Destinazione … Palinuro?!?

Agosto 1998. Io e Franco (Er Ciccio), all'epoca già sposati ma senza figli, patiti della vita all'aperto e delle vacanze fai-da-te rustiche ma rilassanti, decidiamo di andare per l'ennesima volta in campeggio, seguendo una specie di formula "roulette" che sino ad allora si era rivelata vincente: si annusa nell'aria una meta marina accettabile, ci...
Scritto da: lorecoll
destinazione ... palinuro?!?
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 500 €
Agosto 1998. Io e Franco (Er Ciccio), all’epoca già sposati ma senza figli, patiti della vita all’aperto e delle vacanze fai-da-te rustiche ma rilassanti, decidiamo di andare per l’ennesima volta in campeggio, seguendo una specie di formula “roulette” che sino ad allora si era rivelata vincente: si annusa nell’aria una meta marina accettabile, ci si informa un minimo sulla strada da seguire, si butta in macchina una tenda ed un po’ di carabattole e poi, il sedici di agosto, via! si parte, senza prenotare, senza una meta esatta, scegliendo il campeggio sul posto dopo aver buttato ben bene l’occhio in giro. Abbiamo fatto belle ferie così, noi due, soprattutto in Calabria, spendendo poco, comodi in graziosi campeggi che si svuotavano rapidamente dopo l’affollatissimo Ferragosto.

A grande richiesta, quindi, si replica, e quale meta per l’avventura 1998 scegliamo Palinuro: rupi rosa a picco sui flutti, scogli suggestivi, un mare colore di smeraldo, tanti campeggi. Ma, consigliati da un cattivo genio, nel nostro piano di battaglia compiamo alcuni errori madornali. Innanzitutto coinvolgiamo nel nostro campeggio all’arrembaggio altre cinque persone: il cugino di Franco con la ragazza – Mauro e Doriana – con i quali nel 1997 abbiamo già trascorso una bella villeggiatura in Sardegna: mia sorella Ilaria con suo figlio Paolo di sette anni ed il marito Felice (lo Schioppo, soprannome dovuto ad una sua vecchia moto scoppiettante) il quale ha la curiosa caratteristica di possedere una lingua un po’ troppo lunga e la cui velocità è inversamente proporzionale a quella del suo pensiero. Tutte persone di famiglia e collaudatissime, ma che sono forse troppe per la formula roulette in Agosto ed un po’ prevenute nei confronti della villeggiatura nel sud Italia (” e sono poco puliti, lenti e male organizzati, e patafrì e patafrà”). E poi, tragedia delle tragedie, non calcoliamo che quell’anno il sedici di agosto casca proprio di domenica. Beatamente ignari del nostro futuro prossimo venturo, con tre macchine cariche di tende ed ogni sorta di intrugli da bazar, quella domenica mattina prima delle cinque partiamo: navigatrice io, dopo aver appena sbirciato la strada su una mappa in scala 1: 100.000 o peggio.

Il traffico è sostenuto. Dopo qualche ora d’austostrada usciamo a Lagonegro perché sulla mappa mi dà l’idea di essere l’uscita più vicina a Palinuro (cretina!!! Tuo padre ha un armadio saturo di carte e cartine d’Italia di ogni scala, tipo, colore e dimensione, e pigliane una decente, no?). Da Lagonegro iniziamo verso Sapri una specie di discesa dall’Everest alle fossa delle Marianne, un toboga irto di curve, dossi, strettoie e buche che ci fa scendere di almeno ventimila metri – almeno così sembra a me, sconvolta dal mal di macchina e da un fortissimo quanto insolito mal di pancia – con una lentezza esasperante e sotto un cielo assolato e bollente come piombo fuso.

