Cronache dall’Equatore
Abbiamo quindi trascorso lunghe ed interessanti ore ad analizzare mete alternative, l’una più intrigante dell’altra: il sud-est asiatico ? Ipotesi interessante, ma a rischio monsone. Il giro del mondo, saltapicchiando da una capitale all’altra? Non male, ma con molte, e forse troppe, ore da trascorrere a bordo di aerei affollati. L’america latina? Questa sì che è una meta che raccoglie unanimi consensi! Luc conosce un po’ la zona, per esserci stato anni fa per lavoro, ma l’area è totalmente nuova per MG, che vota decisamente a favore.
E così sia: un articolo su un mensile di viaggi descrive un bell’itinerario in Ecuador, e ci dedichiamo senz’altro ad un approfondimento del tema. Entriamo così in contatto, via internet, con una agenzia di viaggi di Quito, ed in particolare con un certo Paùl, che ci organizza un bel programmino. In realtà, gli diciamo noi esattamente cosa vogliamo fare, in quali hotel vogliamo alloggiare, eccetera, ma Paùl è assai efficiente nel mettere in pratica le nostre precise indicazioni. E così, nel giro di un mesetto, il programma è definito anche nei dettagli: trasferimento a Quito via Caracas, cinque giorni di crociera naturalistica alle mitiche isole Galapagos, poi visita della regione del Nord con i suoi tipici mercati andini, poscia un’avventura “forte” in piena Amazzonia, con soggiorno nella foresta più profonda circondati da misteriose presenze animali, e finalmente una sgroppata lungo la ‘via dei vulcani’, non priva di emozioni, per giungere alla caratteristica cittadina coloniale di Cuenca, dalla quale faremo ritorno a Milano.
Niente male, eh? Ebbene, non tutti la pensano così: la reazione del nostro quindicenne erede, quando gli abbiamo proposto di accompagnarci in questa ennesima, avvincente avventura in terre lontane, è stata netta: “Voi siete matti… In Amazzonia, tra ragni, scimmie e serpenti? Caldo boia e piogge tropicali? Sul Rio delle Amazzoni, in precario equilibrio su vecchie canoe in acque putride e popolate da famelici pirañas? Lunghe ore su fuoristrada ad inerpicarci sulle Ande? Parchi pasti in ristorantini sulla strada, caratteristici quanto infidi? Escursioni ben oltre i 4000 metri, zaino in spalla e scarponi ai piedi? No, grazie, fate pure, ma io me ne vado in Germania, al solito ‘college’, a dare una rinfrescatina al mio tedesco, servito e riverito”. Così parlò il figliuolo. E poiché siamo una famiglia democratica, così sarà: Luc e MG in partenza per il misterioso universo andino, non prima di aver imbarcato il figliuolo per il Paese di Goethe… Come si leggerà nelle prossime pagine. 3 agosto, domenica La giornata di sabato è stata dedicata ai preparativi: siamo assai soddisfatti, due borsoni paffuti contengono comodamente le nostre cose, e potremo portarli con noi a bordo, evitando ritardi e contrattempi. Marco, invece, ha riempito di vestiario ed altro un enorme valigione, più una valigetta per le emergenze: potrà far sfoggio di tutto il suo guardaroba, sù al college…
Sveglia alle 5:30, sommarie abluzioni, pullman per Malpensa (pieno), arrivo in aeroporto tra orde vocianti di vacanzieri sudaticci e carichi di valigie come animali da soma: è un sottile piacere dirigerci – con passo felpato – verso l’esclusiva sala del ‘Club Freccia Alata’ (del quale Luc fa parte in qualità di cliente assiduo della compagnia di bandiera… ): qui, in un’atmosfera elegante e rarefatta, circondati da mille attenzioni, facciamo il nostro check-in in tutta calma. L’hostess si stupisce per la singolare organizzazione famigliare: i due genitori volano verso il sudamerica, il pargolo si dirige nella vicina Germania. Oh, ben! Espletate le formalità di rito, ci dedichiamo alla colazione, ed a tranquille letture. Approssimandosi l’ora del decollo , lasciamo l’esclusivo ‘Club’ e ci immergiamo nella vociante moltitudine in partenza. La coda al controllo di sicurezza è lunga, ma procede spedita. Accompagniamo Marco al controllo passaporti, e qui le nostre strade si dividono: lui verso gli imbarchi europei, noi verso quelli intercontinentali… Ciao, ci rivediamo fra tre settimane!!! Bene, adesso si tratta di prepararci al meglio per la nostra lunga traversata transatlantica (che durerà una decina ore). Ed ecco l’invenzione, il piccolo colpo di genio, l’idea ardita e fuori dagli schemi: Luc riesce – con fluente eloquenza, e grazie all’appartenenza al ‘club Freccia Alata – ad ottenere all’ultimo momento due posti in Classe Magnifica, al posto degli striminziti strapuntini di classe economica. Le prossime ore di viaggio saranno all’insegna della comodità e del lusso sfrenato.
Ed infatti: poltroncione enormi, super imbottite, semoventi, spaziosissime, gli manca solo la parola; cibi raffinati, innaffiati da vini di classe; piacevolezze ed attenzioni da nababbi. Il volo scorre via velocemente, e le 9 ore e mezza di traversata passano in un battibaleno. Eccoci quindi nel caldo e caotico aeroporto di Caracas. Qui il telefonino funziona ancora (non sarà così in Ecuador), e possiamo quindi chiamare casa e Marco, che intanto è giunto al suo college in Germania. Poi ci mettiamo in coda per il check-in per il volo verso Quito. La faccenda è defatigante: una coda di decine di persone, un caldo soffocante, una confusione cosmica… I passeggeri che ci precedono sono tutti diretti a Lima, e vengono – ad un tratto – informati senza tanti complimenti che il loro volo è pieno, e che a nulla valgono biglietti, prenotazioni e riconferme. Ne nasce una mezza sommossa, sedata solo quando i posti vengono miracolosamente fuori. Boh!! Quando viene il nostro turno, tutto scivola via dolcemente, ed otteniamo senza problemi (se si eccettua la temperatura infernale ed il bagno di sudore) le nostre carte di imbarco.
Le ore successive fino alla partenza dell’aereo vengono trascorse nella fresca atmosfera del “Club Premier”, la VIP lounge, dalla quale mandiamo un primo messaggio Email a Marco e ci godiamo la vista dalla terrazza sulla pista di decollo. Verso le 19 ci dirigiamo all’imbarco; la faccenda è singolare: il nostro volo dovrebbe imbarcarsi dalla porta 22, ma il monitor lo dà sulla 23. Quest’ultima porta, tuttavia, è impegnata nell’imbarco del volo per Madrid. Anzi, oltre al volo per Madrid la 23 imbarca anche quello per Lima. Nessuna traccia del nostro volo per Quito, ma a sentire i bene informati dovremmo incolonnarci qui, proprio sotto il cartello “Volo per Lima”. Così facciamo. Divertiti dalla situazione, che naturalmente provoca gran confusione: i passeggeri per Lima vengono infatti dirottati altrove, ma sempre nuovi se ne aggiungono alla nostra fila per Quito, e la confusione aumenta con crescendo rossiniano. Non sarebbe più facile aggiornare il cartello??? Ci sono manipoli di turisti che si aggirano per l’aeroporto con aria smarrita. C’è una pattuglia di italiani, che hanno fatto il viaggio con noi da Milano e dovrebbero proseguire per Lima, che vagano ormai privi di speranza e di guida per i corridoioni affollati dell’aeroporto, guardandoci con malcelata invidia (noi, almeno, siamo in coda, mentre loro non sanno che fare…). Li guardiamo di sottecchi, ghignando perfidamente sotto i baffi.
Ecco che il volo per Quito viene finalmente imbarcato: saliamo su un vetusto (almeno quarantenne) Boeing 727, caratterizzato da un pungente odorino di cipolla fritta che permea tutta la carlinga. Proviamo ad aprire a tutta manetta le bocchette dell’aria condizionata, ma da queste esce un grasso odorino di brodo di pollo. Cosa ci starà preparando per cena, il cuoco di bordo? Nell’attesa di scoprirlo, mandiamo gli ultimi SMS a Marco ed ai parenti in Italia, e – a decollo avvenuto – proviamo a dormire un po’… Per il nostro orologio biologico sono le 3 del mattino! Alle 10 di sera (ora locale) atterriamo, finalmente, a Quito. Il nostro viaggio è durato circa 24 ore, ma ci sentiamo ragionevolmente in forma, complice anche la bella arietta frizzante di montagna (Quito è a 2850 m sul mare). All’uscita dall’aeroporto c’è una gran folla di gente che aspetta amici e parenti, ma individuiamo subito Paùl, la nostra guida. Dieci minuti di auto (Quito è deserta, a quest’ora) ed arriviamo al nostro hotel, il Café Cultura: è una sorta di villa al centro della città, molto caratteristica, con interni caldi ed accoglienti, una balconata in legno sulla hall dalla quale si accede alle stanze, una biblioteca con caminetto e poltroncione in pelle per tranquilli momenti di relax e di meditazione… Insomma un bel posticino. La nostra camera è ricavata nel sottotetto, ma è confortevole ed arredata con semplicità e gusto.
Ci facciamo una doccia ristoratrice, con il nostro sapone magico alla menta e succo di mela (!), lasciamo nel deposito dell’hotel la borsa con le cose che non ci serviranno alle Galapagos, e poi ci rincantucciamo sotto le coperte. È stata una lunga giornata.
4 agosto, lunedì Sveglia alle 5 e 20 del mattino, al canto di un gallo poco distante. Alle 6 siamo pronti nel giardino dell’albergo, in attesa di Paùl che ci accompagnerà in aeroporto per il volo delle 7:30 per le Galapagos. La giornata è serena e la temperatura perfetta. Ma Paùl non si vede. I minuti passano ed una vena di impazienza comincia a serpeggiare. Alle 6:15 è chiaro che è successo qualcosa: Paùl è forse scappato con i soldi? Un’improvvisa amnesia? Una gomma bucata? O la classica sveglia che non ha funzionato? Che sarà di noi, e soprattutto della nostra agognata crociera alle Galapagos, il viaggio di una vita??? Cerchiamo di chiamare Paùl sul cellulare, l’apparecchio suona a distesa ma nessuno risponde… Le ipotesi più funeste appaiono sempre più realistiche. Alle 6:30 facciamo un altro tentativo con il telefono cellulare, e stavolta Paùl risponde, un po’ affannato, e ci dice che sta arrivando. E così è, in effetti: il nostro amico pasticcione arriva trafelato e sbuffante, e accenna vagamente a problemi con la sveglia (un classico…). Per fortuna l’aeroporto è a pochi minuti, così arriviamo appena in tempo per il nostro volo. Alle 7:30 decolliamo, e – dopo uno scalo tecnico a Guayaquil, prolungatosi ben oltre il previsto a causa di un guasto sull’aereo – arriviamo all’aeroporto di Baltra, sull’isola omonima.
Freschi come rose e speranzosi, appiccichiamo sulle nostre magliette l’adesivo col nome della nostra barca (il BELUGA), e ci attendiamo di essere accolti con caldi sorrisi dall’incaricato che dovrà portarci a bordo. Ed infatti tutti gli altri passeggeri sono ricevuti cordialmente dagli addetti delle loro imbarcazioni, e si avviano all’imbarco. Anche i più sfigati, che finiranno a bordo di maleodoranti pescherecci, vengono ricevuti dai loro barcaioli. Tutti tranne noi. Dell’incaricato del Beluga neanche l’ombra. Sarà qui intorno, ci diciamo, arriverà… E ci apprestiamo ad aspettare. Dopo una buona mezz’ora, decidiamo che è il caso di fare qualcosa, e tentiamo di chiamare Paùl a Quito: senza successo. Il cellulare suona a distesa, l’ufficio è perennemente occupato. Che fare? Chiediamo un po’ in giro, e riceviamo calde parole di solidarietà, ma poco di più, dai presenti. Solo una giovane guida locale, mossa a compassione e decisa a non abbandonarci in aeroporto (nel frattempo, se ne sono andati quasi tutti) prende a cuore il nostro caso e ci propone di andare insieme al suo gruppetto di zitelle inglesi fino alla capitale, Puerto Ayora, dove forse – ma dico forse – potrebbe essere ancorato il Beluga. Eccoci quindi a bordo di un pullman, sul quale saliamo dopo sanguinosissime lotte corpo a corpo, e – attraversato su un traghetto uno scenograficissimo canale – arriviamo in un’oretta a Puerto Ayora. Qui veniamo a conoscenza, grazie alla nostra amica, dell’indirizzo di un ufficio che dovrebbe sapere tutto sul Beluga. Acchiappiamo un taxi ed arriviamo ad una villetta nella giungla nella quale effettivamente c’è la centrale operativa della nostra nave. Siamo salvi! La responsabile dell’ufficio dice che non è colpa sua, che a lei risultava che saremmo arrivati con i nostri mezzi a Puerto Ayora (e come? A nuoto? In groppa ad un pellicano? mannaggia…), etc. Etc. Ma che importa? Veniamo accompagnati a bordo del Beluga – ancorato in rada – con un barchino, e finalmente possiamo riposare per pochi istanti le stanche ossa. Ma non è il caso di perdere tempo: gli altri ospiti del Beluga sono già andati in visita al Centro Scientifico C. Darwin, e noi li raggiungiamo in un battibaleno. Incontriamo la nostra guida (Silvia, svizzera di San Gallo), il resto del gruppo (americani, australiani, inglesi, irlandesi) e visitiamo il posto. L’attrazione principale è costituita da enormi testuggini, che qui vengono allevate per poi essere rimesse in libertà sulle isole. Le più grosse hanno dimensioni straordinarie, con carapaci dell’ordine del metro e più. Ci sono anche recinti di allevamento per le testuggini neonate suddivise per anno ed isola di nascita. Vediamo anche il recinto degli iguana, con un bell’esemplare giallo che mangia di gusto un’insalata. Poi facciamo una bella passeggiata sulla spiaggia selvaggia limitrofa al centro Darwin, e ritorniamo al molo a piedi. Prima di imbarcarci sul gommone che ci porterà a bordo, ci gustiamo un’eccellente piña colada al baretto del porto.
