Famosa per il suo straordinario vino rosso, questa zona della Toscana è anche terra di santi e navigatori

Una settimana particolare. A giro per il Chianti, scelta per niente scontata. Capita che si programmano viaggi, magari anche lontani, e si rinviano quelli a due passi da casa. Con Susanna e Tosca, la nostra cucciola a quattro zampe sempre con noi, partiamo per approfondire la conoscenza del Chianti, universalmente famoso per il vino. E terra di ispirazione culturale e spirituale per santi e navigatori.
Da casa ci mettiamo un’ora per raggiungere l’agriturismo scelto. L’uscita sulla Firenze Siena è a San Donato in Poggio. Costeggiamo il paese in direzione Castellina in Chianti, al Santuario di Pietracupa prendiamo Strada Sicelle. Qui ci accoglie il Borgo Montecastelli. Come a dare il benvenuto all’orizzonte appaiono, sopra le colonne dell’entrata, due cigni di terracotta color ocra. Siamo sul confine tra Siena e Firenze, dove sorgeva un castello della Repubblica Fiorentina. Con la vittoria di Firenze la roccaforte perse la sua importanza militare strategica e la struttura castellana assunse connotati abitativi rurali con l’abbattimento della fortezza e le pietre usate per costruire il borgo. L’agriturismo si articola su più case coloniche, Casa Antico Roseto, Casa degli Ulivi, Casa Belvedere. Mantenendo intatto il sapore di luogo di comunità. Abbiamo prenotato Casa Il Cipresso, che prende il nome dai secolari alberi intorno, dove fin quasi a metà Novecento c’era il forno che provvedeva al pane per le famiglie del borgo. Oggi è importante testimone e arredo di una camera dell’appartamento, un terratetto indipendente su due livelli che si apre sulla vallata della Conca d’Oro che dà su Panzano. Le Case dell’agriturismo sono state arredate dalle proprietarie Anna e Margherita che hanno modernizzato con creatività gli ambienti originali tradizionali, alternando semplici oggetti un tempo d’uso quotidiano a colorati propri manufatti. Girando per il borgo, galline e colombe, fenicotteri e conigli in terracotta sapientemente posizionati nell’erba, il pavone e il gallo in ferro collocati tra i fiori, condividono gli spazi con gli animali domestici, cani e gatti.
A Montecastelli sono state trovate testimonianze etrusche, ceramiche riconducibili al periodo ellenistico. Vi passava la Strada Maremmana, un percorso di transumanza frequentato fino alla metà del secolo scorso che dal Casentino arrivava qui attraverso la Pesa risalendo per Sicelle e La Piazza. Una grande croce di legno ricorda il crocevia che si apriva ai pastori e alle greggi che in grandi ovili circolari passavano la notte. La strada continuava verso sud passando per San Silvestro, Sant’Agnese e Poggibonsi oppure prendeva per Castellina.
Facciamo la spesa alla vicina Coop di San Donato in Poggio e dopo una piacevole cena nel silenzio di quest’angolo di paradiso tracciamo programmi per i prossimi giorni.
Indice dei contenuti
Diario di viaggio nel Chianti
Primo giorno – Un pranzo del Cinquecento
Cominciamo dal paese più vicino. San Donato in Poggio, che conserva la tipica struttura urbana delle medievali “terre murate”, ci accoglie con la tranquillità delle sue strade, la cura dei particolari delle facciate delle case. Ovunque i fiori ai davanzali. Ci fermiamo per un caffè al Bar I Poggio. La Società Filarmonica Giuseppe Verdi vi ha sede fin dalla sua nascita, quest’anno è un secolo. Il circolo è il punto d’aggregazione di tutto il paese, edicola, cinema, pizzeria.
La Pieve si staglia con la torre campanaria lungo la Strada Provinciale. La costruzione attuale è della seconda metà del XII secolo secondo i caratteri dell’architettura romanica del contado fiorentino, la chiara geometria dei volumi privi di elementi decorativi.