Raggiungiamo il mare e da lì risaliamo verso nord, tornando indietro di parecchi chilometri, maledicendo ripetutamente l’incauta navigatrice (io) e percorrendo stradine tortuose di lungo mare: l’atmosfera nelle tre macchine si fa rovente, con messaggi sempre più nervosi che rimbalzano da un cellulare all’altro. In compenso la presenza del mare sulla sinistra ci dà un po’ coraggio, prima o poi raggiungeremo la nostra meta, anche se abbiamo stupidamente allungato la strada di una roba tipo cento chilometri, e che strada! Ad un certo punto, sbucando da un tornante, arriviamo nella zona di Marina di Camerota ed ecco che iniziano a dispiegarsi davanti a noi in tutto il loro splendore: rupi rosa a picco sui flutti, scogli suggestivi, un mare colore di smeraldo, tanti campeggi… tutti pieni! Donne e bambino restano in macchina, mentre i tre prodi esponenti del genere maschile partono per un rapida perlustrazione delle strutture turistiche locali. Ma i frenetici giri tra i vari campeggi e le conseguenti consultazioni con le altre metà del cielo non fanno altro che confermare quanto già salta all’occhio, ovvero che la marea umana che invade la zona inizierà a sloggiare solo il giorno dopo e che, pertanto, è impossibile trovare su due piedi tre posti tenda contigui o anche solo vicini: non solo, ma i pochi posti forse disponibili sono chiaramente i peggiori, del tipo sole a picco sulle cervella anche di notte, angolo di discarica abusiva, tappeto di pietre, perimetro della porta dei cessi, ecc. Il gruppo di sudati e stanchi personaggi inizia a sgretolarsi, ognuno dice la sua o almeno ci prova, prontamente azzittito dalle critiche dello Schioppo che comincia a far sfoggio delle sue qualità oratorie, così che in breve si delineano tre posizioni: una maggioranza sostanzialmente silenziosa, desiderosa solo di “un posto al sole”; Er Ciccio che, con grande pragmatismo, propone di adattarsi comunque a quel che c’è salvo riavvicinare le tende e comporre un campo base decente non appena la folla sarà sloggiata (è un maestro nell’arte dell’arrangiarsi, dell’attaccare una toppa e via, caratteristica questa che gli è valsa anche il soprannome di Mastro Ciccio); lo Schioppo che, rapito dal suo puntiglioso spirito di bastian contrario, inizia pericolosamente a ventilare l’ipotesi di andarsene tutti da un’altra parte. Il gruppo assume così quell’aspetto da troupe di teatro greco che manterrà per il resto della villeggiatura: noi cinque il coro di sottofondo, loro due i protagonisti che duettano e saltimbeccano. A questo punto è d’uopo aggiungere una cosa: pur volendosi assai bene – e continueranno a volersene anche dopo – i due cognati provengono da due località geografiche che recano indelebili le tracce di antiche ruggini, vale a dire la Sabina per lo Schioppo e Roma per Er Ciccio: e si sa che dal ratto delle Sabine in poi i rapporti tra le due etnie sono stati quel che sono stati …

Nel vivo delle trattative ricordiamo che appena sbucati in zona abbiamo visto dall’alto una specie di villaggio turistico posto su un bel golfetto, che probabilmente è anche un campeggio e che a questo punto è la nostra unica speranza di successo. Voltiamo rapidamente indietro le prue e ci presentiamo speranzosi alla reception dove ci informano che sono chiusi per pranzo (nel tanto girare si è quasi fatta l’una) e che come da regolamento riapriranno non prima delle tre: però ci fanno gentilmente presente che possiamo comunque entrare a piedi nel campeggio e dare un’occhiata ai posti disponibili, tanto per farci un’idea. Molliamo le carrozze all’entrata e andiamo un po’ in giro.