Dopo una bella doccia, andiamo a cena. Stasera spaghetti alla amatriciana (!!!), di consistenza collosa ma con sugo eccellente. Tutti i nostri compagni di viaggio sono anglofoni e molti stanno facendo più o meno il nostro stesso giro in Ecuador, così ci scambiamo informazioni ed impressioni. Dopo cena, c’è il briefing di Silvia sulla giornata di domani. Veniamo anche a sapere che stanotte si viaggerà in mare aperto per raggiungere – in una dozzina di ore di navigazione – l’isola di Isabela, la più grande dell’arcipelago. Ci dicono che sarà una traversata impegnativa, dato il mare mosso, e ci viene suggerito di prendere qualcosa contro il mal di mare. Così facciamo, e ci rincantucciamo fiduciosi sotto un caldo piumino.
Lo spettacolo inizia puntualmente alle 20:30. Il capitano mette in moto le macchine e ci dirigiamo verso l’oceano: non appena siamo in mare aperto, arrivano ondone gigantesche che agitano senza pietà il nostro guscio di noce. Porte che sbattono, cassetti che si aprono, oggetti che volano, passeggeri che cadono dai letti… Il Beluga, pur con i motori a tutta manetta, sembra in balia delle forze della natura. Si impenna, si inclina tra sinistri scricchiolii, geme penosamente sotto la violenza delle onde, e noi nella nostra buia cabina, tra oggetti che volano da tutte le parti, con gli occhi sbarrati nelle tenebre. Qualcosa, insomma, che ricorda da vicino il film “La tempesta perfetta”, per chi l’ha visto. La faccenda dura praticamente tutta la notte. Per fortuna, grazie alle nostre pilloline miracolose, non soffriamo di mal di mare, ma abbiamo il nostro da fare a restare ancorati al letto. 5 Agosto, martedì Verso le 5 del mattino arriviamo alla nostra meta, Punta Moreno sull’isola di Isabela, e le forze degli elementi finalmente si placano. Facciamo colazione alle prime luci dell’alba e ci prepariamo all’odierna escursione. Alle 6:30 saliamo su due gommoni, e ci avviciniamo alla costa. Subito avvistiamo alcuni nidi di pellicani, con dei piccoli affamati che , appena ci avviciniamo, spalancano il grosso becco e lanciano acute grida per chiedere cibo. Proseguiamo: sbarchiamo nei pressi di una caletta, ed iniziamo una scenograficissima passeggiata in una sorta di deserto di lava. La valle – nera a perdita d’occhio – è dominata da due alti vulcani, entrambi attivi. Poche piante grasse sbucano tra le spaccature della lava solidificata. Tetri crepacci di lava si frappongono ogni tanto al nostro cammino, e dobbiamo esibirci in temerari salti sul vuoto e forse sull’inferno. Il paesaggio lunare è ogni tanto rallegrato da scenografici cespugli di piante grasse e da lagunette, con verdissima vegetazione, nelle quali sguazzano fenicotteri rosa. In una delle lagunette Silvia cerca uno squalo, che di solito si aggira da queste parti: ed infatti eccolo, fugace visione. Vediamo anche un serpente ed un’iguana, ma è il fantastico panorama primordiale l’attrattiva principale della mattinata. Ripresi i gommoni torniamo a bordo del Beluga per un po’ di ozio sul ponte. Delfini giocosi ci seguono mentre costeggiamo Isabela verso la “Elisabeth Bay”, dove ci ancoriamo. Dopo pranzo (gustoso), pisolino ristoratore prima della escursione pomeridiana in gommone. Ci addentriamo in una sorta di foresta di mangrovie, in un’atmosfera resa ancora più suggestiva dalla calda luce del tardo pomeriggio. Ad un tratto, i marinai dei due gommoni spengono i motori, e si procede a remi, in uno splendido silenzio. Avvistiamo ben presto – nell’acqua limpidissima – la prima tartaruga di mare, lunga un metro o giù di lì. Poi ne vediamo presto delle altre, che si muovono agilissime intorno a noi, alcune più piccole, con un colore che dà sul rossiccio, altre grosse (peseranno diverse decine di chili). L’atmosfera è bellissima, la natura quanto mai selvaggia e primordiale, e proseguiamo la nostra escursione cercando di ricordarne ogni dettaglio. Luc ha un bel da fare tra binocoli, monocoli, telecamere, macchine fotografiche…
Lasciata la foresta di mangrovie, ci dirigiamo verso due scogli al largo. Qui vediamo una piccola colonia di pinguini, dei cormorani, e le simpaticissime Sule dalle zampe blu, formidabili uccelli marini dallo sguardo fiero nonostante le buffe zampe palmate dall’incredibile colore azzurro-blu. Ci sono anche degli enormissimi granchi color rosso-arancione, dalle dimensioni di un piccolo pollo. Conclusa la bella gita, torniamo a bordo, non senza esserci goduti un’emozionante accosto tra i gommoni (sballottati dalle alte onde, come pure i passeggeri) ed il Beluga.
Cena, tranquille chiacchiere, scrittura del diario, briefing sulla giornata di domani, ed a letto.
6 agosto, mercoledì Sveglia prima dell’alba, per una giornata densa di avvenimenti. Alle 6 siamo già sui gommoni e ci dirigiamo verso una spiaggia dell’isola di Isabela, dove effettuiamo uno sbarco ‘umido’ (piedi in acqua). Sulla nostra testa volteggiano decine di pellicani che – come una ben addestrata pattuglia militare – si lanciano in acqua a capofitto, con sincronismo perfetto, per riemergerne con il capiente becco pieno di pesce. Silvia ci racconta che si tratta del ‘feeding frenzy’, frenesia del cibo. Poi i pellicani fanno un nuovo giro di ricognizione, si riavvicinano in formazione perfetta, e si rilanciano a capofitto in acqua, sollevando alti spruzzi. Che spettacolo !!! Poi ci addentriamo lungo un sentiero nel sottobosco. Silvia ci dice che la zona è – purtroppo – infestata dalle capre, importate dalle truppe americane durante l’ultima guerra, e che non si riesce ad eradicarle. Più ne vengono uccise, più ne nascono, con grave pericolo per le specie autoctone, più deboli e destinate a soccombere ai robusti caprini. Ora si pensa di passare alle maniere forti, e di utilizzare un elicottero per far fuori le bestiacce. Che, per il momento, ci circondano con i loro continui belati. Gli unici animali autoctoni che vediamo sono alcuni coloratissimi iguana di terra, dalla livrea giallo-arancione. Saranno lunghi almeno 70-80 centimetri, e peseranno certo diversi chili. Si lasciano osservare e fotografare senza pudore o timore alcuno. Proseguiamo la nostra passeggiata alla ricerca di tartarughe di terra, ma non ne incontriamo. Cosi terminiamo la passeggiata e torniamo a bordo. Ci rilassiamo sul ponte superiore, mentre il Beluga risale l’isola di Isabela verso l’isola Fernandina, meta di questo pomeriggio. Dopo pranzo inizia l’escursione pomeridiana, che resterà uno dei momenti memorabili di questo viaggio. Già il nostro sbarco dai gommoni viene osservato da mille occhi di iguana di mare, dalla pelle squamosa e scura, e dalla cresta puntuta e bianca che percorre tutto il corpo. Gli animaletti sono dappertutto, dovunque si guardi se ne vedono a decine! Le dimensioni sono ragguardevoli, i più grossi saranno lunghi quasi un metro! Assieme agli iguana, spiccano per il loro colore rosso vivo, con striature di giallo, arancione ed azzurro, grossi granchi dalle lunghe zampe (in numero di dieci, niente meno) e dalle robuste chele. Ci addentriamo oltre, e veniamo accolti dagli scomposti ed un po’ volgarotti grugniti di un bel gruppo di leoni marini, che sguazzano in una baietta poco distante. Alcuni esemplari stanno facendo tranquillamente la siesta sotto degli arbusti. Un’altro si è accoccolato al fresco, riparato da una roccia. Proseguiamo nell’esplorazione, e gli avvistamenti continuano: ecco una colonia di decine di iguana di mare, con molti piccoli. Ci sono anche centinaia di pellicani, in piena azione di caccia: si raggruppano in quota, fanno un largo giro di orientamento, poi come dei caccia militari si precipitano quasi verticali in acqua, tuffandosi con un sordo rumore (“Puf! Puf!”) e riemergendo con l’ittico bottino nel capiente becco. Formidabile! In una baietta ci sono due leoni marini che fanno il bagno, ed anzi uno sembra impegnato in una sorta di lavacro intimo. Ecco un branco di iguana che esce dall’acqua e ci si avvicina: assomigliano incredibilmente ai ‘gremlins’ dell’omonimo film. In breve siamo quasi circondati, e dobbiamo fare attenzione a dove mettiamo i piedi, per non calpestarli. Ci dirigiamo verso una spiaggetta, dove ozia un altro nutritissimo gruppo di iguana (decine di individui), moltissimi granchioni rossi, e una buona dozzina di leoni marini: uno spettacolo. E a supervisionare la situazione, arriva un falco, che si piazza – fiero – su un ramo secco. Le foto si sprecano, siamo a pochi metri (non più di tre-quattro), ma il falco non fa una piega. La gita di questo pomeriggio resterà memorabile. Ci avviamo all’imbarco dei gommoni (‘dinghy’, come li chiamano qui), e salutiamo questa variopinta, semovente, strisciante, grugnente moltitudine animale. Gli iguana fanno una sorta di parata d’onore, guardandoci con i loro occhi severi, quando ci allontaniamo tra i flutti.
Rientrati a bordo, ci dedichiamo a tranquille e rilassanti attività: doccia, letture, scrittura del diario. Poi ci uniamo al resto del gruppo per un cocktail (del quale MG serberà il ricordo per alcune ore…) e per la cena. Bene, è ora di descrivere i nostri compagni di viaggio: ci sono innanzitutto due maestrine inglesi, zitelle, garrule e molto ‘british’. Una è alta e secca, l’altra è la copia – precisa – della moglie di Fantozzi, la mitica signora Pina. Poi c’è una coppia di irlandesi, giovani, lui è calvo ed ha sempre il raffreddore, lei non parla, beve ed ha la stessa vivacità di un budino di riso tiepido. Eccoci al gruppone americano: c’è una prima coppia, lui ingegnere con barbetta, lei cotonata gialla, accompagnati dalla vecchissima madre di 92 anni, in gran parte già incartapecorita, ma assai vivace, che ci segue spesso nelle escursioni, e sgambetta tenendo il ritmo dei più giovani. Poi c’è la seconda coppia di ‘yankees’, due enormi ciccioni con la panza piena di birra e di hamburghers. Abbiamo deciso che lui è un commerciante di auto usate, e lei è parrucchiera, ha la settima corazzata di reggiseno e fa delle terribili torte ipercaloriche a base di margarina, dai colori fosforescenti; siamo certi di non essere molto distanti dalla realtà. Poi c’è una madre (verosimilmente divorziata) con i due figlioli (13-15 anni), secchi secchi e mica tanto svegli. Per finire ci sono tre ragazzine peruviane, sui 15 anni: una è la figlia dell’armatore della barca, le altre due sue amiche. Una sembra una mucca, la figlia dell’armatore è un ermafrodito e la terza ha i labbroni siliconati e lo sguardo torbido: fumano sigari e bevono birra, parlottando fittamente tra loro.