A poche centinaia di metri sorge il Santuario di Santa Maria delle Grazie a Pietracupa. Lungo la vecchia strada romana che passando da Castellina in Chianti portava a Siena c’era un tabernacolo con un affresco quattrocentesco raffigurante una Madonna col Bambino. A fine Cinquecento, a seguito delle numerose guarigioni attribuite all’immagine, fu costruita una chiesa e l’affresco, posto all’interno, è da allora meta di pellegrinaggi. Ancora nell’Ottocento sosta obbligata dei pastori che portavano le greggi in Maremma.
Per gestire il santuario fu costituita un’opera laica, la Compagnia dei Bifolchi, in ricordo di quel popolo che contribuì a erigerlo. Ancora oggi, due volte l’anno, nelle cucine della Fabbriceria di Pietracupa si svolge il Pranzo dei Bifolchi. Riproponendo una tradizione che si ripete dal sedicesimo secolo, quando i contadini facevano offerte alla Madonna di Pietracupa e ricevevano in cambio un lauto pasto a base di carne. Il menù comprende antipasto, pasta al ragù con il macinato battuto al coltello, stracotto. Stesse ricette. In qualche caso stessi utensili di quel tempo lontano. Come allora a cucinare sono soltanto gli uomini. Il giorno del pranzo il lavoro in cucina Inizia il mattino presto. Lo stracotto, negli antichi e capienti tegami di rame, cuoce a fuoco lento per ore e ore. Tutto si ripete in un rito che coinvolge l’intera comunità di San Donato, tramandando alle nuove generazioni segreti culinari, testimonianze e ricordi che altrimenti sarebbero già stati dispersi. Quest’anno il Pranzo c’è stato il 23 marzo e si ripeterà a settembre.
Per la spesa torniamo nel centro storico. In via Senese ci attira la vetrina della macelleria Parti. Tagli di carne. Piatti pronti. Produzione artigianale di salumi. Compreso la sandonatella (mortadella) e il sandonatino (prosciutto cotto). Colpiscono la cordialità nell’accoglienza dei nuovi clienti, la competenza con la quale vengono descritte le preparazioni, le differenti cotture dei pezzi e la loro conservazione.
Il pomeriggio lo passiamo con una passeggiata nella vallata che si estende all’interno dell’agriturismo. Dietro un recinto ci sono alcuni animali liberi. Francesca è una cavalla bianca di ventinove anni. Arturo e Monnalisa sono una coppia di muli. Tutti e tre inseparabili. I nitriti e i ragli attirano la curiosità della nostra Tosca che mai aveva visto animali simili. Li osserva da dietro la rete, immobile e curiosissima. Non verrebbe più via.
Secondo giorno – Panzano e i suoi luoghi religiosi
Prendiamo Strada Sicelle in direzione Panzano. Campi coltivati e boschi di querce, uliveti e vigneti si susseguono tra morbidi, ondulati saliscendi con il panorama che cambia ad ogni curva. Il paesaggio mezzadrile di un tempo è disseminato di case coloniche, ville e case di campagna oggi in gran parte trasformate in B&B. In località La Piazza, un’antica chiesa di campagna intitolata a San Giorgio, risalente all’XI secolo, conserva nella facciata a capanna parte dell’originario filaretto. Lungo la strada una casa colonica con i panni stesi sull’aia e un cartello che segnala la vendita di formaggi caprini e miele. La via Chiantigiana procede lasciando il fondovalle del torrente Pesa. Entriamo nel territorio di Greve e la strada si allunga verso la cima del colle dove si estende Panzano. La vista corre sulla vallata, la Conca d’Oro – per il grano che rendeva il paesaggio di un solo colore – oggi coltivato a vigne.
I luoghi religiosi più importanti del paese sono intitolati a San Leolino e a Sant’Eufrosino, i primi evangelizzatori del Chianti. Della vita di San Leolino esistono due versioni. Suddiacono nel V secolo con il nome di Leone. Oppure vescovo di una località imprecisata nel secolo III, perseguitato fino al taglio della testa nella val di Sieve.
Dalla Pieve di San Leolino il panorama è di grande bellezza, Panzano illuminata dal sole è un gioiello incastonato tra le colline. La pieve risulta nominata per la prima volta nel 982 in una pergamena della Badia di Passignano. Probabilmente fu posizionata su un antico villaggio romano, il quale a sua volta era stato edificato su un preesistente insediamento etrusco.
