Di cosa parliamo quando parliamo di Brasile… Note da e per un viaggio breve

Due settimane fai da te per scoprire il Brasile oltre i cliché. Rio e Salvador, San Paolo e Olinda, Paraty e le cascate di Iguazu, alla ricerca delle spiagge e viste da cartolina ma anche storie e luoghi un po' ...
Scritto da: mnz86
di cosa parliamo quando parliamo di brasile... note da e per un viaggio breve
Partenza il: 10/08/2019
Ritorno il: 27/08/2019
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Di Andrea Franzoni (http://andreafranzoni.blog)

Dici “Brasile”, e già ti si para davanti agli occhi un’immagine preconfezionata stretta entro i margini squadrati di una cartolina. Palme, frutta, sole e spiagge sconfinate. Corpi torniti, cerette impeccabili, danze spensierate e cocktail zuccherati. Natura lussureggiante, genti senza tempo, bambini seminudi che giocano a pallone o che scorrazzano ai margini di una favela. Anche se non abbiamo fatto niente, queste immagini sono in un certo senso già presenti, nella nostra testa, come lo sono – in Windows – le immagini salvaschermo.

Eppure: di cosa parliamo, davvero, quando parliamo di Brasile? Parliamo di tutto questo – di una sequenza di fondali Instagram e di stati d’animo stereotipati – oppure, oltre alle palme, c’è di più?

L’ibrido che state per leggere, un po’ “reportage” (tra molte virgolette) e un po’ piccola guida di viaggio fatta in casa, è rivolto a tutti coloro che vogliono provare ad esplorare ciò che sta oltre ai margini di quella famosa cartolina chiamata ‘Brasile’ che qualcuno o qualcosa ci ha in un certo senso “installato” dentro. Se quella cartolina ti va un po’ stretta, se anche per questo hai deciso di affrontare questo paese enorme, e se vuoi provare ad allargare il tuo sguardo su ciò che questo continente contiene, quello che segue potrebbe essere di tuo interesse.

Con una premessa ovvia: non c’è naturalmente nulla di più assurdo e presuntuoso che pretendere, in due settimane di viaggio e con qualche scarna lettura di background schiacciata tra le mille altre incombenze della vita quotidiana, di capire realmente qualcosa del quinto stato al mondo per estensione (nonché settimo per numero di abitanti). Spero però che questo resoconto ti potrà essere comunque utile per capire come provare a tirar fuori da questi fatidici quindici o venti giorni di viaggio quanto di più, e quanto di meglio.

Nota per la lettura: il viaggio è stato svolto in coppia (33 e 32 anni), nelle settimane centrali di agosto, prenotando quasi tutto online in autonomia tra marzo ed aprile. Abbiamo alloggiato in strutture diverse (ostelli, ‘pousade’, B&B, hotel), cercando di spendere il giusto ma garantendoci anche un minimo sindacale di comfort (camera doppie con bagno privato). Ci siamo affidati per prenotazioni e recensioni al controverso ma efficiente Booking.com, e per il resto prevalentemente a Wikitravel, alla Lonely Planet e ai forum TripAdvisor (versioni in inglese). Così facendo, seguendo questo itinerario (con tutti questi – inevitabili – voli interni) in questa stagione, sappi che difficilmente riuscirai a cavartela spendendo molto meno di 1.800 euro a testa.

GIORNI 1 – 3: RIO DE JANEIRO (BASE LAPA)

Tag: Taxi, arrivare a Rio, alloggiare a Rio, Hotel Selina Lapa, Pan di Zucchero, Applicazioni e Internet, Centro storico, storia

Rio de Janeiro è una città enorme resa ancora più ampia dal fatto di avere punti di interesse dislocati su una superficie molto estesa e per di più, spesso, nemmeno ben collegata dai mezzi. Più che altrove, inoltre, ogni area della città ha una sua “anima” profondamente diversa: una cosa è il “Centro”, altra cosa sono i quartieri un tempo residenziali ed oggi – ciascuno a modo suo – piacevolmente decadenti (Lapa, Santa Teresa, Botafogo, Gloria o Flamengo), altra cosa ancora sono le zone delle spiagge (Copacabana, più popolare, ed Ipanema e Leblon, più esclusive). Per di più, ogni luogo prende una forma decisamente diversa con il passare della settimana: dal lunedì al venerdì, ad esempio, i quartieri del Centro sono decisamente popolati; nel fine settimana, al contrario, diventano deserti (e quindi poco sicuri). Tutte le zone citate, comunque, ospitano un’abbondanza di strutture ricettive: alloggiare in una zona oppure nell’altra, e spesso anche alloggiarci di giovedì o invece di domenica, significa più che altrove fare un’esperienza della città completamente diversa.

Arrivando e ripartendo per l’Italia da Rio de Janeiro, la nostra idea è stata quella dividere la visita di Rio in due parti: due giornate abbondanti all’arrivo con base nel quartiere centrale di Lapa, e due giorni prima della ripartenza con base a Copacabana. Se all’arrivo abbiamo preferito fare affidamento su una struttura organizzata come un ostello (reception h24, staff disponibile, ampi spazi comuni, contesto giovane ed informale, bar interno), nel secondo caso essendo già pratici del paese e della città ci siamo rivolti ad un hotel tradizionale potendo così godere di una camera più ampia e di un’abbondante colazione a buffet.

Il volo Alitalia è giunto a Rio, dopo 11 ore di volo non stop da Roma, alle 5 del mattino. Usciti dagli arrivi abbiamo attraversato la posatissima mischia dei tassisti e ci siamo diretti verso gli ATM Visa e Mastercard da cui abbiamo prelevato il contante necessario per i primi giorni (anche se, in generale, è quasi sempre possibile nonché conveniente pagare come fanno i locali direttamente con carta di credito). Usciti all’esterno, ci siamo quindi rivolti ai ‘Taxi Comum’, i taxi gialli disponibili in posizione un po’ defilata rispetto ai più costosi radio-taxi bianchi. La corsa dall’aeroporto a Lapa, con prezzo fisso concordato con l’addetto, ci è così costata 20 euro (80 Real: tutti i prezzi si baseranno sul cambio semplificato 1 euro = 4 real, ma attenzione perché la moneta brasiliana non è affatto stabile!).

Non è mia intenzione dilungarmi in descrizioni struggenti delle cose viste: per economia di retorica e per evitare di banalizzare emozioni che vanno vissute in prima persona. Se anche voi avrete l’opportunità di giungere a Rio all’alba, o almeno con la luce, cercate però di godervi il più possibile il viaggio dall’aeroporto alla città ed in particolare la prima parte durante la quale si attraversano i viadotti che separano l’isola su cui si trova l’aeroporto Galeao dalla terra ferma, perché la vista della ‘laguna’ e poi della città in lontananza è veramente magica.

Dopo aver lasciato in ostello i bagagli abbiamo approfittato dell’orario mattutina per visitare il Pan di Zucchero poco dopo l’apertura. Un’esperienza consigliatissima: sia perché il Pan di Zucchero (uno sperone di roccia di circa 400 metri a picco sul mare, su cui si sale con due funicolari, da cui è possibile vedere l’intera città, le montagne circostanti e la baia) è stato con il senno di poi probabilmente il punto più bello della visita, sia perché è un luogo turistico e quindi in un certo senso “rassicurante” e adatto a chi è appena arrivato. Se normalmente è abbastanza sgradevole, infatti, trovarsi in un luogo “protetto” attorniati da “turisti”, ciò può tornare utile quando si è appena arrivati in un continente nuovo e si è comprensibilmente ancora poco lucidi per i postumi di una notte quasi insonne passata in aereo.

Per raggiungere il Pan di Zucchero è quasi necessario prendere un taxi. I taxi gialli, che a Rio sono disponibili più o meno ovunque e che normalmente accendono il meter (e quindi fanno correttamente pagare al chilometro: per una corsa di una ventina di minuti si può prevedere di pagare 8-12 euro), sono una buona soluzione; l’alternativa, più economica ed altrettanto legale e sicura (anche a detta dei locali), è Uber. In Brasile Uber è stato rapidamente legalizzato: nonostante le proteste iniziali dei tassisti, infatti, il governo ha preso rapidamente le difese del nuovo servizio che ha potenziato e democratizzato la mobilità nelle città e che, paradossalmente, sembra garantire addirittura maggiori livelli di sicurezza rispetto ai taxi tradizionali. Il sistema oggi funziona molto bene: permette di risparmiare, limita l’utilizzo di contante e (paradossalmente?) fa sentire più al sicuro dato che ogni driver è recensito e tracciato. Anche per questo, vi consiglio di scaricare in anticipo l’app perché vi permetterà di risparmiare significativamente e di risparmiare tragitti faticosi e/o insicuri. L’unico pecca, ovviamente, è che per utilizzare Uber è necessario avere a disposizione nel momento in cui si prenota una buona connessione internet: per averla, è possibile fare affidamento sui wi-fi degli hotel e (talvolta) sul wi-fi pubblico o su quello di qualche bar e ristorante. Pare sia inoltre possibile acquistare una scheda brasiliana pensata proprio per i turisti con traffico internet incluso: personalmente non l’ho fatto, ma con il senno di poi ne sarebbe probabilmente valsa la pena. Il consiglio, in ogni caso, è quello di non sottovalutare il tema connettività ed anzi di utilizzare internet e le app quanto più possibile (scaricare le mappe di Google in locale, scaricare la lingua portoghese nell’app Translate, scaricare Uber, le app delle compagnie aeree per fare le carte d’imbarco e magari pure un’app di food delivery – la più diffusa, in Brasile, si chiama Rappi e funziona a meraviglia), perché in questo paese più che mai orientato al futuro sono una risorsa fondamentale.