La cena scorre via tra gradevoli facezie, e – dopo il solito briefing di Silvia – ce ne andiamo tutti a letto: domani sarà una giornata impegnativa!!! 7 agosto, giovedì Dopo aver viaggiato buona parte della notte, arriviamo all’isola di Santiago, ed ancoriamo in rada. Sveglia all’alba (ormai ci abbiamo fatto l’abitudine): robusta colazione alle 6:30, imbarco sui ‘dinghy’ alle 7:30, breve tragitto e sbarco ‘bagnato’ su una spiaggia vulcanica. Iniziamo una breve escursione che ci porta verso la costa che dà sul mare aperto. Attorno a noi natura selvaggia, lava, arbusti odorosi. Eccoci in vista della costa detta ‘dei leoni marini’: qui è presente la variante ‘con pelliccia’, che viene dai mari freddi del polo sud, e quindi è attrezzata con una pelliccia adeguatamente folta e calda. Avanziamo su un promontorio, ed ecco i padroni di casa: i leoni marini sonnecchiano all’ombra, dopo una nottata di caccia (così ci racconta Silvia). I più piccoli hanno una pelliccia con peli ancora più lunghi. I simpatici animali si lasciano avvicinare senza alcun timore, possiamo andar vicino quanto vogliamo, ma non si devono toccare. Intorno gli immancabili iguana, ed i granchi rossi, in quantità industriale. Proseguiamo lungo la spiaggia, e ci imbattiamo in un commovente quadretto famigliare: mamma leone marino e tre piccoli, di pochi giorni, che giocano felici. La madre li osserva protettiva. Più avanti, altra scenetta strappalacrime: mamma leone marino che allatta il piccolo, in realtà piuttosto cresciutello per stare ancora appiccicato alle mammelle di mammà…
Insomma, anche questa mattina l’escursione è stata super! Alcuni temerari si lasciano tentare da un bagno tra le tartarughe e le foche: noi restiamo a poltrire sulla spiaggia, prima di tornare a bordo per il riposino sul ponte prima del pranzo. Ci spostiamo lungo l’isola Santiago, ed ancoriamo in una bellissima baia: il paesaggio è diversissimo da quelli che abbiamo visto sin’ora. Sembra di essere ai caraibi: spiaggione dorate, rocce vulcaniche, faraglioni. Sbarchiamo subito dopo pranzo ed andiamo sulla spiaggiona. I soliti temerari si buttano in acqua – non prima di aver indossato gommose tute mimetiche – mentre noi ci mettiamo all’ombra di uno sperone roccioso, in compagnia di tre bei leoni marini che stanno facendo la siesta. Non manca, ovviamente, la solita copiosa colonia di iguana che ci osservano con sguardo severo, ed un buffo ed al tempo stesso elegante uccello che si riposa su una gamba sola, sotto lo sguardo di un granchione scarlatto.
Facciamo una passeggiata sulla spiaggia, ed ammiriamo lo splendido paesaggio. Dopo una mezz’oretta i nuotatori tornano a riva, e tutti insieme ci apprestiamo ad un’escursione verso un’altra spiaggia al di là di un’alta duna. Avanziamo lentamente sulla costa della duna, il vento è teso, la sabbia arancione è soffice e si sprofonda un po’. Arriviamo in cima alla duna dopo pochi minuti, e lo spettacolo è grandioso: alla nostra destra la baia, con gli yacht ancorati in rada, la spiaggia ed i faraglioni; a sinistra, un’altra enorme spiaggia, deserta, di un bel colore arancione, selvaggia, incorniciata da rocce laviche, prospiciente il mare aperto, con cavalloni spumeggianti che si frangono sulla battigia. Scendiamo su questa seconda spiaggiona, chiedendoci silenziosamente come mai non ci sono turisti da questa parte, e nessuno fa il bagno… La risposta – altrettanto silenziosa – ci viene data dalle belle pinne di pescecane che emergono, ben evidenti, pochissimi metri al largo. Contiamo non meno di 7 od 8 esemplari, di un bel colore grigio scuro con la punta della pinna bianca. Sono lunghi un paio di metri, e pattugliano la zona a pochissimi passi dal bagnasciuga; nonostante le onde, l’acqua è così limpida che possiamo osservarli chiaramente, ed anche tentare qualche foto. Che spettacolo !! Torniamo sui nostri passi, cercando di imprimerci nella memoria il bellissimo paesaggio che ci circonda: se fino ad oggi gli animali sono stati l’attrazione principale, qui a Santiago il paesaggio misto caraibico-vulcanico-tropicale-primordiale è al massimo. Ritorniamo alla prima spiaggia e rientriamo per una breve sosta sul Beluga. Dopo poco, però, siamo di nuovo in pista per un altro momento memorabile: la salita ai 114 metri del vulcano che domina la baia. I “dinghy” ci lasciano all’inizio di una scalinata (in buona parte realizzata in legno, per evitare di erodere e rovinare la preziosa e relativamente giovane roccia vulcanica), ed iniziamo a salire. Silvia ci illustra le straordinarie caratteristiche geologiche e botaniche del posto: i vulcanetti che circondano il cono principale, le cosiddette ‘piante pioniere’, che per prime iniziano a colonizzare il territorio, le ‘gallerie di lava’, nelle quali la lava liquida si ingrotta, e procede per centinaia di metri prima di sbucare fuori più in basso, ancora fluida e rovente… Il paesaggio, ancora una volta, ci lascia a bocca aperta. Arriviamo in cima al vulcano, e sostiamo per parecchi minuti – nel vento teso e freddo – ad ammirare in silenzio lo spettacolo che ci circonda.
Poi ridiscendiamo alla baia, da dove i ‘dinghy’ ci riportano a bordo, È stata una lunga giornata, certo tra le più memorabili di questo viaggio alle Galapagos, che ormai volge al termine: domani si rientra a Quito. Prima di cena, l’equipaggio – vestito per l’occasione con l’uniforme da parata – ci offre un simpatico e famigliare rinfresco. Dopo cena ci dedichiamo ad un po’ di lettura e di scrittura del diario, e poi a nanna.
8 agosto, venerdì Sveglia ancor prima dell’alba: per sfruttare al massimo il nostro viaggio alle Galapagos, Silvia ci propone un’escursione in ‘dinghy’ alle … 6 in punto, prima della colazione e del trasferimento in aeroporto per il volo di ritorno. Naturalmente accettiamo di buon grado, e così eccoci a bordo dei gommoni, ad esplorare una pacifica laguna circondata da mangrovie. Alcuni pellicani perlustrano l’area, con il loro straordinario volo planato, a pochissimi centimetri dall’acqua. Poi con pochi colpi d’ala salgono in alto, e si gettano giù a capofitto a pigliare i pesci. Poco più avanti ecco alcuni elegantissimi aironi e delle sule con le zampe azzurre. Non mancano naturalmente le tartarughe, di dimensioni ragguardevoli. La nostra silenziosa escursione prosegue in una zona più interna della laguna. Ecco un gruppo di razze, che si muovono in branco a pochi centimetri dalla superficie. Hanno la livrea marroncina, con puntini bianchi, e si muovono dando piccoli colpetti con la punta delle loro, diciamo così, ali. Poco distante dalle razze, vediamo alcuni begli esemplari di squali, che passano a pochi centimetri dal nostro ‘dinghy’. Sono di colore grigio, più chiari di quelli di ieri a Santiago.
Beh, come ultima escursione non potevamo chiedere di meglio: abbiamo fatto il pieno di immagini e sensazioni, nelle quali inciamperemo per anni. Attracchiamo con il Beluga a pochi chilometri dall’aeroporto, che raggiungiamo a bordo di un bus. Poco distante dalla fermata dell’autobus, sulla strada, tra distributori di benzina e traffico di camionette, si aggira tranquilla una bella foca. Mentre Silvia si fa carico delle formalità di imbarco, tentiamo una telefonata a Marco da uno sgangherato telefono pubblico: funziona! Solo che il figliolo, svegliato nel bel mezzo di un sonnellino pomeridiano, carbùra lentamente e risponde a monosillabi. Abbiamo maggior fortuna telefonando a Nonna Papera, che ci relaziona sulla situazione: il giovanotto se la passa bene in Germania, ma lo fanno studiare parecchio; il caldo, in Italia, continua ad impazzare. Bene, anche questa è fatta: ci imbarchiamo sul 727 della TACA, e voliamo a Quito.
Quivi giunti, veniamo accolti da Paùl e da sua sorella, che ci accompagnano in hotel. Questa volta abbiamo più tempo per goderci il Cafè Cultura, il nostro hotel a Quito: è una bianca costruzione di un centinaio di anni nel bel mezzo della città vecchia ed è caratterizzato dal fatto che tutte le stanze e le parti comuni sono dipinte con scene di varia natura (figure, soggetti mitologici, scene naturali. Etc.). C’è una sala di soggiorno con biblioteca, caminetto scoppiettante, libri, giochi di società, divani in pelle grassa; illuminazione soffusa con abbondanza di candele, atmosfera intima, rilassata ed un po’ misteriosa. Facendo due passi in giardino ci si imbatte in una bella coppia di pavoni, lui con una regale coda. Più tardi andando in camera incontriamo il pavone appollaiato in alto su una trave con la lunga coda che sfiora quasi terra. Aggirata la coda del pavone, lasciamo le nostre cose in camera e, constatate le penose condizioni delle Timberland di MG, distrutte dalle lunghe camminate sulla lava tagliente, decidiamo di procedere all’acquisto di un nuovo paio di scarpe ed andiamo in taxi in un bel centro commerciale dopo comperiamo per pochi dollari Timberland nuove fiammanti. Il centro non ha nulla da invidiare ai nostri più moderni shopping mall, e trascorriamo più di un’ora curiosando tra i negozi e nel fornito supermercato. Poi torniamo al Cafè Cultura e, sprofondati nei divani di fronte al caminetto, scriviamo un fax per Marco. Gli arriverà mai? Per cena abbiamo prenotato il nostro tavolo al rinomato ristorante dell’albergo e ceniamo con insalate “nouvelle cuisine”, pesce al limone e machado di carne, accompagnati da vinello cileno. Poi, dopo una breve passeggiata in giardino, ci ritiriamo in camera per la notte.
9 agosto, sabato Paùl ci raggiunge, come convenuto, alle 8, e ci avviamo verso nord in direzione di Otavalo, dove visiteremo il famoso mercato del sabato, giudicato il più interessante e variopinto mercato andino del sud america. Lasciata la città, la strada scende con ampi tornanti verso una zona di vallate verdeggianti e ben coltivate. Ci fermiamo nel paesino di Cochambe, dove Paùl ci porta per stradine fino ad arrivare ad una porticina con uno sgangherato cartello: “Forno per biscotti – A conduzione famigliare”. Entriamo in un locale dominato da un forno in mattoni che occupa buona parte della stanza e dove lavorano con perfetta sincronia e maestria tutti i membri della famiglia. Al centro di un grande tavolo c’è un’enorme montagna di pasta gialla e burrosa. Il capo famiglia ne prende un pezzo, ne fa una striscia, la schiaccia col matterello, la riavvolge su sé stessa per darle la forma del biscotto, con incredibile velocità la seziona con un coltello e spedisce pezzettoni al volo agli altri membri del gruppo seduti intorno al tavolo. Questi hanno il compito di dare la forma finale al biscotto e di riempire in modo ordinato le teglie che verranno presto messe in forno. L’operazione si svolge con incredibile velocità e sincronismo perfetto. In un angolo della stanza c’è un’altra enorme quantità di pasta gialla che presto verrà lavorata. Il capo famiglia, colui che dà il ritmo alla suggestiva catena di montaggio, ci racconta (mentre sgranocchiamo i biscotti appena sfornati, fragranti di burro) di essere un sacerdote e di dividere il suo tempo tra le sue due parrocchie e questa singolare impresa familiare. Comperiamo per un dollaro un pacchetto di biscotti e proseguiamo nel nostro viaggio. Dopo pochi chilometri raggiungiamo un paio di picchetti sulla strada che indicano il passaggio dell’Equatore; ci fermiamo per la foto di rito accanto ad un mappamondo di cemento ed a cavallo della fatidica linea tracciata per terra. Eccoci finalmente ad Otavalo; parcheggiamo l’auto e ci inoltriamo tra le multicolori bancarelle del mercato. Dapprima si impone un giro di orientamento: ecco le bancarelle dell’artigianato in ceramica e legno, quelle con le sciarpe in (probabilmente finto) alpaca, i ristorantini all’aperto, i venditori di pullover, quelli di verdura e frutta…
I ristorantini sono particolarmente scenografici, e fanno venire una copiosa acquolina in bocca: come resistere a quell’enorme porchetta arrosto alla quale la cuoca india (nel suo tipico costume) strappa con le mani pezzettoni di ciccia, li mescola con un po’ di grassetto, li inzuppa nella unta e sapida brodaglia e mette il tutto in pratici sacchetti di plastica “take away”? E che dire di quei pescioni sfrigolanti nell’olio bollente del banchetto poco distante, croccanti al punto giusto? Altri venditori che ci sono piaciuti molto sono gli indios che espongono vari tipi di legumi multicolori, in particolare piselli e fagioli sgranati, mais e farine misteriose. Completato il giro di orientamento procediamo senza indugio agli acquisti. Urge innanzitutto dotarci di maglioni di lana – che strategicamente non abbiamo portato dall’Italia – in vista dei 4800 m. Ed oltre che ci aspettano sul vulcano Cotopaxi. Luc trova facilmente un golf in alpaca grigia della sua misura. MG fatica non poco, mettendo in crisi più di un venditore, poverino, ma finalmente trova anche lei il maglione che le aggrada strappando, con trattativa all’ultimo sangue, il prezzo di 10 dollari. Ci intrigano anche alcune ciotoline di provenienza amazzonica con disegni tribali. I due venditori, marito e moglie, ci fanno grandi sorrisi nonostante ampi varchi nella dentatura. Comperiamo 5 ciotole per pochi dollari. In un altro banchetto ci piacciono delle singolari pitture realizzate con stile moderno e ne comperiamo due per le quali troveremo certo, in qualche modo, spazio sulle pareti di casa. Luc non sa resistere ad una cintura in pelle grezza con intarsi andini, ed MG pareggia il conto con due quadretti realizzati con foglie e petali di rosa.