Ci rinfranchiamo mangiando uno spuntino nel bar del complesso, che è bellino e sta all’aperto tra gli olivi, anche se abbiamo ancora molta stanchezza addosso ed i crampi alla pancia mi continuano a far torcere. Andiamo a dare un’occhiata alla spiaggia, che in effetti è graziosa ma con l’acqua subito profonda ed è piuttosto lontana dal campeggio propriamente detto. In compenso notiamo parecchi posti spaziosi e vuoti in una zona occupata soprattutto da camper: il terreno è pressoché piano, ci sono parecchi olivi maestosi che fanno una bella ombra, l’ambiente è verde e pulito, siamo equidistanti tra mare e strutture di accoglienza varia, c’è un bel profumo di arbusti della macchia mediterranea … OK, la cosa ci garba, anzi “ci arisurta”, pure quel cagacavoli dello Schioppo sembra abbastanza d’accordo e riusciamo a strappargli una parolina di consenso, decidiamo quindi di fermarci e che non appena apriranno le sbarre ci piazzeremo lì.

Alla riapertura del campeggio abbiamo un’amara sorpresa: ci viene infatti detto che la zona da noi prescelta è destinata esclusivamente a camper e roulotte (ecco perché c’erano solo loro!) mentre i posti tenda sono solo ed esclusivamente quelli sull’altro lato della strada: vale a dire un grande spiazzale con pendenze anche di quarantacinque gradi, una superficie arsa dal sole, polverosa, sassosa e bucosa dove qualche striminzita pianticella d’ulivo non è in grado di fare ombra neanche a sé stessa, ed è per giunta lontanissima dal mare. E sono pure posti tenda molto cari.

Sgomentiamo. Allibiamo. Ci guardiamo, non sappiamo più che fare. Di una cosa siamo certi, non intendiamo passare la nostra settimana di vacanze nel deserto dei Tartari pagando un prezzo da hotel Hilton. A questo punto nel silenzio generale arriva di botto, anzi, di schianto, l’idea geniale dello Schioppo. Avete mica presente la vecchia barzelletta del Mago Oronzo che recita più o meno così: “Stanotte mi sono alzato per andare al cesso, sono entrato e la luce si è accesa da sola, solo uscito e la luce si è spenta da sola. Magia., preveggenza, coincidenza …Oppure ho cagato nel frigorifero?”. Per magia, preveggenza, coincidenza il mio fantasioso cognato se ne esce tutto d’un fiato con un entusiasmante : ” E perché non andiamo a Vieste dal campeggio dei nostri amici?” In effetti a Vieste ci siamo stati con tutta la famiglia nel 1991 (mia sorella ed il suo logorroico marito anche varie altre volte), ospiti di un piccolo campeggio a gestione familiare chiamato all’epoca “Girarrosto”, l’ultimo della nutrita sfilza di campeggi che si affaccia sul lungo mare: eravamo stati bene e nei miei ricordi di quell’estate ritrovo le immagini di una città bianca bianca, rupi calcaree immacolate, un mare di cristallo. Però … si dà il caso che Vieste si trovi sull’estremità del Gargano, dall’altro lato dell’Italia, appena varie centinaia di chilometri di una strada non diretta che, tra l’altro, valica una cosetta nota come Appennini – che non saranno mica le Ande o l’Everest ma sempre montagne sono.

