Cina, l’invasione degli ultracorpi – di il MILLINO

I viaggi sono i viaggiatori; ciò che vediamo è ciò che siamo. Quel che troverete di seguito non è la verità, ma la mia personale interpretazione delle sensazioni che in quei luoghi ho avuto. È stato scritto per permettere allo scrittore di ricordare, ed è stato reso pubblico per poter forse ispirare chi sceglierà di leggere.
Scritto da: ermagghe
cina, l’invasione degli ultracorpi  - di il millino
Partenza il: 23/02/2010
Ritorno il: 22/03/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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I costi: la Cina è ancora una nazione abbastanza economica, ce la siamo cavata con una media di 24 € al giorno compreso qualche oggetto di artigianato locale. Il Cambio all’epoca del nostro viaggio: 1,00 € = 9,25 Y (yuan) – 10 Y = 1,08 €

Il clima: 46 giorni nei quali ha fatto caldo, freddo e tiepido; il clima era ottimo nello Yunnan, piovoso nel Guizhou, nebbioso a Pechino, piuttosto grigio nello Sichuan e fresco ma soleggiato nel Quinghai. Le nostre stanze: sempre doppie con bagno, sempre pulite anche se spesso con poca personalità, hanno sempre l’acqua calda, asciugamani, finestra, presa di corrente, carta igienica, a volte la tv e costano tra i 60 e i 180 Y a notte ovviamente trattabili. Abbiamo sempre trovato camere libere in qualsiasi albergo quindi direi che non serve prenotare città per città, ma non tutti gli alberghi economici accettano turisti stranieri.

I viaggiatori: Mag e Sabri pollo.vagante@gmail.com

Itinerario I Parte: da Lao Cai (Vietnam) attraversiamo il confine; da HèKou autobus fino a Xinjie; autobus notturno fino a Kunming; treno notturno fino a Kaili; rientro con treno notturno a Kunming; autobus fino a New Dali e successivo bus fino a Dali; autobus fino al bivio per Shaxi e successivo taxi fino in centro; taxi fino al bivio e autobus fino a Lijiang; autobus per Shangri-la (Zhongdian) e a ritroso fino a Lijiang; Itinerario II Parte: volo per Beijing (Pechino) e bus fino in centro; treno per Pingyao; treno notturno per Xian; tre autobus e un taxi per Tongren; autobus per Xining; volo per Chengdu e successivo volo per Kathmandu (Nepal).