Dopo la visita al Pan di Zucchero e alla bella e raccolta spiaggia Vermelha, che si trova nei pressi della stazione della funivia (“Bondinho”) che sale in due step sullo sperone roccioso, siamo rientrati alla base, l’hotel Selina di Lapa.

L’hotel Selina di Lapa merita senz’altro una menzione particolare per quello che è, e soprattutto per quello che rappresenta. È la prima struttura aperta in Brasile dalla catena Selina, presente in tutta l’America Latina, ed è un ostello modernissimo e veramente molto stiloso: un bar interno che pare di essere a Londra, spazi dedicati al co-working, un bel rooftop su cui la sera vengono organizzati dj set aperti ai (semi-facoltosi) locali. Non è una struttura “tipica”, o meglio non è allineata all’immagine che abbiamo del Brasile; piuttosto, è uno dei tanti luoghi presenti anche qui che sono espressione di quella tendenza e di quello stile ‘globale’ che da un lato unifica ed appiattisce le differenze, questione come minimo ambivalente, ma che dall’altro esprime anche la lecita aspirazione dei giovani locali ad esser a pieno titolo abitanti del presente. Tutto questo – questa dimensione “globale” che a noi sembra essere slegata dallo spirito del luogo e che invece esprime le ambizioni e gli stili di consumo di chi quei luoghi li abita realmente forse più di ciò che a noi risulta esotico – ha peraltro il pregio di risultare, per il viaggiatore, tranquillizzante. Un aspetto, questo, veramente prezioso se inserito in un quartiere particolare come quello di Lapa: un quartiere che va visto e che va ‘vissuto’, con la dovuta circospezione, ma che può risultare – almeno per chi è appena arrivato – in un certo senso ‘paralizzante’.

Lapa è, oggi, un quartiere della ‘movida alternativa’ di Rio. È il quartiere nei pressi del Centro in cui a cavallo del novecento avevano sede i piccoli commercianti della città: è fatto da basse palazzine in stile liberty, un tempo eleganti ed oggi malridotte, ed è stato negli ultimi decenni abbandonato dalle classi medie diventando gradualmente “malfamato”. Negli anni a Lapa hanno avuto sede i locali a luci rosse e le sale concerti: anche oggi, Lapa è noto per i locali alla buona, per i negozi in cui vengono venduti solo alcolici (c’è addirittura un baretto dedicato solo a decine di varietà di Cachaça) e per i club in cui si suona musica dal vivo. È insomma il quartiere bohémienne del centro: un quartiere tanto genuinamente bohémienne (di quella bohéme reale e un po’ genuinamente sudicia che precede la gentrificazione) da essere ancora il posto in cui sono più concentrati anche i giovani senzatetto, in cui la polizia costituisce ogni sera un presidio defilato ma consistente ed in cui si trovano i punti informativi delle associazioni che aiutano i tossicodipendenti. Un quartiere in cui, di pomeriggio, ci si può sedere ai tavolini del bar a bere una birra in mezzo a decine di altri locali mentre accanto un senzatetto raccoglie a mano la spazzatura, un ubriaco cerca di attaccare bottone ed una giovane e malandata transessuale attende i clienti sul ciglio della strada. La sera, soprattutto nel weekend qui confluiscono invece centinaia di giovani e di tiratardi ed i locali si animano; la mattina, il quartiere si placa e nelle strade rimangono ad aggirarsi solo i resti materiali ed umani della notte passata.

Per il viaggiatore Lapa non è esattamente – almeno all’inizio, almeno nel fine settimana – un quartiere dove ci si aggira serenamente: soprattutto perché il Brasile ha la brutta fama di luogo pericoloso, ed anche perché – in questo mondo per alcuni versi tanto diverso dal nostro – qui mancano spesso i riferimenti. Anche se i pregiudizi in questi contesti sono straordinariamente efficaci nell’aiutarci a collocare ogni cosa nella categoria di “buono” o di “cattivo”, infatti, qui è veramente difficile capire con lucidità chi e cosa sia veramente pericoloso: se dovessimo giudicare con certi canoni “italiani” sembrerebbe esserlo tutto o quasi; nella realtà, però, probabilmente i pericoli veri stanno decisamente altrove. Quando siamo arrivati per la prima volta al Selina, alle sette del mattino, non abbiamo potuto ad esempio non notare a due passi dall’hotel (presidiato da un buttafuori) varie persone che dormivano per strada, mucchi di coperte ed una dozzina di giovani barcollanti e seminudi che ancora si agitavano ballando attorno ad un carrello della spesa su cui era stata caricata una cassa che suonava musica elettronica. Un simile capannello di soggetti che, per apparenza e stile, sembrano corrispondere all’idealtipo europeo del “tossico di strada”, è difficile da interpretare: e se fossero invece semplicemente raver? O universitari dallo stile alternativo? O poveri che si godono il fresco? O ragazzi che hanno fatto serata? O i pacifici abitanti di un vicino edificio occupato? O innocui venditori di collanine? O magari, chissà, sono veramente persone che, se le cose gli girano per il verso sbagliato, sono in grado di aggredire lì per lì una persona per futili motivi.

Proprio per questo, per questi incontri e per questi scenari, Lapa è un quartiere che secondo me deve essere esplorato perché aiuta a produrre adrenalina ed anche a mettere in discussione e ad allenare i propri punti di vista (noi, in ogni caso, non abbiamo mai assistito ad alcun pericolo o minaccia reale). Contiene inoltre un paio di famosi landmark: l’acquedotto costruito dai portoghesi nel ‘700 ispirandosi agli acquedotti romani, e la scalinata Selaron – una ripida scalinata ricoperta di piastrelle colorate opera di un artista colombiano. Partendo da qui è inoltre possibile affacciarsi nell’incredibile cattedrale brutalista costruita nel 1979, oppure prendere il tram storico che si inerpica a Santa Teresa, il vecchio ed enorme quartiere residenziale dal sapore portoghese costruito sulla collina in cui nel Settecento e nell’Ottocento viveva una parte consistente degli abitanti di Rio osservando dall’alto quella che, all’epoca, era più che altro un’insalubre palude. Infine, Lapa costituisce una buonissima base da cui esplorare a piedi nei giorni lavorativi il Centro.

Il Centro, cioè – in senso più esteso – la zona che va da Lapa a Santa Teresa, dalla brulicante fermata metropolitana di Carioca a Flamengo, è la zona in cui la città si è sviluppata originariamente in particolare a partire dal primo Ottocento e cioè quando Rio è diventata la capitale di quello che allora era un dominio portoghese. Ha tuttavia da tempo perso la sua centralità: nel 1960, Rio de Janeiro, ha tra l’altro cessato di essere la capitale del Paese sostituita dalla città sorta nel nulla di Brasilia. Ciò che è rimasto, quindi, ha assunto (come accaduto in molte città coloniali) un aspetto nuovo, malinconico, decadente e fuori posto: le vecchie ville in collina dei mercanti, il primo parco per il passeggio costruito per il re alla moda francese, l’antica pasticceria con le pareti a specchio e i candelabri dorati, la sala di lettura con le vetrate dipinte, i grandi boulevard alberati, l’antico convento francescano abbarbicato sulla collina, si alternano oggi a vecchie case fatiscenti o a palazzine di uffici che fuori dagli orari di lavoro giacciono tristemente abbandonati.

In quest’area rimane, però, la testimonianza di una storia ricca, avvincente, incredibile.

Si dice che il Brasile sia un paese “senza storia” semplicemente perché gli europei vi hanno messo piede tardi, perché è sempre stato un luogo periferico e perché i popoli che vi vivevano prima non hanno lasciato testimonianze né materiali né scritte. Ma anche senza tutto questo, senza scendere nei dettagli, vi garantisco invece che la storia del Brasile dal Cinquecento in poi è una delle storie più interessanti e incredibili che mi sia mai capitato di incrociare. Le varie fasi economiche (dal legname allo zucchero, dall’oro al caffè), i mille ribaltamenti politici, la schiavitù (il Brasile è l’ultimo stato che l’ha abolita, nel vicino 1888), il ruolo dei missionari, i flussi migratori (il 15% dei brasiliani dipende da italiani, ma il Brasile è stato anche il primo paese di emigrazione per i giapponesi), sono solo alcuni esempi. Lo sapete che Rio de Janeiro è stata l’unica città extraeuropea da cui sono stati governati territori europei? Lo sapete che il Brasile è stato l’unico stato dell’America Latina a diventare indipendente salvaguardando la forma monarchica, e che il primo Re è stato il figlio del re del Portogallo? E che ne sapete, delle avventure in Brasile dell’eroe dei due mondi Garibaldi?