Non abbiamo tempo di replicare che O’ Schioppo si esibisce in un rapido giro di telefonate, scula (= ha fortuna), rimedia il numero del Girrarosto, telefona e parla col padrone, Vincenzo, a cui dice: “Stiamo arrivando da voi, c’è posto?” ricevendo un’entusiastica risposta affermativa. Le deboli proteste di ordine geografico della comitiva vengono prontamente rintuzzate dallo Schioppo: ci prende per esaurimento, chiacchierando e stordendoci come solo lui sa fare, facendo anche leva sul fatto che a Vieste si sta molto bene e che Vincenzo e la sua famiglia ci aspettano e ci tratteranno bene. Sono passate le quattro di pomeriggio, ci guardiamo a bocca aperta e capitoliamo. Solo Franco inizia a stranirsi seriamente e, tra una sbuffata nervosa di fumo di sigaretta a destra ed una copiosa zaffata di sudore a sinistra, fa presente che la cosa non è uno scherzo, che sarebbe meglio adattarsi in zona o nei dintorni e che la nostra macchina inizia a dare segni di cedimento. E’ talmente convincente che partiamo subito. Sabina batte Roma 0 a 1. Addio rupi rosa a picco sui flutti, scogli suggestivi, mare colore di smeraldo, vi saluto con rimpianto e mi restate sul gozzo. Probabilmente la traversata di Annibale delle Alpi con il suo seguito di elefanti non fu molto più faticosa della nostra. Non ne ricordo molto per fortuna, giusto un salire e scendere prima ed un attraversare lande desolate e quasi deserte poi – e chi è così scemo da farsi una traghettata del genere il sedici di agosto – abbacinati da un sole costantemente a picco e da miraggi di fantozziana memoria. La nostra macchina, un fiestino di cilindrata 1.100 o meno e con oltre duecentomila chilometri sul groppone, inizia seriamente a stufarsi di tutto questo tira e molla e, carica e spolmonata com’è, riesce a malapena a raggiungere i novanta all’ora, rallentando ulteriormente la marcia dell’intera colonna: ormai cammina solo a forza di bestemmie e maledizioni in stretto dialetto romanesco che mio marito Er Ciccio elargisce a carrettate. Per farla breve tra le otto e le nove di sera ci fermiamo in un fetidissimo autogrill al confine con la Puglia dove, nel bel mezzo del nulla e tra nugoli di zanzare e moscerini, mangiamo al volo un insipido panino e facciamo il punto della situazione: siamo tutti più che stanchi e stravolti, sono oltre quindici ore che stiamo in giro per le strade d’Italia, il fido fiestino rischia di tirare le cuoia ed in più Paoletto inizia a piangere perché è così esausto che non ce la fa più, in fondo è solo un bambino di sette anni che fino ad alloro se ne è stato zitto e buono nel gran casino combinato dai grandi. Dal vuoto assoluto che si deve esser fatto nel suo cranio piomba l’ennesima trovata geniale dello Schioppo che esordisce con un: “Fermiamoci a dormire nel primo albergo che troviamo e raggiungiamo Vieste domattina con calma”.

Er Ciccio lo guarda sconvolto, con la faccia – già di per sé poco raccomandabile – pesta e sudata, i capelli dritti e gli occhi iniettati di sangue, un aspetto veramente ridicolo se non fosse tragico, e gli fa “Ahò, fossi matto! Io seguito sennò me freddo e dopo nun me movo più”. Veloce ma innocuo conflitto verbale tra i due leader, dopo il quale il gruppo si spacca in due: gli altri cinque prendono la prima uscita e vanno incontro al loro destino nella notte, cercando una cuccia qualsiasi per dormire, mentre noi rimontiamo sul nostro sbomballato catorcio e ripartiamo.

Raggiungiamo il Girarrosto che sono ormai le undici di sera: tutti ci aspettano sul cancello, troviamo baci, abbracci, la sincera e calda ospitalità del Sud, tutto concentrato in un benvenuto stile De Amicis che ci riconcilia un po’ con la vita, stemperato giusto da qualche bonaria sghignazzata per la nostra incauta avventura. Peccato che al momento di ripartire per entrare il fido fiestino non ne voglia più sapere di riaccendersi e ci costringa a fargli percorrere a spinta di braccia gli ultimi venti metri di strada di quel disgraziatissimo giorno. Nel buio molliamo il rottame fumante dove capita e riusciamo a trovare una piazzola, ad aprire a tastoni la cupola dell’igloo e ad infilarci sotto due brandine da mare, sulle quali ci buttiamo così come siamo: vestiti, con le scarpe, unti & bisunti, puzzolenti come le fogne di Calcutta. Chiudiamo gli occhi ed un oblio misericordioso ci inghiotte, veloce come una fucilata.

