Esplorare con lentezza

"Puoi girare il mondo in aereo e vedere molte cose, ma se fai ogni centimetro a piedi ti guardi dentro, vedi chi sei" 13/8 Namanga, ore 10. Mi vengono in mente le parole di Mike Horn, l'uomo che cammina, come lo chiamano gli Inuit. Poiché al momento priva di alcuna velleità di introspezione, mi limito a riflettere che soltanto viaggiando via...
Scritto da: Medialuna
esplorare con lentezza
Partenza il: 03/08/2004
Ritorno il: 25/08/2004
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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“Puoi girare il mondo in aereo e vedere molte cose, ma se fai ogni centimetro a piedi ti guardi dentro, vedi chi sei” 13/8 Namanga, ore 10. Mi vengono in mente le parole di Mike Horn, l’uomo che cammina, come lo chiamano gli Inuit. Poiché al momento priva di alcuna velleità di introspezione, mi limito a riflettere che soltanto viaggiando via terra si coglie davvero il senso dello spazio che cambia sotto i nostri passi. I voli aerei hanno annullato ogni frontiera, ogni passaggio intermedio. Non avevo mai varcato a piedi un confine di stato. Provo un leggero senso di inquietudine, paura che qualcosa mi vada storto. Più che altro dovuto a tutto ciò che ho letto su internet prima di partire, falsari, truffatori, doganieri corrotti, richieste di mazzette, ecc ecc. Proietto tutta questa negatività sulla folla che vedo agitarsi dall’altra parte delle transenne, e davvero non so che aspettarmi.

L’autista ci fa scendere dall’autobus, e ci spiega che attenderà dall’altra parte.

La prima fase è facile, si tratta soltanto di farsi mettere sul passaporto il timbro di uscita dal Kenya, e lasciarselo alle spalle.

Subito dopo, si tratta di dribblare ambulanti ed avvoltoi che propongono scambi di moneta in nero.. Cosa già un po’ più difficile, dovendosi mantenere in equilibrio in quella specie di terra di mezzo che sta tra la completa indifferenza che denota maleducazione, e l’istintiva gentilezza che invece potrebbe essere scambiata per debolezza e accondiscendenza.

Prima difficoltà, annaspo un attimo quando l’ufficiale dell’immigration mi chiede quanto mi fermerò in Tanzania. Veramente, non lo so ancora. Dipende da un sacco di cose. Basterebbe che dicessi il minimo indispensabile per i visti turistici, invece, chissà perché, mi esce fuori un “finchè ho soldi” che in Africa pare sembrare comunque un’ottima risposta. Sfodera un immenso sorriso mentre scrive 30 giorni, mi dà il benvenuto nel suo paese e mi chiede 20 dollari. Solo 20 dollari, non 50, come mi aspettavo, e come quelli che ha appena sganciato un ragazzo davanti a me con la bandiera scozzese cucita sullo zaino liso… Anche se faccio ben attenzione a non sollevare obiezioni, 30 dollari di differenza sono una somma enorme, valgono almeno 3 pernottamenti, dopo che ho lasciato l’ufficio il tarlo continua a rodermi, i dubbi mi assalgono, mi immagino clandestina colta in flagrante dalla polizia, e rispedita indietro a pedate, mentre il galantuomo scozzese ipotizza che lo sconto sia dovuto al fatto che sono una donna. Un turista sudafricano, molto più realista, intervenendo nella discussione, ci notifica l’esistenza di un cartello che, nazione per nazione, specifica l’importo da pagare per l’ingresso nel paese. UK 50 USD, Italia 20, SudAfrica 60. Il certificato di vaccinazione della febbre gialla, che comunque avevo, neanche me lo chiedono. Ci fanno scaricare e perquisire le borse. Operazione eseguita un po’ a casaccio e basata sulla fiducia. Per via del mio ridottissimo bagaglio, passo indenne. Ridottissimo bagaglio, per chi non avesse letto l’altro mio “racconto” riguardante la prima parte del viaggio in Kenya, perché la compagnia aerea si è persa il mio zaino…

Altri sorrisi quando, a precisa domanda, rispondo che non trasporto liquori perché sono astemia. Sono questi i terribili e depravati gabellieri paventati dalla Lonely Planet… Perdo un sacco di tempo a ritrovare il pulman esatto da cui ero scesa, e quindi non mi resta tempo né per andare al bagno e né per cambiare i soldi.

I bus della linea Scandinavian Express hanno fama di essere i migliori della Tanzania, in realtà assomigliano ai nostri extraurbani, solo con i sedili un attimino più morbidi. Niente a che vedere con il lusso dei loro parenti messicani e thailandesi..

A bordo vengono offerte bevande e snacks.

La prima fermata, tre ore circa dopo il confine, è Arusha, base di partenza per i safari al Serengeti e Ngorongoro. Mi si stringe il cuore, adesso, nel ricordare quanto è bello, rigoglioso, e verde, il paesaggio. La stazione dei bus è una baraonda, un parapiglia, un casino totale, tanto per usare un termine forbito. Un’accozzaglia di umanità varia mai vista. Tutti vendono di tutto, è pazzesco. Una bolgia incredibile, un formicaio, un caos. Scorgo addirittura una signora che, allungando un piede fuori dal finestrino del suo matatu, si fa smaltare le unghie da una pseudo-estetista ambulante.

Scendo dall’autobus con la faccia contratta di una che cerca urgentemente il bagno, tant’è che tutti me lo indicano senza neanche che debba spiaccicare parola. Due figuri si frappongono tra me e l’agognata porta della latrina, calda, sporca e maleodorante. Vogliono dei soldi. Dico loro che ho solo valuta keniota, e per fortuna mi lasciano passare… Seconda tappa, Moshi. Cerco di scorgere il Kilimangiaro scrutando ansiosamente a destra e sinista e agitandomi sul sedile come se fossi stata assalita da un branco di pulci. Qualche vicino mi informa gentilmente che non si vede perché, in questa stagione, è sempre coperto da nubi basse.

Chino definitivamente lo sguardo e mi dedico quindi alla contemplazione di quanto passa davanti all’altezza dei miei occhi. Per la prima volta nella mia vita, vedo dei baobab. Osservo la vita che scorre nei villaggi ai lati della strada. Le capanne di fango, i muri sostenuti da una intelaiatura di rami intrecciati regolarmente e fittamente, i bambini, che, nelle loro ordinate uniformi, giocano nei cortili delle scuole; parecchi uomini che oziano all’ombra delle piante, altri invece che si industriano nelle loro botteghe direttamente in strada. Mi incuriosiscono i sarti. Le loro vecchie macchine da cucire, tipo Singer a pedale, sono posizionate sul marciapiede, accanto a pile di stoffe colorate ed arrotolate con ordine.