Martedì 23 febbraio 2010 – gg 133

Ci facciamo lasciare dall’autobus all’incrocio in modo da non fare molta strada a piedi; il confine con la Cina è a poche centinaia di metri, già possiamo intravedere l’arco (se così si può chiamare) sulla cui sommità vi è un incomprensibile scritta in ideogrammi sovrastata dall’emblema della Repubblica Popolare. I festeggiamenti per il capodanno cinese sono appena terminati. La giornata è grigia, il cielo lattiginoso e, mentre passiamo il check alla frontiera del Vietnam gli ultimi scocciatori si offrono di portarci i bagagli, sperando in qualche mancia, e provando a venderci yuan ad un tasso di cambio osceno. Fortunatamente i nostri bagagli sono leggeri ed ho già cambiato un centinaio euro in valuta cinese ad un mercato nel nord del Laos. Non mi sembra vero, sono mesi che aspetto di arrivarci e farla a piedi amplifica la mia gioia. I pochi viaggiatori che ci sono stati ed a cui abbiamo chiesto informazioni ci hanno detto “peste e corna” dei cinesi; “non potranno essere peggio dei vietnamiti” penso tra me e comunque non mi importa. Mentre attraverso il ponte sull’affluente del Fiume Rosso ma dall’acqua decisamente grigiastra guardo dritto davanti a me e ripenso alla mia missione. Il piano è semplice ma diabolico: entrerò in Cina come un comune turista, arriverò fino a Pechino, e lì contagerò il maggior numero di persone possibile con il virus della Laotite (detta anche: poca voglia di sbattersi) che ho contratto a Luang Prabang. Dalla capitale il terribile morbo si diffonderà in tutte le province, e presto, i laboriosi cinesi diventeranno un miliardo di sonnacchiosi nullafacenti. L’economia cinese a quel punto tracollerà e noi occidentali potremo nuovamente governare economicamente e culturalmente il mondo come abbiamo sempre fatto*. Lo so che detto così sembra una c*****a, ma fidatevi, funzionerà! Oltrepassato il ponte si viene invitati ad entrare in un edificio in cemento e vetro per sbrigare le formalità. Sorrisi smaglianti, occhi dolci, facce da bravi ragazzi, L.P. con copertina foderata di rosso, maglietta con la scritta “free Tibet” appallottolata sul fondo dello zaino. Ci mettiamo in coda per far timbrare il visto. Quando finalmente le arriviamo davanti, la signora in divisa militare, in altre faccende affaccendata, non alza nemmeno lo sguardo, ci porge un modulo da compilare e pronuncia una frase in cinese. Certo, mi avevano avvisato del fatto che i cinesi parlano solo il mandarino, ma almeno quelli impiegati in frontiera, pensavo, conoscessero due parole di inglese, invece no! Anche il modulo è in cinese, una soldatessa mossa a pietà mi aiuta nella compilazione. Siamo qui da pochi minuti ed abbiamo già avuto un assaggio di come sarà difficoltoso comunicare con la gente per i prossimi due mesi, ma il bello deve ancora venire. Dobbiamo trovare la stazione degli autobus per andare a Xinjie, dove si trovano le risaie a terrazze più belle della Cina, ma nessuno ci capisce. Chiedo ad un poliziotto, alla gente per strada, alla reception di un grande albergo, ma niente. Possibile che nessuno riesca a capire cosa sto dicendo? poi ad un tratto un idea, con l’aiuto della L.P. ed un dizionario inglese-cinese che ho trovato in una guest house, disegno su un foglietto gli ideogrammi che dovrebbero corrispondere alla frase: “dov’è la stazione dell’autobus?”. Incredibile, finalmente qualcuno mi risponde, ovviamente in cinese, ma io seguo la direzione che indica il loro braccio e mostro il biglietto ogni 20 metri. In pochi minuti siamo in biglietteria, mi affretto a disegnare gli ideogrammi che facciano capire dove voglio andare ma quando la ragazza legge il foglietto scuote la testa e borbotta qualcosa in cinese. Ma no! ma come ?! eppure son sicuro, l’ideogramma è quello giusto. Intuiamo che l’ultimo autobus per la nostra destinazione è partito da poco ed il prossimo partirà domani. Se fossimo in India ci sarebbero mezzi ogni 5 minuti, 24 ore su 24, ma qui no. Qui il le cose funzionano diversamente. Non è neanche mezzogiorno, cosa facciamo in questo postaccio fino a domani ? … giornata persa !! Sabri ha un idea: perché non proviamo a spezzare lo spostamento in tappe? Da qui fino a Mengzi, da Mengzi fino a Gejiu e da là fino a Xinjie. Non senza qualche perplessità accetto. Partiamo puntuali su un bell’autobus pulito e moderno (uguale a quelli della viazul di cuba), io mi preparo su diversi foglietti le frasi da mostrare per acquistare il prossimo biglietto. L’autobus ci lascia nel parcheggio di una vecchia autostazione affollatissima di gente, facendoci largo a fatica tra la folla raggiungiamo la biglietteria, dietro di noi la gente pressa, finalmente è il nostro turno, ma anche questa volta la ragazza al di là del vetro scuote la testa e borbotta in cinese. E no, anche sta volta no!! Cosa starà cercando di dirci con il suo faccino a mandorla? Nulla! Non si riesce a capire nulla! L’unica cosa certa è che il biglietto non ce l’ha venduto. Usciamo dall’autostazione e veniamo circondati da un nuvolo di tassisti che gridano, ci urlano qualcosa, ci spingono, ci tirano per la giacchetta. Sono demoralizzato, abbattuto e un pochino scoraggiato; da una deprimente cittadina di frontiera siamo passati ad una deprimente grande città. Mi sento come Marcus Brody in Egitto e nervosamente esclamo: “c’è qualcuno che parla la mia lingua?” “You need help?”, sento mormorare alle mie spalle da una flebile voce, quasi avesse paura di disturbare. Mi giro e vedo un ragazzo di vent’anni, sul metro e settanta, molto più alto della media dei tassisti che nel frattempo ci stanno strattonando, e gli rispondo: “Sì!”. Lui ci afferra, ci mette su un taxi, ci porta nella nuova autostazione, ci compera il biglietto, ci accompagna fino al nostro bus e chiede al nostro autista di scaricarci davanti all’altro bus diretto a Xinjie. In meno che non si dica, e senza spendere un centesimo, arriviamo a destinazione. Quel ragazzo, di cui non sappiamo neppure il nome, ha insistito per pagare, ha accettato solo un ciondolo di stoffa come ringraziamento. Il primo approccio con gli indigeni direi che è stato decisamente buono, alla faccia di tutti quelli che ne avevano avuto una cattiva impressione.

