Cuba, il rinnovamento dei sensi
Dopo un lunghissimo viaggio, dieci ore che comunque passano abbastanza veloci, con la noia appena attenuata dall’entusiasmo, arriviamo puntualissimi a destinazione alle 22 locali. Finiamo insieme a tutti in uno stanzone caldo e umido, la dogana suppongo, dove, uno alla volta superiamo il tanto minuzioso quanto inutile controllo di frontiera. La scena mi appare subito molto ridicola: la funzionaria, ipertruccata, con le unghie di un bel verde che mi pareva la moglie di Shrek, mi scruta insistentemente cercando un’improbabile riscontro sulla mia datata foto del passaporto, qualche domanda, che non comprendo, e poi l’ok che si tramuta nell’apertura automatica di una porticina attraverso la quale passo nell’altro girone dantesco, quello dei controlli ai raggi x. Nel frattempo attendo che anche mio marito passi il severo esame e mi raggiunga e fantastico un po’ su cosa accadrebbe se ciò non avvenisse, ma ecco che la porticina come d’incanto si apre e anche lui compare. L’ipotesi di una vacanza in solitudine a Cuba rimane una fantasia. Segue angosciosa attesa dei bagagli che, per quanto ci riguarda, sono sempre fra gli ultimi ad arrivare.
Usciamo dall’aeroporto un po’ storditi ed indecisi ma veniamo letteralmente fagocitati da un tourbillon di tassisti o sedicenti tali e personaggi non meglio identificati che, a quanto pare, hanno il compito di smistare i vari clienti che devono raggiungere la città. In un baleno ci troviamo a bordo di un vecchio fuoristrada giallo della compagnia di taxi ufficiale. Un mio patetico ed inutile tentativo di trattare sul prezzo della corsa fallisce miseramente, con quel casino, non ci sono le condizioni ideali per la trattativa, mi giustifico. L’auto corre, a tratti lenta, a tratti veloce. Una piacevole brezza entra dal finestrino e faccio la mia prima conoscenza con l’ambiente locale. Strade buie, qualche cartellone propagandistico, molta gente sulla strada, le prime macchine storiche, autobus scassati e puzzolenti.
Arriviamo in città dove, evidentemente per far raggiungere al tassametro l’importo non concordato ma imposto di 25 CUC, il nostro autista, con calma tutta cubana, gira e rigira un po’ senza meta, ma la cosa non mi spiace, la prima visita della città quasi immersa nel buio, con questi palazzi che per tutta la durata del mio soggiorno non finiranno di stupirmi, sembra vittima di un incantesimo che ha fermato il tempo e la rende un po’ spettrale, grottesca, curiosa. Passiamo anche attraverso Plaza de la Revolucion dove, mi rendo conto, al di là del valore simbolico, non c’è un granché da vedere. Anzi la piazza mi sembra abbastanza brutta. Giungiamo finalmente presso l’hotel Los Frailes, prenotato dall’Italia, molto carino, stile monacale, dove un’assonnata impiegata, vestita con una sorta di saio, sbriga le formalità e ci consegna le chiavi della nostra camera.
Sabato 25 marzo Mi sveglio alle 6, complice il fuso orario.
Usciamo verso le 9 ma la città è ancora vuota e silenziosa. Non fa il caldo che mi aspettavo.
Giretto in centro città, le piazze principali sono ancora vuote ma per questo più apprezzabili. Superata Plaza de la Catedral, passiamo veloci attraverso il mercato dell’artigianato ancora in fase di allestimento e raggiungiamo il Malecon, ed è uno spettacolo: il vento, abbastanza forte oggi, alza onde che si infrangono sulla massicciata, lavando letteralmente passanti e macchine. Ci sediamo un po’ lontani ma ciò non ci impedisce si assaggiare l’acqua salata sulla faccia e qui scorrono immagini d’altri tempi con innumerevoli macchine americane anni ’50 che sfrecciano davanti a noi.