Al mattino riemergiamo ancora intontiti dalle ceneri del giorno precedente, e mentre vaghiamo con zombie attorno all’igloo sgranchendoci le zampe vediamo piombare il resto del branco, che si sbellica dalle risate all’apprendere del decesso del nostro fiestino e che ci delizia a sua volta con il racconto delle proprie avventure notturne. I cinque dementi si sono prima intruppati nei vicoli del centro storico di Candela (ma dov’è?), incastrandosi con le macchine in pertugi sempre più stretti senza peraltro riuscire a scovare l’ombra di un hotel: ripartono, riprendono l’autostrada ed escono vicino a Foggia, dove si accampano in una specie di canile, talmente sporco che i pavimenti presentano tracce di moquette tra le macchie di luridume. Passano la notte dormendo con un occhio, per paura degli scarafaggi e per il timore che le macchine cariche attraggano qualche malintenzionato: in effetti la zona sembra assai rinomata per questa simpatica caratteristica, ma per fortuna il parcheggio risulta ben difeso da un branco di dobermann arrabbiati che il proprietario ha sguinzagliato e che con i loro furiosi latrati contribuiscono a tenere svegli i clienti, prima fra tutte mia sorella Ilaria che dei cani ha una fifa blu.

Ad ogni modo il nostro gruppo si riunisce gioiosamente nella mattina ridente e luminosa, piena di buoni auspici, e tutti insieme decidiamo di piantare le tende nella zona del campeggio che è più vicina al mare, dove c’è tutto il posto che vogliamo, tanta ombra e poca distanza dalla spiaggia. In capo ad un paio d’ore, tra pestate alle dita e bestemmioni da competizione che scomodano buona parte dei Santi del calendario (Franco) nonché parecchie “porche impestate” (Felice), il campo è pronto, una sorta di accampamento eterogeneo composto da: una tendona canadese triangolare ed arancione per Mauro e Doriana, un igloo blu per Er Ciccio e me, una casetta grigia bellina ma complicatissima da montare per Ilaria, Paolo e lo Schioppo. La stesura del rudimentale impianto elettrico viene affidata al puntigliosissimo Schioppo, memori di un accroccato impianto elettrico costruito quattro anni prima nella semioscurità da Mastro Ciccio, che aveva avuto come unico risultato quello di far piombare istantaneamente nel buio un intero campeggio a Tropea.

Aristanchi ed arisudati come cavalli da tiro decidiamo, finalmente, di dare un’occhiata al mare, voliamo speranzosi verso la riva ed un incredibile spettacolo ci colpisce come un pugno allo stomaco: una città bianca bianca, rupi calcaree immacolate, un mare … di merda! Ci verrà poi spiegato che un paio di settimane prima un fortissimo nubifragio ha gonfiato tutti i fiumiciattoli che si affacciano sul golfo di Vieste, portando a mare incredibili quantità di terra e melma varia, che mescolate alle alghe (ed alle robuste dosi di liquami già presenti per l’eccesso di turisti, dico io) hanno creato un immenso minestrone marrone-verde che degli spurghi di fogna ha il colore, l’odore, la consistenza e probabilmente anche il sapore. Sparite le acque di cristallo, la trasparenza delle piccole onde increspate, i mille buchetti nella sabbia creati dalle telline e dai cannolicchi che nel fondale basso vivevano. Di fare il bagno manco a parlarne se non a vari chilometri di distanza. E chiaramente al telefono, il giorno prima, nessuno degli amici del posto ci aveva avvisati… In sei risgomentiamo. Riallibiamo. Franco no, stavolta lui sbrocca, sclera e va fuori di melone. E’ troppo, l’oceano di cacca liquida che si stende placido di fronte a noi distrugge le sue ultime difese mentali e gli rigira tutta la villeggiatura in veleno. Maledice il Gargano, il campeggio, gli indecisi, l’eutrofizzazione, la Sabina ed i pochi Santi che fino allora erano rimasti quasi indisturbati. Noi, invece, a questo punto ci pieghiamo dalle risate e sghignazziamo come folli, non riuscendo assolutamente a credere a tanta sfortuna: per Doriana è pure il primo campeggio della sua vita, probabilmente ne conserverà un ricordo indelebile per il resto della vita! Lo Schioppo viene esposto al pubblico ludibrio.