A volte l’autobus è costretto a fermarsi per via dei lavori in corso, o dei posti di blocco; qui mettono sbarre chiodate per terra, tanto per scoraggiare i malintenzionati a premere il piede sull’acceleratore. Approfittando della temporanea sosta, ai finestrini si avvicinano venditori di arance, lupini, acqua. Scruto il quadro d’insieme con la bava alla bocca. Non ho soldi, accidenti..

La quarta fermata, Mombo, è tutta un programma. Per intanto, sono organizzatissimi. Ad un bordo del piazzale sterrato ci sono numerose bancarelle di frutta e verdura, con la merce disposta geometricamente ed artisticamente. All’altro bordo, un ristorante self service che prepara all’istante ugali, patate fritte, polpette, riso, qualunque cosa, i costi sono irrisori, mezzo euro… Una passeggera indiana, sentendomi dire a qualche ambulante che non posso comprare niente, purtroppo, perché non ho un soldo, gentilmente mi propone di scambiare i miei scellini kenioti. Eccomi quindi in possesso di 10mila scellini tanzaniani, circa 10 dollari, con la quale però non posso folleggiare più di tanto perché in teoria ci devo pure dormire e mangiare stasera… Quindi mi accontento di qualche biscotto e delle banane.

I bagni sono meravigliosamente invasi da nugoli di mosche. Una grossa stanza con un canale piastrellato nel mezzo, senza alcun uscio, o muretto, o divisione di sorta, mi fa sorgere il dubbio che “quello” sia il posto. Avevo sentito storie simili a riguardo dell’India. Fortunatamente, in un bugigattolo un po’ discosto dotato di porta e lucchetto riesco ad intravedere una turca, per cui subito mi ci infilo, ben contenta di non dover espletare tutte le mie funzioni pubblicamente…

Raggiungiamo la periferia di Dar Es Salaam verso le 8 di sera, ed è già completamente buio. Fiumane di esseri umani si riversano ai lati della tangenziale, una frenesia di bancarelle e formicolii di gesti, assembramenti di voci e volti, l’unica fonte di luce sono dei lumini a petrolio. Solo alcune baracche di lamiera hanno luce elettrica, rarissimi gli schermi azzurrini delle televisioni.

Dividerò una stanza al Safari Inn con Johanna, un’inglese che viaggia sul mio stesso bus. Vive in Eritrea e fa l’insegnante. Poiché la stanza è già stata pagata da un suo amico all’atto della prenotazione, amico che ora la sta aspettando a Zanzibar, non vuole neanche la mia metà dei soldi. In ogni caso, in totale sarebbe costata 12mila tsh.

Poiché è tutto il giorno che siamo quasi digiune, chiediamo di un ristorante e ci raccomandano quello del Jambo Inn, che si trova nelle vicinanze.

Avventura gastronomica da ricordare, prezzi insignificanti sul listino, sala gremita da popoli di tutte le razze, frappè di mango memorabile, cubetti di ghiaccio che mi preoccupano un po’.

Vorremmo fare quattro passi per sgranchirci le ossa dopo tutte le ore trascorse incastrate in bus, ma ce lo sconsigliano. Peccato, perché l’aria per strada è calda e appena velata di una piacevole umidità.

Rientriamo al Safari Inn, la televisione nella saletta comune trasmette la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici. Per un attimo mi ritrovo catapultata nella mia solita dimensione europea.

Sulle scale, pomposi cartelli vietano, con toni da anatema bin-ladeniano, qualunque genere di turpitudine con le locali baldracche. Nel leggere il vetusto termine “turpitudine” ci sganasciamo dalle risate… Le camere sono appena decorose, ma dalle tubature esce acqua calda, e una doccia rilassante è quello che ci vuole.

14/8 Diventa fondamentale trovare un cambio e rifornirmi di valuta locale. Mi reco in Samora Avenue, la principale arteria commerciale in città. Il centro di Dar Es Salaam è pittoresco. L’impressione che se ne ricava, tutto sommato, è di minor squallore rispetto a Nairobi, forse anche perché qui ci sono mare, palme, un porto, e allora tutto sembra migliore… Cambio una marea di soldi, 400 euro, mi pare di aver letto che a Stone Town è abbastanza difficile trovare qualcuno che accetti i travellers cheques, meglio quindi premunirsi..

Vado al porto a comprare un biglietto per traghettare, quello della compagnia Sea Horse, il meno caro, costa 20 dollari o 22500 tsh. La partenza è fissata alle 12.30.

Rientrando alla pensione per prendermi lo zainetto, passo davanti ad una bancarella che vende vestiti usati, e mi pare di vedere qualcosa che fa al caso mio.

Camicia di lino bianca a maniche lunghe, gonnone beige con i tasconi ai fianchi e la vita bassa. Contratto e me le porto via per 7mila tsh.

La traversata in mare trascorre senza particolari problemi, nonostante le sedie di plastica scomode e l’assembramento umano. Il tempo non è granchè, ma almeno non piove e fa caldo. Il torpore pomeridiano viene improvvisamente scosso da una serie di risate proveniente dai miei vicini, una specie di scolaresca liceale accompagnata dai professori, immagino. Sghignazzano e gesticolano indicando una coppia mista, una lei trentenne bianca, bruttarella e grassa, ed un lui nero, atletico e sicuramente più giovane. Lei gli palpa il sedere. Non capisco se la causa dei lazzi siano queste effusioni un po’ lascive oppure la differenza di razze. Avvicinandoci a Zanzibar, il cielo si rasserena. Mentre i contorni dell’isola delle spezie si fanno sempre più delineati, una serie di preoccupazioni iniziano ad assillare la mia esistenza. A parte il fatto che non ho nulla di prenotato, e fin qui nulla di strano, ciò che mi cruccia particolarmente sono i “papaasi”, ossia personaggi che, come ne ho dedotto leggendo altri racconti di viaggio e le guide, ti si appiccicano addosso come piattole per proporti alberghi ed altri servizi da cui percepiscono commissioni. Se fosse solo per quello, non starei tanto in pena, ma il fatto è che ho letto che alcuni sono tossicodipendenti e possono quindi diventare molesti se ignorati o trattati sgarbatamente, cosa che del resto mi viene di solito abbastanza bene senza particolare sforzo quando ho a che fare con degli insolenti.