Il Prado, o Paseo de Marti, è bellissimo. E’ la parte che più mi è piaciuta dell’Havana, sarà anche per la mia passione per l’architettura, ma qui i palazzi coloniali sono fra i più belli; la gran parte ancora tenuti bene, ma alcuni così decadenti da rendere veramente incredibile l’idea che qualcuno possa veramente viverci dentro. E’ qui facciamo il nostro primo incontro con i famigerati truffatori a cui mi ero tanto preparata. Ma i truffatori moderni hanno le sembianze non previste di una giovane coppietta che con gentilezza ci abborda ed inizia il lungo racconto sulle difficoltà della loro condizione, ecc. Ecc. Ci portano a spasso un paio d’ore in parti della città che sinceramente non avremo mai avuto il coraggio di visitare da soli, ci regalano due monete da 3 pesos cubani con l’effige del Che, ci portano a vedere la chiesa in cui era stato il Papa nella sua visita a Cuba. Con estrema furbizia e destrezza si conquistano la nostra fiducia e si vendono per le persone oneste che non sono e, per concludere, ci rimettiamo 50 euro in nome di un cambio “esagerato” in CUC che avrebbero potuto realizzare presso loro improbabili canali. Spariscono quasi subito dalla circolazione lasciandoci l’immediata certezza di essere stati fregati. Rimango stupita della mia ingenuità, della mia stupidità perché lo sapevo, ero assolutamente consapevole che potesse succedere e nonostante tutto è successo. Non è per i soldi persi, ma l’amarezza e la delusione per la fregatura ci rovinano il resto della giornata.
E’ la prima e l’ultima volta che ci riescono, la vicenda ha generato un forte pregiudizio nei confronti di tutti coloro che ci attaccano in città. Le nostre risposte, quando ci sono, sono sgarbate e maleducate. Lo so che non è giusto ma la rabbia è ancora troppo forte.
Domenica 26 marzo Oggi la città mi ha convinto un po’ di più. Ho deciso che sì, mi piace. Non riesco ancora a definirla esattamente, ogni aggettivo è insufficiente o esagerato. Mi rimangono in mente i bambini che ad ogni angolo giocano a baseball con gli attrezzi più improbabili, decine e decine di cani randagi, pieni di rogna e di fame, i vecchi in strada che ti salutano gentili ma con uno sguardo rassegnato e triste, il bianco ed i colori dei panni stesi ad asciugare su facciate di palazzi così decadenti ma così belli che mi commuovono nello loro dignitosa miseria.
Oggi visita al museo della Revoluciòn, non troppo interessante vista la mia incolmabile ignoranza sulle vicende in questione. Segue brevissima visita al negozio della vicina Real Fabbrica de Tabacos La Corona, dove gli autobus delle comitive turistiche dai braccialetti colorati scaricano i loro passeggeri per acquistare costosissimi sigari che chissà quando e se fumeranno.
Passando davanti al Capitolio, scendiamo lungo Calle Obipso, la fifth avenue dell’Havana: sono numerosi i locali dove bere un buon mojito ascoltando gruppi che suonano dal vivo. Una vecchia piccola, secca e vestita con stracci e ciabatte balla sul marciapiede, fuori da uno di questi locali: lo stupore e la comicità che provoca non pare certo riguardarla.
Raggiungiamo la fabbrica del Ron Havana, dove facciamo una visita praticamente privata con guida vista l’assenza di altri italiani. All’uscita mi scolo un buonissimo beverone preparato con succo di canna da zucchero spremuta al momento con rum, anzi ron, e succo d’arancia. Specialissimo.
Torniamo verso Plaza de la Catedral dove riposo seduta di fronte alla facciata barocca della cattedrale e non rinuncio al mio 2° mojito della giornata, immersa in un’atmosfera molto elegante e tranquilla.
Lunedì 27 marzo Partenza dall’Havana dopo il disbrigo delle formalità per il noleggio dell’auto presso Havanautos (compagnia di noleggio assolutamente NON consigliabile) con destinazione Trinidad.