È ora di tornare sui nostri passi non prima, però, di aver comperato, dopo asperrime negoziazioni, una zucca finemente decorata con scene di vita andina. Soddisfatti per gli acquisti e per le coloratissime scene del mercato, lasciamo Otavalo ed in pochi minuti giungiamo al nostro albergo Hacienda Pinsaqui. Si tratta di una elegantissima ed antica magione tra le più importanti dell’Ecuador, di cui ha visto oltre 300 anni di storia. Si susseguono salottini con camini, foto antiche alle pareti, trofei di cavallo e di caccia, divani di antiquariato, antiche carte geografiche che narrano la storia del paese. Il tutto è circondato da un ampio giardino con fiori e piante secolari, amache per il riposo degli ospiti, maneggio per i cavalli. Ci viene assegnata la suite n. 7: c’è una vasta anticamera con scrittoio d’epoca e due divani, poi la camera, enorme, con letto a baldacchino, tappeti di lana per terra, armadi ed un bel camino. Le 5 porte finestre danno direttamente sul giardino padronale. La sala da bagno, poi, è enorme (sarà circa 4 volte il nostro bagno di Milano …) ed attrezzata con sanitari d’epoca tra i quali si segnala una enorme vasca di ghisa su zampone di leone. Prima di ritirarci in camera per un meritato riposino, pranziamo nell’elegante ristorante. La zuppa tipica otavalegna si chiama locre ed è a base di patate ed avocado: gustosissima. Proseguiamo con piattoni di carne tinta (Luc) e churrasco (MG) in porzioni abbondantissime. Dopo la siesta salutiamo il gruppo di lama che abita in giardino e facciamo un’escursione a piedi fuori dall’hacienda verso il vicino villaggio. La gente ci guarda incuriosita e risponde con un timido sorriso ai nostri saluti. Le donne, nel caratteristico costume, preparano cene apparentemente gustose sui bracieri posti fuori dalla porta di casa. I bambini, paffuti, razzolano tra galline e maiali. Gli uomini con la caratteristica treccia nera, chiacchierano in quechua (lingua india) tra loro. Arriviamo fino a mezza costa e ci fermiamo ad ammirare il paesaggio della valle sulla quale scende l’imbrunire. Rientriamo, quindi, in hacienda e ci godiamo un bel bagno bollente nell’enorme vascona. Poi ci uniamo agli altri ospiti per un cocktail offerto dal proprietario dell’hacienda in una specie di taverna. Qui, alla luce di uno scoppiettante camino, un gruppo di suonatori si esibisce nelle tipiche e coinvolgenti musiche andine, mentre ci vengono serviti salatini ed uno strano ma gustoso infuso leggermente alcolico (il ‘cañelazo’). Poi giunge una bionda ed elegante signora, la moglie del padrone, che invita gli ospiti a danzare al ritmo dell’orchestrina. MG, dopo il terzo boccale di infuso alcolico, non se lo fa ripetere due volte e si lancia nelle danze, presto imitata da altri turisti. L’atmosfera è simpatica e gioviale. Dopo una mezz’oretta passiamo al ristorante per una cena leggera e poi ci rilassiamo scrivendo un po’ di diario in uno dei salottini sotto un enorme lampadario di vetro bianco e rosso. Poi scende definitivamente la notte.
10 agosto, domenica La colazione viene servita in un’ampia sala, in puro elegante stile coloniale dominata da un enorme camino dove ardono allegri alcuni ciocchi. Raccolte le nostre cose ci dirigiamo verso la laguna di Cotacachi: arriviamo in macchina al bordo dell’omonimo vulcano, l’interno del quale è occupato da un grande lago con due isole al centro. Il cielo è terso, il sole picchia ed il lago assume un colore blu cobalto che non ci stanchiamo di ammirare. Un ardito sentierino sul bordo aguzzo del cratere consente di circumnavigarlo tutto, ma l’impresa, indubbiamente tosta, ci impegnerebbe per ben oltre 5 ore. Concordiamo, quindi, con Paùl di limitare la nostra escursione a 2-3 ore di camminata, sino a giungere ad un avamposto dove spesso si fanno vedere i condor. Il trekking inizia ad un’altitudine di circa 2.800 metri e ci inerpichiamo ben presto in arditi passaggi che mettono alla frusta le nostre vecchie pompe, poco avvezze a queste altitudini ed a questi insani esercizi. Comunque proseguiamo, ancorché sbuffanti. Giunti poco distanti dalla meta si alza un vento impetuoso e gelido; ormai abbiamo superato i 3.200 metri, ed il sentiero si sviluppa lungo passaggi anche molto esposti: i nostri scarponi imprimono la loro incerta impronta a pochi centimetri dal baratro che termina solo, molte e molte centinaia di metri più in basso, nella gelida laguna. Ma ormai siamo in ballo e non ci resta che proseguire. La faticosa passeggiata viene spesso interrotta per goderci lo straordinario paesaggio e per riprendere fiato. Giunti in cima ci guardiamo intorno alla ricerca di condor, dei quali però non c’è traccia nonostante l’invitante carcassa di una vecchia mucca, che dovrebbe convincerli a visitare la zona. Poco male, il fantastico paesaggio ci ripaga ampiamente della fatica. La discesa è certo meno defatigante, ma non meno impegnativa, a causa del vento che è ulteriormente aumentato. Tornati alla macchina ci suddividiamo alcune gallette alla cipolla e riprendiamo fiato prima di dirigerci verso un poco distante paesino, noto per la lavorazione del cuoio. Qui Luc acquista per pochi dollari una bella e morbida borsa plurifunzione che lo accompagnerà nei viaggi di lavoro. Poi visitiamo, nel vicino pueblo di Pegaluche un laboratorio di tessitura dove gli indios, utilizzando antichi lignei telai, tessono pannelli con scene di vita andina. Lo stile è genuino e ne comperiamo per ricordo uno, raffigurante una famigliola india. La visita alla regione di Otavalo è completata ed in un paio di orette rientriamo a Quito.
Il Café Cultura ci accoglie come sempre; questa volta la nostra camera è la numero 8 al primo piano. Una doccia disimpolverante si impone, così come un riposino. All’ora di cena facciamo un giro dei dintorni per scegliere un ristorante; è domenica ed è quasi tutto chiuso, ma in un quartierino poco distante dall’hotel, non mancano ristoranti, caffè, bar per aperitivi, etc. Seguendo le indicazioni della nostra guida, decidiamo per una cena robusta a base di carne in un ristorante brasiliano, e diamo fondo senza soverchi problemi alla bellezza di 8 diverse portate di carni varie alla brace, abbondantemente innaffiate da coca e birra. Poi rientriamo in hotel per qualche lettura davanti al caminetto.
11 agosto, lunedì Oggi si parte per la forte avventura amazzonica. Decidiamo di viaggiare super leggeri, e facciamo una severa cernita delle cose da portare con noi, che dovranno trovare spazio nei nostri due mini zainetti. Il resto ci attenderà qui a Quito. Dopo una buona colazione, ancorché infastidita dalla vociante presenza di un gruppone di turisti italiani di bassa tacca, veniamo accompagnati da Paùl in aeroporto dove ci imbarchiamo sul volo che in meno di mezz’ora ci porterà a Coca, avamposto nella foresta vergine ecuadoregna. Qui ci imbarchiamo su una veloce lancia a motore, assieme ad altri turisti come noi diretti al Sacha Lodge. La lancia percorre le acque color cioccolato chiaro del Napo river, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni. Il fiume è gonfio d’acqua e, nei tratti più larghi, la distanza tra le rive è nell’ordine del chilometro. La foresta pluviale tutt’intorno è straordinariamente rigogliosa e la varietà di alberi è incredibile; l’intrico della vegetazione, inestricabile. Sulla nostra lancia ci sono anche 3 fanatici ornitologi che non smettono di scrutare con piglio super professionale la foresta, con cannocchiali iper tecnologici ed attrezzature molto sofisticate, contenute in speciali ed un po’ inquietanti fondine. Da oggi saranno soprannominati ‘gli uomini rudi’, e faranno vita a sé, senza mescolarsi a noi dilettanti, che ci limitiamo ad osservazioni più alla buona con i nostri binocoli. Dopo 2 ore abbondanti di navigazione arriviamo all’attracco del Sacha Lodge e lasciamo la lancia per inoltrarci in un trekking nella foresta di una buona mezz’ora. Attorno a noi la vegetazione è rigogliosissima, l’odore di selvaggio è penetrante, le presenze animali copiose anche se non facilmente visibili. La nostra guida è molto abile nell’individuare, sul ramo di un grande albero ricco di liane, due scimmiette nane accovacciate, che scrutiamo con i binocoli. Al termine della camminata ci imbarchiamo nuovamente su piccole canoe a fondo piatto e dal precario equilibrio, con le quali ci addentriamo lungo un canale di acqua scura color cioccolato. Attorno a noi la foresta brulica di presenze e di rumori. Dopo alcune centinaia di metri il canale si apre in una ampissima laguna sulla quale si affacciano le costruzioni in legno e frasche del Sacha Lodge. Scendiamo dalla nostra traballante canoa e riceviamo il benvenuto dello staff del Lodge nell’edificio centrale dalla bella architettura pluripiano tutta in legno. Scopriamo così che la nostra guida naturalista per i prossimi giorni sarà Woody Allen. No, davvero, la somiglianza tra il giovane naturalista tedesco di nome Markus ed il famoso regista americano è semplicemente impressionante. Le stesse incertezze, lo stesso modo di fare e di parlare… un tipo singolare, ed anche divertente. Prima di cena veniamo dotati di robusti stivali in gomma, che risulteranno indispensabili per affrontare le fangose passeggiate che ci aspettano. Facciamo anche una puntatina nel nostro bungalow: la stanza è rustica, ma spaziosa, il bagno ha tutto quello che serve, compresa la doccia con acqua calda e la splendida veranda è aperta sulla brulicante foresta amazzonica ed è dotata di funzionale amaca biposto.
Ceniamo con Markus-Woody e con gli altri membri del gruppo con i quali condivideremo questa avventura: una simpatica signora australiana (Cathy), una americana (Sally) con figlio quindicenne e ciula (Scott) ed un’altra americana single che lavora a National Geographic (Elisabeth). La cena è eccellente. Dopo il pasto ci dedichiamo alla scrittura di qualche pagina di diario. Poi a letto presto, domani la sveglia sarà alle 5.30! 12 agosto, martedì Sveglia che è ancora buio. Dopo la colazione ci mettiamo in marcia nella foresta; alla testa della nostra piccola spedizione, oltre a Markus-Woody, c’è una guida locale, l’indio Pancho. Ci inoltriamo nella foresta: indispensabili gli stivali poiché le recenti abbondanti piogge hanno reso impegnativi alcuni passaggi, e spesso affondiamo nel paciugo fin oltre il polpaccio. Che gusto!!! Attorno a noi la foresta è immersa nella nebbia mattutina, ma le abbondanti presenze animali si fanno sentire con squittii, fischi, gracidii, scricchiolii, ululati, brontolii ed altri misteriosi e selvaggi rumori.