All’attracco, mi stacco dal drappello di altri turisti bianchi vicino a cui ero casualmente capitata, e mi mimetizzo in mezzo ad una comitiva di tanzaniani sperando di riuscire a squagliarmi senza essere notata. Purtroppo, non è così.

Un signore sui quarantacinque, mostrandomi un tesserino del Tanzanian Tourism Board, che fra l’altro chissà se esiste, mi dice che ho sbagliato strada e devo andare a fare immigration. Sì, certo, una seconda volta, anche se ho già fatto il visto via terra a Namanga, risponde come se mi avesse letto nel pensiero.

Sbrigo le mie pratiche perdendo del gran tempo e chiacchierando a destra e manca con le impiegate dell’ufficio, sperando che il tipo si stufi e vada a scocciare altrove, ma purtroppo non sono fortunata e non appena esco me lo ritrovo alle calcagna.

In teoria penso che potrei liberarmene inventandomi una prenotazione presso un qualsiasi albergo, poi di fatto mi rendo conto che non ho un posto dove stare, e quindi che faccia il suo lavoro e un bel chissenefrega…

Mi porta alla Victoria House in Vuga Street, 12000 tsh. Si trova nei pressi della African House, un po’ più all’interno, in una via tranquilla. Lungo il tragitto, nonostante lui sia un po’ contrariato, mi fermo davanti ad altre pensioni, che comunque sono piene e non sono meglio di quella dove mi vuole sistemare lui.

Mentre ero in barca, ho avuto modo di approfondire l’argomento “trasporti interni” con alcuni autoctoni. A quanto pare è un’operazione problematica. Difficile muoversi in dalla-dalla da una parte all’altra dell’isola, bisogna sempre e comunque passare da Stone Town. Dalla-dalla, tuk-tuk, songthaew, bemo, un nome diverso in ogni paese per questi pick up il cui cassone furgonato viene adibito al traffico e spostamento di carne umana. La versione locale ha le fiancate decorate come le grate sui balconi andalusi.

Acquisto, dal “papaasi”, pagandolo in anticipo, un passaggio sino a Jambiani su un taxi collettivo, 6000 tsh, non mi so render conto se sia tanto o poco, ma mi devo ancora ambientare, per cui penso che 6 Euro non sono poi questa gran tragedia.

La mia camera è enorme, molto ben aerata, piena di luce, con due grandi finestre. Peccato che sia discretamente infestata di zanzare, e le zanzariere sui letti siano bucate. Per cui le tolgo e ci sistemo la mia. Peccato anche che l’impianto idraulico sia approssimativo, e quando apro l’acqua dal rubinetto per pulirmi la faccia, mi ritrovi i piedi completamente lavati. Spero che quando tirerò lo sciacquone del water non accadano altri imprevisti… Faccio il bucato e vado a stendere sulla terrazza.

Finalmente, esco e mi dedico alla esplorazione della città di Stone Town. Come architettura non è proprio come me la immaginavo, gli edifici necessitano di una ristrutturazione, c’è un senso di grandeur ormai andata a male, di ricchezza di epoche che furono. Stone Town è come Brigitte Bardot, una bellissima donna che ora porta su di sé i segni del tempo e non fa nulla per non dimostrarlo…

Però l’atmosfera che si respira nei vicoli stretti è speciale, passeggio e zigzago a caso, senza fretta, senza mappa, lasciandomi trascinare dalle sensazioni visive e olfattive e uditive.

Approdo ai Giardini Forodhoni, la piazza principale. Acquisto due parei, uno corto e uno lungo. Poi mi godo il tramonto. Fra le aiuole fervono i preparativi per la cena. Decine di bancarelle offrono pesce, verdure, frutta, dolci, bevande. Si consuma in piedi o seduti per terra, alla luce di lumini a petrolio. Prendo degli spiedini di pesce e poi verdure crude varie, pomodori, cipolle, insalata, cavoli. 1500 tsh. Come digestivo, più per curiosità che altro, un thè al ginger che definire incandescente è limitativo, mi incendia l’apparato digerente, come avessi ingoiato un vulcano, cerco di diluire con acqua fredda ma il risultato non cambia. Quando mi sono ripresa, faccio quattro passi fra le esposizioni di artigianato, mentre chiacchiero con un ragazzo del posto che lavora in un villaggio italiano a Kiwengwa, e parla la mia lingua. All’inizio ho come il sospetto che voglia rimorchiarmi, troppo preso dal suo ruolo istituzionale di animatore, anche se oggi è il suo giorno libero e io non sono una turista Alpitour, ma forse ormai gli viene di riflesso. Dopo poco però mi rendo conto che è soltanto semplicemente e sinceramente curioso di scambiare qualche opinione con me, forse perché mi trova diversa da molta italica umanità con cui lui ha a che fare di solito. Ci sediamo a mangiare un’anguria, mi chiede quello che ho provato a viaggiare sui matatu, a camminare da sola per le vie di Nairobi, a parlare con la gente di Nakuru.

Gli racconto di Jambiani, e lui approva la mia scelta. Non c’è un vero e proprio motivo per cui preferisco andare lì. Semplicemente, è una località, la più incantevole, recita la Routard, che al momento non è stata ancora raggiunta e stravolta troppo dal turismo di massa. E’ rimasta se stessa, in breve, non si è venduta l’anima.

15/8 Se il buongiorno si vede dal mattino, oggi sarà una giornata di merda.

Salgo sulla terrazza della Victoria House ed aspetto la mia colazione. La vista è notevole, purtroppo la sporcizia regna sovrana. Ed io non sono assolutamente un tipo schizzinoso, per cui figurarsi… Le tavole sono ricoperte da tela cerata che non lavano da chissà quanto, polverosa ed appicicaticcia. Mi portano un vassoio. Pane mezzo ammuffito, due centimetri cubi di burro, uno di marmellata, omelette e thermos chiuso con acqua calda per il thè. La zuccheriera di plastica è lercia, e c’è dentro di tutto. Per di più, il coperchio del thermos è sigillato così ermeticamente che non riesco a svitarlo, per cui mi tocca correre dietro al cameriere giù per le scale per farmi aiutare. Ci metto due secondi, all’incirca. Quando ritorno al mio tavolo non trovo quasi più traccia di cibo, mentre dalla ringhiera un gruppo di cornacchie mi guarda beffardo e ringrazia sentitamente. Notare che il pane faceva così schifo che me lo hanno lasciato… Desisto dal raccontare la storia al cameriere nella speranza di impietosirlo, non ne ho le forze.