La pieve contiene opere d’arte tra le più significative del Chianti. All’entrata, nella navata di destra, non perdete la cappella del fonte battesimale in pietra serena con l’affresco del Battesimo di Gesù al Giordano attribuito a Raffaellino del Garbo. A metà della navata di sinistra una Madonna in trono con Bambino fra i Santi Pietro e Paolo di Meliore di Iacopo.
Nel 1997 la pieve è stata affidata alla Comunità di San Leolino, composta da sacerdoti e laici che vivono in fraternità alla ricerca di un dialogo continuo tra Vangelo e cultura secondo la spiritualità del Concilio Vaticano II. Di recente alla Comunità è stata affidata la custodia della Certosa di Firenze.
Torniamo sulla via Chiantigiana, un sentiero sulla destra porta all’Oratorio di Sant’Eufrosino. Siamo soli, circondati da un silenzio al quale non siamo abituati. Il verde intorno è punteggiato di tigli, sughere, prugnoli selvatici. In un rovo, rose rosse galliche dal lungo gambo svettano, profumatissime. Più in là, prima dei campi coltivati, fanno ombra i larici. L’oratorio è nominato la prima volta in una bolla papale di Pasquale II nel 1102. Mancano notizie certe sulla vita di Sant’Eufrosino. Forse originario della Cappadocia. Convertitosi al Cristianesimo al seguito degli apostoli Simone e Giuda Taddeo, vescovo nella Panfilia (provincia romana sulla costa sud dell’attuale Turchia), fu esiliato a Roma. Arrivò qui attraversando la Pesa in piena grazie al segno della croce. Dove morì fu edificato l’oratorio. Secondo una diversa ipotesi, la fuga dalla Turchia va spostata in avanti al VII secolo, al tempo dell’invasione dei persiani. L’oratorio è stato ricostruito più volte. L’edificio attuale risale al Quattrocento.
A poche centinaia di metri si trova un tabernacolo, il Fontino di Sant’Eufrosino, la cui acqua era considerata miracolosa. Prima di partire mi ero informato e avevo trovato poche notizie. Si trova all’interno di un terreno privato. Ci siamo arrivati con qualche difficoltà, complici anche le piogge dei giorni scorsi che hanno reso più difficili alcuni passaggi. L’abbandono lo ha reso invisibile alla vista. Circondato di rovi e cespugli e dal tronco scheletrito di una quercia secolare. La fonte è essiccata. Ricorda una costruzione pagana, sulle colonne figure alate di gusto etrusco. E pensare che fino a metà Novecento, nel giorno delle nozze le spose portavano qui il mazzo di fiori.
Arrivati in paese, da piazza Bucciarelli saliamo per via Giovanni da Verrazzano. Alla “Vinaria Sassolini” si mangia nei cortili interni di un’antica casa di campagna. Con i tralci dei glicini a ombreggiare i tavoli sparsi d’intorno, il pozzo cinquecentesco ricoperto di piccoli vasi di fiori di campo. Un tratto di selciato di strada romana che sembra ricordare il rumore dei carri che trasportavano le uve nelle sottostanti cantine. Atmosfera che ha il sapore delle fiabe. Si percepiscono i lavori agricoli e gli eventi che nei secoli sono passati per questi cortili. Le storie di lavoratrici e lavoratori che hanno portato avanti l’azienda di una famiglia importante. Si intrecciano profumi, sapori e saperi. Il cortile delimitato da antiche colonne, sul finire dell’Ottocento segnato dal crollo della parte alta della torre longobarda, è oggi spettacolare cornice di un teatro della degustazione nostrana. Prendiamo orecchiette con baccelli e finocchietto, millefoglie di verdure al forno su fonduta di formaggio ed erbe aromatiche, coniglio agli aromi del campo con due bicchieri di rosato Sassolini. Buonissimi. Merito della cuoca Francesca. Sorridente e professionale Aiman che ci ha servito al tavolo. Complimenti vivissimi a Lorenzo, giovane gentiluomo di campagna!
Ci avviamo a concludere la visita a Panzano. Saliamo poche decine di metri fino alla Chiesa di Santa Maria Assunta situata entro il perimetro del castello di Panzano.
