre impilate e tetti di legni e paglia intrecciati. Alcuni topini si muovono indisturbati fra i nostri materassini dove cercavamo relax: dovremmo riposare, ma l’adrenalina, l’emozione di essere lì, l’impresa che ci attende di notte per raggiungere il cratere infuocato ce lo impediscono. Nel bush la toilette: “cammina” ci dice Uanduu, basta allontanarsi un po’ e appartarsi dietro una piccola duna. La plastica, latte arrugginite, scarpe rotte, oggetti di civiltà miseramente abbandonati al vento si mescolano fra i sassi e la natura e si infilano fra i rari rami di cespugli spinosi. Cominciamo a infilare gli scarponi ai piedi, nello zaino l’occorrente per la salita e la notte. E naturalmente acqua in grande quantità. Il sole ormai cala all’orizzonte, alcuni magri cammelli ci fanno compagnia, accucciati in mezzo al campo base. Altri sfilano via dietro ad un Afar burbero che si allontana, pare scontento, forse questa sera per lui non c’è lavoro. E’ buio pesto, stelle a milioni. Ci allontaniamo per impedire alla luce delle poche torce di rovinare la magia e poterci così immergere completamente nell’infinito dell’universo. La cena è pronta, per fortuna non vediamo bene quello che si mangia: un gran bidone con mestolo per una zuppa mista di nonsocosa e pseudo spaghetti. Al buio le papille gustative non colgono sapori strani: la calda zuppa va giù che è un piacere. Basta una torcia per ritrovare lo sgabellino in tela dove ci sediamo con la ciotola sulle ginocchia. Apprezziamo le banane e gli spicchi di arance.
La notte è completamente nera, la luna sbucherà solo dopo il nostro arrivo in cima. Si inizia a camminare, in fila indiana, a passo spedito. Polvere, sollevata dagli scarponi ma anche dal vento che soffia impietoso. Un foulard sulla bocca come inutile filtro: le narici sono piene di polvere. I capelli sono un mix di sabbia e sudore. Gli scarponi hanno cambiato colore, coperti di sabbia. Si sale. Sono solo 600 di dislivello e più di 10 chilometri. In totale ne faremo 24 (misurati da Danny); si cammina su sabbia o rocce vulcaniche all’inizio in mezzo al bush. Non è certo un sentiero difficile ma il buio rende tutto più incerto, camminiamo come i cammelli, un passo dopo l’altro seguendo chi ci precede, cercando di non perdere il ritmo. In lontananza i bagliori rossi nel cielo. Ci vogliono circa 3 ore e un paio di soste, per riprendere fiato e per l’acqua. E per le stelle! Non si vede il grande carro, deve essere giusto al limite dell’orizzonte, ancora non si vede. Quasi all’improvviso, anticipati dal loro forte odore, i cammelli, quasi ci andiamo a sbattere. Hanno portato su i materassini per dormire. Alcune semplici capanne circolari e poi finalmente il crinale! Fumo rosso si eleva in cielo, solo quello. Rimaniamo interdetti e un po’ delusi: dov’è la lava? Intravediamo però alcune lucine, sono le pile frontali di chi ci ha preceduto all’interno del vulcano. La guida ci dà istruzioni di sicurezza, occorre stare attenti perché le rocce sono fragili e taglienti, come camminare sul vetro, pieghe di sottili fogli della lava dell’eruzione di gennaio, quest’anno. Lo seguiamo prudenti e cominciamo a scendere all’interno, sulla lava recente. Ci avviciniamo ad un crinale interno e rimaniamo senza fiato con il cuore in gola. Vediamo l’inimmaginabile. Inferno o paradiso? Siamo attratti come calamite da questo spettacolo della natura. Un’enorme pentola a pressione aperta, con fiumi di lava in ebollizione, onde gigantesche che si schiantano, continue esplosioni e movimenti; si intravede il profilo di tutto il cratere arrossato e appoggiamo i piedi su rocce che paiono sbriciolarsi mentre sotto di noi esce il fuoco e la lava dai coni e in mezzo al fumo questo magma rosso continua a muoversi come fosse in un catino mobile e brucia e ti rendi conto di essere vicino al centro della terra, sotto di noi c’è il fuoco. Viviamo su una crosta sottile. Ci spostiamo lungo il crinale per visioni ancora più suggestive e impressionanti. Il fumo ci investe, la vista della massa di lava ci attira come un magnete, come ipnotizzati non ci stacchiamo da quel luogo magico. Si alza un fumo denso. Qualcuno va via. Noi rimaniamo con il nostro simpatico amico viaggiante Danny e con la