Per questo, vi consiglio di procurarvi qualche lettura.

GIORNI 4 – 5: PARATY

Tag: Pullman, Paraty, clima ad agosto

Il Brasile è un paese enorme con una popolazione numerosa ma sostanzialmente concentrata in alcuni grandi agglomerati metropolitani separati tra di loro da migliaia di chilometri. Costruire un itinerario in Brasile è molto difficile, e in un certo senso anche frustrante: da un lato i principali luoghi d’interesse sono tra loro molto distanti (distanza accresciuta dall’assenza di treni veloci); dall’altro, l’estrema rarefazione dei punti d’interesse fa sì che – se l’obiettivo è quello di incontrare lungo il tragitto una sufficiente varietà e diversità – non abbia troppo senso dedicare un intero viaggio ad una regione specifica semplicemente perché ogni regione sembra essere estremamente riduttiva.

Vista la quasi assenza di ferrovie, le città principali sono collegate tra di loro prima di tutto da un’estesa rete di pullman di linea gestiti da centinaia di compagnie spesso a connotazione locale o regionale che vendono i loro biglietti tramite aggregatori online (quello con cui mi sono trovato meglio si chiama Clickbus) che applicano un sovrapprezzo. I bus brasiliani sono estremamente comodi (più dell’aereo) e mediamente anche sicuri; le distanze sono tuttavia tali che, spesso, i tragitti hanno una durata comunque quasi proibitiva (per un Rio de Janeiro – Salvador ci vogliono 28 ore, per un Rio de Janeiro – Foz do Iguazu ce ne vogliono 24). L’alternativa ovvia, che ha anche il pregio di essere discretamente economica, è quindi costituita dai voli interni che sono ad oggi operati da tre compagnie che hanno tutte un profilo sostanzialmente low cost: Azul, GOL e LATAM. Prenotando con ampio anticipo e tenendosi lontani dai periodi di picco, si riesce a spendere addirittura meno di quanto si spenderebbe con il pullman!

Limitarsi a volare da una città all’altra, da una megalopoli alla successiva, è tuttavia un modo di viaggiare inevitabile ma anche estremamente limitante: viaggiare dovrebbe essere anche osservare le campagne e le periferie scorrere attraverso un finestrino, attraversare i luoghi banali, entrare negli ‘autogrill’ o e le colorite stazioni con le loro sale d’aspetto, i loro venditori, i loro bagni.

La soluzione di compromesso che ho trovato è stata quella di svolgere almeno una tratta (la Rio de Janeiro – San Paolo) in pullman spezzando il viaggio a metà nella cittadina coloniale di Paraty situata a circa 5 ore di pullman da Rio de Janeiro e a circa 7 da San Paolo. Durante l’estate brasiliana, Paraty – con quell’area da tranquilla cittadina di località marinara, con il centro storico pittoresco fatto da edifici coloniali ben ristrutturati, con quella struttura viaria semplice fatta di dieci strade e tre piazze – sembra essere una meta molto gettonata anche in quanto punto di partenza da cui esplorare le spiagge più nascoste poste a qualche decina di minuti d’auto dalla cittadina. Durante l’inverno brasiliano (e in particolare ad agosto, periodo – diversamente da luglio – a tutti gli effetti lavorativo), Paraty è invece un centro più tranquillo, quasi uggioso, in cui è piacevole gironzolare per una o due mezze giornate provando a rilassarsi dal logorio metropolitano ed ammirando uno dei centri coloniali meglio conservati.

Nel caso del nostro viaggio, l’aspetto quieto e meditativo di Paraty è stato ulteriormente accentuato dal meteo nuvoloso. Siamo arrivati a Paraty a metà giornata, dopo aver preso il Pullman dall’enorme stazione di Rio de Janeiro e dopo aver percorso l’interminabile periferia e quindi la costa punteggiata di misteriose cittadine-residence con tanto di cancello d’ingresso. Al nostro arrivo abbiamo trovato le nuvole, che paiono non così rare a Paraty, e sempre con le nuvole la mattina successiva ce ne siamo andati a San Paolo. In un certo senso siamo stati sfortunati; dall’altro, la cittadina è comunque veramente bella ed ha il pregio di far vivere (anche con il tempo così così) una dimensione che, altrimenti, si rischia di tralasciare.

Le giornate a Paraty non sono state le uniche giornate nuvolose incontrate durante due settimane trascorse nel cosiddetto “inverno” brasiliano: oltre alle due giornate di Paraty, sono state nuvolose anche una giornata a Salvador do Bahia e le ultime due giornate a Rio. L’inverno brasiliano, per come lo abbiamo potuto vivere noi (e per come ci è stato raccontato) è comunque incredibilmente mite e, ad agosto, anche sostanzialmente asciutto: le temperature sono comunque elevate (con l’eccezione di San Paolo, dove un maglione e una giacca son consigliate), soprattutto quanto più ci si avvicina all’Equatore, e normalmente è possibile di giorno girare in maniche corte incontrando temperature vicine ai 30. Anche per questo, in un certo senso, le nuvole sono state talvolta state un sollievo: il sole, nonostante l’inverno, è veramente caldo e – se la brezza marina si interrompe – sa anche essere afoso. Certo: il Brasile senza il sole ha lo svantaggio di apparire meno Brasile di quanto uno si può lecitamente aspettare, e senza la luce tutto tende in un certo senso a sfiorire; ma questo, purtroppo o per fortuna, fa parte del Brasile reale.

GIORNI 6 – 8: SAN PAOLO

Tag: Metropoli, bandeirantes, Santander Farol, storia, emigrazione italiana, decreto Prinetti, Vila Madalena

La città di San Paolo è stata fondata nel 1554 da missionari gesuiti come avamposto nell’entroterra ancora largamente inesplorato. L’idea fu quella di usare questa “missione” per catechizzare e proteggere gli indigeni locali: i missionari gesuiti, diversamente dai coloni europei (che non ebbero invece problemi a schiavizzare e a sterminare le popolazioni locali), furono infatti contrari alla schiavitù e favorevoli piuttosto ad un più subdolo imperialismo paternalista volto alla cristianizzazione. Negli indigeni, i Gesuiti cercarono e rappresentarono (aprendo una tradizione che, in certo senso, permane) una sorta di popolo “vergine” da cui ricominciare: un popolo selvaggio, magari macchiato da usanze barbare e inconsapevolmente peccaminose, ma paradossalmente bendisposto e più recuperabile rispetto alle corrotte popolazioni delle giungle urbane.

Per secoli la città di San Paolo rimase un centro secondario rispetto alle grandi capitali costiere di Olinda, Salvador e Rio de Janeiro, punti nevralgici di un’economia basata su grandi latifondi di canna da zucchero lavorati con l’impego di schiavi. San Paolo, in quanto città perennemente rivolta verso l’ignoto e verso la frontiera, fu però anche il principale avamposto da cui le bandeirantes, le “mitiche” bande di esploratori e cacciatori di fortune di origine europea, partirono per le loro spedizioni nella giungla. Il ruolo delle bandeiros, avventurieri e conquistatori, anticipò in un certo senso l’attitudine operosa e ambiziosa che ha garantito il successo di questa città, la capitale economica del Brasile, anche in tempi ben più recenti. Da San Paolo partì, ad esempio, la spedizione che finalmente scoprì dopo decenni di ricerche i primi giacimenti d’oro del paese; sempre a San Paolo ebbero quindi sede anche i grandi baroni del caffè che a fine Ottocento consacrarono la città come capitale economica, finanziaria e produttiva della nazione. Il ruolo dei bandeirantes, ricordato a San Paolo anche con alcuni monumenti, fu però anche estremamente controverso: furono loro, nel diciassettesimo secolo, ad addentrarsi nella foresta catturando migliaia di indigeni mettendoli poi in vendita sul mercato degli schiavi in virtù della legge che permetteva ai coloni di catturare e di schiavizzare gli indigeni che avessero mostrato atteggiamenti ‘ostili’ nei loro confronti. Un’ambivalenza che, in fondo, permane in questo paese nelle grandi ed irrisolte (e a San Paolo non troppo visibili ma più che altrove presenti) disuguaglianze sociali.

Attualmente San Paolo è una delle città più grande città dell’emisfero occidentale: l’area metropolitana, che raggiunge secondo le stime i 22 milioni di abitanti, costituisce il terzo agglomerato urbano più grande del mondo. Per farvi un’idea, vi consiglio di aprire Google Maps in modalità Satellite, di cercare un punto al centro della città (ad esempio Edificio Altino Arantes) e di scrollare all’indietro rimpicciolendo la scala per apprezzare il tempo e lo spazio che ci vuole per trovare uno spiraglio!