Ed è subito una tragedia. Dovremmo imboccare l’autopista nacional ma non esiste alcuna indicazione stradale. Giriamo e giriamo senza sapere qual è la direzione giusta finchè incontriamo due nuovi personaggi che si offrono “gratis”, e sottolineo “gratis”, di accompagnarci all’imbocco dell’autopista. Non mi fido assolutamente ma siamo preda della disperazione e accettiamo. Dopo un incredibile giro fatto di svolte a destra e a sinistra, raggiungiamo l’accesso all’autostrada. I due, ovviamente, vorrebbero ben 25 CUC per prendere un taxi e tornare dove li avevamo raccattati. Mi vien quasi da ridere: se ne vanno con 5 pesos ed un vaff…Lo.
L’autopista nacional è sorta di autostrada a ben 3 corsie per senso di marcia dove lo spettacolo è grandioso: gente a piedi, in bicicletta, a cavallo, persone che fanno autostop o aspettano improbabili passaggi, camion vecchi, scassati e puzzolenti carichi all’inverosimile di persone, cani che corrono senza meta, trespoli di ogni foggia che vanno in contromano, ogni manovra è ammessa e concessa, inversioni di marcia, salti di corsia e chi più ne ha più ne metta. Neanche al circo si era vista cotanta fantasia! Attraversando un tratto di campagna, arida, secca e contornata da paesini di una miseria assoluta, lungo una strada dissestata, con voragini che improvvisamente si aprono davanti a noi, arriviamo a Playa Larga ed è il mio primo contatto con il mar dei carabi: stupendo. Fa caldo, la spiaggia è praticamente deserta ed il mare di un azzurro che finora avevo visto solo nelle foto. In invito per un bagno a cui è difficile rinunciare. Ma decidiamo di proseguire lungo la costa della baia dei porci fino ad arrivare nei pressi di Playa Giron, precisamente a Punto Perdiz. Qui non c’è la spiaggia di sabbia bianca ma il cosiddetto diente de perro, una roccia scura direttamente sul mare. Questo rende all’acqua del mare dei colori incantevoli. Ci fermiamo una zona semi organizzata dove decidiamo di passare qualche ora. Accanto a noi tre napoletani caciaroni alzano notevolmente il livello dei decibel della zona, ma ci allontaniamo da loro velocemente.
E’ il mio primo bagno in questo spettacolo di mare, i pesci dai colori pazzeschi, sono numerosi e vicinissimi, l’acqua piacevolmente tiepida: un’emozione grandissima, non uscirei più da lì.
Controvoglia, ma ripartiamo verso Cienfuegos lungo una strada impossibile che non ha mai termine. Attraversiamo molti paesini costituiti da una manciata di casupole misere e piccolissime, dove le persone gentilissime ci salutano. Le condizioni dell’asfalto sono pessime, anzi a tratti l’asfalto proprio non esiste, le buche ci costringono a limitare esageratamente la velocità per cui per fare un centinaio di chilometri di impieghiamo una vita. Arriviamo a Cienfuegos in serata e, non senza difficoltà, troviamo una camera per la notte a Punta Gorda a 25 CUC, non trattati, causa stanchezza. La camera, dignitosa e pulita, “riccamente arredata” con soprammobili pacchiani, fiori finti e tendine di un improbabile rosa confetto, ha pure il frigo bar. Un frigo vero e proprio, di quelli da cucina, con dentro, meraviglia delle meraviglie, un’intera gamba di maiale congelata. Prima di cena facciamo una passeggiata lungo il Malecon di Cienfuegos, inseguiti dai soliti cialtroni in bicicletta, di solito giovani vestiti bene, spesso con abbigliamento italiano, che passano le loro giornate inseguendo turisti, raccontando suppongo un sacco di balle e proponendo la mercanzia più variegata. Durante la cena, 10 CUC a testa, i padroni di casa seguono con attenzione la puntata della immancabile, nonché unico programma, telenovela brasileira. Martedì 28 marzo Questi sono pazzi! Sono le 6 del mattino. La camera non ha i vetri alle finestre e la musica giunge forte alle nostre orecchie. Non so da dove arriva, è un gruppo lì vicino che suona, forse alla vicina casa della musica. Alle 7 è tutto finito, peccato sia ora di alzarsi.