Il taxi collettivo passa a prendermi alle 8 puntualmente. A bordo, una coppia di spagnoli che si fermerà a Paje ed un’altra ragazza che, come me, è sola e diretta a Jambiani. Quest’ultima attrae la mia attenzione, poiché è vestita in khanga come le donne locali. Mi dice di chiamarsi Ana, di essere una dottoressa esperta di malattie tropicali e di lavorare per una ONG in un ospedale di Mwanza. Si trova a Zanzibar per il week end soltanto. Assomiglia a Emmanuelle Béart. Arriviamo a Paje, scarichiamo gli spagnoli e prendiamo su due tedesche. Inaspettatamente, anziché ripartire, gli autisti scendono e si attaccano al cellulare. Ne approfitto per vedere la spiaggia, così potrò dire di essere stata anche qui. Stupendo. Un mare incantevole, color dell’acquamarina. Una spiaggia di un bianco accecante, sembra neve, quasi. Il minivan riprende la strada, che ora non è più asfaltata, ma continua a fermarsi ad ogni guesthouse, immagino con la speranza di raccattare altri clienti occasionali.

Le mie compagne di viaggio iniziano a dare segni di nervosismo, come se temessero di dover passare su quel pulmino tutto il resto del giorno. Le tedesche, quando capiscono che io e Ana abbiamo pagato per essere portate a Jambiani, mentre loro hanno preso accordi e speso soldi per essere portate subito a Stone Town, hanno una crisi di nervi. E che sistema di lavorare è mai quello, degli africani non ci si può proprio fidare, ecc ecc. Ana sbotta che se sapeva che erano così lenti avrebbe preso un dalla-dalla e pagato un decimo.

Ripensando alla mia colazione volata via, nulla mi sembra più tragico, al confronto.

I due autisti tanzaniani non si sa bene con che animo affrontino le rampogne, secondo me se ne sbattono e ridono sotto i baffi. Per calmarle, propongo alle tedesche di rimanere ancora un attimo in spiaggia, mentre io e Ana vendiamo condotte a destinazione, così si godono ancora un po’ di sole, e si fanno l’ultimo bagno.

Accettano, ma prima fanno giurare agli autisti che passeranno a prenderle e non le abbandoneranno al loro destino.

Il sentiero che da Paje si dirige in direzione sud è nient’altro che una pista sterrata, poco battuta e piena di buche e polvere.

Finalmente, arriviamo a Jambiani e ci lasciano all’estremità nord , presso un complesso di bungalows dove vogliono assolutamente obbligarci a soggiornare, il Visitors’ Inn. Il prezzo è 10mila tsh, e quando io insinuo che per quel prezzo posso magari trovar di meglio, iniziano a fare dell’ironia, vantandosi di saper fare ottimamente il loro mestiere.

Ana invece parla swahili ed inizia a contrattare. Io mi sento in svantaggio, un po’ per via della lingua ed un po’ perché sono meno avvenente, per cui saluto la ragazza e i “papaasi”. Ricevo in risposta da questi ultimi risate di scherno. Mi giro e li mando affanculo.

La costa di Jambiani è quasi deserta, ampia, lunghissima, così bianca che mi fa strabuzzare gli occhi. C’è bassa marea, il mare si è ritirato per almeno mezzo chilometro, scorgo in lontananza un andirivieni di donne e uomini che trafficano con sacchi di alghe, reti, remi, barche, tele, vele. Alla mia destra invece si alternano piccoli gruppi di bungalows e palmeti. Oltre questi, riesco a scorgere le case di pietra del villaggio dove abita la gente del posto. Camminare sulla rena soffice sotto il sole a picco, nonostante il mio zainetto non sia pesantissimo, fa sudare e venir sete. Non riesco a trovar nulla a meno di 15 mila tsh, oppure mi dicono che è tutto occupato. Vorrei sapere da chi, a parte Ana non ho visto altri turisti..

Mentre arranco con andatura da chi si è perso nel deserto e sta seguendo il suo miraggio vengo affiancata da un ragazzo che, in italiano stentato, mi rivolge la parola. Ossignore, un altro “papaasi”!!! Non ne posso più!! Questo qui è gentile, però, e poco invadente; piano piano mi accompagna ad una costruzione candida, tetto in paglia, archi al piano terreno davanti alla veranda ed una balconata al primo. Lo stile è un po’ spagnoleggiante, e il nome, “Hacienda de la luna”, pure. Fa tanto Tulum, un po’ meno Jambiani, forse…

Le due stanze da basso sono appena finite, c’è odore di legno fresco, i materassi hanno la plastica sopra, i bagni sono immacolati, c’è acqua calda, gli scopini del water ancora incellofanati, aleggia un’impressione di pulizia, di ordine. Salgo al piano di sopra, dal terrazzo la vista è magnifica.

I proprietari sono assenti, contratto con due ragazzi giovani che sono i loro factotum.

15mila tsh per il primo giorno, poi si vedrà. Lascio il bagaglio in stanza e risalgo al primo piano. Di fianco, poco discoste dalla spiaggia, ci sono delle case dove distinguo donne velate che stanno facendo seccare le alghe, e accudiscono dei bambini. Alcune vanno e tornano dal mare, portando sulla schiena pesanti sacchi, altre passano in spiaggia con delle borse in mano, un paio di uomini con le biciclette transitano dove il mare si è ritirato e rimangono alcune pozze d’acqua, i bambini giocano. Mi sento catapultata nella realtà di un villaggio zanzibarino. Scendo a fare una passeggiata in spiaggia, fa caldo, ma non mi sento di mostrarmi in bikini, tutto in quel momento mi fa credere che forse la nudità è fuori luogo, ed io sono quella che deve adattarsi alle loro usanze. Per cui non slaccio il pareo e per giunta mi copro le spalle. In lontananza, quasi in prossimità della barriera, intravedo dei bianchi, nemmeno loro stanno in costume da bagno.