I nostri sensi sono alla massima allerta; ogni tanto Pancho, che guida la colonna, si ferma a scrutare l’ambiente e ci indica dove puntare i nostri binocoli: ora si tratta di qualche piccola scimmia dalla coda prensile, più oltre un tucano, poi insetti ancora mezzo addormentati. Dopo una mezz’ora di camminata, istruttiva e ricca di atmosfera, arriviamo ai piedi di una torre metallica alta una quarantina di metri, fino a sovrastare tutti gli alberi circostanti. Saliamo in cima ed iniziamo a scrutare la zona: la nebbia è ancora fitta, tanto che possiamo vedere solo gli alberi più vicini a noi. Non ci resta che attendere pazientemente; ed infatti, dopo una mezz’oretta, l’aria comincia a farsi limpida e possiamo scrutare il mondo che ci circonda. Con i binocoli e grazie alle precise indicazioni delle nostre guide, riusciamo così ad inquadrare uccelli dalle dimensioni, colori e fattezze più disparate. Le nostre conoscenze in campo ornitologico non ci consentono di scendere in eccessivi dettagli, ma gli esemplari che vediamo hanno – oltre a nomi scientifici assai altisonanti, che incutono da soli profondo rispetto – piumaggi dai colori sgargianti che vanno dal giallo, al verde, al blu, al rosso e becchi di tutti i colori e dimensioni. Splendidi in particolar modo i tucani, col grosso rostro giallo. Terminate le nostre osservazioni dall’alto ridiscendiamo a terra e ci dirigiamo verso il lodge. Ogni tanto Pancho ci descrive le proprietà mediche e le caratteristiche delle piante che incrociamo, e le modalità d’uso, spesso assai originali, da parte della sua tribù. Markus traduce le spiegazioni di Pancho che vengono fatte in spagnolo, ma a noi piace molto di più la versione originale fatta da Pancho, colorita e semplice al tempo stesso. Rientriamo al lodge verso le 11 e ci dedichiamo ad un po’ di ozio sull’amaca fino all’ora di pranzo. Dopo il riposino pomeridiano partiamo per l’escursione del pomeriggio nella foresta alle spalle del lodge, ricca di altre interessanti osservazioni naturalistiche. Vediamo ad esempio delle particolari formiche tagliatrici: ciascuna di loro, usando le mandibole, taglia un pezzotto di foglia, grande 10 volte il suo corpo, da un certo albero. Poi se lo carica in groppa e si mette in viaggio verso il formicaio. Si vede così una fila ininterrotta di pezzetti di foglia semoventi nella foresta. Una volta portati nel formicaio, i pezzi di foglia vengono masticati dalle formiche masticatrici e, ridotti in poltiglia, costituiscono l’humus sul quale viene fatto crescere un fungo speciale del quale le formiche finalmente si nutrono. Vedendo gli animaletti all’opera non ci si stupisce del fatto che possano spolpare un albero in pochi giorni. Per il rientro, verso sera, ci imbarchiamo sulle canoe ed attraversiamo la splendida laguna nell’ora magica del tramonto. Ma le avventure non sono finite: Markus-Woody ci propone, per il dopo cena, un’escursione notturna alla luce delle nostre torce e tutti approviamo entuasiasticamente. Eccoci, quindi, in un’atmosfera resa ancora più magica dalla luna piena e da un cielo tersissimo, a bordo delle canoe. L’acqua della laguna è uno specchio, sul quale avanziamo silenziosi. Giunti all’approdo dall’altra parte, ci addentriamo nella foresta alla luce delle torce, sotto la guida di Markus-Woody e di Pancho. Vediamo parecchi insetti, ragni, anche di dimensioni ragguardevoli, una specie di cavalletta che sta uscendo dal suo bozzolo, rane, coleotteri assortiti. Poi rientriamo al lodge, godendoci un’altra indimenticabile traversata della laguna alla luce della luna piena. Finalmente a letto.
13 agosto, mercoledì Svegli alle 5, colazione alle 5,30, in canoa alle 6. Attraversiamo la laguna ed un tratto di foresta a piedi per giungere all’imbarco delle lance a motore sul fiume Napo. Risaliamo per un buon tratto il fiume ed approdiamo nei pressi di un osservatorio dal quale, se gli dei ci saranno propizi, dovremmo vedere una copiosa colonia di pappagalli. I pennuti animali, infatti, con frequenza imprevedibile e solo quando si verificano precise condizioni atmosferiche (deve esserci il sole, ed il giorno prima non deve aver piovuto) si presentano a frotte in questa valletta. Aspettiamo fiduciosi ed in religioso silenzio. Ecco che finalmente compare la pattuglia di avanscoperta: una manciata di pappagalli dal piumaggio verde smeraldo si apposta su una sorta di scarpata in argilla. Poco dopo se ne aggiungono altri ed in breve la popolazione dei garruli animaletti raggiunge le centinaia di unità. Le bestiole mangiano l’argilla, e gli esperti ancora si chiedono il perché: probabilmente questa terra facilita loro la digestione, ma c’è da chiedersi perché lo facciano solo i pappagalli di questa colonia. Alcuni dei volatili sono più grandi degli altri ed hanno il capo blu cobalto. Improvvisamente uno degli animali lancia uno stridulo comando e tutti, all’unisono, si alzano in volo e fanno una sorta di giro panoramico della valletta, come in pattuglia, per tornare poi tutti alla parete di argilla e proseguire la scorpacciata di terra. Lo spettacolo va avanti per un’oretta e ce lo godiamo ammirati con i binocoli. Finalmente ed inspiegabilmente, all’ennesimo giro di pattuglia della valletta, i pappagalli non fanno più ritorno alla parete di argilla e si installano garruli sugli alberi. Lo straordinario spettacolo si è compiuto, ancora una volta, come chissà da quante migliaia di anni. Riprendiamo la lancia a motore e ci facciamo portare per un po’, silenziosamente, dalla corrente del fiume, osservandone le rive ricche di vegetazione. Vediamo degli aironi, dei tucani ed altri uccelli. Rientriamo al lodge per un riposino prima di pranzo. Al nostro gruppo si è unita oggi una signora dall’aspetto bizzarro: è un incrocio tra l’Incredibile Hulk ed una montagna, ha delle mani grandi come badili, piedi del 54, ed è alta un paio di metri e peserà qualche centinaio di chili. È inglese, fa la scrittrice e parla come se avesse un sasso in bocca. Dopo la foresta, la nostra nuova gigantesca amica ha in programma di arrivare fino in Argentina a cavallo, e ci viene da rivolgere un pensiero di compatimento verso quei poveri animali. Verso le 15,30 siamo di nuovo in pista: prima facciamo una puntata nella foresta proprio alle spalle del lodge dove vediamo alcune micro scimmiette sugli alberi. Poi ci inoltriamo nella foresta per una gita ai margini della proprietà del lodge. Il caldo umido oggi si fa sentire parecchio, ma proseguiamo con lena nell’esplorazione del pomeriggio. Ad un certo punto scende improvvisa la notte ed il ritorno verso casa si fa più complesso ed avventuroso alla luce delle torce, mentre attorno a noi le voci della natura si fanno sentire sempre più . Arriviamo al lodge col buio fitto, e concludiamo la giornata con una gustosa cena.
14 agosto, giovedì Ultima giornata completa nella foresta. Come d’abitudine sveglia alle 5 e, dopo colazione, partenza per una affascinante escursione in canoa. L’aria è tersa, senza foschia, e la laguna davanti a noi è splendida. Ci inoltriamo in un angusto rio nella foresta e, nel silenzio più totale, interrotto soltanto dai suoni della natura, le nostre canoe scivolano tra gli alberi e le liane. Dopo qualche minuto un incontro avventuroso: su un ramo penzolante pochi centimetri sopra le nostre teste c’è un simpatico serpentello verde, non più grosso di un dito indice, che ci guarda incuriosito facendo sibilare la sua linguetta biforcuta. Dopo le foto d’obbligo proseguiamo nella nostra escursione, lasciamo le canoe e ci avventuriamo a piedi nella foresta per raggiungere in breve tempo un albero maestoso, un patriarca alto una cinquantina di metri, attorno al quale è stata costruita una torre in legno, con piattaforma, che sarà il nostro punto di osservazione per la mattinata. Ci arrampichiamo in cima alla torre ed iniziamo una paziente attività di osservazione degli alberi e del cielo in attesa di qualche avvistamento. Pancho e Markus sono di grande aiuto e, per consentirci una visione ravvicinata, puntano rapidamente il loro telescopio spaziale sugli uccelli più colorati e rari o su una scimmietta addormentata in cima ad un albero a qualche decina di metri da noi. La scimmietta starà lì tutta la mattina, e noi l’abbiamo chiamata ‘George’. L’avvistamento più notevole è quello di due uccelli dall’incredibile colore azzurro-metallizzato-fluorescente, appollaiati ad un paio di alberi dal nostro.
Terminate le osservazioni ornitologiche, e dopo uno spuntino a base di biscotti e acqua portati quassù da Pancho, ridiscendiamo lentamente a terra. Qui Markus ci propone un’avventura elettrizzante, della quale ci dice poco, per il momento. Ci inoltriamo quindi, fiduciosi, lungo un sentierino nella selva e facciamo, per via, un’interessante osservazione di un enorme formicaio, nel quale convivono le straordinarie formiche mangiatrici di foglie, altre formicuzze specializzate in ingegneria civile (ciascuna di loro sta contribuendo alla costruzione di una nuova ala del formicaio portando fuori un grumo di terra ed ammonticchiandolo ordinatamente fuori dalla porta di casa) ed un singolare nido di api che vanno e vengono, laboriose, dall’ingresso del loro nido scavato sotto terra. Proseguiamo ed arriviamo in prossimità di una torre di legno che si innalza per una quindicina di metri sulla laguna sottostante. Oltre il braccio d’acqua limacciosa, ecco un’altra torre, anche lei in legno un po’ sgangherato, collegata alla prima da una fune. Markus e Pancho ci spiegano che per arrivare all’altra torre, superando la lagunetta, dovremo salire su una sorta di seggiolone collegato con una carrucola alla fune, e lasciarci andare nel vuoto. La pendenza della fune farà il resto e – a Dio piacendo – arriveremo dall’altra parte superando il baratro. In fondo anche Indiana Jones l’ha fatto, in uno dei suoi films… Markus è il primo a lanciarsi, anche perché avrà il compito di attutire il nostro atterraggio sulla seconda piattaforma, che può essere piuttosto impegnativo. Lo vediamo partire, impavido, acquistare velocità sul suo bolide ligneo, ed arrivare sano e salvo dall’altra parte. Il carretto viene recuperato da Pancho tramite una fune, ed ora tocca a noi. Saliamo ad uno ad uno sul seggiolone, e ci lanciamo, sprezzanti del pericolo ed ignari del buon senso, nel vuoto. L’artigianale arnese prende velocità in pochi attimi e tosto siamo a sorvolare la mefitica laguna (certo popolata da dentuti pirañas, se non da famelici caimani…) prima di approssimarci – in piena velocità – all’impatto con l’altra piattaforma. E qui viene il bello, perché – arrivato a fondo corsa – il carrello si ferma bruscamente e noi, per inerzia, rischiamo il doppio salto mortale con avvitamento, se la presa di Markus non è abbastanza ferma e maschia. Come Dio vuole passiamo tutti dall’altra parte e, diciamola tutta, ci divertiamo un sacco, tanto che alcuni di noi si fanno ritrascinare con la corda sulla prima torre per fare un altro giro. Appagati da questo singolarissimo diversivo, ci rimettiamo in viaggio e in breve siamo di nuovo all’imbarco delle canoe.
Il viaggio di ritorno sul rio è arricchito da interessanti osservazioni naturalistiche tra le quali la più speciale è senz’altro quella di un minuscolo colibrì che incontriamo mentre volteggia attorno al suo nido a non più di due metri dal pelo dell’acqua e dalla nostra canoa. Il volo dell’uccelletto ha caratteristiche singolarissime: si muove a gran velocità, con un rumore come di calabrone, poi si ferma improvvisamente, restando immobile lì a mezz’aria grazie alla particolare conformazione delle ali che vengono mantenute in movimento continuo e velocissimo. Il nido non è più grande di un bicchierino di liquore e l’uccellino non peserà certo più di pochi grammi compreso il lungo becco utilizzato per succhiare il nettare dai fiori.
Proseguiamo nella nostra romantica crociera sul rio e, prima di sbucare in laguna, udiamo un picchiettìo particolare: ecco, su un tronco a pochi metri da noi, un picchio di dimensioni ragguardevoli, con piumaggio marrone, coda gialla e petto e cresta rossa, intento a picchiettare ritmicamente la robusta corteccia di un albero. La gita giunge al termine e, rientrati al lodge, pranziamo gustosamente e ci concediamo qualche attimo di riposo prima delle attività pomeridiane. Markus ci accompagna innanzitutto alla visita della butterfly farm del lodge, dove vengono allevate diverse specie di farfalle tropicali che vengono anche spedite a zoo e centri di ricerca in tutto il mondo. Entriamo in una sorta di serra dove svolazzano decine e decine di esemplari, alcuni di dimensioni assai ragguardevoli e tutti con colori e disegni assolutamente spettacolari. Poi rientriamo al lodge e decidiamo all’unanimità di concludere il pomeriggio nell’ozio più totale. Ci trasferiamo così sulla terrazza di legno fronteggiante la laguna e ci dedichiamo ad attività varie: chi pesca pirañas, chi nuota (tra i pirañas), chi legge, chi scrive il diario, chi beve bottiglioni di birra. I pirañas sono ben più furbi di noi e scaltramente si pappano le esce senza abboccare all’amo. Solo l’esperto Pancho, dopo pazienti tentativi, riesce finalmente ad acchiapparne uno. Le dimensioni non sono enormi, sarà lungo una ventina di centimetri, ma le fauci sono fameliche ed i dentini taglientissimi. Se gli si avvicina qualcosa alla bocca, l’animale l’azzanna e la strige fortissimamente. Dopo aver ributtato il pesciolino in acqua, ci prepariamo per la cena che questa sera – l’ultima – viene servita in terrazzo sulla laguna e sarà a base di carne alla brace. Come solito il cibo è ottimo e la carne particolarmente tenera e sapida. Anche i dolci sono di prima qualità. Verso la fine della cena arriva finalmente l’atteso temporale amazzonico: acqua a catinelle, a secchiate, a scroscio, con goccioloni grossi e tiepidi. Ci rifugiamo in camera e restiamo per un po’ sulla veranda a goderci il temporale fragoroso sulla foresta. Poi ci dedichiamo a tranquille letture; domani potremo poltrire un po’ più a lungo: la sveglia non è prevista prima delle 6.