Dopo l’abbondante colazione, il padrone di casa ci regala la banconota da 3 pesos con l’effige del Che, che in ogni caso credo sia falsa. Forse si aspettava qualcosa in cambio ma noi ringraziamo gentilmente e proseguiamo il nostro viaggio verso Trinidad. Lungo la strada è incredibile il numero di persone che, più o meno disperatamente, chiedono un passaggio. Noi siamo inizialmente indecisi sul da farsi ma poi carichiamo a bordo una signora che deve andare a Trinidad, in visita a non so chi all’ospedale: sono quasi 5 ore che aspetta un passaggio e infatti si addormenta quasi subito.
Arriviamo a Trinidad ed il paese appare subito molto animato, molta la gente per strada. La signora che è con noi ci aiuta a trovare una camera presso la casa della Dottora Mary, medico chirurgo specializzato che lavora all’ospedale ma che deve “arrotondare” affittando una stanza ai turisti. Lasciamo l’auto parcheggiata da un pittoresco parcheggiatore, tale Josè, e visitiamo Trinidad. La città è molto molto carina, con queste case coloniali dipinte con colori diversi e sgargianti e le immancabili inferriate alle finestre, alcune così elaborate da sembrare lavorate all’uncinetto. A quest’ora ci sono molti turisti in giro e finiamo per mangiare in un posto zeppo di italiani in escursione giornaliera.
Al pomeriggio decidiamo di andare a Playa Ancon non prima di passare alla stazione di servizio per aggiustare le prime due forature del viaggio: una a causa dei granchi sulla strada e l’altra a causa di un chiodo per ferro di cavallo. Ci fermiamo prima di arrivare a Playa Ancon, precisamente a Punta Maria Aguilar, una mini spiaggia, semi organizzata dove c’è una official parking man ed il suo collega che prende le ordinazioni dai bagnanti e corre in bicicletta al vicino bar ad acquistare le bibite fresche, a volte con sovrapprezzo di 50 cent a volte gratis. Il mare è bello e ci sono molti pesci, ma l’acqua a tratti è troppo bassa e le rocce finiscono per essere un’arma non convenzionale con cui mi ferisco lievemente.
A casa la dottora, discreta cuoca, ci attende con l’aragosta e molto altro. Dopo cena passeggiamo fino a Plaza Mayor alla casa della musica dove, davanti ad un buon mojito e a buona musica dal vivo. C’è molta gente, quasi tutti sono turisti. Sembra molto Trinità dei Monti a Roma in miniatura.
Mercoledì 29 marzo Sveglia presto, come al solito per me che in viaggio dormo il minimo sindacale. Il traffico all’esterno della casa, sulla via, è molto chiassoso: c’è chi vende ad alta voce pane o pomodori, c’è lo spazzino col suo rumoroso carretto in ferro, cani che abbaiano e, soprattutto, i galli che non devono aver l’orologio visto che cantano ad ogni ora del giorno e della notte; e poi c’è il solito Josè che con la sua vociona intrattiene i passanti. Colazione abbondante e visita al Museo Historico Municipal di Trinidad dalla cui torre, che raggiungiamo attraverso una ripidissima scaletta in legno, si ha la migliore vista della città. Una scena appare particolarmente curiosa: una squadra di operai è impegnata, non troppo però, nell’operazione di diserbo del ciottolato a colpi di machete. Questo sì che è biologico! Rimaniamo anche noi vittime consapevoli del colorato mercatino dell’artigianato locale che, devo ammettere, è assai migliore di quello dell’Havana, sia come qualità della merce che come tranquillità dei venditori.
Tutto qui è molto più tranquillo, sereno e reale che all’Havana, credo di iniziare a respirare la vera aria di Cuba. Qui i bambini, un po’ sporchi e malvestiti, non vogliono soldi ma si accontentano di una caramella.
Verso mezzogiorno ripartiamo verso Playa Ancon ma per strada ci fermiamo in un delizioso ristorantino sulla spiaggia, il Grill Caribe, dove pranziamo con un filetto di pesce molto buono e la solita Cristal ghiacciata (9 CUC a testa) di fronte ad un mare dai colori incantevoli.
Al rientro ci rendiamo conto di aver bucato per la terza volta: una sfiga che più di così non si può.