Oltre ad essere enorme, San Paolo è però anche una città assolutamente diversa e peculiare: dista dal mare pochi chilometri, ma è come se il mare brasiliano fosse distante numerosi anni luce. Più che a Rio de Janeiro, infatti, San Paolo fa senza dubbio pensare a Francoforte, a Chicago, a Milano: è una città di grattacieli, di centri commerciali e di boutique, in cui si alternano grandi centri direzionali, grattacieli esclusivi (San Paolo è una delle città del mondo che ospita il maggior numero di milionari), gallerie d’arte, ristoranti stellati ed eleganti quartieri residenziali. Anche per questo, per questa peculiarità e per questa dimensione sofisticata, credo sia utile dedicare almeno un paio di giorni a questa città che più delle altre è piena di sorprese e di storie che meriterebbero di essere raccontate.

I punti d’interesse della città sono numerosi: due giornate bastano probabilmente per un assaggio della città, ma anche una terza giornata può essere facilmente riempita di attività. Un punto d’interesse, affascinante da visitare la sera all’orario di uscita dagli uffici per comprendere meglio “l’anima della città”, è ad esempio Avenida Paulista: un lungo vialone fiancheggiato da grattacieli scintillanti, che costituisce il cuore pulsante della città. Il centro storico, visitabile secondo il bel circuito suggerito dalla Lonely Planet che dura circa mezza giornata, ospita invece diversi palazzi e grattacieli risalenti al Novecento inclusi il palazzo della borsa, il Farol Santander un tempo sede della banca centrale dello Stato (che oggi ospita esposizioni di arte contemporanea dedicate alla città oltre ad un osservatorio – all’ultimo piano – da cui è possibile godere della vista della città dall’alto) e l’Edificio Italia costruito nel 1967. San Paolo è inoltre una città culturalmente molto evoluta e attiva ed anche per questo piena di musei: dai più tradizionali Museu de Arte de São Paulo (il primo museo moderno ad essere inaugurato nel paese, nel 1947) di Avenida Paulista al Museu de Arte Moderna ospitato nel Parco Ibirapuera, dal Museo do Fùtbol al Museo dell’Immigrazione. Il Mercado Municipal de São Paulo, mercato coperto costruito nel 1933 ed oggi frequentatissimo tanto dai turisti quanto dai gourmand di San Paolo, è poi un’altra tappa consigliabile: all’ora di pranzo, i numerosi ristoranti del primo piano si riempiono in particolare di una folla variegata impegnata ad assaggiare le specialità locali tra cui spicca la più tipicamente Paulista, e cioè il panino con la mortadella. Sempre in questo mercato, sono inoltre presenti i banchi della frutta più ricchi e strani mai visti: pieni di frutti sconosciuti, che gli addetti proveranno insistentemente a farvi assaggiare e che molto probabilmente non vi capiterà di vedere altrove perché nemmeno a quelle latitudini di largo consumo.

Spesso queste destinazioni sono raggiungibili con la bella metropolitana; altre volte, i percorsi da intraprendere (a piedi o con autobus) sono un po’ più lunghi e faticosi come è normale in una città di grande estensione. Anche per questo, bisogna considerare attentamente i tempi con la consapevolezza che questa è una città che – contrariamente a quanto spesso accade – guadagna fascino più ci si vive dentro.

Che San Paolo sia una città diversa dalle altre principali città (Rio, Salvador) e da ciò di cui normalmente parliamo quando parliamo di Brasile, lo si capisce però anche da elementi ben più sottili dei punti d’interesse o dell’architettura: in particolare dall’abbigliamento (decisamente più europeo e ricercato), dalla maggior presenza di catene europee o americane (Carrefour, Decathlon, Walmart ma anche – nei centri commerciali – Intimissimi e Pandora), o dai tratti somatici dei suoi abitanti. Se a Salvador in maniera particolare (ma anche a Rio) i brasiliani che discendono evidentemente dagli schiavi africani portati in Brasile dai mercanti portoghesi dal Seicento all’Ottocento è molto elevata, infatti, a San Paolo le comunità che hanno generato una discendenza più numerosa sono quelle giunte in Brasile in un periodo successivo, in concomitanza con il boom tardivo di questa città, e cioè a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Tra queste, la comunità italiana è la più numerosa mentre quella giapponese è (per caratteristiche somatiche) quella che più facilmente si fa notare.

Secondo una stima dell’ambasciata italiana in Brasile, vivono oggi in Brasile circa 30 milioni di discendenti di immigrati italiani (circa il 15% della popolazione brasiliana); di questi, circa 15 milioni risiedono nello stato di San Paolo. L’emigrazione italiana in Brasile ha origini antiche, talvolta precedenti anche a quelle delle principali altre migrazioni (l’Argentina, gli USA, la Germania): anche per questo, i legami culturali tra i discendenti degli emigranti e l’Italia sembrano oggi abbastanza labili. Un ruolo rilevante, in questo senso, l’hanno avuto anche le politiche di assimilazione ‘forzata’ condotte dal Brasile soprattutto dagli anni ’30, e la politica dello ius soli combinata a quella dell’unica cittadinanza: fino al 1994, il Brasile non contemplava infatti nemmeno la doppia cittadinanza e quindi i bambini nati in Brasile diventavano automaticamente brasiliani rinunciando automaticamente alla cittadinanza dei genitori. Forse anche per questo, la presenza dell’Italia è a San Paolo meno tangibile e più confusa di ciò che uno potrebbe immaginare.

Quello che affascina e colpisce, di questa emigrazione italiana lontana cominciata negli anni ’80 dell’Ottocento, è però soprattutto la storia poco nota. I fattori scatenanti, prima di tutto: l’abolizione della schiavitù in Brasile e la meccanizzazione dell’agricoltura nell’Italia del Nord, ma anche la diffusione delle teorie eugenetiche e la volontà dell’élite brasiliane del tempo di “sbiancare” la popolazione. Dopo il 1870, con la tardiva abolizione della schiavitù, l’élite economica brasiliana si trovò nelle condizioni di dover sostituire – inizialmente nelle piantagioni di caffè – gli schiavi africani. Questa necessità radicata nella società latifondista del tempo si unì felicemente a quella del legislatore, da tempo messo in allarme dall’elevata incidenza di popolazione nera o meticcia costantemente tenuta ai margini e quindi desideroso di importare bianchi con cui controbilanciare questa componente potenzialmente esplosiva. Questo bisogno di manodopera disponibile, economica, bianca e di tradizione cattolica, si combinò a meraviglia con l’aumento vertiginoso della disoccupazione che l’Italia registrò in quegli anni: a causa dei progressi in campo agricolo, infatti, una porzione consistente dei braccianti del Nord Italia (Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana) si ritrovò senza terra e senza lavoro. L’emigrazione degli italiani in Brasile fu così sussidiata abbondantemente, a partire dal 1878, dal governo brasiliano (disponibile addirittura a pagare il viaggio in nave agli italiani) e dai latifondisti. E gli italiani risposero in massa: poco importa che, il denaro anticipato, dovesse poi essere restituito negli anni successivi con gli interessi, come accade oggi nei fenomeni di tratta. Le promesse esaltate dagli annunci e dai reclutatori che batterono la provincia italiana – l’estate perenne, la possibilità di arricchirsi rapidamente, la natura lussureggiante – apparvero sufficientemente allettanti a persone convinte (spesso anche a ragione) di non avere nulla da perdere; e fu così che, secondo le stime, presero la via del Brasile centinaia di migliaia di italiani.

L’entusiasmo, tuttavia, finì abbastanza presto. Accadde già a cavallo del 1900: nel 1902, in particolare, la stampa italiana raccontò con diverse inchieste le condizioni misere in cui gli emigranti italiani erano costretti a vivere sotto i nuovi “padroni” ancora permeati dalla vecchia mentalità schiavista. Il governo italiano, travolto dall’onda dell’indignazione popolare, si trovò così costretto ad emanare un decreto, il Decreto Prinetti, che (proibendo l’anticipo da parte del datore di lavoro delle spese di viaggio) mise un argine al fenomeno. Terminata l’emigrazione italiana (circa metà degli italiani giunti in Brasile tornò in patria o si spostò in Argentina, l’altra metà rimase e si spostò nelle città cercando impiego nelle costruzioni e nell’industria, settori a inizio Novecento quasi monopolizzati dagli italiani), il governo brasiliano puntò quindi sui Giapponesi alle prese – al tempo – con i medesimi problemi. Anche per questo, oggi, il Brasile è il secondo paese (dopo la madrepatria) per numero di cittadini di origine giapponese.

