È italiana l’isola dove è nata l’Europa, ma la sua è una storia che affonda le radici in 2000 anni di bellezza
Una zattera di tufo, con un’ossatura di basalti e trachiti, minuscola come il pianeta de Il piccolo principe. Non è un luogo di fantasia, né tanto meno una sorpresa per chi è avvezzo alla storia del mondo che ci circonda: è, effettivamente, Ventotene. L’isola dell’esilio di Spinelli e Pertini, dell’embrione dell’Europa unita che godiamo oggi. E di segreti, misteri, magnifici reperti che emergono dalle viscere della terra. Scopriamola insieme.
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Le cisterne romane di Ventotene, ingegneria vecchia di millenni
Una volta arrivata a Ventotene, vado a visitare un’ingegnosa opera idraulica con impianti di raccolta e distribuzione dell’acqua piovana: le cisterne romane. A Ventotene molti furono coloro che videro il sole a scacchi: schiavi, esiliati, carcerati e confinati. Questo mondo a sé, spuntato in seguito a un gargarismo della Terra, che era stato battezzato dai Greci Pandoteira, cioè dispensatrice di ogni ricchezza, all’epoca di Augusto diventò un cantiere nel quale migliaia di schiavi lavoravano per realizzare un progetto dell’imperatore: una lussuosa villa, servita da un porto per consentire alle navi di approdare e scaricare i materiali, con terme, piscine e fontane, che aveva bisogno di una quantità esagerata di acqua dolce. Fu così necessario costruire pure un acquedotto composto da sei serbatoi.
Due di questi si conservano ancora e sono la cosiddetta Grotta Iacono di 700 mq e quella più imponente, dei Carcerati, di oltre 1200 mq. Quando pioveva l’aria risuonava del ruscellare delle acque che dal compluvium confluivano verso l’impluvium, dopodiché si andavano a depositare in gallerie rivestite con una malta idraulica resistentissima, il cocciopesto, ottenuta riciclando cocci di anfore, tegole e mattoni frantumati e miscelati con calce, pozzolana e sabbia. Parliamo di tunnel artificiali, scavati a mano dagli schiavi, ora vuoti, dove si entra per andare a rivangare vecchie storie. Innanzitutto a circa 4 metri di altezza si nota una linea orizzontale: era il livello che il liquido non doveva superare, poiché era l’ossigeno presente nella volta a permettere all’acqua di non imputridire e questo era un primo sistema di depurazione, a cui si aggiungeva la decantazione e infine il metodo più curioso, l’impiego dei capitoni, ossia dei pesci pulitori, che si nutrivano di tutti i microorganismi che crescevano lungo le pareti, mangiavano le larve degli insetti, ma soprattutto nuotando facilitavano l’ossigenazione, evitando il ristagno. Se le anguille morivano era un allarme grosso, occorreva accertarsi se l’acqua si poteva bere senza rischi o meno.
Ma come faceva l’acqua dal centro di Ventotene ad arrivare dove serviva? I Romani ragionavano in grande, infatti dalla cisterna dei Detenuti partiva un condotto unico che a un certo punto si diramava: una parte di esso, sfruttando un lieve declivio, convogliava l’acqua alla villa e al porto commerciale, dove le imbarcazioni autorizzate facevano scalo per ricevere un rifornimento di acqua potabile. L’altro tratto del cunicolo portava l’acqua alla peschiera-ninfeo, collocata sotto all’attuale faro. Perché alla peschiera? Columella, un illustre teorizzatore dell’itticoltura, si era accorto che alle foci dei fiumi i pesci erano più numerosi, in quanto attirati da una minore quantità di sale. Quindi la ricetta era semplice: nella peschiera si stemperava la salsedine di mare con l’ausilio dell’acqua dolce, i pesci ne erano attratti, penetravano nelle vasche e venivano catturati.
Osserviamo ancora l’interno della cisterna: la prima modifica drastica nel suo uso avviene con la caduta dell’Impero romano, quando perde la propria funzione, si svuota, si asciuga e si trasforma in un nascondiglio per la popolazione, terrorizzata dalle scorrerie dei pirati. Va detto anche che già attorno al V-VI secolo ospita dei monaci. Di quel periodo restano delle edicole votive, dei simboli e crittogrammi. Tuttavia solo nel 1768 le sorti di Ventotene cambiano radicalmente per opera del re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, che ordina di colonizzare le Isole Pontine e di edificare a spese delle casse allodiali. Come primo provvedimento invia cento detenuti ai lavori forzati: manodopera a costo zero. Li tirano fuori dalle prigioni campane, li mandano a Ventotene e li rinchiudono nella cisterna detta appunto dei carcerati. Sicuramente sono messi sotto chiave di notte, ma di giorno si spaccano la schiena nella parte settentrionale di Ventotene, estraendo blocchi di tufo dal promontorio di Punta Eolo, che adesso ha pareti lisce e squadrate. La maggior parte degli edifici di Ventotene è stata costruita con questo materiale. Innanzitutto viene eretta una fortezza dotata di cannoni, che oggi è il municipio, poi una chiesa, le famose rampe a zigzag che uniscono il porto a Piazza Chiesa e la strada carrabile che rasentando il faro collega il porto a Piazza Castello.