15 agosto, venerdì Ha piovuto a dirotto per tutta la notte, ma noi eravamo al sicuro nella nostra capanna col tetto di frasche (che non hanno lasciato passare una goccia); poi saggiamente, poco prima dell’alba, gli elementi si sono placati ed il cielo si è aperto in qualche sprazzo di sereno. Potremo così affrontare il viaggio di ritorno senza alcun disagio.
Fatti velocemente i bagagli, saliamo sulle canoe a remi per il primo tratto sulla laguna. Poi affrontiamo il sentiero nella foresta, di buon passo, per una quarantina di minuti, e finalmente – giunti sulla riva del Rio Napo – ci imbarchiamo sulle veloci lance a motore, non prima di una foto di gruppo con Markus e Pancho. La corsa lungo il fiume dura circa due ore e mezzo ed arriviamo all’approdo di Coca verso le 11. Rifocillatici al campo base del Sacha Lodge di Coca, proseguiamo per l’aeroporto. Riusciamo a chiamare Marco da un telefono sgangherato in mezzo alla via e parliamo bene ed a lungo. Poi ci imbarchiamo su un Foker 28 della Icaro Airlines che, in una mezz’oretta di volo, ci riporta a Quito. Qui veniamo accolti da Paùl che ci presenta Roberto che sarà la nostra guida durante l’escursione a sud della prossima settimana. Per ora ci concediamo un po’ di relax: torniamo al Café Cultura (questa volta la nostra camera è la numero 21, affrescata d’azzurro, nel sottotetto) e, dopo la doccia, facciamo un giro nei dintorni. Ci fermiamo in un Internet Café dove, per pochi centesimi, leggiamo le Emails che ci ha mandato nei giorni scorsi Marco e scriviamo a lui ed a Nonna Papera. Poi visitiamo una libreria ed un bel negozio di artigianato indio. Qui non riusciamo assolutamente a non comperare una bellissima zucca a forma di cetriolo, disegnata dagli abili indios amazzonici con le figure degli animali della giungla; il costo è sostenuto (149 dollari), ma la qualità è al top e tanto ci basta. Poi rientriamo al Café Cultura e ci dedichiamo alla scrittura di un po’ di diario e ad amene letture sprofondati nei divani davanti al caminetto. Poco dopo ci raggiungono Cathy, Sally, Scott ed Elisabeth (nostri compagni di avventure nella giungla, ospiti anche loro del Café Cultura), ed andiamo assieme a cena in un ristorante di pesce. Poi a nanna.
16 agosto, sabato Sono un paio di settimane che non gustiamo il piacere di un risveglio senza sveglia ed il dolce far niente a letto. Finalmente ce li possiamo concedere: la giornata di oggi è dedicata alla visita libera di Quito, ed al riposo.
Dopo un’eccellente colazione in albergo (per la cronaca, Luc si è sbafato un ‘desayuno tunisino’, consistente in una marmitta di peperonata con abbondanti cipolle, coperta da tre uova al burro… Delizioso!!!) ci dirigiamo con passo leggero verso la città vecchia, in direzione sud. Poco distante dall’hotel visitiamo l’interessantissimo e moderno museo archeologico del Banco Central de Ecuador, ricchissimo di reperti della civiltà locale in epoca precolombiana. Il museo è modernissimo, fresco, molto ben allestito. Bellissime le maschere dorate, e le mummie.
Poi, gambe in spalla, ci apprestiamo ad una passeggiata di un’oretta che ci porta dai quartieri della Quito moderna alla città ‘vieja’. Qui l’atmosfera cambia radicalmente: gente vociante per strada, venditori, strilloni, negozietti… Gente che si arrangia come può. Notiamo, tra gli altri, due singolari personaggi: dapprima una rotonda signora che propone in vendita, declamandone le qualità a gran voce, lucchetti e centrini ricamati. Poco oltre un giovanotto si aggira tra la folla con un fascio di antenne in mano ed una sporta di lenti di ingrandimento, illustrandone le mirabolanti qualità tecniche ai distratti passanti: indubbiamente la specializzazione è l’anima del commercio! L’architettura della città vecchia è gradevolissima: case coloniali a due o tre piani, ben tenute, spesso colorate, che risaltano sullo sfondo di un cielo blu cobalto movimentato da belle e paffute nuvole bianche. In breve arriviamo alla piazza centrale, su cui si affacciano eleganti edifici bianchi: il palazzo del governo, la Cattedrale, l’Arcivescovado. Al centro il tipico giardino coloniale, con vialetti, panchine, alberi, gente in ozio, lustrascarpe e cantanti di strada di musica sacra. Visitiamo senz’altro la Cattedrale, guidati da un aitante e competente giovanotto: l’interno è barocco, di gusto pesantuccio, tra ori e stucchi. Durante tutta la visita veniamo seguiti da un bambino di non più di quattro anni, dal musetto simpatico e sporco, con cappelluccio, zainetto, e necessaire da lustrascarpe che insiste per occuparsi delle nostre calzature; dopo però sembra interessarsi alle spiegazioni compite della guida e segue con attenzione la visita guidata. Usciti facciamo un eccellente pranzo per pochi dollari a base di pollo, riso, fagioli e lenticchie, e proseguiamo nella visita. La prossima meta è la famosa Chiesa di S. Francisco, la più importante della città e forse dell’Ecuador. È la più antica risalendo ai primi anni del ‘500 ed è ricca di opere d’arte, ancorchè di difficile osservazione data la penombra del luogo. Il pavimento è in legno scricchiolante. Ci fermiamo per un po’ sugli antichi scranni a riposare ed a godere del fresco. Poi ci rimettiamo in marcia verso la poco distante Chiesa della Compagnia di Gesù, costruita alcuni anni dopo la Chiesa di S. Francesco ed in evidente competizione con quest’ultima. Si caratterizza per gli interni sfolgoranti d’oro, come poche altre volte ci è capitato di vedere. Sono singolari le decorazioni geometriche in oro, di chiaro stampo moresco. Questa chiesa – giudicata dagli ecuadoregni la più bella del paese – ha subito gravi danni nel disastroso terremoto del 1986 ed i lavori di restauro sono ancora in corso. Purtroppo l’anno scorso, proprio nel corso di questi lavori, è scoppiato un incendio che ha danneggiato alcuni dei preziosissimi altari laterali; tecnici ed artisti sono all’opera per riportare tutto agli antichi splendori.
Il centro di Quito è caratterizzato da una quantità straordinaria di chiese, ma decidiamo unanimemente di limitarci alle tre principali che abbiamo visitato. Ci concediamo, quindi, una rilassante passeggiata per il centro curiosando tra i negozietti. Capitiamo per caso (e ce ne allontaneremo a passi veloci poco dopo) nel quartiere degli impresari di pompe funebri che espongono orgogliosamente i loro feretri nuovi di zecca sulla pubblica via. Osserviamo con interesse alcuni dei modelli più trendy ed alla moda, tra i quali spicca la bara completamente rivestita in folto ‘pelouche’ color nocciola, della quale vengono decantate le caratteristiche di design, confort e di protezione dal (f)rigor mortis. Brrrrr… Passiamo oltre. Ci troviamo per caso in mezzo ad un mercatino affollatissimo e vociante accanto ad una stazione degli autobus. Qui prendiamo al volo un taxi e ci facciamo riportare, in pochi minuti al Cafe’ Cultura. Dopo un breve (non eterno!) riposo, facciamo una puntatina ad un Internet Cafe’ per aggiornare via e-mail parenti ed amici sulle nostre avventure. Per cena ci limitiamo ad un buon panino super imbottito, accompagnato da una spremuta d’arancia, e completiamo la serata passeggiando per una via ricca di localini e caffè nella quale si sta svolgendo una sorta di festa di strada con orchestrine e giocolieri.
17 agosto, domenica Roberto, la nostra guida per i prossimi giorni, passa a prenderci con il suo fiammante e poderoso fuoristrada Chevrolet alle 8,30 precise e ci mettiamo in viaggio sulla Panamericana verso sud. Usciamo velcemente da Quito ed iniziamo ad attraversare una campagna ordinata e gradevole. Dopo circa un’ora e mezza giriamo sulla sinistra in direzione della meta odierna, uno dei punti “forti” di questa vacanza, il mitico, imponente, misterioso vulcano Cotopaxi, che con i suoi 5.897 metri è uno dei più alti vulcani attivi del mondo. Tenteremo un’ascesa, se non alla vetta, almeno all’ultimo rifugio prima del ghiacciaio. La strada, sterrata ed in cattive condizioni, si inerpica ripida e Roberto deve mettere alla frusta i 6 cilindri del suo macchinone; il vulcano, caratterizzato da una forma perfettamente conica, si cela alla nostra vista sotto una fitta ed in perenne movimento coltre di nubi. Poi improvvisamente le nuvole si squarciano ed abbiamo il privilegio (che Roberto ci assicura essere non comune) di vedere una larga parte della costa nord del vulcano, fin quasi alla cima, con gli imponenti ghiacciai e nevai in bella vista. Si intravede anche un puntino giallo brillante, subito sotto il ghiacciaio. Quello è il rifugio al quale, se le gambe e lo spirito ci sorreggeranno, cercheremo di arrivare. Certo che, visto da qua sotto, l’impresa sembra impossibile. La strada, in condizioni sempre più precarie, continua a salire. Ormai solo i fuoristrada di adeguata potenza ce la fanno, ed un camioncino di fronte a noi si blocca irrimediabilmente su una ripida curva, scavando profondi solchi nel selciato nel vano tentativo di proseguire. Noi riusciamo in qualche modo ad andare oltre e raggiungiamo l’ultimo parcheggio: siamo a 4.500 metri, il panorama sotto di noi è mozzafiato, ma quello che ci lascia senza parole è il sentiero che porta al rifugio sopra di noi. Decidiamo di provarci comunque e ci imbacucchiamo ben bene con golf e giacche a vento. Poi ci mettiamo in marcia. Prendere il ritmo, a queste altitudini, non è cosa facile; il fiatone arriva subito, e salire anche di soli pochi metri, è assai faticoso. Roberto, forte dei suoi 26 anni e di un fisico asciutto, scatta come uno stambecco ed in breve ci distanzia. Noi, sbuffando come vecchie vaporiere, seguiamo a distanza, ma comunque procediamo. Dopo un primo strappo si raggiunge una sorta di sella, sulla quale si può riprendere un po’ di fiato. Abbiamo fatto un dislivello di un centinaio di metri dal parcheggio, poca cosa in condizioni normali ma, a queste altitudini, è già una piccola impresa. Roberto ci chiede se ce la sentiamo di proseguire, precisando che molti, arrivati a questo punto, si ritengono soddisfatti e tornano indietro, ed aggiungendo che ci sono ancora 200 metri di dislivello per il rifugio, molto pesanti. Non abbiamo dubbi: proseguiamo. La faccenda è resa assai più faticosa anche da una pioggia gelata che ha cominciato a cadere, con piccoli aghi pungenti che ci beccano il volto. Avanziamo faticosissimamente lungo un ghiaione di lava nel quale i nostri scarponi sprofondano per parecchi centimetri, cosicché la fatica è aggravata dalla difficoltà del terreno. Arrivati a metà strada tra la selletta ed il rifugio, iniziamo a procedere con brevi avanzamenti intervallati da soste, indispensabili per riprendere fiato. Ancora pochi metri e finalmente, orgogliosamente, felicemente arriviamo al rifugio !!! La vista è impareggiabile, abbiamo la fortuna di non essere avvolti dalle nubi e di poterci godere lo spettacolo sopra e sotto di noi. Entriamo al calduccio e ci sorbiamo un the bollente in compagnia di un gruppo di scalatori, super equipaggiati, che sono appena ritornati dalla vetta: ci hanno messo 12 ore, 8 a salire e 4 a ridiscendere. Facciamo diverse fotografie e ci facciamo immortalare da Roberto, orgogliosi, sotto il cartello che indica l’altezza raggiunta: 4.800 metri. Facciamo un ultimo giretto del rifugio prima di accingerci alla discesa e, incredibile!, scorgiamo in un angolo, una cabina telefonica della SouthBell. Increduli inseriamo la scheda e proviamo a digitare il numero del cellulare di Marco: in pochi secondi siamo in comunicazione. Gli raccontiamo che gli stiamo telefonando dalla cima di un vulcano a quasi 5.000 metri: formidabile! Il rientro è assai più agevole, anche perchè si può quasi sciare sul ghiaione di lava ed in una mezz’oretta siamo alla macchina. Stanchi ma felici riprendiamo la sgangheratissima strada torci budella che in un’oretta ci riporta alla Panamericana e da qui alla nostra destinazione per oggi, l’ Hacienda Ciénega.