Un altro quartiere che merita attenzione, a cui noi abbiamo dedicato l’ultima mezza giornata prima dell’ennesimo loro, è infine quartiere di Vila Madalena. Vila Madalena (e la limitrofa Pinheiros), in un certo senso, è infatti un quartiere molto particolare che ben esprime l’essenza ‘europea’ e il lifestyle desiderato dell’élite di San Paolo: adagiato su alcune collinette, è costituito da un’alternanza di eleganti casette a due piani (che ospitano abitazioni ma anche caffè, boutique, negozi di design, studi di architetti) e di condomini residenziali moderni dai nomi francesi (Biarritz e Bourdeaux…). Qui è possibile far colazione nella filiale brasilana della catena europea Le Pein Quotidien, acquistare frutta e verdura organica al mercatino, oppure passeggiare con il cane per le vie assolate come se ci si trovasse a Notting Hill o a Mayfair: scene, nelle metropoli brasiliane, del tutto inconsuete. Le pareti delle case o dei vecchi magazzini trasformati in atelier, inoltre, sono spesso ricoperte da murales di pregevole fattura: una stradina secondaria del quartiere, addirittura, è stata trasformata in un’attrazione dai numerosi graffiti di grande qualità fatti dai migliori artisti del paese (è chiamata Beco do Batman in onore a uno dei primi graffiti comparsi negli anni ’80). Il quartiere di Vila Madalena è unito a quello di Pinheiros, leggermente meno esclusivo, che ospita un tranquillo mercato coperto dove è possibile acquistare prodotti oppure pranzare. Visitarlo è un’esperienza piacevole e un po’ irreale, ma sicuramente istruttiva.

GIORNI 7 – 8: CASCATE DI IGUAZU

Tag: Cascate di Iguazu, mangiare in Brasile, Tetris Hostel, kanko kogai

Le cascate di Iguazu sono un sistema costituito da 270 cascate immerse nella foresta tropicale. Devono il loro nome agli indigeni Guaranì: nella loro lingua, infatti, “y” significa acqua (una parola decisamente semplice, a indicare l’essenzialità e la centralità che questo elemento evidentemente aveva nel loro sistema di pensiero), mentre “ûasú” significa grande. Il termine “grande”, tuttavia, è come minimo riduttivo. Si dice che Eleonor Roosvelt, visitando queste cascate, abbia esclamato: “Povera Niagara!”. Non ho mai visto di persona le cascate del Niagara, ma ho la sensazione che d’ora in poi ogni cascata che vedrò mi sembrerà – a confronto con Iguazu – poco più di un rivolo.

Le cascate di Iguazu si trovano al confine tra il Brasile, l’Argentina e il Paraguay. Il punto più spettacolare, la cosiddetta Garganta do Diablo (Gola del diavolo), è una gola a U larga 80 metri, profonda quasi 100 e lunga 700, “rivestita” completamente di cascate. Su questa gola incredibile ci si può addirittura affacciare, almeno visitando dal lato brasiliano, grazie ad una passerella che permette di essere letteralmente lambiti dagli spruzzi: un’esperienza unica, che vi consiglio assolutamente di fare.

Alle cascate vere e proprie si può accedere sia dal versante argentino che da quello brasiliano. Si dice che il lato argentino abbia il vantaggio di offrire più sentieri in avvicinamento, mentre il lato brasiliano è quello che offre la miglior vista (tipicamente il versante più brutto è quello da cui si ha la vista migliore, perché da lì si vede il versante bello). Nel nostro caso, avendo fatto base sul versante brasiliano, abbiamo visitato unicamente questo lato; gli amanti del genere possono però valutare se dedicare a questa destinazione due giorni così da poter apprezzare questo memorabile sistema di cascate da ambo i lati (fare tutto in un giorno potrebbe essere possibile, ma l’accesso alle cascate è un po’ macchinoso).

Nei pressi delle cascate, sul lato brasiliano, sorge la cittadina (un po’ squallida) di Foz do Iguaçu. Foz do Iguaçu si è sviluppata dagli anni ’70 quando, ad alcuni chilometri a valle delle cascate, è stata costruita la diga di Itaipu, ancor oggi la più grande diga del mondo per energia elettrica prodotta (anche la diga, a una quindicina di chilometri dal centro abitato, è fruibile con visita guidata; anche in questo caso, la nostra giornata e mezza non è stata sufficiente). Terminato il periodo delle costruzioni, la cascata è rimasta l’unica ragion d’essere di questa città di frontiera fatta di enormi spazi vuoti, di grandi hotel e di capannoni che ospitano churrascherie dozzinali, centri congressi da periferia americana e ristoranti per famiglie. Appena oltre il confine, raggiungibili facilmente anche con i mezzi, ci sono invece le città gemelle di Puerto Iguazú (versante argentino, pare che delle tre sia la cittadina più pittoresca) e di Ciudad del Este: quest’ultima, posta sul versante paraguaiano, pare sia un grande “duty free” dove brasiliani e argentini vanno a comprare prodotti esentasse e a gozzovigliare spendendo poco. Né il Paraguay né l’Argentina chiedono alcun visto ai cittadini italiani: si dice che le pratiche doganali siano molto rapide, e c’è addirittura chi organizza escursioni in Paraguay della durata di una cena.

L’aeroporto di Foz do Iguaçu si trova sul grande e polveroso viale di scorrimento, chiamato Avenida Cataratas, che unisce il centro della città all’ingresso al parco delle cascate: grazie a questa strada, i tre punti sono comodamente collegati da un autobus – il 120 – che permette di muoversi tra questi tre punti al costo di un euro a testa.

A Foz do Iguaçu abbiamo alloggiato al Tetris Hostel, un ostello che ho scoperto a posteriori essere definito dalla Lonely Planet “l’ostello più cool del Brasile” in quanto costruito utilizzando vecchi container. Ed anche se questo può suonare un po’ cheap (un ostello fatto con vecchi container ammassati a lato di uno stradone polveroso su cui si affacciano vecchi capannoni che ospitano ristoranti all you can eat e chiese evangeliche), considerate che il Tetris Hostel – se mai ci capiterete – vi apparirà molto probabilmente come uno dei luoghi più ospitali di questa città di frontiera. A Foz do Iguaçu, infatti, la sera ciascuno sembra chiudersi nel proprio compound o al massimo avventurarsi verso uno qualsiasi dei mega-ristoranti con ampio parcheggio che sorgono ai margini dell’Avenida. E allora, se così stanno le cose, forse conviene davvero chiudersi dentro il proprio compound fatto di container e bersi una caipirinha (tra le 20 e le 20.30 gratis) a bordo di una piscina fatta con una misteriosa vasca di provenienza industriale, osservando un gruppo di studenti australiani provare in lontananza a rimorchiare.

Se volete però anche mangiare, e desiderate provare qualcosa di diverso dai mega-ristoranti con ampio parcheggio costruiti a margine dell’Avenida, vi consiglio di segnarvi un self service in stile genuinamente brasiliano che trovate al centro della città (e raggiungibile con Uber) chiamato Tropicana.

In Brasile, parlando in termini generali, ci sono 5 tipi di luoghi principali in cui è possibile alimentarsi. Ci sono le bancarelle che vendono per strada pasteis/empanadas (sfoglie fritte ripiene), bolinhos (polpette fritte) e il cosiddetto Salgado, categoria in cui rientra più o meno ogni altro snack fritto salato: in questi posti, è possibile fare uno spuntino spendendo tra uno e due. Ci sono le versioni evolute di queste bancarelle, e cioè i locali simili ai bar/tavola calda in cui è possibile mangiare – oltre ai suddetti snack – anche il piatto standard brasiliano costituito da petto di pollo (fritto o alla piastra) con contorno di riso e fagioli per una cifra che normalmente ruota tra i 4 e i 6 bevande escluse. Ci sono, nei centri commerciali o per strada, i fast food dove si può prevedere di spendere comunque non meno di 7-8 euro a testa: McDonald’s (che propone un panino con Picanha che però sa di hamburger normale) e Burger King, la versione locale Bob’s, le globali Pizza Hut e Domino’s, il brasiliano Giraffas, Habib’s (un fast food creato a San Paolo dagli immigrati libanesi), l’italiano Spoleto e qualche format orientale/giapponese. Ci sono poi, specie nei luoghi turistici, i ristoranti veri e propri con piatti costruiti sulle esigenze dei turisti in cui ci si può aspettare di spendere dai 10 ai 20 euro a testa (più bevande) mangiando anche qualche pesce locale. E ci sono, infine, i self service a peso per cui si pagano normalmente 7 o 8 euro a testa che normalmente danno anche la possibilità di utilizzare la formula all you can eat. I self service a peso sono attivi, normalmente, a pranzo e nelle zone degli uffici: si ha a disposizione un piatto (probabilmente enorme) che si può riempire a piacere con gli alimenti presenti nel buffet pagando, normalmente, tra 1 e 2 euro ogni etto di cibo. Questi self service raramente sono aperti la sera: quando lo sono, spesso, virano verso la formula all you can eat proponendo un buffet e giri potenzialmente illimitati di carne cotta allo spiedo (tra cui la famosa picanha: i locali che propongono con questa modalità grigliate si chiamano churrascherie) portata al tavolo e servita un taglio alla volta dagli addetti del locale. Il Tropicana di Foz do Iguaçu è uno di questi e, se capitate a Foz la sera e non sapete cosa fare, un salto vi consiglio di farvelo.

Resta il fatto che, nonostante l’intraprendenza e la creatività locale (che propone “avventure” di ogni tipo, dal museo delle cere al giro in elicottero, dalla gita gastronomica in Paraguay al rafting sotto le cascate, dal parco divertimenti sorto sul punto esatto del confine tra i tre stati al centro di conservazione degli uccelli della foresta tropicale ‘Parque das Aves’), l’unico motivo che rende la visita di questo luogo degno è costituito dalle cascate.