Nell’alto medioevo non era consuetudine rinchiudere una chiesa entro le mura di un castello. Si fanno due ipotesi. La prima, pensando che, ubicata nel posto attuale, la roccaforte avesse dimensioni ancora più ridotte e l’edificio fosse all’esterno. L’altra, con il percorso murario corrispondente all’attuale, è che la chiesa fosse un piccolo oratorio o una cappella ad uso esclusivo del signore della rocca.
Il campanile fu ricavato da una torre d’angolo, sicuramente scapitozzata dopo la battaglia di Montaperti (1260) che vide vincitori i ghibellini e Siena contro la guelfa Firenze.
La chiesa fu ricostruita alla fine del XIX secolo sul luogo ove sorgeva il precedente edificio del Duecento.
Il Castello nacque, come moltissimi altri, con il fenomeno dell’incastellamento intorno all’anno Mille. I re non avevano sufficienti mezzi di controllo. L’autorità era imposta tramite i signori locali che governavano in loro vece. La massima diffusione dei castelli nel Chianti avvenne tra la metà del secolo XI e l’inizio del secolo XII. Panzano fin dall’inizio appartenne alla consorteria dei Firidolfi. L’esistenza della fortezza è testimoniata nel 1103 in una bolla di papa Pasquale II.
Oltre quattro secoli dopo, nel 1555, Siena entrò nel ducato di Toscana e Panzano, come più in piccolo era stato per Montecastelli, perse il suo ruolo strategico di confine.
Il maniero oggi è privato. Ha conservato la forma originaria approssimativamente rettangolare con due lati pressoché integri. Incuriositi, ci spingiamo oltre la porta di accesso in un cortile dove si staglia, imponente, una torre d’angolo. Non incontriamo nessuno. L’atmosfera è severa, circondata di silenzio. L’ambiente, un po’ trascurato, necessiterebbe di un restyling, oggigiorno di non facile realizzazione.
Terzo giorno – I colori della campagna e dell’arcobaleno
Giornata di relax. Ci hanno parlato di un ristorante qui vicino dove si mangia bene e abbiamo deciso di provarlo. Intanto facciamo una passeggiata intorno a Montecastelli. L’esplosione dei colori della campagna è davanti ai nostri occhi. I fiori bianchi di ciliegi, susini, prugnoli selvatici e meli. Quelli gialli dei tigli. Quelli rosa dei salici. Le diverse sfumature di rosso delle foglie della fotinia, il blu dei fiori del rosmarino che cresce rigoglioso dappertutto. Qua e là un angolo nascosto che la mano dell’uomo ha abbellito di fresie di un bordeaux acceso o di calendule rosso-arancio o di rose gialle. Nei prati, violacciocche e margherite, borragine e cardi.
Poi prendiamo l’auto. Sicelle è un pugno di case, una chiesa, un ristorante, “Uscio e bottega”. Già il nome dà l’idea di un posto familiare. I tavolini sparsi sotto la tettoia davanti alla statua dello scultore Andrea Nicita. Lassù, l’equilibrista impegnato a camminare sul filo, come le figure scolpite dal belga Jean-Michel Folon, trasmette sensazioni di leggerezza e di libertà.
I piatti che ci propone Margherita sono quelli della tradizione locale, a volte rivisitati. Ribollita classica, risotto alla carbonara con asparagi, affettati e salumi della macelleria Parti, polpettine di zucca gialla e funghi. Scegliamo spaghetti alla Sassolini (cipolla bianca stufata, parmigiano, burro e pepe), fritto dell’aia con verdure di stagione, cinghiale in umido con olive nere. L’ambiente è piacevole. Scambiamo quattro chiacchiere con alcuni motociclisti fra i tanti che qui si fermano. Massimiliano e Laura di Siena, Roberto e Roberta di Parma. Parliamo di viaggi a due e a quattro ruote.