Sorgono le prime case e il paese incomincia a prendere forma. Eppure manca qualcosa: come reclutare il primo nucleo di coloni? Non è semplice convincere qualcuno a traslocare su un’isola quasi abbandonata, con detenuti e guardie. Il sovrano pensa alla capacità lubrificante di alcune garanzie e dunque emana un decreto col quale promette a tutti coloro disposti ad accettare la sfida un’abitazione, terra ed esenzioni dalle tasse. Una bella mossa da parte del Borbone che dà sì gli appezzamenti, ma da disboscare, permette sì di costruire, però non consegna alcun alloggio già pronto; la dispensa dall’obbligo di pagare i tributi viene invece rispettata per un po’ di tempo. Anche le famiglie sbarcate sull’isola per abitarvi adoperano le cisterne: come stalle e cantine.
Ricapitolando, un legame fra questi ambienti ipogei a più navate e l’acqua esiste solo in epoca romana, poi diventano un ricovero per eremiti e contadini, successivamente una gattabuia per i condannati, un rifugio antiaereo durante la Seconda guerra mondiale, infine stalle e cantine fino a una trentina d’anni fa. Il fatto che fossero privati fino al 1986 spiega il motivo per cui varie persone hanno lasciato sulle pareti la propria firma: con l’autorizzazione del proprietario non si commetteva un reato. La firma più antica è quella di uno storico di Formia, Pasquale Mattej, risalente all’8 luglio 1847. Più in alto si legge: “Oggi, 3 settembre 1923, visitata dai Carabinieri Reali Nardelli Filippo e Gargano Giulio”. In basso, invece, si riesce a decifrare: “8 jennaio 1870 Anno visitato questi luoghi gli esiliati del governo liberale, Russo, Conti”. Grazie a dettagli come l’utilizzo della “j” al posto della “i” quando sta accanto a una vocale o il verbo “avere” senza l’acca, ma con la lettera maiuscola, possiamo essere certi che queste frasi vergate con la grafite sono originali.
Villa Giulia, un esilio “da fiaba
I galeotti della cisterna dei Detenuti coltivavano senz’altro il sogno di evadere. Ma molto prima di loro nientemeno che la figlia dell’Imperatore, Giulia, invece di godersi una splendida, indipendente libertà, dopo aver sposato in terze nozze Tiberio e avergli fatto così acquisire il tanto ambito titolo di princeps, divenne un intralcio, perciò fu bollata come sporcacciona mangiauomini e scagliata fuori di scena al pari un burattino. Il “dietro le quinte” era proprio la villa di Ventotene concepita per l’otium di Cesare Ottaviano, che non fu mai utilizzata in tal senso, bensì come luogo d’esilio. Per Giulia, beninteso, non significava dormire tra due guanciali: si trattava di una condanna severissima, perché con l’esilio andava a braccetto la damnatio memoriae, ovvero la negazione del ricordo. Nel momento in cui fu arrestata si convertì in una “mai nata” e perse addirittura il diritto alla tumulazione nella tomba di famiglia.
Se Giulia magari era stata un po’ sventata, Ottavia, moglie ripudiata da Nerone, era completamente innocente e vittima degli intrighi di Poppea, che le soffiò il marito e lo convinse a relegarla a Ventotene accusandola di adulterio. Poi, non paga di ciò, lo persuase anche ad eliminarla fisicamente e la spietata esecuzione avvenne a Villa Giulia. E così anche Agrippina, ribellatasi a suo suocero Tiberio, che si era comportato in maniera ignobile, fu spedita a Ventotene, dove si lasciò morire di inedia, sebbene la sua memoria fu più tardi riabilitata dal figlio Caligola.
Un’altra appartenente alla famiglia imperiale colpita da proscrizione fu Flavia Domitilla. La sua colpa? Essere cristiana. La destinazione? Sempre Villa Giulia, oggi ridotta a un fantasma, in particolare per via delle spoliazioni che ha subito soprattutto nel Settecento, ad opera dell’ambasciatore inglese a Napoli, lord Hamilton, oltre che a causa dell’erosione e dell’intervento umano. Alla fine sono stati principalmente i carcerati e i coloni borbonici che, scavando, hanno fatto crollare in mare una porzione di villa, senza contare che durante il fascismo si sono ricavate da Punta Eolo le pietre per la costruzione della cittadella confinaria come conseguenza del trasferimento, nel 1939, del confino politico di massa da Ponza a Ventotene.
Viaggio a Ventotene: come organizzarsi al meglio
Come arrivare
Con Trenitalia alla stazione di Formia-Gaeta. Segnalo che a Formia c’è una biglietteria FS, oltre a quella automatica. Dalla stazione al porto esiste un passaggio pedonale in discesa (scale), proprio di fronte all’uscita dalle FS, poi si svolta a sinistra (seguire freccia con immagine del traghetto) e quindi a destra si raggiunge il lungomare. Dopo poco si attraversa un ponte che permette di scendere al porto (totale 15 minuti, considerato il peso delle valigie). Compagnia Laziomar, tel. 0771 700604, il numero info è attivo dalle 9.30-17.30. Il botteghino per l’acquisto dei biglietti è aperto a partire da un’ora prima della partenza. L’aliscafo ci impiega 45 minuti.
Pernottamento
Appartamento tranquillo, con angolo cucina, Casa di Arturo, strada olivi, 79, Ventotene (LT), accanto al poliambulatorio. Tel. 377 1502878 (signor Stefano); https://www.casaventotene.it/
Come muoversi sull’isola
Rigorosamente a piedi. Ventotene è infatti un’isola estremamente piccola: lunghezza massima di 2,7 km e una larghezza di 850 metri.