* È uno scherzo ovviamente.

Mercoledì 24 febbraio 2010 – gg 134

Xinjie è una piccola grigia cittadina, ma c’è tutto: qualche minuscola guest house che fornisce mappe delle risaie (in cinese), un albergo nel quale danno informazioni inerenti ai giorni di mercato dei villaggi circostanti, un ristorantino con dehors esterno, un piccolo ma vivace mercato del giovedì pieno di donne che indossano abiti coloratissimi, ed un grande parcheggio dove si possono affittare delle ape-car con autista per farsi scorazzare nei dintorni. Comunicare con gli omini delle ape-car non è impresa semplice, ma cartina alla mano ci si fa capire. Da qualche anno lungo la strada che porta alle risaie più famose c’è una biglietteria, ed un biglietto di 30, 60, 90 Y, a seconda di ciò che si vuole visitare. Teoricamente si dovrebbe pagare il biglietto anche per accedere solamente all’area, ma nel caso si dichiari di star andando ad un mercato, in uno dei numerosi villaggi, probabilmente vi faranno passare senza troppi problemi. Noi visitiamo da prima le risaie di Laofeng che distano solo poche centinaia di metri dal centro (gratuite); il giorno dopo quelle di Hani-Yi-Dai (gratuite). Nei giorni a seguire siamo stati alle terrazze panoramiche di Laohuzui. Qui si ha il più grande colpo d’occhio sulle risaie poiché esse si trovano molto più in basso del miradores e pertanto non è facile accedervi. Le risaie di Bada e Duoyishù, quest’ultima spettacolare all’alba, hanno invece dei sentieri che partono dal belvedere e scendono tra i campi ed i villaggi, si riuniscono al fondo valle e sboccano sulla strada asfaltata oltre la biglietteria; non è difficile intuire che volendo fare una passeggiata si possono risparmiare i soldi del biglietto. Attendendo l’alba o il tramonto abbiamo avuto il modo di incontrare i primi turisti cinesi*, sembrano simpatici, sono buffi con i loro vestiti simil-occidente mentre qui tutti gli indigeni usano abiti tradizionali. Sorridono, ci scattano delle foto e ci offrono da bere, siamo tra i pochi occidentali che bazzicano queste zone. Parlandoci mi rendo conto di quanto abbiano una visione cino-centrica del mondo, il 90% pensa che la terra sia piatta e che esista solo la Cina. Mi chiedono da quale provincia arrivo!? ((Non si accorgono che sono europeo?). Capiremo solo più avanti di quanto la loro presenza sia devastante per l’ambiente.