Un vialone fiancheggiato da enormi eucalipti porta al bianco edificio di ingresso, in purissimo stile coloniale. L’ordinato giardino ricco di piante e fiori dà su una graziosissima cappelletta, dal portone in legno finemente intarsiato. Tutto intorno si aprono porticati sui quali danno le stanze, ampie e confortevoli, i saloni comuni con camini scoppiettanti e divani danno all’ambiente un tono di calda ospitalità coloniale. Anche se sono ormai le 15 passate pranziamo e verso le 16 ci ritiriamo in camera per un riposo quanto mai meritato che interrompiamo solo per una leggera cenetta.
18 agosto, lunedì Partiamo di buon’ora per un’escursione di tutto il giorno che ci porterà verso l’interno della catena andina nella zona della laguna di Quilotoa. Percorriamo la Panamericana per alcuni chilometri e poi, nella cittadina di Latacunga, ci inoltriamo per le montagne lungo una strada disastrata e torcibudella. Si sale fino a circa 4.000 metri in un paesaggio deserto, selvaggio ed affascinante. Ogni tanto incontriamo sparuti gruppi di indios: i bambini con faccine simpatiche e sporche, gli adulti piccolissimi (non raggiungono il metro e mezzo, e spesso si fermano molto prima) con la pelle color caffè tostato, le donne con la bombetta e gli scialli dai colori accesi, gli uomini col poncho. Ci guardano incuriositi al nostro passare, con un’aria vagamente triste e rispondono di rado ai nostri saluti. La marcia è lenta, e per molti chilometri non incrociamo nessun altro mezzo a motore. A Luc la zona ricorda certe atmosfere tibetane. Poi ci avviciniamo ad alcuni villaggi, poverissimi, ma almeno c’è un po’ di vita. La zona, manco a dirlo, è circondata da vulcani e ad un certo punto Roberto ci segnala un canyon che taglia profondissimo la pianura: non si tratta del letto di un fiume che ha eroso il terreno, ma di una spaccatura della terra conseguente a fenomeni tellurici e vulcanici. È impressionante e ci fermiamo per osservare da vicino il fenomeno. Subito compaiono come dal nulla prima un bimbetto di 5 anni, Wilson, poi il suo compagnuccio di 10 ed in breve tutti i bambini del paesucolo ci corrono incontro alla ricerca di qualche centesimo di mancia. Diamo fondo alle monetine che abbiamo e riprendiamo la marcia. Sono passate quasi 3 ore dall’inizio del viaggio e finalmente arriviamo alla nostra meta, la mitica laguna di Quilotoa. Lo spettacolo è straordinario: un cono vulcanico di forma perfettamente circolare con il bordo così appuntito da sembrare tagliente, ed in fondo un lago di colore verde smeraldo. Il vento è teso e ci soffermiamo per qualche minuto su una sorta di belvedere ad ammirare il formidabile paesaggio approfittando del fatto che l’aria è tersa, il cielo blu reso più interessante da qualche nuvola bianchissima e la visibilità perfetta; Roberto ci racconta che non è raro arrivare fin quassù, dopo tre ore di defatigante viaggio spacca ossa, e trovare la zona incappucciata dalle nubi, con visibilità zero. D’altro canto, siamo sui 4.000 metri e la meteorologia è imprevedibile.
Ora, guardando bene il fondo del cratere, sulla riva della laguna, si nota una sorta di piccola spiaggia con persone ed altro. Un’attenta osservazione con i binocoli consente di accertare la presenza di muli. Roberto ci spiega che è possibile scendere i 400 metri che separano il bordo del cratere dalla laguna e, volendo, si può evitare la pesante risalita accomodandosi in groppa ai destrieri. Ci pensiamo un po’ su e poi la decisione è presa: gambe in spalla, si scende ! Il sentiero è scosceso e polverosissimo: la cenere vulcanica, infatti, è sottile come borotalco e si alza a nuvoloni ad ogni nostro passo. Decidiamo così di procedere un po’ distanziati per evitare di finire impanati come filetti di merluzzo. A parte questo, la discesa non è particolarmente faticosa e dopo una quarantina di minuti siamo sul fondo in riva alla laguna. L’acqua è verde, come detto, lievemente puzzolente e salata: gli effluvi vulcanici la rendono inadatta a qualunque forma di vita, se si eccettuano poche striminzite alghe. Ci fermiamo ad ammirare il paesaggio ed a scattare qualche foto, ed osserviamo che il numero di persone presenti sulla piccola spiaggia è superiore a quello dei muli: per la precisione, mancano tre muli. Mentre facciamo questa inquietante considerazione, gli altri visitatori della laguna si approssimano ai quadrupedi e ci saltano in groppa, bruciandoci sul tempo. Chiediamo lumi in giro e ci viene detto che chissà, prima o poi, forse, altri muli potrebbero eventualmente tornare alla spiaggia. La situazione è interessante, indubbiamente; ci installiamo su alcuni massi in riva al laghetto ammirando il selvaggio panorama e lasciandoci andare a qualche sommessa valutazione sul nostro immediato futuro. Di una cosa siamo certi: di risalire a piedi, nell’aria rarefatta dei 4.000 metri, non se ne parla neanche. Anche Roberto è stranamente silenzioso e solitario. Dopo un’oretta di mistiche meditazioni, un’amichevole e quanto mai benvenuto scalpiccìo animale ci desta dai nostri pensieri. Arriva un primo mulo con la sua proprietaria in bombetta e scialle fluorescente. MG salta subito in groppa, e chi s’è visto s’è visto. Poco dopo, scrutando il sentiero con i binocoli, vediamo che stanno arrivando altri due quadrupedi: siamo salvi. La risalita sui vegliardi ronzini dura una buona ora, ed in particolare il destriero che ha avuto il privilegio di trasportare Luc, è sfiancato dalle ripetute ascensioni della giornata e si ferma ogni dieci passi, rifiutandosi di proseguire nonostante i sonori incitamenti della padrona; comunque, in qualche modo, torniamo in cima al cratere e da qui, con altre due ore e mezza di auto in un paesaggio sempre più scenografico, torniamo nella zona del Cotopaxi. Questa sera dormiremo alla Hacienda San Agustin del Callo, dove arriviamo poco prima del tramonto. È una hacienda molto più piccola delle altre che abbiamo fin qui visitato, ma di un fascino insuperabile: parte degli edifici sono costituiti da costruzioni incaiche, con i muri dallo spessore di oltre un metro realizzati con pietre a perfetto incastro. Veniamo accolti calorosamente dallo staff, e – benché siano ormai le 16 – ci viene proposto il pranzo; nell’attesa che il pasto sia pronto, ci vengono mostrate alcune camere tra le quali possiamo scegliere. Sono una più bella dell’altra e ci innamoriamo della ‘habitacion Frances’: una stanza non grandissima occupata da un principesco letto con piumoni, fronteggiato da un clamoroso camino; una finestra dà sul cortile dei lama. Il bagno, molto grande, è dominato anche lui da un caminetto e da una vasca in ghisa. Parte dei muri è in pietra a vista di epoca inca o giù di lì; parte è dipinta con scene mitologiche. I complementi d’arredo sono naturalmente all’altezza. Usciamo nel cortile e, per ingannare la breve attesa del pranzo, lo staff raduna un nutrito gruppo di lama ed alpaca dalle “scuderie” della fattoria e li porta nel cortile. Gli animali, dal pelo folto e soffice, e con colori che vanno dal bianco al marroncino pezzato, si affollano attorno a noi e si contendono i pezzi di carota che offriamo loro. Il pranzo è pronto e ci viene servito nella sala da pranzo inca, ricavata in un locale completamente costituito da mura d’epoca: caminetto scoppiettante, tavola da pranzo d’antiquariato con prezioso vasellame, fiori in abbondanza. Il menù è tipicamente ecuadoreno e non manca il classico locro, di eccellente qualità (zuppa di patate, formaggio e avocado). Dopo mangiato (sono ormai le 17) ci ritiriamo nella nostra stanza che nel frattempo è stata preparata con enormi mazzi di fiori e con i due caminetti scoppiettanti. Non possiamo resistere alla tentazione di un bagno caldo e profumato alla luce del caminetto della sala da bagno, e così facciamo, assaporando questa atmosfera unica e forse irripetibile. Mentre siamo lì al calduccio, sentiamo dei rumorini e dei bisbigli nella camera da letto: qualcuno, mentre ci rilassavamo in bagno, ha preparato la stanza per la notte e ci ha lasciato un vassoio con stuzzichini vari (olive, pistacchi, salame, formaggio). Ci dedichiamo per un po’ a trafficare col caminetto e poi facciamo quattro passi nei dintorni. Il sole è basso e sta per scomparire dietro le montagne, la luce è bellissima, in particolare i riflessi sulle pendici del Cotopaxi. I lama e gli alpaca brucano placidamente nel loro recinto. Alle 8 siamo di nuovo nella sala da pranzo inca, dove il tavolo è stato preparato tutto per noi (oggi siamo i soli ospiti dell’hacienda, che peraltro ha solo una manciata di camere): a lume di candela ed in una atmosfera raffinatissima il nostro cameriere personale (efficiente e discreto) ci serve un ottimo e leggero pasto.
Poi ci ritiriamo nella biblioteca: è un grande locale, arredato con gusto, in stile coloniale latino. Divani, poltrone, abat-jour ovunque, fiori, foto di famiglia, uno stereo con musica d’ambiente, libri sull’Ecuador, sui tori e sulla corrida distribuiti un po’ dovunque. Ci versiamo un buon whisky, mettiamo nello stereo un CD di flamenco e ci immergiamo nelle letture. L’artefice di questa hacienda è la signora Mignon Plaza, figlia e nipote di due ex presidenti dell’Ecuador e parente di noti toreri (da cui i frequenti riferimenti alla tauromachia nell’ambiente). Il tempo passa velocemente in questa atmosfera calda e rilassata che ci affascina. A notte fatta, quando rientriamo nella nostra camera, qualcuno ha preparato i letti col piumone e soffici cuscini, e rinfocolato il caminetto.
19 agosto, lunedì Il nostro maggiordomo (che porteremmo volentieri a casa) ci ha preparato la colazione in un’intima saletta a due piani: insalata di frutta appena fatta, plateau di formaggi, uova, pancetta croccante, salsicce, pane ancora caldo, marmellate fatte in casa, succhi di frutta vari. Ci godiamo l’ottimo cibo e, ancora una volta, l’atmosfera. Prima di lasciare l’hacienda abbiamo anche il piacere di conoscere personalmente Mignon, una bionda ed aristocratica signora di mezz’età. Ci rimettiamo in viaggio, convinti che il breve soggiorno a S. Augustin del Callo costituirà uno dei vertici di questa vacanza. Oggi dovremo fare parecchi chilometri, per giungere in serata a Riobamba. Imbocchiamo la Panamericana verso sud; giunti nel piccolo “pueblo” di Salsedo, ci colpisce un grande monumento a forma di …Gelato, all’ingresso del paese. Roberto ci spiega che il paesino è famoso proprio per la produzione di gelati artigianali, e non deve insistere troppo per farcene provare uno, fresco e gustoso, in un localino sulla strada. Poco oltre, in un mercatino artigianale presso un altro pueblo, acquistiamo una cintura con disegni indios per MG. Arriviamo nella cittadina di Baños verso mezzogiorno: il paesaggio è cambiato, ed ora ricorda non poco le nostre montagne, anche se la vegetazione comincia ad avere i tratti di quella amazzonica: Baños è infatti una delle porte di ingresso verso la regione amazzonica che da qui dista un paio d’ore di strada. Oltrepassiamo Baños e ci dirigiamo, su una pista in pessime condizioni, verso il Pilon del Diablo, suggestiva cascata del Rio Verde in un baratro. Un tratto della strada, a strapiombo sul rio, è franato e non resta che il passaggio per un veicolo (piccolo); noi passiamo, giusti giusti, e ci chiediamo come facciano a procedere su questa pista i camion e gli autobus che incrociamo numerosi. Giunti al parcheggio per il Pilon, scendiamo lungo un sentiero fino ad un ponte tibetano, semovente sotto i nostri passi, sui gorghi. Raggiungiamo anche un avamposto proprio di fianco alla cascata che si frange dopo un volo di una trentina di metri con fragore di tuono. Rientriamo a Baños per il pranzo e ci rimettiamo in viaggio per Riobamba. Nei pressi di questa città Roberto ci sveglia dal nostro pisolino per mostrarci, sulla nostra destra, la vetta del vulcano Chimborazo, eccezionalmente libera da nubi. Noi siamo a circa 3.800 metri ed il vulcano si erge altissmo fino a superare i 6.000 metri. Tentiamo qualche foto, purtroppo non favorite dal controluce.