Non fate caso al contorno, alla lunga fila di famiglie argentine vestite da gita in campagna, ai pullman dipinti che conducono in comitiva i visitatori attraverso la foresta verso il punto in cui sorgono le cascate, o alla selva di selfie stick che dovrete affrontare per giungere al punto che più si protende sopra le cascate. Il turismo è una forma di inquinamento (in Giappone hanno coniato il termine kanko kogai, inquinamento da turismo) che rende caotici, corrompe e banalizza i luoghi più fragili e preziosi; ma voi non fateci caso e limitatevi a guardare semplicemente quell’acqua che cade, quegli spruzzi che bagnano ogni cosa, quegli arcobaleni monumentali. Sono certo che, alla fine, ne sarà valsa la pena.

GIORNI 9 – 10: OLINDA / RECIFE

Tag: Grattacieli residenziali, Metropoli, Sicurezza, Olinda, Pendolari, Autobus, spiagge

“Ecco, vedete? Questi palazzi sono il sogno della classe media di Recife. Tutti desiderano trasferirsi qui, oggi: costi quel che costi! E li desiderano tanto anche perché, altrove, non si sentono al sicuro. E ovviamente nessuno ha interesse a dirgli il contrario… anche perché la sicurezza, oggi, è un business che tira. Guardie, telecamere, cancelli, automobili blindate…”

Alla guida della sua vecchia Fiat Sebastian, il proprietario austriaco del Cama e Cafè di Olinda ci indica – scintillante nella notte – la selva di nuovi grattacieli residenziali appena costruiti sul ciglio della tangenziale che collega l’aeroporto al centro di Recife. Sorgono addossati l’uno all’altro, all’apparenza pronti ma ancora in parte disabitati, non lontani dalla bella spiaggia urbana di Boa Viagem. Sono letteralmente centinaia e sembrano tutti completati da poco: segni evidenti di un entusiasmante boom edilizio recentemente terminato.

Come in ogni paese che nasconde un’economia e una società tumultuosa e diseguale dietro l’etichetta di “paese in via di sviluppo”, questi residence verticali protetti e dal look contemporaneo sono il sogno segreto più condiviso. Sintomo di un’aspirazione forse un po’ costruita, certo, ma anche e soprattutto del principio – basilare e condivisibile – secondo cui ciascuno ha bisogno prima di tutto di una tana protetta in cui abitare. Di uno spazio separato dalla metropoli caotica e problematica, liberato dai banditi e dalla spazzatura, in cui condurre una vita più simile a quella rappresentata dai cataloghi dei moderni venditori di accessori e di stili di vita.

Il tema della sicurezza, quando si parla di Brasile, è un tema assolutamente centrale: il Brasile – si dice infatti per semplificare – è uno dei posti più insicuri del mondo. Elevato tasso di omicidi, rapine violente, bande di ragazzi di strada, malavita organizzata, polizia corrotta, troppe armi in circolazione, migliaia di uomini donne e bambini senza nulla da perdere: tutto ciò che può spaventare l’europeo medio, qui lo potete trovare. Anche se il senso di insicurezza e di pericolo non è tangibile come altrove (il Sud Africa è peggio, e in Israele il clima è ancora più teso), è quindi chiaro fin da subito che le aree palesemente ok, tipicamente quelle pattugliate da polizia o guardie private, sono poche. Altrettanto chiaro è anche il fatto che, alle zone “ok”, si contrappongono aree evidentemente “off limits”, diciamo per semplicità le favela. Quelle decisamente più diffuse, tuttavia, sono le zone grigie: aree che è necessario provare ad attraversare e a interpretare, ma con assoluta circospezione.

Olinda, una bella cittadina coloniale che sembra uscita dalla pubblicità del Pampero, ricca di chiese con interni dorati e di viste mozzafiato, sorge a pochi chilometri a sud della metropoli moderna di Recife. Sembra essere ad esempio una zona “ok”: lo rivendica una sera, mostrandoci le telecamere che dall’alto osservano benevole ogni cosa, un simpatico abitante alticcio che prima dice di lavorare per la prefettura e di avere una sorella che vive a Imola e poi ci chiede se per caso non abbiamo qualche moneta. Come c’aveva già anticipato Sebastian, Olinda è sicura – oltre che per le telecamere, che dopo che te le hanno fatte notare non puoi più smettere di farci caso – anche perché qui la gente ancora prova a vivere per strada e a fare un po’ di comunità (nonostante i B&B).

Non è così ovunque, però.

In Brasile i luoghi pericolosi si dividono in due categorie: quelli in cui non c’è nessuno, e quelli che sono troppo affollati. O forse, a pensarci meglio, è così in tutto il mondo; solo che, in Brasile, questi due idealtipi di luogo costituiscono il 99% dello spazio calpestabile.

Bisogna evitare, si dice, le zone in cui non c’è nessuno per strada. Quindi: niente centro e niente zone di uffici la sera o nel fine settimana; niente cigli degli stradoni di scorrimento che sono dedicati alle automobili; niente spiagge poco frequentate (men che meno dopo l’imbrunire); niente quartieri di grattacieli residenziali (qui, come sappiamo, la gente per bene se c’è è chiusa a farsi i fatti suoi dietro cancelli blindati). Ma attenzione – non si sa mai – anche ai luoghi troppo affollati: ai mercati, alle manifestazioni pubbliche, ai quartieri bohémienne, ai dintorni delle stazioni o delle aree commerciali popolari, e magari anche ai luoghi turistici dove operano i ladri specializzati.

Per rovesciare il tavolo (se uno si dovesse attenere a tutti questi precetti starebbe chiuso in casa, come a quanto pare fa la maggioranza dei brasiliani), oltre che per tirchieria, abbiamo quindi deciso di visitare il centro di Recife nella maniera più incerta e faticosa possibile e cioè arrivandoci con uno dei tanti autobus urbani che passano da Olinda. Così facendo, mentre l’autobus attraversava faticosamente una sequenza di zone grigie, marroni, torbide, polverose, non solo non abbiamo percepito alcun pericolo ma abbiamo anche avuto l’occasione di conoscere (e in parte di sperimentare) quello che è uno dei tratti tipici dei brasiliani che vivono nelle metropoli e cioè il loro estenuante, sfibrante, fantozziano pendolare.

È senz’altro riduttivo dire che il problema del Brasile sia il traffico; è però innegabile che, il mix letale tra megalopoli sconfinate e scarso (o nullo) trasporto su rotaia, renda i trasferimenti estremamente onerosi. Si dice che, nelle grandi metropoli brasiliane, sia normale impiegare due ore (due ore ad andare e altrettante tornare) per percorrere i pochi chilometri che separano le periferie dal centro in cui hanno sede gran parte dei posti di lavoro; e, più o meno per tutti, di certo non si tratta nemmeno di un “tempo di qualità”. Chi la possiede, e già parliamo di classe media, spende infatti queste ore in un’automobile seppellito dentro enormi ingorghi: strade a tre, sei, otto corsie per senso di marcia, in cui negli orari di punta si procede quando va bene a passo d’uomo scivolando tra file di mendicanti e di venditori di patatine. Chi non ha l’automobile, cioè la maggioranza, passa invece questo tempo tipicamente a bordo di autobus che rimangono altrettanto imbottigliati o che, quando invece riescono a camminare, procedono in maniera frenetica tra vibrazioni e scarti. Il tutto, se manca l’aria condizionata, sotto un cielo che emana – nei mesi più rigidi dell’inverno – almeno una trentina di gradi.

I percorsi degli autobus, anche in Brasile, sono ben segnalati su Google: per individuare i bus, è quindi sufficiente collegarsi alla rete e segnarsi i percorsi (le fermate dei bus che abbiamo utilizzato non avevano mai l’indicazione delle linee che vi fermavano, tranne in un caso). In circa tre quarti d’ora, da Olinda (dove è senz’altro consigliabile pernottare) è così possibile raggiungere il centro storico di Recife che si divide tra l’isolotto di Recife Antigo e la penisola (più popolata, con diverse chiese e con un mercato) di Santo Antonio.

Santo Antonio è il “tipico” centro cittadino brasiliano: non ha particolari attrazioni, se non alcune chiese ed un mercato vivace e genuino, ma è vitale e tutto sommato interessante. Recife Antigo, invece, sembra essere il laboratorio in cui la municipalità sta provando ad inventarsi, probabilmente approfittando del traino della magnifica Olinda, una vocazione turistica che ad oggi sembra abbastanza improbabile.

Non so se vi è mai capitato di essere quasi inseguiti dall’addetta dell’ufficio informazioni turistiche comunale alla disperata ricerca di turisti con cui parlare: a noi, a Recife, per la prima volta è successo. Mentre camminavamo nelle poche vie di Recife Antigo in cui la Lonely Planet segnalava delle attrazioni (in particolari piccoli musei che il lunedì, quando siamo capitati noi in città, sono peraltro chiusi), siamo stati infatti intercettati dall’addetta del minuscolo ufficio di informazioni turistiche della città che, nonostante non fosse in grado di parlare in inglese (cosa che in Brasile accade molto spesso), ci ha tenuto a inondarci di brochure e si è fatta carico di trovarci qualcosa da fare. Non è stata particolarmente convincente; ma ci ha lasciato l’impressione che questa città, anche approfittando della vicinanza con Olinda, stia disperatamente provando ad inserirsi nei circuiti turistici. Non è detto che non ce la faccia: già, in giro, si parla di Recife come della “Venezia del Brasile”, ed anche se normalmente dietro a questo genere di etichette si nascondono grandi sòle, il turismo è in gran parte una costruzione e a Recife alcuni rari canali ci sono – anche se oggi, per la verità, sono più che altro utilizzati come fogne.