*In Cina ci sono diverse etnie, quella principale o dominante, (cinesi di serie “a”) si chiamano Han, secondo il loro pensiero, e la politica che stanno attuando da qualche decennio, le altre etnie (cinesi di serie “b” e “c”) devono essere assoggettate, uniformate, inglobate e in fine assorbite. Il governo di Pechino sta realizzando grandi opere ed infrastrutture per modernizzare la nazione, e sta cercando di espandersi non solo nel mondo ma anche all’interno del suo stesso territorio incentivando i cinesi Han, che abitano nella sovraffollata parte est del paese, a migrare e colonizzare l’ovest che è ancora sottopopolato. Con il termine “turisti cinesi” intendo indicare sempre gli Han, che da ricchi borghesi, sono soliti comportarsi come se fossero i padroni, e forse lo sono anche. Viaggiano su grandi autobus con l’aria condizionata, rimangono sempre in gruppi, si accompagnano ad una guida turistica, subiscono moltissimo il fascino del nuovo e del moderno e non hanno molto riguardo per il passato e per la storia. La cosa peggiore di tutte è che sono tanti, tantissimi, troppi, sembrano non finire mai. Quando arrivano in un luogo, che sia esso un tempio buddista o un centro commerciale, lo invadono, lo violentano con la loro ingombrante presenza, ne stravolgono l’aspetto e l’atmosfera. Hanno due punti deboli, se così si possono definire: il primo è che hanno un’indole gentile; sono disposti a prestare aiuto (se solo riuscissero a capire cosa chiedo loro), sono ospitali e caciaroni, spesso è capitato che mi offrissero da bere e si passasse la serata insieme; Il secondo è: la poca predilezione a camminare. Arrivano solo dove arriva una strada asfaltata e quando scendono dall’autobus non si allontanano mai più di 40 mt. Purtroppo il governo continua a costruire nuove strade ovunque e seminarli non è per nulla facile.

Camminando lungo il sentiero che collega Bada a Duoyishù, tra una ripa e un ponticello, incontriamo due simpatiche contadine di ritorno dal mercato, sedute con le loro gerle all’ombra di un terrazzamento. Ci salutano, restiamo un attimo a parlare con loro, ci offrono anche un pezzo di raviolo al vapore, tutto sembra svolgersi in un clima sereno quando la più anziana delle due ci chiede dei soldi. Il nostro rifiuto cortese ma deciso la fa stranamente imbufalire, afferra il mio zaino e cerca di strapparmelo di mano. Sono sbigottito, non capisco come, la povera vecchietta possa pensare di farla franca, anche se riuscisse a prenderlo dove potrebbe scappare? La raggiungerei in un secondo ed, in campo aperto, avrebbe sicuramente la peggio. Infastidito dalle continue molestie e dal suo tono di voce, ormai divenuto aggressivo, mi alzo e raggiungo Sabri che, vista la scena, si era già allontanata di qualche metro. La mondina proprio non vuol mollare lo zaino e con l’ennesimo strattone mi fa cadere la guarnizione di gomma che protegge il mirino della macchia fotografica. Con insospettata agilità lo raccoglie, indietreggia di qualche passo e me lo mostra, ora esige un riscatto. La cosa si mette male, vado subito dalla signora e tendendo la mano le intimo (in italiano) “me lo ridia !” – “neiooo”, scuote la testa – “me lo ridia subito !!” (sempre in italiano), niente da fare! … ma io non posso mica alzare le mani su una povera mondina anziana … interviene Sabri, che afferra la gerla della signora e comincia a buttare la spesa nella risaia gridando: “ridagli il gomminooooo !!!!” In un attimo la vecchietta cede. Un velo di amarezza cade su una giornata che era stata strepitosa fino ad un ora prima.