guardia armata che ci assiste e controlla e che con passo sicuro, verso l’una di notte, ci riconduce all’accampamento dove tutti dormono. Siamo elettrizzati. La mezza luna calante illumina il cielo. Ci togliamo gli scarponi, fazzolettini imbevuti per rimuovere la sabbia e il sudore per quel che è possibile. Cerchiamo di dormire un po’ coprendoci dal vento con quel che abbiamo e usando i nostri corpi vicini per tenere il calore; la luna e le nuvole infuocate del cratere illuminano il cielo. Alle 4 ripartiamo per tornare giù, il sentiero lentamente diventa visibile con la luce del sole che sorge. All’alba sfiniti avvistiamo, stanchi, il nostro campo base e ci avviciniamo in ordine sparso scoprendo dove avevamo camminato qualche ora prima. Sfiniti e felici, ci togliamo gli scarponi, secchi con le stringhe diventate vecchie di colpo, e la colazione per dissetarci e dentro sono rimaste tutte le immagini e le sensazioni stampate in testa e nel cuore, cuore che si è connesso come una scossa con il cuore pulsante della terra. Terra terra terra ovunque. Difficile ripulirsi. Riprendiamo la via del ritorno in auto, una via che sembra infinita, tra le rocce vulcaniche e la sabbia che non finisce mai, ci pare lunghissima, si arriva alla strada asfaltata con una ruota che non frena e perde liquido, ma non è grave. Con le altre jeep ci dirigiamo verso il lago Afdara, grande bianco e salatissimo, dove facciamo tutti il bagno mezzi vestiti per toglierci i chili di polvere e sostituirlo col sale che si attacca alla pelle. Il lago è grandissimo, ma come fa ad esistere se ci sono 40 gradi? Già, siamo sotto il livello del mare e l’acqua proviene da sottoterra, poi andiamo a mangiare qualcosa mentre viene riparata la macchina non si sa come. Pasta, ananans e coca cola che sembra diluita. E’ l’ora dei saluti. Salutiamo i due spagnoli il gruppo canadese-americano davanti a un tè, un’ultima birra o bibita fresca in un locale-capanna: una bella donna sorridente ed elegante nel telo azzurro che le fascia il corpo e i capelli. Con Danny e Uanduu bravo autista della agenzia ETT, ex insegnante che guadagna di più nel turismo, riprendiamo la strada per l’altopiano verso Makele.
Ritorniamo all’Atse Johannis per tuffarci sotto una doccia sospirata e per un meritato riposo su un letto vero ma senza stelle! Questi quattro giorni sono stati indimenticabili faticosi duri spigolosi unici fantastici, aggettivi che valgono sia per lo spettacolo naturale che per le persone e le ore trascorse. Crolliamo a dormire con le immagini del vulcano in testa.
10 novembre e 11 novembre
Dodici ore per riprendersi e non è abbastanza. Chiudiamo gli zaini dopo colazione, seduti ad un tavolo e non più su instabili sgabellini o con piatto sulle ginocchia, abbiamo già nostalgia? Abbiamo davanti a noi una giornata piena da sfruttare, ma si vive ancora con la testa sui giorni precedenti. Giriamo per Makale, visitiamo il mercato, pieno di prodotti locali e cineserie, ci fermiamo ad assaporare il succo di avocado, molto buono, rilassati e lenti: contatti e sguardi e sorrisi con la gente locale, delle bancarelle; seduti sui marciapiedi ci mettiamo accanto a quelli che vendono i galli vivi, pane e té per pranzo dei bambini accanto alle donne che al mercato accucciate a terra vendono le loro merci o verdure; ciabatte cinesi di mille colori e tanto altro, insomma uno degli ennesimi mercati africani fatto di esistenze e di giornate a vista. Torniamo alla base a riprenderci le nostre cose. In tempo per salutare il nostro compagno di viaggio che instancabile oggi ha fatto una gita più lontano. L’albergo ci offre il transfer per l’aeroporto. Voli perfetti della Ethiopian Airlines: Addis-Roma-Milano, il viaggio si spegne e ritorniamo al nostro mondo quando il sole sorge, con la visione delle Alpi imbiancate e rosa all’orizzonte.
Dancalia: un viaggio mordi e fuggi che ha superato tutte le aspettative migliori, un viaggio per nulla facile ma con la sensazione di avere toccato un picco di non ritorno, un livello insuperabile. Come nel gennaio scorso in mezzo alle tribù della Valle dell’Omo, così ora a nord, in questa depressione che ci connette con la Terra, le sensazioni toccano l’apice del cuore e della mente.