Non ci sono negozi, non ci sono bancarelle, qualche ristorante qua e là, molto discreto e ritirato. Niente musica assordante, soltanto qualche chiacchiera sottovoce. Mi fermo da Al Hapa, ordino del pesce e chapati, prezzo 2500 tsh, e mentre aspetto vado a sdraiarmi in spiaggia. Finalmente mi tolgo i vestiti. Dopo un po’ vedo arrivare Ana; fin dal primo momento in cui ci siamo incrociate, non mi era parsa una persona particolarmente socievole e neppure desiderosa di compagnia. Con mia sorpresa, invece, stende il suo pareo accanto al mio, e mi chiede se può fermarsi a mangiare con me, entra al ristorante e ordina le mie stesse cose.

Il pranzo vien pronto entro mezz’ora, e di questo mi stupisco abbastanza. Il pesce è una specie di cernia alle spezie, il chapati è morbido, più simile ad un’omelette, condito con cipolle e gustosissimo. Ana mi confida che la trattativa per la camera è stata abbastanza avvilente, e che è rimasta soltanto perché sopraffatta dalla voglia di coricarsi subito al sole. Non ce l’avrebbe fatta ad andare oltre verso altri lidi come ho fatto io. Il suo resort è il più grande di Jambiani, ed è quasi interamente occupato da italiani, mi dice. Noto una punta di fastidio nella sua voce. Poiché questo paesino non è meta di pacchetti organizzati, ne deduco che sono di Avventure nel mondo.

All’atto di pagare, scambiamo due parole con i tre ragazzi del ristorante, uno di essi è il responsabile, in zona, di un progetto nazionale che mira alla prevenzione verso le malattie, sensibilizzazione che svolge nell’ambito di riunioni periodiche. Il fatto di trovarsi davanti una dottoressa occidentale esperta di patologie tropicali sfocia quindi in una articolata discussione, interessante anche per me che non sono un medico, ma sono comunque curiosa e sensibile al tema.

Ana mi racconta di essersi beccata la malaria, fra l’altro, ed io non sto facendo nessun tipo di chemioprofilassi… Trascorro il pomeriggio in sua compagnia, nel frattempo il mare riguadagna il terreno perduto. Ci adagiamo sul lembo di sabbia antistante il Visitors’ Inn, faccio amicizia con gli italiani di Avventure nel Mondo. Alle 16.30 inizia a farsi ombra, e ci tocca spostarci più a nord, in una spiaggia priva di palme. Spesso siamo interrotte da “beach boys”, come li chiamano tutti, che vogliono venderci questo e quello. Basta non dar loro tanta corda, e se ne vanno.

Verso le 17.30 decido di rientrare alla mia guesthouse passando dal villaggio e non dalla spiaggia. Il centro abitato è comunque subito a ridosso di essa e della striscia di alberghetti. Le case sono costruite con una pietra calcarea grigia, sembrerebbe quasi corallo misto a calce. Intravedo due o tre bottegucce che vendono generi di prima necessità e frutta, sono sgabuzzini grandi sì e no come una cabina telefonica.

Le vie sono costituite da sabbia, non ci sono macchine, ovviamente. Un sacco di bimbi giocano in strada, molte donne sono sedute fuori sui muretti di cinta delle loro abitazioni, molto cordiali, sorridono, salutano. Alcune accennano un timido tentativo di fare conversazione, cosa però abbastanza problematica, visto che non abbiamo lingue in comune.

L’atmosfera generale che si respira in questo luogo fa nascere un affetto profondo verso di esso.

Il pesce e chapati mangiati alle tre del pomeriggio mi hanno saziato terribilmente, per cui una cena leggera la consumo al ristorante del Coco Beach Cottages. Non consigliabile, un brodino veramente annacquato e macedonia mi alleggeriscono il portafogli di 4500 tsh, un furto, da queste parti… Dopo cena riguadagno il poggiolo della mia guesthouse per rimirar le stelle, sono così luminose che sembra galleggino a pochi passi dalla punta del mio naso. Mi perdo a pensare agli universi paralleli, finchè crollo.

16/8 Colazione sul genere the, pane burro marmellata, ma abbondante, e con l’aggiunta di frutta fresca.

Alì, uno dei due tizi che si prendono cura della casa in assenza dei padroni, mi ronza intorno senza apparente motivo. Il dialogo è abbastanza complicato, il suo inglese è stentato, io non parlo ovviamente neanche un po’ di swahili.

Proprio mentre sto uscendo per andare a cercare Ana, mi si para davanti con in mano una copia di “Nessuno scrive al colonnello” di Marquez, che ho letto qualche settimana prima di partire, per combinazione.

Con mia grande sorpresa, il libro è scritto in italiano. Alì, in mezzo inglese e mezzo italiano, mi dice che sta studiando la nostra lingua. Mi fa vedere un quaderno tutto liso, dove sono scritti le regole basilari della nostra grammatica, i tempi dei verbi regolari, gli ausiliari, pronomi, articoli, ecc ecc. Mi racconta che, qualche tempo prima di me è passata da quelle parti una ragazza italiana che gli ha insegnato l’a-b-c e gli ha lasciato il libro per esercitarsi.

Decido che Ana può aspettare, tanto più che non avevamo fissato un’ora vera e propria per incontrarci, e assisto Alì mentre legge, gli correggo la pronuncia, gli scrivo sul quaderno la traduzione delle parole che non conosce.

Sono una persona abbastanza confusionaria e pasticciona, incapace di tenere bene le sue cose, disordinata. Mentre sto cercando di scrivere meglio che posso, piego una pagina sotto il mio gomito sudaticcio. Alì si agita preoccupatissimo. Mi sento un po’ mortificata, più che altro per la mia noncuranza verso un quaderno insignificante, unto e bisunto che per un ragazzo tanzaniano rappresenta invece l’unica forma di comunicazione, sapere e cultura verso il mondo esterno. Questo mi fa comprendere quanto lui tenga a questa lezione, ed in che alta considerazione mi consideri come insegnante. Per cui decido di darmi un contegno, smetterla con il mio andazzo svogliato ed assumere un’aria altamente qualificata da professoressa… Unico compromesso, chiedo ad Alì se possiamo spostarci dalla zona d’ombra della veranda e metterci al sole in spiaggia.

A tutti quelli che passano, beach boys compresi, Alì racconta chissà che con una luce particolare negli occhi, mostrando il libro e poi me e saltando da uno all’altra in rapida successione. Mi sento orgogliosa.