Sabato 27 febbraio 2010 – gg 137

Ieri nel tardo pomeriggio abbiamo preso un autobus con cuccetta per Kunming, dove arriviamo prima che faccia chiaro. Quando scendiamo ci troviamo in un immenso parcheggio con centinaia di altri autobus e una folla di gente che va non si sa dove. Arriviamo fino alla fermata dei bus cittadini dove una ragazzina (anch’essa mossa a pietà) si offre di aiutarci. Quindi ci assiste nel viaggio in bus, nell’acquisto del biglietto ferroviario* Kunming-Kaili e ci accompagna in un albergo consono, poi saluta e se ne va. Troppo bello così !! Non ci resta che gironzolare random tra le vie del centro. Ho detto vie ?! mi sono sbagliato, volevo dire viali quattro corsie, con tanto di pista ciclabile, percorso disabili, ed ampi marciapiedi ombreggiati da centinaia di alberi ad alto fusto. Certo è facile quando non si ha un centro storico. Il sole splende e la temperatura è mite, passeggiare è molto piacevole, visitiamo anche qualche tempio scintoista e taoista. Tutto appare molto pulito ed ordinato, sembrano fatti ieri (e probabilmente lo sono), al momento non sono frequentati da molti fedeli, ma sarà l’orario, C’è anche un cartello che in cinese dice: “vietato accendere ceri”. Mi vien da pensare che la gente non sarà molto incentivata a venire.

* acquistare un biglietto ferroviario non è facile come sembra, nelle grandi città le stazioni sono molto affollate, ed hanno una doppia biglietteria, la prima per i treni che partono in giornata, la seconda per tutti gli altri. Si possono fare anche ore di coda al posto sbagliato, oppure, fosse anche il posto giusto, ma se la signorina per quanto paziente non riuscirà a capire cosa volete cercherà di allontanarvi per far passare il prossimo utente che alle vostre spalle sta già scalpitando. Fortunatamente le stazioni sono presidiate dall’esercito e se qualcuno in modo un po’ troppo sfrontato cercasse di superarvi sarebbe sicuramente centrato da qualche cecchino appostato sui tetti. Orari di partenza, destinazioni, ipotetici ed imperscrutabili cambi, cuccetta o posto a sedere e disponibilità o meno alla data richiesta, sono tutte cose che complicano la vita. È meglio arrivare armati di pazienza e di bigliettini con le domande già scritte, meglio ancora portarsi anche i bigliettini con le risposte tra le quali l’interlocutore potrà scegliere.

Domenica 28 febbraio 2010 – gg 138

Stasera andiamo in treno fino a Kaili, dove nei prossimi giorni dovrebbe svolgersi la più importante festa dell’etnia Miao. Arrivati con il solito anticipo, ci accorgiamo che le stazioni ferroviarie cinesi non sono organizzate come le nostre, ma bensì, come un aeroporto; Non è possibile entrarvi se non si ha un biglietto, ci si mette in coda davanti al proprio gate e si attende finché, all’ora prefissata, un militare aprirà il cancello e, come se fosse una hostess, procederà all’imbarco. A quel punto, tramite un percorso obbligato, si accede direttamente al binario dove il treno è, ovviamente, già arrivato. Davanti ad ogni vagone c’è un inserviente in uniforme che prende il nostro biglietto, lo inserisce ordinatamente in un apposito astuccio e ci da in cambio una tessera magnetica, dopo di ché ci accompagna al nostro posto. Tutto questo sotto l’occhio vigile dell’esercito (interessante notare che invece non ci sono controlli di sicurezza). All’interno del vagone tutto è pulito e ordinato, le lenzuola sono bianche e profumate. Un omino passa a pulire ogni due ore, alternandosi con l’omino che porta le vivande (per lo più zuppe in scatola, zampe di gallina ed altre schifezze), con l’omino che la sera tira le tende ed al mattino le riapre, con l’omino che spegne e accende le luci a seconda del fatto che si possa dormire o no ed in fine con un omino che mezz’ora prima dell’arrivo viene a svegliarvi, a riprendersi la tessera magnetica e a restituirvi il biglietto. E pensare che sui nostri treni le cuccette sono state abolite e non è raro essere punti da una zecca o qualche altro parassita. I nostri controllori li vedi una volta ogni mille km e quando ne cerchi uno non c’è mai. Inoltre le stazioni piccole sono state chiuse per motivi di budget mentre quelle grandi sono ritrovo di sbandati e senza tetto. Nel clima caotico di una stazione Termini o di una Milano Centrale, tra i vari scioperi e ritardi, mi chiedo come facciano i turisti stranieri a salire sul treno giusto.