Dopo cena scambio di opinioni socio-politiche con la padrona di casa che non può dirsi troppo soddisfatta del sistema in cui vive e lavora ma non può neppure esprimersi come vorrebbe. E’ tutto molto triste. Ci procura inoltre la sistemazione a Vinales, meta del giorno successivo.
Giovedì 30 marzo Giornata allucinante. Il lungo spostamento tra Trinidad e Vinales è un calvario. Nel primo tratto, tra Trinidad e Cienfuegos tutto fila liscio; lungo il tragitto prendiamo a bordo un’infermiera che lavora in un ospedale di urgenza a Cienfuegos, tale Elena Leal, che insiste per lasciarci il suo indirizzo così la prossima volta che torniamo a Cuba sappiamo di avere lì un’amica infermiera. La lasciamo in città non prima di farci indicare la direzione per la famigerata autopista national in direzione l’Havana.
Dopo quasi 250 Km di follia pura, tra decine di disperati che aspettano un passaggio e quasi si buttano davanti alla macchina per farci fermare e i soliti ambigui ed alternativi mezzi di trasporto, arriviamo nei pressi della capitale dove, in teoria, dovremo uscire da ‘sta autopista ed in qualche maniera imboccare la nuova autopista Havana-Pinar del Rio. A causa della totale, assoluta mancanza di qualsiasi indicazione stradale, ci ritroviamo letteralmente persi in un groviglio di strade, in quella che io ho osato definire la favela dell’Havana. Abbiamo letteralmente perso la bussola, ogni dieci metri chiediamo informazioni e c’è chi ci manda a destra, chi subito dopo ci manda a sinistra, chi non sa neanche dove vive, chi si offre, gratis s’intende, di accompagnarci e c’è pure la polizia che minaccia di farci una multa perché siamo entrati contromano! Fa caldo, le cartine non servono a niente, le indicazioni forniteci non sono attendibili, continuiamo a sbagliare strada, è un labirinto, mio marito è isterico: sono presa dallo sconforto e mi vien quasi da piangere. Dopo più di un’ora, miracolo: l’imbocco della nuova autopista è una strada in condizioni mai viste e che mai rivedrò. Asfalto totalmente assente e buchi, non esagero di almeno 40-50 cm. In prima ridotta affrontiamo il rally safari con la nostra macchinina non proprio adeguata ma, vittoria, riusciamo a prendere finalmente ‘sta benedetta autopista che ci conducerà a Vinales.
E’ pomeriggio e non abbiamo ancora avuto l’occasione per mangiare qualcosa. In realtà in questo paese, al di fuori delle case particular dove si mangia in abbondanza, risulta piuttosto difficoltoso trovare qualcosa di commestibile, che so un baretto per un paio di tramezzini, un Mc Donald alla più disperata: niente, il nulla. Mio marito, suppongo in crisi ipoglicemica, ha le visioni: vede autogrill ed aree di servizio che non esistono. Ci sono solo dei poveracci che vendono trecce di cipolle e aglio lungo la strada.
Nei pressi di Vinales, come per incanto, compaiono le prime indicazioni: Vinales di qua, Pinar del Rio di là. E ci voleva tanto!! Usciamo dall’autopista e ci arrampichiamo su una strada che pare di montagna: tornanti costeggiati da pini marittimi e altissime palme, iniziano ad apparire i primi campi di tabacco su una terra rossa. Vinales è un paesino piccolo e molto carino, sembra uscito dal far west e tutte le casette, ma dico tutte, hanno il portico con le immancabili sedie a dondolo. Troviamo subito Johan che ci sta aspettando per dirottarci dai suoi dirimpettai Miguel y Rosa (Rafael Trejo n. 141, Vinales), casa particolar che mi sento vivamente di consigliare. La signora Rosa ci accoglie con uno dei suoi mitici succhi di frutta che, scoprirò dopo, sono una sua specialità. E’ fatto con un frutto verde, quasi spinoso che non avevo mai visto e mai assaggiato: è buonissimo, specialissimo, mai bevuto niente del genere.