Il tempo è trascorso veloce. Si sta rannuvolando e il cielo promette pioggia. Ripartiamo, non prima di soffermarci alla chiesa accanto al ristorante. Dedicata a San Miniato, un’architettura vagamente gotica, in realtà è stata ricostruita negli anni Venti del Novecento dopo la demolizione del preesistente edificio di origine romanica. La sensazione è comunque suggestiva, con le sedie ricoperte di vasi di fiori disposte qua e là lungo la breve scalinata e sotto il portico.
Il tempo di arrivare all’agriturismo che ci coglie una pioggia sottile che si dirada in pochi minuti, lasciando il posto all’arcobaleno. Scattiamo qualche foto. Il puntino bianco circondato dal verde della campagna dal quale sembra nascere l’arco colorato è proprio la pieve di San Leolino!
Quarto giorno – Tra badie e pievi
L’antico borgo di Sambuca sorse intorno al ponte medievale di Romagliano per consentire l’attraversamento della Pesa sulla strada per Siena. Doveva essere della massima importanza, tanto da essere segnato nella Carta della Val di Chiana di Leonardo Da Vinci. Negli ultimi decenni Sambuca ha avuto una forte crescita urbana a seguito dello sviluppo industriale, ma due luoghi religiosi sono obbligatori da visitare.
Parcheggiamo in via Gramsci vicino alla pista ciclopedonale e attraversiamo il ponte ricostruito dopo l’ultima guerra. Ci fermiamo nel negozio di alimentari Soffici. Dietro la vetrina del banco in bella mostra affettati, salumi e formaggi di produttori del territorio. Sabrina, sorridente e simpatica, ci racconta come la sua famiglia è qui da generazioni e in questa bottega dagli anni Cinquanta. Il panino con il salame toscano merita la sosta.
Accanto alla bottega, la Cappella di Sant’Anna è un tabernacolo di metà Cinquecento con un affresco di Sant’Anna con la Vergine ed il Bambino, forse opera di un pittore dell’abbazia di Passignano. Nel Settecento intorno al tabernacolo fu edificata la cappella a pianta esagonale. La forma attuale risale ai lavori effettuati negli anni Trenta del secolo scorso con le modifiche apportate alle porte.
Prendiamo via Fratelli Rosselli che diventa poi Strada dell’Abate e dopo 2,5 km, costeggiando la Pesa, siamo alla Cappella di San Giovanni Gualberto. All’interno si trova il masso sul quale, secondo la tradizione, si riposava sofferente il Santo.
Da Sambuca a Badia a Passignano sono 7 km. Percorrendo l’ultimo rettilineo stradale, fin da lontano la badia ci appare in tutta la sua imponente bellezza. Fu fondata a metà dell’XI secolo da un seguace della riforma monastica vallombrosana di San Giovanni Gualberto che qui visse gli ultimi anni e morì nel 1073. Per un viale di cipressi si arriva alla corte con la Chiesa di San Michele Arcangelo risalente al XIII secolo, la pianta a croce latina e un’unica navata. Accanto è il monastero dove i monaci vallombrosani da alcuni decenni hanno ricostituito una piccola comunità monastica. Imperdibile, sotto la badia, Il borgo di Passignano, con ristoranti e wine bar affacciati sulla campagna e le vigne che bordeggiano la strada.
Torniamo indietro superando Sambuca e giriamo per Morrocco, frazione di Tavarnelle.
Bisogna fare attenzione, un solo cartello segnala la Chiesa di Santa Maria del Carmine di Morrocco. Posteggiamo sulla Strada Provinciale. All’ombra di altissimi cipressi, mentre il rumore di un trattore arriva dal vicino campo coltivato, ci appare l’ampio chiostro con colonne di gusto ionico e le volte a crociera. Il portico seicentesco conserva i resti degli affreschi raffiguranti le storie del Monte Carmelo, scoperti e restaurati alla fine del Novecento. Secondo il racconto tramandato, tutto cominciò quando Niccolò di Giovanni Sernigi, notabile fiorentino e proprietario di possedimenti in questa località, si convertì vedendo l’immagine della Madonna lasciata da pellegrini romei nel cavo di una quercia. Quel che è certa, grazie a una epigrafe, è la data di fondazione della chiesa, il 20 febbraio 1459.