Lunedì 1 marzo 2010 – gg 139

È notte quando usciamo dalla stazione di Kaili, i bus ancora non ci sono, prendiamo un taxi fino in centro (10 Y). È ancora tutto chiuso, ma gente in giro ce n’è, ci sediamo su di una panchina davanti ad una bancarella che vende ali di pollo fritte e aspettiamo che faccia chiaro. L’alba non si fa attendere, il celo è sereno ed il sole brillante; Kaili è una brutta, normale, moderna cittadina cinese, con i palazzoni, i fast-food, ed i suoi cementifici a due passi dal centro. Alloggiamo al Petrol Hotel, un vecchio casermone di cemento a sei piani, ma è pulito ed economico. Subito dopo, seguendo i consigli della L.P., ci rechiamo al c.i.t.s. per chiedere informazioni riguardanti, mercati, feste e manifestazioni varie tra i villaggi della zona. Il personale è gentile e parla un buon inglese, ci da una mappa e ci illustra il calendario delle manifestazioni: oggi a Long Chang ci sarà il festival dell’etnia Geija, domani visiteremo il villaggio tradizionale di Xinjiang, e di Langde, poi sarà finalmente la volta del festival dei famosi Miao a Zhouzi. Bus dall’autostazione e in un attimo siamo a Long Chang, ma è troppo presto. Seguiamo un viottolo di campagna e arriviamo in un piccolo villaggio con casette di legno. Subito un ragazzo ci invita ed entrare in casa e ci intratteniamo con lui e la madre bevendo tè e mangiando una pappa di riso che non saprei definire. Accidenti, non avrei mai pensato fossero così gentili questi maledetti musi gialli, se non fosse per la barriera linguistica credo che potrei passare la giornata a chiacchierare amabilmente con loro. La festa comincia ad animarsi verso mezzogiorno, si svolge tra i campi fuori dal villaggio, con danze di ragazze in costume, con le lotte dei bufali e le bancarelle che vendono patate fritte e cani arrosto. L’atmosfera è molto piacevole e trascorriamo qui l’intero pomeriggio.