I padroni di casa ci mettono a disposizione un vero e proprio mini appartamento con camera, bagno sala da pranzo e cucinina (che ovviamente non useremo mai), non lussuoso ma dignitoso e pulito, il tutto per 20 CUC a notte. Breve giretto in paese ed è subito ora di cena.
La cena non è come al solito abbondante: è esagerata! La Rosa è un’ottima cuoca e ci tiene molto a farci quello che più preferiamo. Dopo cena rimaniamo sul portico per rilassarci un po’, siamo stanchi ed andiamo a dormire presto.
Venerdì 31 marzo Una colazione così non si era mai vista! La Rosa è impazzita: così tanta frutta e tanto succo che mi vien la pancia gonfia come una mongolfiera. E, come se non bastasse, fa un caffè che me lo sogno ancora. Lo fa lei in casa, tostando i chicchi secondo una elaborata procedura che si era offerta di spiegarmi. Ci prepara anche due panini perché, dove andiamo, dice, non c’è nessun posto dove acquistare cibarie.
Oggi la meta è Cayo Jutìas, un isolotto a nord di Vinales collegato alla terraferma tramite una massicciata rialzata sul mare. La strada che percorriamo per raggiungerlo è immersa nella campagna, tra campi rossastri e verdi piantagioni di tabacco, ci sono numerosi “secadores”, capannoni dal tetto in paglia dove si mettono le preziose foglie ad essiccare. Riesco ad intravedere qualche pianta di caffè. E poi le palme reali altissime e le sagome bizzarre dei mogotes, questi “brufoloni” di roccia che sembrano spuntati dalla terra ma che sono invece quel che rimane del crollo, avvenuto cento milioni di anni fa, delle volte calcaree di numerose caverne sotterranee.
Attraversiamo un paio di paesini rurali, contraddistinti dal solito formicolio di persone e bambini in divisa scolastica. Tutti salutano e sorridono. Ci distinguono come turisti per la targa della macchina.
Arriviamo al Cayo e poi alla spiaggia attraverso una stradina costeggiata da scheletri di mangrovie, eredità dell’uragano Dennis, dicono. La spiaggia è bellissima, non troppo grande ne’ troppo perfetta. Sono ancora evidenti le tracce del passaggio del suddetto fortunale ma il mare non ne risente, anzi è di un azzurro intenso dalle mille sfumature. Anche qui c’è il classico official parking man che, al solito prezzo di 1 peso, ci permette di parcheggiare nelle vicinanze. Siamo tra i primi e riusciamo così ad accaparrarci un ombrellone di foglie di palma (5 CUC a testa inclusa una consumazione presso il bar della spiaggia che definirlo “essenziale” è quasi un eufemismo). Io, al solito, non ci riesco proprio a starmene ferma a prendere il sole e me ne vado a spasso lungo il bagnasciuga. E’ il colore del mare quello che più mi stupisce, è una cosa a cui sono proprio abituata. Vado al baldacchino che noleggia maschera-snorkel-pinne con il deciso intento di nuotare fino alla barriera corallina, che in effetti è piuttosto lontana. Il tizio del noleggio, preoccupato per la mia incolumità, mi affida a Lazzaro, beach boy addetto di sicurezza che, forse un po’ controvoglia e dopo aver assicurato il mio disinteressato marito, mi accompagna alla barriera. I pesci non sono moltissimi come mi era capitato di vedere i giorni scorsi ma sono comunque molto belli, macchie dai colori fluorescenti che sbucano veloci dalle rocce e se ne vanno subito, indifferenti al mio stupore. Lazzaro si complimenta per la mia resistenza e per la mia abilità natatoria. E ci mancherebbe, sono due anni che vado a nuoto ininterrottamente, servirà a qualcosa prima o poi, mi sono sempre detta. Una bella esperienza ed anche una piccola soddisfazione personale.