La Pieve di San Pietro in Bossolo è alla periferia di Tavarnelle. La sensazione è di grande serenità. Davanti alla pieve un prato verde e un muricciolo, balcone su vigneti e campi coltivati. Luogo di culto fin dai primi secoli del Cristianesimo, come testimoniano i resti di un edificio probabilmente del IV secolo. Quello attuale è dei primi decenni del Mille ad opera di maestranze lombarde.
Per il pranzo abbiamo prenotato a Gaiole in Chianti in un locale che fin dal nome è tutto un programma, “Osteria Carnivora”. Accanto alla storica macelleria di famiglia di via Roma, Lorenzo ha aperto questo ristorante dove, ovviamente, la carne è la regina della tavola. La sala è attraversata da un unico tavolo di legno che facilita la comunicazione tra gli avventori mentre Lorenzo, da par suo, dispensa consigli e battute, scherzando con i clienti, fidelizzati o di passaggio che siano. Prendiamo tartare di manzo e tagliatelle al cinghiale. Sublimi! All’uscita scattiamo qualche foto in piazza Bettino Ricasoli ai monumenti che rappresentano al meglio il paese. La bicicletta che ricorda uno dei fondatori dell’Eroica, la manifestazione che ha fatto conoscere Gaiole e le sue strade bianche agli innamorati del ciclismo romantico e delle bici d’epoca e il gigantesco gallo di ferro simbolo del Chianti, opere dello scultore Fabio Zacchei.
Quinto giorno – Il giorno dei navigatori
Il caso vuole che il luogo di nascita di due grandi navigatori italiani si racchiude in una manciata di chilometri intorno a Greve. Andiamo a scoprire dove.
A Panzano prendiamo via di Pescille e la Strada Provinciale 118. La strada corre fiancheggiata da cipressi e pini, il paesaggio coperto da estesi vigneti in un susseguirsi di aziende agricole, tenute, agriturismi, poderi e fattorie. Cartelli in legno segnalano le località di Panzanello, Panzanelluccio, Casa Panzanellino. Svoltiamo a destra e scendiamo a Montefioralle. Le mura medievali del borgo racchiudono il poderoso castello e le strette strade di pietra – lucide di pioggia – dall’andamento sinuoso ed avvolgente. Qui, dove il tempo sembra essersi fermato, visse Amerigo Cesare Vespucci, ultimo discendente di colui che ha dato il suo nome all’America. Il nome fu proposto nel 1507 dal cosmografo M. Waldseemuller e faceva riferimento al Sudamerica, poi esteso all’intero continente.
A differenza dell’omonimo antenato, Amerigo Cesare Vespucci ebbe una vita decisamente più tranquilla, impiegato del Lotto del Ministero delle Finanze del Granducato di Toscana. In seguito aprì un negozio di antichità che gli rese una certa fortuna economica con la quale acquistò il caseggiato in pietra con il portone ancora oggi sormontato dalla vespa simbolo della Famiglia. Antiche carte della Badia di Passignano sembrano confermare la presenza dei Vespucci in questa terra fin dal Medioevo.
Scendiamo a Greve al Castello di Verrazzano, oggi location straordinaria per turisti alla ricerca di grandi vini e paesaggi mozzafiato, appartenuto alla famiglia di Giovanni da Verrazzano. L’esploratore del Nuovo Mondo per conto del re di Francia Francesco I costeggiò per primo il litorale atlantico dell’America settentrionale alla ricerca di una nuova rotta per l’Oceano Pacifico. Anche se il suo nome resta legato alla scoperta nel 1524 della baia di Hudson dove nacque New York. Con lui viaggiò a lungo il fratello
Girolamo, cartografo. Giovanni attribuì il nome di famiglia alle terre comprese tra la Florida e Terranova: Verrazzana. Ma in questo ebbe minor fortuna dell’altro illustre navigatore chiantigiano, perché il nome prescelto sopravvisse soltanto per qualche decennio.
Certo la casualità di due navigatori tra i più famosi, entrambi legati ai viaggi lungo le coste del continente americano, provenienti dallo stesso territorio, è davvero incredibile!
Torniamo a Panzano. Il tempo di una sosta a “La Curva”. Il bar in piazza Bucciarelli si fa notare per la gentilezza del gestore, la cura dell’arredamento e, ovviamente, per il buon caffè.