Il punto più notevole di Recife, oltre alla bella e vicina Olinda, è però probabilmente la spiaggia di Boa Viagem. Raggiungibile in autobus ad un’ulteriore mezzora abbondante dal centro (per tornare a Olinda ci vuole poi circa una straziante ora e mezza di bus) sorge esattamente alle spalle dei nuovi grattacieli residenziali che si incontrano provenendo dall’aeroporto. Boa Viagem è una tipica spiaggia urbana brasiliana: una striscia di sabbia lunga alcuni chilometri, su cui si può camminare all’infinito godendo di un’atmosfera che – almeno in “inverno”, almeno nei giorni infrasettimanali – è veramente piacevole e rilassata. Tenendo presente che, quella di Recife, è una delle spiagge urbane maggiormente popolate dagli squali.

GIORNI 11 – 13: SALVADOR DO BAHIA

Tag: Pelourinho, spiagge, San Benedetto il Moro, Orisha, Capoeira

Salvador do Bahia è un’istituzione: è forse la città brasiliana con il carnevale più strabiliante, nonché quella che più risente dell’influsso della cultura degli schiavi africani. È la città della capoeira, l’arte marziale danzata inventata dai discendenti degli africani per allenare i propri muscoli senza venire sanzionati dai padroni, ed è l’epicentro di una gastronomia differente da quella del resto del paese. È anche stata, fino al trasferimento della corte a Rio de Janeiro ad inizio Ottocento, la città più importante e florida del paese: eredità, questa, percepibile nelle chiese. Allo stesso tempo, Salvador do Bahia è una città affacciata sul mare che vanta diverse spiagge paradisiache a portata di autobus urbano.

Il cuore della Salvador turistica si trova nel quartiere di Pelourinho. Patrimonio dell’Unesco, il piacevole quartiere storico di Salvador si trova nella città “alta” e deve il suo nome al palo cui venivano legati gli schiavi fuggitivi che venivano catturati e quindi fustigati, impiccati o rivenduti. Oggi, Pelourinho è un quartiere fatto di bassi edifici dalle facciate colorate che ospitano piccoli “atelier” e ristoranti turistici. In questa bolla turistica è piacevole e rassicurante camminare: l’atmosfera è allietata dai musicisti di strada, da alcune figuranti vestite in abiti tradizionali, dai ballerini di capoeira che si esibiscono in piazza e dalle esibizioni delle scuole di samba che, la sera, si scatenano talvolta in lunghe sedute di percussioni. Sono inoltre disponibili varie “agenzie” che promettono di organizzare escursioni.

I punti di maggior interesse di Pelourinho, che si visita comunque in poche ore, sono però probabilmente le chiese. La chiesa di San Francesco, e l’annesso convento, sono le strutture architettonicamente più notevoli: oltre ad avere una facciata d’impatto, l’interno del convento ospita un chiostro e diversi altri ambienti ricoperti di maioliche in stile portoghese. La chiesa che però è ancora più interessante, se non altro per la storia che rappresenta, è la “Church of the Third Order of Our Lady of the Rosary of the Black People” (non saprei come tradurlo in italiano). La Igreja Nossa Senhora do Rosário dos Pretos, per usare il nome originale portoghese, è infatti la prima chiesta costruita a Salvador dai discendenti degli schiavi africani: edificata da una confraternita, con il lavoro volontario degli stessi fedeli ed un cantiere durato oltre un secolo, fu il primo luogo di culto non solo aperto ai neri (cosa non banale: per secoli l’accesso alle chiese fu interdetto agli schiavi; successivamente, gli fu concesso occupare degli altari laterali) ma addirittura costruito e gestito integralmente da essi. Lo spazio, costruito su due piani, contiene ancora le tracce dell’attività di mutuo aiuto svolta della confraternita: il piano superiore, infatti, è dedicato alle cucine e agli spazi per il ricovero dei bisognosi. La cosa che più colpisce, però, è forse il piccolo pantheon contenuto in una delle due vetrinette esposte in sagrestia: un pantheon “parallelo” fatto quasi interamente di santi cristiani (o aspiranti tali) con la pelle scura.

La figura probabilmente di spicco, in questo pantheon costruito sul bisogno di potersi davvero identificare e di costruire un’identità positiva “nera”, è San Benedetto il Moro: un santo francescano figlio di schiavi, rappresentato tipicamente con il bambin Gesù (bianco) in braccio. Elemento “curioso”, il santo nero figlio di schiavi e per questo considerato il “patrono” degli afro-brasiliani è in realtà “italiano”: visse infatti nel 1500 in Sicilia, dove i suoi genitori erano stati portati in qualità di schiavi, e le sue reliquie sono conservate tra la provincia di Messina e Palermo. Tra le sante rappresentate in questo pantheon, meritano invece una menzione anche le statuette di Sara la Kali, “Sara la nera”, venerata come santa in particolare dalle comunità Gitane della Camargue (la cui origine mitica si perde, a seconda delle leggende, nell’Alto Egitto o addirittura in India), e la Schiava Anastasia, altra figura non ufficialmente santificata ma oggetto di grande venerazione popolare: una giovane schiava vissuta nel ‘700 rappresentata con una maschera di ferro in volto a simboleggiare le vessazioni subite per aver rifiutato strenuamente le avance del suo padrone.

Nel pantheon parallelo esposto della chiesa di Nossa Senhora do Rosário dos Pretos (ed attentamente costruito, nei secoli, dal clero locale) sono evidenti gli sforzi della comunità di origine africana per conservare, mescolare e ricostruire quella cultura di origine da cui i loro antenati furono violentemente asportati. Questo aspetto, anche se attualmente invisibile in superficie, è un tratto caratteristico di Salvador che fu l’epicentro della tratta degli schiavi: un altro esempio illuminante, in questo senso, è costituito dal Candomblé. Il Candomblé, una religione di origine africana diffusa in Brasile ed in particolare nella zona di Bahia, ha infatti al proprio centro la venerazione di un complesso pantheon di spiriti chiamati Orisha. Spesso, nel tentativo di integrare questi culti africani nella religione ufficiale, questi spiriti furono fatti identificare con santi o figure riconducibili alla tradizione cristiana. Degli Orisha, del Candomblé e delle origini africane di molta cultura materiale e iconografica brasiliana, tratta – seppur sommariamente – il piccolo Museo Afro-Brasiliano di Pelourinho.

Oltre a Pelourinho (ed al vicino Carmo), la nostra visita di Salvador ha compreso due zone che – al contrario di Pelourinho – si trovano sulla costa: Barra e Praca. Barra è una piccola ma molto bella spiaggia urbana, poco distante da Pelourinho (ci si arriva con l’autobus o in pochi minuti di Taxi). E’ una zona dedicata al turismo di mare, con i tipici chioschi da cui gli addetti governano un piccolo numero di ombrelloni affittabili tranquillamente ad ore, che sorge nei pressi di alcuni antichi fortini portoghesi. Alle spalle della spiaggia, ben frequentata, ci sono alcuni ristoranti che rendono l’atmosfera turistica e rilassata.

Abbastanza diverse sono invece le innumerevoli spiagge che si susseguono sulla costa a est di Salvador. La nostra scelta, anche alla luce delle indicazioni della guida, è caduta sul tratto di spiaggia che va da “Piata” a “Itapua”: ci siamo arrivati in autobus da Pelourinho (il tragitto è durato quasi un’ora, senza cambi), e ci siamo rimasti tranquillamente un’intera giornata. L’acqua, anche in questa stagione e grazie al fondale basso, è tiepida: qui è tranquillamente possibile fare il bagno, o assistere all’arrivo a costa dei pescatori con le reti cariche di pesci agonizzanti. La zona è tuttavia un più isolata e meno frequentata rispetto a Barra, ed alle spalle della spiaggia – oltre a un’enorme strada litoranea – non c’è praticamente nulla: sembra senza dubbio ok noleggiare sedie e ombrellone presso una qualsiasi delle baracche che punteggiano la spiaggia, ma pare sia meno sicuro – almeno stando a quanto ci ha detto un venditore di bevande – avventurarsi da soli negli spazi meno battuti.

GIORNI 14 – 15: RIO DE JANEIRO (BASE COPACABANA)

Tag: Copacabana, Ipanema, Favela, Cristo Redentor, spiagge

L’obiettivo degli ultimi due giorni, al termine di due settimane passate a cercare di capire di cosa parliamo veramente quando parliamo di Brasile, era quello di andare a cercare il Brasile quello più classico, quello più easy, quello delle cartoline. Proprio per questo avevamo pensato di lasciare alla fine (come un addio) il Cristo Redentore e la spiaggia di Copacabana dove avevamo deciso addirittura, proprio per sciallarcela il più possibile, di alloggiare.