Finita la lezione, e prima di andarmene per la mia passeggiata, comunico ai due “gestori” che ho intenzione di fermarmi altre due notti, provo a chiedere uno sconticino senza molta convinzione ed entusiasticamente mi viene offerto un 10000 ths.

Ormai è deciso, amo appassionatamente Jambiani, questo piccolo e tranquillo micro-cosmo lontano dal mondo e dal turismo di massa. Mentre cammino in spiaggia, mi si affianca un rasta, uno dei tre con cui avevo conversato ieri di malesseri ed acciacchi vari al ristorante Al Hapa. Credo che sia uno di quelli che portano in giro la gente in barca. Stamattina evidentemente non ha niente da fare, mi tempesta di domande sull’Italia, sul mondo occidentale, sulla globalizzazione e sugli altri mali che affliggono l’era moderna. Ho qualche difficoltà, a far capire, all’amico zanzibarino, perché noi bianchi si soffra di depressione e di ansia. Sgrana gli occhioni ed insiste, che senso ha sentirsi in competizione. Già, dear Louis, che senso ha… Mi invita per il giorno dopo per una gita sulla barriera corallina al modico prezzo di 3000 tsh.

Un altro dei beach boys, che mi ha visto mentre facevo lezione ad Alì, mi conduce a casa sua, mi presenta le sorelle. Mi spiega che le famiglie locali, per la somma di 2500 tsh, la sera cucinano pesce e altre cose per i turisti portandoli nelle loro dimore, e cercando di interagire e parlare e dialogare in qualche modo.

Mi pare un’ottima idea, ma io per la sera ho altri programmi con Ana e quindi declino.

La incontro al solito ristorante Al Hapa, dove però mangiamo meno del giorno prima.

La sera invece ci rifocilliamo al ristorante del Visitors’ Inn. Pesce, riso, pomodori e Stoney per 3500 tsh.

Ana parte l’indomani per tornare a Mwanza. Non oso chiedere quanto guadagni, ma mi sembra messa peggio di me. Addirittura, ridotta a prendere il traghetto notturno da Stone Town, così che risparmia il costo della notte in albergo a Dar Es Salaam.

17/8 Ana passa da me a salutarmi alla mattina presto. Dopo un po’ di lezione ad Alì, vado in cerca di Louis e della sua barca di legno di mango. E’ una specie di canoa con bilancere, tipo le imbarcazioni polinesiane. Le vele sono un mosaico di sacchi di plastica cuciti insieme. Arriviamo alla barriera al culmine della bassa marea, alcuni pescatori del posto stanno cercando di stanare polpi e altri pesci. Torno indietro alla spiaggia verso le 13, il mare ha dei colori fantastici, sfuma dal bianco al turchese acceso in mille gradazioni. Pranzo al Ristorante Pingo, dove attendo circa un’ora per uno schifosissimo chapati ripieno di pollo. Il gusto mi pare rancido. Per di più, alcuni individui travestiti da Masai vengono ad infastidirmi con le loro chiacchiere idiote. Presto pianto in asso loro ed il mio pasto disgustoso. Passeggio sino all’estremità sud di Jambiani, dopo il Kimte Beach Inn, che fra l’altro ha un delizioso bar sulla spiaggia.

Un beach boy con cui avevo chiacchierato parecchio si offre di portarmi domani sino a Kendwa, la mia prossima meta, basta che gli paghi la benzina.

La sera sono un po’ malinconica, lasciare questo posto così fuori da tutto mi dispiace, le stelle continuano a galleggiare nel cielo. Come gli altri giorni, dopo il tramonto, il vento si rafforza, e fa fresco. Alì segue con attenzione un programma trasmesso da una vecchia radiolina, un po’ la guarda fisso tenendola a 10 centimetri dal naso, un po’ se la incolla all’orecchio. Mi dice che sono le partite del campionato. Mi domando come sia la vita qui, per uno che ci deve vivere sempre, neanche la tv per vedere lo sport preferito. Louis mi ha fatto stamattina la stessa domanda, ho risposto che mai mi fermerei qui per sempre. Però continuo ad essere malinconica.

Ritorno a cenare al Coco Beach Restaurant, quello che mi aveva rifilato il pacco due sere fa. Per pigrizia, più che altro, è uno dei più vicini a dove sto io. Incontro un tizio italiano più o meno della mia età, padovano e carino, che pure lui viaggia da solo, arrivato oggi a Jambiani, e facciamo un’unica tavolata. Non ha programmi fissi, come me. Quando gli racconto di Kendwa si dichiara convinto a passare anche da quelle parti.

18/8 Alì mi scatta una foto con la mia Nikon, e mi chiede di spedirgliela. Mentre gli sorrido, penso che devo assolutamente cercare un dizionario swahili-italiano ed una grammatica da regalargli.

La macchina che doveva condurmi via si rompe, saluto Alì in fretta, e meglio così, perché ho il magone e mi scappa da piangere, fermo il primo minibus taxi che transita nel villaggio e ci salto sopra. La corsa finisce a Stone Town ai Forodhoni gardens. Vedendomi abbastanza determinata a raggiungere a piedi il terminal dei dalla-dalla, un altro autista mi propone 2000 tsh per Kendwa. Poiché ho circa un’ora prima della partenza, mi faccio un giro nella zona delle biglietterie del porto. Ho visto un’insegna della Mega Speed Line Ferries, e ricordo di aver letto sulla Routard che questa compagnia effettua la tratta Zanzibar – Mombasa. Non mi dispiacerebbe evitare le 13 ore di pulman per tornare a Nairobi, e vedere anche se per poco la costa del Kenya. Purtroppo scopro che la Mega Speed Line ha sospeso questo genere di collegamento, e per essere sicura lo chiedo ad almeno 3 o 4 persone in uffici diversi.

Il mio minibus lascia Stone Town dopo aver prelevato una coppia di inglesi all’apparenza molto giovani, due ragazzi davvero deliziosi e gentili, John e Sarah.

L’ultimo tratto di strada verso Kendwa è sterrato, e costellato di buche. Tre chilometri che sembrano non finire mai.

Arrivati, solita storia. Siamo fermi davanti al Kendwa Rocks, il resort più grande, e vorrebbero costringerci a pernottare qua, al costo di 30 dollari americani a bungalow.