Nel frattempo, i panini della Rosa, complice la temperatura tropicale e la busta di plastica in cui giacevano, hanno subito una vera e propria mutazione genetica. Io mi rifiuto di attaccare il mio e neppure l’onnipresente cane da spiaggia lo trova di suo gradimento. Mio marito, al contrario, che ha sempre paura di morire di fame, riesce ad ingoiarlo tutto. Che schifo! Accanto al nostro ombrellone stazionano due italiani, de Roma o dintorni, me pare: il primo un po’ tanto burino, iperabbronzato, capello lungo ossigenato e addominali prominenti, il secondo, una macchietta, pari pari al fornaio Chiodaroli di Colorado Caffè : baffi a manubrio di bicicletta, grandi occhiali da vista, capello impomatato ed una pancia enorme, inutilmente nascosta da una maglietta con tanto di scritta “ho un diavolo per capello”…E ci credo! Entrambi accompagnati da due amorevoli morette locali, innamoratissime… Prima di rientrare a casa, passiamo a vedere El Mural de la preistoria, ma da lontano, tanto è così grande che non occorre avvicinarsi. Nulla di particolarmente entusiasmante.
Dopo l’abbuffata serale (la Rosa ci ha dato dentro anche stasera) passeggiatina in centro dove, alla Casa della Cultura, ci dilettiamo nell’ascoltare un gruppo che suona musica son e trova (mi pare si chiami così). Mi piace molto ma dobbiamo rientrare presto perché mio marito è seriamente preoccupato per la potente scottatura procuratasi alla spiaggia. In effetti ha un colorino niente male, se lo vede un pescatore di aragoste mi sa che domani me lo ritrovo anche grigliato.
Sabato 1 aprile Oggi l’obiettivo era Cayo Levisa. Dico era perché la gita è saltata ancor prima di iniziare. Ci accorgiamo di aver bucato per la quarta volta. Poco male, cambio con ruota di scorta, passaggio al Servi Cupet per l’aggiustatina e via verso nuove mirabolanti avventure. Se non fosse che, ebbene sì la sfiga sia con noi, ci accorgiamo che pure la ruota di scorta è bucata. Mio marito, a bordo della potente bicicletta di Miguel, corre all’agenzia di noleggio della macchina alla fine del paese per cercare aiuto. Promettono un loro pronto intervento entro un paio d’ore. Gita al mare saltata.
Ripieghiamo per una passeggiata nel parco nazionale di Vinales, praticamente una passeggiata in piena campagna, dove incontriamo una gentile campesina che ci chiede se vogliamo visitare il secadores per le foglie di tabacco: l’odore è forte e fa anche molto caldo. Ci invita poi a casa sua dove soggiornano cani e transitano galline e lì, con abilità, ci confeziona due sigari (puros) davanti ai nostri occhi, li incarta e ce li regala. Le lasciamo una giusta mancia e proseguiamo la nostra escursione campagnola.
Dopo un po’ inizia a fare un po’ troppo caldo e decidiamo di rientrare alla base dove, con nostra sorpresa sono arrivati due svogliati tecnici dell’havanautos e stanno smontando le due ruote bucate.
Trenta minuti e siamo di ritorno, questa è la loro promessa. Ma forse noi non abbiamo considerato che siamo nelle vicinanze dell’ora di pranzo e che dopo il pranzo sacrosanta è la siesta, tanto che i trenta minuti si dilatano in maniera sproporzionata diventando tre lunghissime ore, che passiamo sulle sedie a dondolo di Miguel, conversando con chiunque è di passaggio. Un caffè della Rosa, che resuscita anche i morti, ci da un po’ di conforto. Al loro ritorno, avvenuto dieci minuti dopo una nostra incazzata telefonata, i “tecnici de la roda ponciada” vorrebbero anche essere pagati. Ma mi faccino il piacere! Ci rimane ben poco tempo di questa giornata sfortunata e decidiamo di dedicarlo alla famosa e vicina Cueva dell’Indio, che non ha nulla di particolarmente interessante, come diceva la nostra guida. E’ solo una trappola per turisti, presidiata da pulmann e da venditori di ogni genere di souvenir e 5 CUC a testa per il giretto a barca che durerà due o tre minuti mi sembrano un po’ eccessivi.