Eccoci a Riobamba: da qui domani prenderemo il treno che, in lunghe ore di lento e scenografico viaggio, ci porterà ad Alausì ed alla mitica Nariz del Diablo. Il tragitto, per i motivi che si vedranno, è molto popolare tra i turisti ed infatti, quando giungiamo alla stazione per l’acquisto dei biglietti, la fila di persone in attesa è già molto lunga. Se si considera che ciascun biglietto viene compilato individualmente con nome e cognome del viaggiatore ed itinerario dettagliato, si comprende facilmente come dovranno passare parecchie ore prima che arrivi il nostro turno. Rassegnati ci mettiamo comunque in coda, ma notiamo Roberto che si apparta con fare misterioso e confabula con un omino col cappello da capostazione. Dopo pochi minuti riappare mostrandoci furtivamente i due biglietti che è riuscito a farsi preparare dall’omino in cambio di una mancia. Lasciamo gli altri turisti a farsi la loro coda, e ci dirigiamo baldanzosi alla Hacienda Abraspungo che ci ospiterà per questa (breve) notte.
La cena è allietata da musiche andine eseguite da un gruppo locale. Andiamo a letto presto: la sveglia, domani, suonerà alle 4,20… 20 agosto, mercoledì Come detto, ci svegliamo prima del gallo ed alle 5 in punto facciamo una frugale colazione; sappiamo, dalle notizie raccolte su Internet e sui nostri libri, che è fondamentale arrivare alla stazione con larghissimo anticipo sull’orario di partenza del treno (alle 7). È ora il momento di svelare il mistero: per antica consuetudine, diventata ormai prassi consolidata, i turisti più scafati si inerpicano, sprezzanti del pericolo, sul tetto dei vagoni merci che costituiscono il treno (solo i più polentoni si accomodano nei due vagoni passeggeri, peraltro non privi di fascino, essendo di inizio ‘900) ed in precario equilibrio si godono da questa postazione privilegiata lo straordinario paesaggio.
Arriviamo in stazione alle 5,40, alle primissime luci dell’alba, e c’è già un discreto drappello di temerari in attesa del treno. Dopo pochi minuti arriva lo sferragliante convoglio: sembra un treno del far west, e ci avviamo sulla massicciata con passo veloce per aggiudicarci un buon posto sul tetto; scegliamo il terzo vagone merci dietro la locomotiva e ci inerpichiamo lungo l’ardua scaletta sul fianco del vagone, per accedere al tetto. Quivi giunti sistemiamo i due cuscini (noleggiati poco prima in stazione) sul lato destro del tetto di lamiera ondulata del vagone (i bene informati dicono che questo sia il lato migliore per godere degli straordinari paesaggi che ci aspettano) e, puntati gli scarponi su una sorta di grondaia che dovrebbe (speriamo) impedire ai turisti di scivolare giù dal treno, ci apprestiamo all’attesa della partenza. I temerari viaggiatori continuano ad arrivare, e ben presto tutti i posti sul tetto sono occupati. Attorno a noi gente di ogni nazionalità: italiani, francesi, tedeschi, americani … L’attività nella stazioncina è frenetica: ferrovieri, con tanto di cappello d’ordinanza con visiera, che vendono cuscini da frapporre tra la lamiera ondulata del tetto e le tenere terga; ragazzini che vendono banane fritte e patatine; vecchietti che offrono acqua, the, caffè, cioccolata; fanciulle che propongono sciarpe, guanti e berretti per ripararsi dal freddo (siamo pur sempre oltre i 3000 m…). Dalla nostra postazione sopraelevata possiamo osservare l’arrivo dei ritardatari in stazione e godere, un po’ perfidamente, del loro disappunto a trovare i tetti dei vagoni già occupati: è valsa proprio la pena di sobbarcarci una levataccia per assicurarci un posto i prima fila ! Finalmente arrivano le 7 e, preceduto la lunghi e rochi fischi del locomotore, il singolare convoglio si mette lentissimamente in marcia. Attraversiamo i sobborghi di Riobamba accompagnati dai festosi saluti dei locali, che devono farsi certo una strana idea di questi turisti, un po’ picchiatelli, che vengono da tutto il mondo per sobbarcarsi sette ore di viaggio in precario equilibrio sul tetto di un vecchio treno …
Si comincia ad attraversare la bella campagna, rigogliosa nonostante l’altezza che si mantiene sempre attorno ai 3.000 metri. I paesaggi cambiano di continuo: ora pinete, poi colture di mais, poi ancora allevamenti di bestiame, lama, paesucoli. I bambini nei campi rispondono festosamente ai nostri saluti. In certi tratti, il paesaggio ricorda i film western, brullo e aspro, con canyons, dalle pareti quasi verticali, in fondo ai quali arranca il nostro sferragliante convoglio. Ci guardiamo intorno, alla ricerca di non improbabili vedette dei pellerossa. Ad un tratto, in un passaggio particolarmente ardito, si sente un rumore fragoroso ed un bianco polverone si alza dal vagone davanti al nostro; Luc capisce subito che il vagone è deragliato. Così è, infatti: il treno si ferma immediatamente (anche perché stavamo andando praticamente a passo d’uomo) ed i passeggeri scendono dai tetti ad osservare l’insolito avvenimento. Molti ne approfittano anche per una salutare sosta fisiologica: i maschietti da una parte del treno, le femminucce dall’altra. È uscito dai binari il carrello anteriore del secondo vagone merci, ed è interessante vedere all’opera i ferrovieri che (evidentemente avvezzi a questo tipo di incidente) si danno da fare con tiranti, cunei, sbarre, martelli. Viene costruita una sorta di piano inclinato sul quale il locomotore trascinerà il treno ed il vagone incidentato, fino a che quest’ultimo non ritornerà, con un balzo, sul suo binario. Dopo una ventina di minuti di lavoro, un caloroso applauso accoglie il successo dei ferrovieri e si torna a bordo salendo le ripide scalette. Il lento viaggio prosegue. I venditori di banane fritte, patatine ed altro, percorrono intrepidi i tetti dei vagoni con le loro mercanzie, facendosi aiutare dai passeggeri per evitare di finire nel burrone, a causa dei continui scuotimenti del treno. Noi non ci stanchiamo di ammirare il paesaggio, che cambia ad ogni curva. Dopo due ore e mezza di lento viaggio entriamo nel paesino di Guamote. Il treno percorre la via principale del paese, sfiorando le case, e si ferma nel bel mezzo dell’abitato. Le case sono molto caratteristiche, in legno, con i portici, i bei balconi dipinti…Anche queste ricordano atmosfere western. Non appena il convoglio si ferma con stridìo di freni, fanciulle salgono sui tetti offrendo banane fritte e frittelle di formaggio, gustosissime: ce ne comperiamo tre o quattro e ce le mangiamo a gran bocconi. Sotto di noi, in ristorantini allestiti su bancarelle per strada, vengono serviti piatti abbondanti ed appetitosi, ed osserviamo il macchinista ed il capotreno che si gustano un bello zuppone, con patate, pollo e riso, ad un banchetto. Terminato il pranzo dei ferrovieri, il treno riparte tra paesaggi sempre più scenografici. Un’altra ora e mezza ed arriviamo ad Alausì, per un’altra sosta. Qui c’è, su un binario morto, una bellissima locomotiva a vapore rossa, di oltre cento anni, apparentemente in perfetta efficienza, così come un’altra, nera, che fa manovra con un carico di legname poco distante. Alcuni turisti, ingenui, si affollano per salire qui ad Alausì sui tetti dei vagoni e godersi l’ultimo, panoramicissimo, tratto di viaggio: illusi! Vengono tosto respinti, e si accontenteranno di viaggiare nei banali vagoni passeggeri. Inizia così l’ultimo tratto di questo straordinario viaggio. La discesa nella gola chiamata Nariz del Diablo. Subito dopo Alausì si comincia a scendere, con pendenze sempre più ardite e continui tornanti. La gola è brulla e priva di vegetazione, e in parecchi passaggi sembra che il vagone sia sospeso nel vuoto. Alcune delle turiste più impressionabili si lasciano sfuggire trepidi gridolini di paura. La gola si fa sempre più stretta e noi continuiamo ad andare giù, finché non c’è più neppure lo spazio per fare un tornante; a questo punto il treno prosegue per un po’ su un binario morto per poi imboccare l’altro ramo discendente a marcia indietro, e così via. Il giochetto si ripete finché finalmente arriviamo sul fondo della gola. Da qui il treno, un tempo, proseguiva il viaggio fino alla costa del Pacifico, ma adesso l’ultimo tratto della strada ferrata è abbandonato, e quindi non ci resta che tornare sui nostri passi, ad Alausì, dove ci aspetta Roberto.
In fondo alla gola il locomotore fa manovra per riportarsi in testa al treno, ed inizia la lunga e lentissima risalita, che ci godiamo fino all’ultimo dal nostro panoramicissimo tetto del vagone. Arriviamo ad Alausì alle 14: sono passare 7 ore dalla nostra partenza da Riobamba.
Incontriamo Roberto, e gustiamo un pranzetto al sacco in macchina: panino, petto di pollo, mela, acqua. Poi, mentre noi riposiamo, Roberto guida con maestria il gippone in direzione di Ingapirca, antico insediamento Inca. Quivi giunti, visitiamo il luogo, caratterizzato dal culto del sole; gli edifici sono realizzati con la formidabile tecnica delle pietre incastrate l’una nell’altra, senza malta, con straordinaria precisione. Facciamo anche una breve escursione nei dintorni, dove le case dei campesiños si alternano alle vestigia archeologiche.
Poi proseguiamo per un’altra oretta in direzione di Cuenca, graziosa città coloniale che costituisce l’ultima tappa del nostro viaggio in Ecuador (sigh!). Alloggiamo alla Mansion Alcazar, nel bel mezzo del quartiere coloniale, e l’hotel è antico e pieno di fascino, così come la nostra bella stanza: dobbiamo dire che abbiamo fatto proprio un’eccellente scelta degli hotel (tutti selezionati via internet…).
Dopo un bel bagno caldo, ceniamo nell’elegante e raffinato ristorante, e poi ci concediamo un po’ di riposo dedicandoci a letture nella bella biblioteca al primo piano.
21 agosto, giovedì La mattinata è dedicata alla visita di Cuenca. Tentiamo anche di telefonare a casa (manchiamo di notizie da un po’…), ma i collegamenti sono difficili e le cabine telefoniche assai più rare che a Quito. Le abitazioni sono graziose, ed alcune decisamente eleganti nel loro stile coloniale. Visitiamo l’interessante museo del più importante convento di clausura dell’Ecuador: qui le monache entravano un tempo verso i 12 anni, ed appartenevano alle famiglie ricche del paese, tanto che ciascuna poteva contare sull’assistenza di una servitrice personale… Oggi ci sono ancora circa 25 monache nel convento. La visita è assai interessante, e siamo accompagnati da una fanciulla giovane ed assai graziosa che ci illustra – con lo spagnolo dall’accento musicale tipico di questa regione – i quadri dipinti dalle religiose nelle lunghe ore della clausura, ed altre vestigia del passato.
Poi visitiamo il bel Museo del Banco Central, dedicato all’etnografia del Paese. La mattinata è corsa via in un baleno: mangiamo (abbondantemente) in un bel ristorantino, e – salutato Roberto, che si accinge a tornare a Quito in 8-10 ore di guida… – ci riposiamo un po’ in albergo prima di riuscire (finalmente!) a telefonare a casa, ed imbarcarci sull’aereo per Quito. Durante il volo, una vista spettacolare: passiamo quasi sopra il vulcano Tunguraua, in piena eruzione!!! Una colonna di fumo bianco e vaporoso si alza per centinaia e centinaia di metri (qualche chilometro?) sopra il vulcano, fino a perforare uno strato di nubi, e proseguire oltre… Uno spettacolo straordinario, che tentiamo di immortalare dai finestrini dell’aereo con le macchine fotografiche.
Non facciamo in tempo a riporle, che passiamo sopra la vetta del vulcano Cotopaxi, che – per una volta – è sgombro di nubi, e ci si mostra nell’imperiale bellezza dei suoi ghiacciai: ritiriamo fuori l’armamentario, e spariamo le ultime istantanee dal finestrino del 727.
La sera al Café Cultura è dedicata a stipare i borsoni, e ad organizzare il trasferimento in aeroporto di stanotte: sveglia alle 3:45, taxi alle 4:15… Gulp! Il resto del viaggio è senza storia, se si eccettua il nuovo colpo di mano di Luc che si aggiudica due sibaritici posti in Classe Magnifica, che rendono assai confortevoli le 10 ore di traversata oceanica verso l’Italia. Giungiamo a Milano con un’oretta di ritardo, e non appena accendiamo il cellulare – scesi dall’aereo – ci telefona Marco che, a sua volta, è appena atterrato col suo volo da Stoccarda: la famiglia si riunisce di fronte ai nastri per il prelievo dei bagagli, e subito ripercorriamo, in un groviglio di ricordi, le nostre straordinarie avventure…
Fine