Da quel momento in poi, tanto per cambiare, è una caduta libera tra un piccolo accidente e l’altro nonostante che il celeberrimo e portentoso scongiuro di Magliano Sabina (“San Libberato libberece tu da quellu verme che sse rrampica sù ppe lo muro sù”) venga ripetuto ad ogni piè sospinto. Nei giorni successivi il sole che tanto ci aveva tormentato durante la traversata “coast to coast” sparisce spesso e volentieri, lasciando il posto a nuvole, vento e pioggia che sono fenomeni assai antipatici quando si sta in ferie e particolarmente noiosi quando si pernotta in tenda. Il giorno dopo del nostro arrivo si scassa pure il nostro nuovissimo frigo elettrico, appena comprato, gioiellino della scienza e della tecnica che ci saluta e ci abbandona per sempre dopo appena una dozzina d’ore di funzionamento. Durante gli inutili tentativi di riparazione Mastro Ciccio, dalla sua onnipresente ed incasinatissima cassetta degli attrezzi, se ne riemerge con un ferro di cavallo in mano e fa tutto contento “Pè fortuna che me so portato questo” al che, stavolta con il plauso dell’intero gregge, lo Schioppo gli si rigira con un proverbiale ” Se nun lo nasconni quel pezzo de ferraccio te lo ‘ntorcino attorno o’ frigo!” Le rupi calcaree che bordeggiano la zona, poco prima del celebre architiello, io le ricordavo candide e luminose nel sole: peccato che ora loro e la spiaggia ai loro piedi si ritrovino piene di ogni tipo di immondizia lasciata dai bagnanti giornalieri, che va dalle cocce rosicate di cocomero ai pannolini Pampers usati. Al pittoresco mercato di Vieste compro delle buste di aromi secchi e dei vasetti di cibi tipici sott’olio che ricordavo assai gustosi, e che al primo assaggio si riveleranno invece totalmente scipiti ed immangiabili, probabilmente per la troppo prolungata esposizione al sole. Persino i cessi del campeggio sembrano avercela con noi: quelli della nostra zona si rivelano assai presto essere permanentemente intasati, emananti torrenti di acqua semi-stagnante ed effluvi sgradevoli che rivaleggiano con quelli provenienti dal mare. Ma il top delle avventure vacanziere viene raggiunto quando decidiamo di fare il giro turistico delle grotte: noi l’abbiamo già fatto varie volte in passato e pensiamo che a Mauro e Doriana possa far piacere visitare quella lunga collana di bellissime grotte calcaree dai nomi e dagli aspetti fantasiosi: grotta a campana, dei contrabbandieri, dei due occhi, a merletto, ecc. Quella mattina ci mettiamo ad aspettare sulla spiaggia il barcone che ad una certa ora passa a caricare i turisti: il mare grigio ed un po’ mosso ed il cielo nuvoloso non ci dicono nulla, al pari delle mosche che pizzicano assai noiosamente e dei gabbiani solidamente ancorati sugli scogli. Saliamo e partiamo alla volta delle grotte. Poco dopo aver caricato gli ultimi turisti ed aver visitato le prime grotte, subito dopo quella della dei pomodori di mare, ecco arrivare l’ospite indesiderata, la fata cattiva: la pioggia. In un battibaleno il mare si gonfia e si ricopre di foschia ed il barcone carico di una trentina di persone si rifugia in una grottina per proteggersi dalla pioggia: il conducente dice però che è meglio ripartire subito e tornare indietro perché lì c’è il rischio di essere sbattuti sul soffitto di roccia, così tira fuori un grosso telone di plastica che ci butta sulle teste e via! fa dietrofront sotto la pioggia battente. Il panico è tangibile e serpeggia, ci aggrappiamo con una mano alla sponda della bagnarola e con l’altra al telone maleodorante di nafta e fango e bucato in più punti. Fa eccezione mastro Ciccio, impavido e ridicolmente combinato con un’improbabile tenuta marinara (che comprende anche bandana rossa fantasia in capo, orecchino ad anello e coltello da sub), che si destreggia con esagerata disinvoltura elargendo consigli ai conducenti – gente che su quel mare c’è nata – ed esibendosi in una sorta di smargiasso surf senza mani al centro del barcone. A quel punto uno degli altri turisti equivoca, o forse sta solo scherzando, non lo sapremo mai, e gli si rivolge con un confidenziale “A Sandokan, ma tu come la vedi?”. Noi strabuzziamo gli occhi, lo Schioppo sbotta a ridere come un pazzo, Mauro per poco non casca a parte dietro dal barcone dal gran contorcersi, il Ciccio si inorgoglisce per la domanda e si offende per la nostra reazione: così l’ennesima piccola tragedia finisce rapidamente in farsa mentre il barcone fila via e ci molla davanti al campeggio, elargendoci gratuitamente in fase di discesa un bagno quasi completo con contorno di graffi ed ammaccature.