Non nascondo la mia irritazione. Faccio per pagare la corsa con una banconota da 5mila, e gli autisti fingono di non aver resto per trattenermi. John paga per me e mi dice di non preoccuparmi, che sicuramente ci si rivede in spiaggia. La combriccola tanzaniana assiste delusa alla scena della turista italiana che li lascia senza aver dato loro la possibilità di spremerla come un limone, anzi uno di loro non crede nemmeno che io sia italiana, e lo dice col tono di chi sottintende che gli italiani siano simpatici perché spendaccioni. Nel resort a fianco tutti i bandas da 10 dollari sono esauriti, e rimangono alcune eleganti casette che mi sembrano dotate di ogni confort e quindi care.

Nel complesso ancora a fianco trovo finalmente ciò che fa per me. I Malaika Bungalows, cinque in tutto, hanno l’aria spartana, ma sono graziosissimi. Sulla veranda troneggia una enorme branda di corda intrecciata, su cui potersi sdraiare per ammirare il mare. Le costruzioni sembrano abbastanza nuove, l’interno è semplice ma si vede che hanno fatto del loro meglio per arredare con gusto, nonostante il poco a disposizione. Nella camera da letto è tutto un trionfo di rosa-bianco, kangas in tinta appesi alle finestre, zanzariera da letto immacolata. Il bagno invece, lo hanno lasciato grezzo; mi domando cosa costava dargli una mano di bianco, avrebbe fatto tutta un’altra figura, con poco davvero. In aggiunta, niente acqua calda e niente elettricità, mi lasciano una lampada ad olio. Mi accordo per 12mila ths compresa la colazione, e pago subito. Mi faccio la doccia fintanto che è chiaro, non fidandomi delle mie capacità a ripetere il gesto alla luce del lume a petrolio. Poi ritorno in spiaggia, in esplorazione ed alla ricerca di qualcosa per il giorno dopo che abbia almeno un piccolo generatore di corrente. Kendwa è un paesino di piccole dimensioni. Non ci sono alghe sparse in giro, e in spiaggia anche con bassa marea c’è posto per tutti, infatti gruppi di ragazzi giocano a rugby, altri a volley, altri a calcio. In tutto ci saranno sì e no 6 o 7 resorts, nessuno di lusso, la clientela è del genere backpacker nord-europeo. I ristoranti sono tutti sulla spiaggia, i prezzi stampati sui menù sono leggermente più cari che Jambiani.

L’ultimo complesso di bungalows, quello con il ristorante più economico, chiuso però quella sera perché il cuoco è a Stone Town, si chiama “Le toits en palme” e fa al caso mio. Ha un giardino bellissimo pieno di fiori di ibisco e bouganvilea, piante da frutto varie tipo papaia, una parte di spiaggia ombreggiata da alberi a cui hanno legato delle amache, i bungalows all’esterno sono molto carini, all’interno un po’ meno di quel che promettevano, però vedo lampadine, e questo mi basta… Prenoto per il giorno dopo, 10mila tsh.

Rientrando, incontro John e Sara, incazzati neri per essersi sentiti plagiati ed obbligati al volere dei procacciatori di affari. Dopo aver restituito i soldi del taxi, indico il mio futuro bungalow, loro dicono che quello dove stanno è peggio e lo pagano 30 dollari, per cui anch’essi lasciano una piccola caparra a Les Toits en palme.

Verso le 19 esco per cercare un posto dove mangiare qualcosa. I ristoranti sono semplici costruzioni in legno con il pavimento in sabbia, illuminati da candele e fiaccole. La cosa che costa di più, ossia la piovra con verdure e contorno di riso, è sui 6500 tsh. I falò accesi in spiaggia conferiscono all’insieme un’atmosfera particolare.

Decido di fermarmi al ristorante del White Sands Resort, illuminato e arredato in stile marocchino, lampade rosse e divanetti su cui sdraiarsi. Tonno e patate, dessert di banane e cannella, buonissimo, a 6500 tsh.

Il Kendwa Rocks, accanto, è l’unico col bar e musica, amache e biliardo. Ambiente freak e rilassato. Per questa sera, non mi ci fermo.

Torcia alla mano, rientro nel mio bungalow.

19/8 Dopo la colazione, trasloco. La giornata non è granchè. Faccio amicizia con Lidia, una ragazza italiana.

Noto una discreta differenza di condizioni atmosferiche fra Kendwa e Jambiani. Il sud-est è costantemente battuto dai venti, che mantengono il cielo sgombro e sereno. Il nord mi pare invece più riparato, quindi calamita per ogni sorta di nuvolone.

Vengo informata che Nungwi è raggiungibile in 20 minuti circa camminando sulla spiaggia, durante la bassa marea, quindi fin verso le 14.

Faccio una piccola passeggiata nei paraggi, mi incuriosisce una enorme costruzione a palafitta che svetta a nord, affiancata da una specie di colata di cemento marrone orripilante. Lidia mi ha detto che è un villaggio italiano di prossima apertura. Il giardino sicuramente è molto bello, ma la piccionaia è come prendere un pugno in un occhio. C’è un gran via vai di muratori e falegnami, rumore di martelli, seghe elettriche, trapani, mentre alcune guardie private tengono alla larga i curiosi che cercano di infilarsi ovunque ma soprattutto sulla palafitta che, si dice, ospiterà ben 3 ristoranti. Cerco di figurarmi come verrà stravolto questo posticino con l’arrivo di una massa enorme di gente. Peccato, ha un’aria così pacifica, adesso… La giornata prosegue abbastanza oziosamente, ma per fortuna ho trovato Lidia con cui conversare, e senza neanche sforzarmi di farlo in inglese.Si è sentito vociferare di un ristorante gestito da italiani, la Rosa dei Venti, ma al momento in cui io e Lidia ci materializziamo alla soglia pare assai poco frequentato, per cui torniamo al White Sands.

20/8 Un sole splendido mi permette di ammirare Kendwa in tutta la sua folgorante bellezza, finalmente. Già dalla terrazza del mio bungalow ci sarebbe un panorama sufficiente a trattenermi in contemplazione per almeno mezza giornata… Mare turchese, sabbia candida, gli ibisco rosso scarlatto e le bouganvilles color corallo e fucsia.

Dopo una colazione abbastanza scarsa, e lo dico io che non sono una buona forchetta, opto per una passeggiata a Nungwi.

Qui, a differenza della costa est, è sempre possibile nuotare senza fare chilometri a piedi, anche con bassa marea, per cui ogni tanto mi tuffo per rinfrescarmi.