Pochi passi e svoltiamo in via XX Luglio. Per quel che abbiamo visto in questi giorni, si può ben dire che il Chianti è anche terra di macellerie straordinarie. E quella di Dario è una di queste.
L’ Antica macelleria Cecchini è un’istituzione a Panzano. Un luogo d’incontro dove il visitatore è accolto con un crostino al burro del Chianti (ovvero con il lardo) e un gotto di vino rosso. Con il Cecchini anfitrione coinvolgente e dalla battuta ruspante del toscanaccio doc. Ci si conosce ed è con piacere che ci fermiamo, il tempo appunto di un buon bicchiere ricordando gli amici comuni.
Sesto giorno – Il castello che sfidò la Repubblica Fiorentina
Stamani andiamo a vedere quel che resta di un potere che fu grande quanto effimero. Quello del Castello di Semifonte.
Petrognano è un gruppo di case allineate lungo la strada intorno a una grande villa cinquecentesca. Eppure nel XII secolo ebbe un ruolo centrale, borgo esterno di quella rocca che apparteneva agli Alberti di Prato. Famiglia tanto potente da entrare in contrasto con la Repubblica Fiorentina che assediò il maniero per quattro anni e infine lo rase al suolo nel 1202. A ricordare quel tempo svetta solitaria la Cappella di San Michele Arcangelo. Opera di Santi di Tito, riproduce nella cupola, in scala 1:8, quella di Santa Maria del Fiore a Firenze. A sottolineare il controllo della Repubblica Fiorentina su Semifonte e l’intera Valdelsa.
Le indicazioni stradali segnalano che siamo a poca distanza da Castelfiorentino, dove da tempo volevo visitare due piccoli musei. Passando per Certaldo ci vuole una mezz’ora.
Il primo è il Museo Benozzo Gozzoli, da tutti conosciuto come Museo BEGO. Nello staccarci i biglietti, Giulia ci consiglia di cominciare dal video che oltre al museo descrive la tecnica dello strappo degli affreschi.
Nella vasta produzione di Benozzo Gozzoli, pittore fiorentino del Quattrocento, figurano alcuni tabernacoli dipinti in Valdelsa. I due realizzati a Castelfiorentino furono a suo tempo distaccati per preservarli dalla distruzione causata dall’umidità e conservati nella Biblioteca comunale. Una scelta che si rivelò non idonea, per cui fu deciso di costruire un museo dedicato a queste opere di altissima qualità create tra il 1484 e il 1490/91.
Il progetto fu affidato all’architetto Massimo Mariani, considerato tra i fondatori del gruppo radicale denominato Bolidista in quanto predilige volumi assolutamente poco rigorosi ma piacevolmente curvilinei ed aerodinamici. In quest’opera, inaugurata nel 2009, Mariani ha realizzato un ambiente praticamente unico ricercando uno slancio verticale che ben si accorda con i volumi dei due tabernacoli esposti che sono stati ricostruiti fedelmente. Un caso più unico che raro, perché di solito ci si limita a esporre gli affreschi distaccati senza dare conto di come erano stati inseriti nel paesaggio.
I due tabernacoli rappresentano tappe importanti nell’attività di Benozzo, sia la Madonna della Tosse che quello della Visitazione. In particolare il secondo, cui collaborarono anche i figli Francesco e Alesso.
Il Museo di Arte Sacra di Santa Verdiana fa parte della collana dei musei vicariali, che lo storico dell’arte Antonio Paolucci chiamò la “Catena aurea”. Piccoli musei che raccolgono le opere d’arte della Val d’Elsa, come del Chianti, disperse tra le tante chiese chiuse. Tra le opere qui esposte, La Madonna col Bambino la cui attribuzione è divisa tra Cimabue e Duccio di Boninsegna, cifra del passaggio dall’arte bizantina all’umanesimo e un polittico di Taddeo Gaddi.