Più tardi conosciamo anche il figlio di Miguel, Miguel per l’appunto ed il nipote di Miguel, Miguelino, per non sbagliarsi, che vivono a trenta chilometri di distanza, ma sono scesi in paese per andare dal dottore perché il bambino ha quasi la polmonite. Per tornare a casa, verso sera, aspettano degli amici che passano con un camion scoperto e danno loro un passaggio. Padre e figlio ammalato caricati sul rimorchio del camion per trenta chilometri. Ma si può costringere le persone a vivere in questo modo? Dopo cena, non vorrei ripetermi ma come sempre ottima e abbondante, conosciamo una coppia di mezza età di Sanremo, in giro per l’isola da più di venti giorni. L’hanno girata in lungo e i largo, mi fanno un po’ di invidia. Mi sembrano in effetti un po’ stanchi, sono simpatici e passiamo la serata in loro compagnia davanti ad un buon daiquiri.
La scena che segue è piuttosto comica: mio marito, un po’ in disparte perché infastidito dalla calca nel locale, viene abbordato da una piacente bellezza locale. Rosso, non so se per vergogna o per la scottatura del giorno prima (ma opterei per la prima), le fa presente di essere già “felicemente” accompagnato da me, che me ne sto all’angolo ad assistere divertita alla scena. La chica, saputa la verità, batte in ritirata. E veloce anche, i miei quattro anni di kick boxing potrebbero risultarle fatali.
Domenica 2 aprile Purtroppo è giunto il giorno della partenza. Il nostro viaggio è quasi terminato. Partiamo di buon’ora da Vinales dopo aver lasciato a Miguel quasi tutti le mie scorte di medicinali (e speriamo che non mi venga un mal di denti in aereo). La Rosa è triste. Suo marito dice che ogni volta che un ospite se ne va, lei piange. Spero non lo faccia anche adesso.
Scendiamo da Vinales e passiamo per Pinar del Rio, ma la città è una delusione, la definirei a prima vista piuttosto brutta, per niente interessante. Imbocchiamo la nostra amata autopista in direzione l’Havana ma ci fermiamo all’Orquideario di Soroa, un bel giardino botanico con tanti fiori e tante orchidee (la mia passione) dove riesco a fare quella che giudico la mia foto più bella su più di 250 fatte: un colibrì, verde metallizzato, che succhia il nettare da un grosso fiore rosso: sono molto agitata, quando mi avvicino pianissimo, mi tremano le mani e devo fare quattro foto per riuscire a beccarlo. Che emozione! Basta non c’è altro tempo e dobbiamo rientrare all’Havana. Non sappiamo quanto ci mettiamo a trovare l’aeoporto e vista l’esperienza di qualche giorno fa, preferiamo arrivare un po’ in anticipo.
Un’ultima nota riguarda un tassista conosciuto nel salone d’ingresso all’aeroporto. E’ un tassista irregolare, che arrotonda l’esiguo stipendio dello Stato portando a spasso i turisti da una discoteca alll’altra. Mi è sembrata d’istinto una brava persona, un onesto. Già da qualche ora stava aspettando tre turisti italiani, tre uomini, che aveva portato a spasso per alcuni giorni e che si erano “dimenticati” di pagarlo. Quando sono arrivati, lui si è avvicinato a loro con educazione e discrezione ed è stato al loro fianco per tutta la fila del ceck-in, la fila per la tassa di uscita, la fila per la frontiera senza che loro gli dessero il dovuto, anzi facevano finta di non conoscerlo. Mi sono vergognata.
Il viaggio di ritorno è stato più lungo e più stressante di quello di andata. Il mio bagaglio più pesante è quello dei ricordi, molti, moltissimi, alcuni belli, altri bellissimi, altri tristi. Mi rimane negli occhi il colore del mare, lo sguardo di persone ricche solo della loro dignità, il loro sorriso che non dice nulla ma comunica un mondo intero ed il loro saluto, sempre pronto, quasi un gesto scaramantico. Mi rimane sulla pelle il calore ed il colore del loro sole, caldo e generoso come loro. Mi rimangono i sapori e gli odori di pietanze mai assaggiate, il dolce profumo della frutta, così buona e generosa. E mi rimane nelle orecchie il suono della loro musica, onnipresente, e il loro vociare così allegro e musicale.
Un viaggio a Cuba, anche se breve come il nostro, ti riempie i sensi di nuovo.