La settimana va avanti così, tra alti e bassi, anzi, tra bassi e bassi. I battibecchi tra Er Ciccio e lo Schioppo sono all’ordine del giorno, in particolare a causa dell’inveterata abitudine del Ciccio di esagerare nell’approvvigionamento dei viveri: un giorno arriva ad ordinare al panettiere quattro chili della pur ottima pizza pugliese con pomodorini, un cubo stratificato di vari decimetri di lato la cui costante presenza in tavola ci ha afflitto per tre giorni. Nel complesso non ce ne dice bene una, eppure nell’insieme la compagnia lega e si trova il modo di ridere e divertirsi un bel po’. In particolare dalla villeggiatura lo Schioppo e Mauro ne usciranno con un’ottima amicizia, fondata sul fatto che Mauro adora ascoltare le storie paesane, logorroiche, sgangherate ed interminabili che mio cognato è solito propinare a chiunque gli stia attorno, e rinsaldata dalle numerose passeggiate dei due, spesso volte a lasciare allegramente tra i profumati cespugli di rosmarino marroni e maleodoranti tracce organiche del loro passaggio. Amicizia che dura ancor oggi, consolidata dal quel cemento organico di cui lascio immaginare a voi tutti la natura.

Chiudiamo in bellezza con l’ultima cena, la sera prima di partire. Optiamo per il pesce e visto che il migliore ristorante di Vieste ha tutti i posti prenotati da mesi ci viene consigliato dagli amici un ristorantino sulla spiaggia vicino al campeggio (con amici così a che servono i nemici, dico io?). Ci mettiamo in tiro, facciamo una passeggiatina a piedi e ci andiamo. Il ristorante si rivela poi essere una stamberga semivuota e poco pulita, dove a caro prezzo consumiamo una cena a base di pesce di bassissimo profilo. Una sbobba tutta da dimenticare.

Come Dio vuole la settimana finisce. Tiriamo un sospiro di sollievo, smontiamo più o meno rapidamente il campo, insacchiamo tende e carabattole nelle nostre prodi autovetture e ce ne torniamo dritti filati a casa, stranamente senza incontrare grossi problemi.

Quella strampalata villeggiatura ha avuto varie conseguenze più o meno immediate. Innanzitutto io ed il Ciccio, appena tornati, abbiamo definitivamente mandato in pensione il fido Fiestino e comprata una Skoda Felicia station-vagon, robusta come un trattore ed altrettanto elegante.

Poi ci è scoppiata una totale idiosincrasia per il campeggio in tenda e quindi abbiamo disperso rapidamente l’intero armamentario, regalando qualcosa e buttando negli angoli di casa il resto.

Per finire nessuno di noi sette riesce più a pronunciare in presenza degli altri parole innocenti quali “Palinuro”, “ferro di cavallo”, “Sandokan” senza provocare l’ilarità della truppa: forse perché, come dicevano Foscolo e Primo Levi, nel tempo felice non c’è maggior gioia che ricordarsi delle sventure passate.



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