Il Museo è annesso al Santuario omonimo. Costruito in stile barocco toscano nel luogo, allora paludoso, dove Santa Verdiana aveva vissuto rinchiusa in una cella dal 1204 fino alla morte nel 1242. Santa Verdiana, patrona della città, era una pastorella di queste parti. La sua “castellanità” è ancora oggi sentita e forte è la devozione del popolo di Castelfiorentino. Secondo la leggenda popolare durante un temporale tenne il gregge all’asciutto all’interno di un cerchio disegnato per terra con un bastone con in cima un fuso per la lana. Quando piove intorno a Castelfiorentino ma non in città, si dice “Santa Verdiana ha fatto il cerchio”. I festeggiamenti con la processione e la fiera patronale sono due volte l’anno, il 1° febbraio e il lunedì di Pentecoste.
Per il pranzo ci fermiamo in piazza Kennedy, a due passi dalla stazione. “L’Osteria da Carlo” è un ambiente semplice, accogliente. Le tovaglie a quadri bianchi e rossi, il trompe l’oeil con l’immagine del centro storico, le volte a mattoni con il lampadario di ferro battuto. Clientela fidelizzata, di residenti e lavoratori della zona. Gestione tutta al femminile, con Claudia che ti accoglie con il sorriso. Prendiamo lasagne e pollo arrosto con verdure saltate. Porzioni abbondanti. Cucina casalinga, saporita e di sostanza.
Nel tornare all’agriturismo ci fermiamo a San Donato alla macelleria Parti per comprare salumi da portare a Firenze. Tosca ha capito che, se osserva la regola, l’attende la ricompensa. Si entra da una porta e si esce dall’altra. Dentro la bottega sta seduta, in attesa, sa che alla fine della spesa quel prelibato boccone gettato con amore farà centro nel suo palato. Complimenti a Emiliano e Danilo, macellai innamorati del proprio lavoro.
Settimo giorno – A giro per il Chianti
L’ultimo giorno decidiamo per un giro senza una meta precisa, andando dove ci porta la bellezza del paesaggio. Eccoci allora a Castellina in Chianti con il classico impianto quadrilatero del borgo medievale murato e la Rocca trecentesca.
Arriviamo a Radda in Chianti soffermandoci ad ammirare un breve tratto – di una bellezza unica – di strade bianche segnalato come percorso dell’Eroica. Camminiamo per il paese arrampicato su un poggio, fermandoci per un panino in piazza del mercato a Casa Porciatti. Scoprendo così un’altra bottega – salumeria, gastronomia e macelleria insieme – di assoluta qualità.
Ripassando da Panzano attraversiamo Mercatale e per la Strada Provinciale Grevigiana e la via Sant’Anna siamo a Montegridolfi. Mentre percorriamo le strette strade del paese, siamo attratti dalla vetrina di una trattoria. Il tempo che la strada si allarga e torniamo indietro. “A casa mia” di nome e di fatto, è tutta in una stanza con venti posti a sedere. Maurizio ha creato un ambiente caldo e colorato arredando la sala con gli oggetti delle vecchie case di campagna. Ci elenca i piatti del giorno disdegnando il menù scritto. Magari un po’ burbero ma comunque un personaggio. Ai fornelli la nonna di Maurizio, e questo dice tanto. Cucina contadina come quella di una volta non è una frase buttata lì ma quello che ci siamo detti dopo aver mangiato le penne al coniglio e gli spaghetti alla vigliacca (super piccanti!) portati in tavola in capienti casseruole. Vino della casa a consumo e il caffè con la moka. Al tavolo vicino un gruppo di fiorentini e bolognesi, con i quali scopriamo comuni passioni gastronomiche.
Mentre ritorniamo verso Borgo Montecastelli è l’ora del bilancio di questi giorni. Abbiamo attraversato il Chianti in su e in giù sicuri che ne saremmo usciti soddisfatti. La miscela di una natura straordinaria e del lavoro dell’uomo rendono questo territorio un miracolo da scoprire giorno per giorno. I colori, come i profumi, riempiono i sensi. Forse per questo, pensiamo noi, non è casuale che da questo fazzoletto di terra conosciuto in tutto il mondo per l’incomparabile produzione di vino e olio, navigatori come Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano hanno trovato l’ispirazione e il vigore per navigare oltre oceano a conquistare terre lontane.
Viva il Chianti e chi lo va a visitare!