Gli ultimi due giorni a Rio, tuttavia, sono stati inesorabilmente nuvolosi con punte di freddo. “Mediamente in un anno mi capita di tirar fuori questo giaccone un solo giorno”, ci è stato detto. “Ecco: oggi è quel giorno”.

Copacabana è una cosa affascinante, enorme, mitologica. Lo è, indubbiamente, anche per chi non è amante delle spiagge. Quattro chilometri di spiaggia punteggiata da chioschi e campi da beach volley, che si stende a mezzaluna su una baia piena guglie lussureggianti e sinuose: cosa desiderare di più?

Le immagini da cartolina, tuttavia, sono qualcosa di estremamente fragile: sono il frutto di un’alchimia che richiede che tutti i livelli siano sotto controllo. Tanto che è sufficiente l’assenza anche di un solo “elemento”, ad esempio del “sole”, per rendere anche la cartolina Copacabana sbiadita e deludente. Per di più lo sguardo tende ad assuefarsi rapidamente. E le spiagge di Recife e di Salvador, e soprattutto la magnifica spiaggia di Ipanema che non eravamo riusciti a non vedere durante la prima tappa a Rio, ci avevano già saturato gli occhi. Certo: è sempre rigenerante poter camminare per decine di minuti su un lungomare quasi senza fine, e così è stato anche a Copacabana nonostante il meteo. Eppure, forse proprio perché le immagini da cartolina sono fragili e perché lo sguardo si assuefà velocemente, vi confesso che Copacabana vista con le nubi mi ha fatto pensare ad una popolare località balneare del nord dell’Adriatico.

Nonostante il meteo non da cartolina, abbiamo cercato comunque di approfittare degli ultimi giorni a Rio per aggiungere al nostro bagaglio immateriale qualche altra esperienza memorabile.

Durante il primo dei due giorni, in un momento in cui il cielo ha sembrato schiarirsi, abbiamo ad esempio deciso di salire fino alla statua del Cristo Redentore nonostante il cielo a tratti coperto. Come per il Pan di Zucchero, anche per giungere al Cristo la dinamica è semplice: si prende un Taxi/Uber, ci si fa portare alla stazione del tram alla base del colle Corcovado su cui sorge la statua, si fa il biglietto, si attende il proprio turno (nel nostro caso per un’ora) e quindi si sale sul trenino che porta a due passi dalla statua. La vista dai piedi della statua, imponente, si spalanca a trecentosessanta gradi sulla megalopoli sottostante: certo la visibilità è importante, ma il panorama è comunque mozzafiato. Ci si trova però a ben settecento metri di altitudine: la temperatura, specie se non c’è il sole e complice il vento, può essere ben più fresca rispetto a quella registrata a valle.

Il secondo giorno, invece, è stato dedicato al “tour della Favela”. Abbiamo deciso di aggregarci ad una visita guidata ad una Favela, ed in particolare a Rocinha, nonostante parecchio scetticismo: da un lato, temevo che una visita del genere si potesse trasformare in una sorta di squallido “safari” fatto da turisti bianchi alle spalle degli abitanti trattati come fenomeni da baraccone; dall’altro, temevo che la visita si potesse tradurre in un’occasione superficiale di vana spettacolarizzazione del dolore. Allo stesso tempo, l’idea di visitare il Brasile limitandosi a lambire le favela (come ci eravamo già trovati a fare) senza affrontarle con la guida di qualcuno in grado di farci sentire al sicuro ed allo stesso tempo di condurci nei luoghi significativi che in autonomia non avremmo mai trovato né affrontato, ci è sembrata insoddisfacente. Abbiamo quindi deciso di affidarci ad un sito di prenotazione di tour, chiamato Get Your Guide, e di sceglierne uno che – tra i tanti proposti – sembrasse organizzato in maniera seria e vantasse un buon numero di recensioni.

Il programma del tour, gestito dall’agenzia Local55 (prenotando direttamente presso di loro si risparmia non poco) tramite l’impiego di una guida locale anglofona, prevedeva l’incontro di fronte al Copacabana Palace e quindi il trasporto fino all’ingresso della favela di Rocinha. Da lì sarebbe cominciata la discesa a piedi attraverso la favela con la possibilità di osservare da vicino la vita degli abitanti, in maniera poco invasiva (c’è chi organizza tour in Jeep: lì, l’effetto safari umano è garantito), attraversando i vicoli e visitando alcuni luoghi significativi.

La favela di Rocinha, la più grande di Rio de Janeiro con i suoi 200.000 abitanti, sorge a poca distanza dal centro. Promossa negli anni dei mondiali a “Favela modello”, e come tale non certo indicativa della vita nelle altre favela, appare oggi di fatto come una piccola cittadina solo molto più angusta della media: le case sono in muratura, le strade ed i vicoli sono pavimentati, vi sono condutture d’acqua e l’elettricità è garantita dai lampioni a cui tutte le abitazioni sono abusivamente allacciate. La favela è attraversata dagli autobus urbani, e vanta addirittura (ad una delle sue estremità) una recente fermata della metropolitana; sulla strada principale, che scorre sinuosa sul fianco della collina e che nella sua parte iniziale si chiama “Via Appia”, la spazzatura viene regolarmente ritirata e sono presenti diversi negozi in tutto e per tutto normali. Nella favela ci sono inoltre quattro scuole, posta e filiali bancarie, quelli che sembrano antichi embrioni di edilizia popolare, un sushi da asporto ed un paio di locali basici che tradiscono però già ambizioni turistiche e stratificazioni sociali insospettate. Certo: la povertà è percepibile, in maniera un po’ superiore a quella che si riscontra nella città “normale”, soprattutto nei vicoletti angusti ed umidi dove non batte mai il sole. Tuttavia, non sembra nulla a confronto con quella delle città vecchie indiane o con il livello di segregazione che si percepisce nelle township sudafricane.

Quello che, anche in questa Favela vetrina, rende questo luogo un posto incredibile e profondamente disturbante, ha però a che fare non tanto con le condizioni di vita materiali quanto piuttosto con il “sistema” che governa questa favela e che ci è stato raccontato, in maniera fastidiosamente compiaciuta, dalla guida.

“Rocinha non è pericolosa: i pericoli veri (rapine, etc.) sono a Copacabana” ci ha spiegato, esordendo, l’abitante della favela che ci ha fatto da guida: un uomo sulla cinquantina, fan sfegatato – come una parte significativa degli abitanti della favela – del presidente Jair Bolsonaro, in tutto e per tutto somigliante – nell’aspetto esteriore – ad un personaggio della working class britannica di quelli immortalati nei film di Ken Loach. “Le uniche due cose a cui dovete fare attenzione, a Rocinha, sono i motorini e le cacche di cane: per il resto, potete considerarvi al sicuro perché a Rocinha regna l’ordine e chi sgarra viene punito”.

“Rocinha è diversa da Rio de Janeiro per diversi motivi: noi abitanti di Rocinha non paghiamo le tasse, perché i servizi che riceviamo sono pessimi; e non paghiamo la tassa sulla casa perché la gran parte delle case formalmente non esiste. Ma soprattutto, a Rocinha, se succede qualcosa non si chiama la polizia ma la milizia. E la milizia, diversamente dalla polizia che è corrotta, sa come far rispettare le regole”.

Una parte rilevante della spiegazione della guida, sorprendentemente, è stata costituita da una serie di aneddoti sui metodi usati dai trafficanti per far rispettare l’ordine e per punire le persone che “se la sono cercata”: pestaggi, espulsioni dalla favela, persone che “vengono fatte suicidare”. La violenza delle gang, ha tenuto più volte a sottolineare la guida, normalmente non è indiscriminata: i metodi per eseguire le decisioni dei capi sono magari spicci, ma efficaci. Soprattutto, “chi si comporta bene e si fa gli affari suoi, comunque, non ha di che temere”: all’udire di un colpo di arma da fuoco in lontananza, la guida si è limitata ad un’alzata di spalle. “Può essere un festeggiamento o un’esecuzione, ma a noi non riguarda affatto”.

In questo contesto, la visita si è svolta in tutta serenità. Abbiamo fatto diverse pause, abbiamo bevuto una caipirinha in un bar sul ciglio della strada principale, abbiamo zigzagato per i vicoli tra i sorrisi curiosi degli abitanti allungando con discrezione gli occhi fin dentro le loro case. La possibilità di incontrare un abitante della favela non edulcorato, il sentire di dipendere – seppur per poche ore – da un individuo così sgradevole che ha dedicato buona parte del suo tempo a glorificare la mafia ed a difendere la violenza e l’abuso, con il senno di poi, sono stati un’esperienza illuminante.

Forse il miglior modo, anzi, per chiudere queste due settimane strane vissute in un continuo dentro e fuori da quella cartolina che chiamiamo Brasile ma che, probabilmente, esiste soprattutto all’interno della nostra testa.



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