Nungwi è enorme, rispetto a Kendwa, e sovrappopolata. Non mi piace. Il mare è meno bello che a Kendwa, ci sono alghe abbandonate sul bagnasciuga, come tutti dicevano, la spiaggia è sporca, c’è odore di pesce marcio e di fogna, penso per via dei troppi bungalows. L’accoglienza pare destinata anche ad un ceto medio, non soltanto a giovani squattrinati.

Sono praticamente certa che da qualche parte debba esserci anche un villaggetto di gente del posto, ma presto ci rinuncio e torno a Kendwa. La spiaggia vicino alla nostra guesthouse è poco frequentata, e si sta troppo bene. In realtà la visuale dell’enorme ristorante a palafitta del nuovo resort un po’ mi disturba, ma poiché è ancora disabitato, penso che è meglio godersi la solitudine finchè c’è. Lidia si rivela essere una compagnia piacevole, per cui le ore passano in fretta e quasi senza accorgercene ci ritroviamo davanti ad uno stupendo tramonto. L’unica cosa che mancava a Jambiani… Avendo mangiato solo delle banane comprate da ragazzini in spiaggia, ci viene fame prima del solito e riusciamo a trovar posto per cena ai Sunset Bungalows, scartati sinora per via della ressa incredibile in attesa del tavolo. Ben presto comprendiamo il motivo di tanto affollamento, i cibi sono deliziosi, assai meglio che il White Sands. Tanto per dare un’idea dei prezzi, una porzione di pollo, verdura e riso costa sui 5mila tsh. Dopo cena, andiamo al Kendwa Rocks ad ascoltare musica e vedere un po’ di gente.

21/8 Ci si sveglia col cielo grigio, con annesso poderoso acquazzone all’ora di colazione. Non facciamo quasi in tempo ad inveire contro la malasorte che, come se ne erano venute, le nubi si dissipano lasciando un cielo tersissimo.

Non sapendo che fare, io e Lidia ce ne torniamo a Nungwi, ove approfittiamo per telefonare in Italia da una cabina pubblica, e comprare dei manghi freschi, che ci vengono sbucciati, tagliuzzati, e messi in un sacchettino di plastica trasparente pronti per essere ingoiati. Mentre siamo intente a gustarceli, con il succo che ci cola da tutte le parti, perché ovviamente non ci hanno fornito neanche di uno stecchetto per infilzarli, ecco che incontro nuovamente l’affascinante creatura di Padova. Un momento meno appropriato non poteva esserci, ma lui, incurante della patina appiccicaticcia che mi ricopre, mi bacia amichevolmente, e ci scorta sino a Kendwa.

Finalmente ci riesce di cenare al Toits en Palme, la cuoca è finalmente di ritorno da Stone Town. 3500 tsh una porzione di pollo e patatine.

22/8 Giornata di rientro a Stone Town sia per me che per Lidia. Poiché ieri non ci eravamo preoccupate affatto di fissare un posto su un minivan ecco che ci ritroviamo abbandonate in mezzo ad una strada perché tutte le macchine sono già al completo da chi ha avuto l’accortezza di prenotarle il giorno prima. Ci tocca di scarpinare per un po’ su un sentiero sterrato, attraversiamo anche un villaggio poverissimo, dove distribuiamo quaderni e biro, fino al bivio per Nungwi, dove veniamo caricate su un dalla-dalla. Finalmente! Era dall’inizio della vacanza che sognavo di essere trasportata da uno di questi trabiccoli. Arrivo a contare 23 persone, in una densità di corpi che potrebbe far invidia alla metropolitana di Tokyo nelle ore di punta… cristiani, pesci, ceste, zaini, una configurazione laocoontica, direbbe la Gialappa’s.

Il dalla-dalla ci scarica in mezzo alla consueta bolgia del mercato locale, saluto Lidia che rimane a dormire qua per una notte, vado al porto a comprarmi un biglietto e poi, nell’attesa, consumo un pranzo leggero al ristorante “Arcipelago”, dalla cui terrazza piacevolmente ventilata ammiro il bel panorama sulla baia mentre mi gusto pollo e patatine fritte chiacchierando con due tizi francesi che, scopro, sono diretti come me a Dar Es Salaam col medesimo traghetto.

La traversata mi coglie di sorpresa, poiché pensavo alla solita chiatta dell’andata ed invece mi ritrovo su una specie di barca veloce, dove buona parte dei passeggeri è impegnata a vomitarsi l’anima. Lo spettacolo mi provoca un certo malumore, non so dove girare gli occhi che ovunque c’è gente che sbocca. Santo Iddio, ma prendersi una Xamamina pareva brutto??? All’attracco in porto, tutti i sacchetti di plastica ed il loro disgustoso contenuto vengono elegantemente … gettati in mare, con perfetta nonchalance, come se fosse la cosa più naturale del mondo ed i cestini della spazzatura fossero un optional.

Pernotto al Jambo Inn (14mila tsh) e consumo la cena con i due francesi nel medesimo quotatissimo ristorante che avevo già frequentato all’andata. 23/8 La maglietta che avevo lavato e steso ad asciugare è ancora umida. Per cui decido di indossarla così com’è sperando che il tepore del corpo trionfi laddove la brezza notturna ha fallito. A detta di alcuni siti web scritti da viaggiatori incalliti, pare che questo sia il segreto per riuscire a stare leggeri col bagaglio. L’impatto con l’aria fresca delle 6 di mattina non è dei più piacevoli, in un primo istante, poi la schiena si abitua… E nel giro di poco, prima ancora che me ne accorga davvero, la maglia è asciutta e, particolare interessante, l’odore del sapone è rimasto più persistente del solito. Praticamente, sembro uscita da una lavatrice… Questa scoperta che la mia pelle riesca a sopportare abiti bagnati rivoluzionerà la mia vita di turista, immagino.

Il pulman della Scandinavian Express mi aspetta per riportarmi a Nairobi, dove arrivo verso le 21. Durante le 12 ore e più di percorrenza, mi fermo un attimo a metabolizzare quanto da me vissuto sull’isola delle spezie. Kendwa è bellissima, spiagge bianche, mare turchese, nulla da dire. Eppure, mi pare che in confronto a Jambiani non abbia anima, è la classica meta che potrebbe essere ovunque nel mondo, e non cambia niente. Jambiani è uno spazio a sé, unica e diversa. Un posto dove è possibile guardare, parlare, capire, conoscere, confrontarsi. Da esplorare con lentezza.

Prosegue nella sezione Kenya, “Cronaca di un safari annunciato”.

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