Martedì 2 marzo 2010 – gg 140

Prendiamo un bus dall’autostazione e dopo un oretta stiamo scendendo i tornanti che portano nel tradizionale villaggio Miao di Xinjiang. Nonostante oggi sia nuvolo e faccia freschino il colpo d’occhio non è male. Il villaggio, con le sue casette di legno, è adagiato sul fondo valle e si inerpica sulla collina retrostante; un silenzioso fiumiciattolo con due ponti storici in legno lo separa dalle numerose risaie che lo circondano. È tutto troppo bello, qualcosa non ci convince ma non capiamo subito cos’è. Poi poco a poco un idea si insinua nella nostra mente, ma no, non è possibile, invece sì … siamo a Gardaland !! qui è tutto finto !! Il ponte in legno che da lontano sembrava antico in realtà è nuovo, e nasconde una biglietteria; le case la cui facciata principale è in legno hanno il retro in cemento; le viuzze che si srotolano tra i negozi di souvenir non sono quelle tipiche di un villaggio ma studiate a tavolino da un urbanista. Il colpo di grazia lo dà la centralissima exhibitions square, uno slargo di mille mq, con spalti e tettoie in legno adatte all’accoglienza turistica nella quale ragazzi Han con falsi costumi Miao tre volte al giorno danzano per centinaia di turisti Han appena scesi dal pullman. Cerchiamo qualcuno che parli inglese, e che ci possa spiegare chi abbia potuto trasformare un villaggio in un parco giochi. Lo troviamo alla Full View guest house, dalla parte opposta del fiume, insieme anche ad una mappa della valle. Purtroppo ormai è tardi per fare un giro della zona circostante, ci sediamo vicino alla stufa con una tazza di tè e cerchiamo di carpire qualche informazione all’oste. Da unici occidentali in una nazione di asiatici non è difficile attaccar bottone. Dopo qualche battuta, la ragazza alla reception, candidamente ci spiega che qualche anno fa il villaggio è stato ‘adeguato’ al turismo, ovvero demolito e ricostruito in toto. Solo le case più alte sulla collina sono state risparmiate. Anche lei, prima abitava a Wuhan, poi si è trasferita qui per aprire un albergo e lavorare con i visitatori. Il governo di Pechino si è accorto che l’industria del turismo muove molto denaro e da qualche anno ha posato gli occhi su questo villaggio. E i Miao che fine hanno fatto? Uccisi? Deportati? Imprigionati in campi di lavoro? No, nulla di tutto questo, i Miao sono ancora lì, fuori dal percorso turistico, in zone ‘non rilevanti’, nelle case che sono rimaste nascoste dai ripetitori o sovrastate da qualche immenso cavalcavia autostradale, nei villaggi veramente tradizionali che continuano ad esserci ma non sono per nulla facili da trovare.

Mercoledì 3 marzo 2010 – gg 141

Stanotte ho dormito malissimo, mi sveglio ed ho la febbre, il fisico non è più quello di una volta. Rientriamo a Kaili a metà mattina e trascorriamo tutta la giornata a letto mentre fuori piove. La sera vorremmo uscire mangiar qualcosa ma anche qui, nonostante la pioggia e il freddo, i ristoranti tengono le porte spalancate ed i locali non sono quasi mai riscaldati. Io sono ancora febbricitante e vorrei cenare in un posto confortevole, per lo meno riscaldato. Non è facile, solo tre locali hanno questa peculiarità; i primi due sono l’uno di fronte all’altro a metà di Beijing Donglu, si chiamano “Bobo” e “Happy”, ma c’è poco da stare allegri. Il cibo è pessimo, l’acqua sa di colluttorio ed i peperoni li trovo anche nel caffèlatte. Ci siamo trovati meglio al fastfood che sta nella piazza principale, sul lato opposto delle poste.

Giovedì 4 marzo 2010 – gg 142

Oggi è la volta del villaggio ‘tradizionale’ di Langde, speriamo bene! Il minibus ci scarica a upper Langde, anche qui balza subito all’occhio qualche intervento di adeguamento turistico ma è poca cosa. Il villaggio è pressoché architettonicamente intatto, pochissimi sono i segni di ammodernamento. Purtroppo però, è semideserto; di bar, ristoranti e guest house nessuna traccia, è tutto chiuso. Sappiamo che da qui intorno parte un sentiero di circa 15 km attraverso alcuni villaggi Miao, ma il celo minaccia pioggia e non c’è la benché minima indicazione inerente alla strada da percorrere. Desistiamo, ci facciamo solo una passeggiata tra i campi fino a Langde town, al bivio prendiamo un bus e rientriamo. Cosa abbiamo visto? Non lo sappiamo! Forse un villaggio tradizionale che sta per essere adeguato turisticamente oppure, un villaggio tradizionale che stava per essere adeguato, ma un cambio di rotta improvviso ha fatto si che venisse abbandonato per concentrasi su Xinjiang? Non lo sapremo mai.

Venerdì 5 marzo 2010 – gg 143

Finalmente è il gran giorno, andremo a Zhouzi per partecipare alla festa più importante dei Miao. Lo ammetto, ho paura! A cosa mi troverò davanti oggi? La location questa volta è costituita dal letto del fiume anziché dai campi, ma l’iter è lo stesso del festival di Long Chang solo più in grande. Nel primo pomeriggio sotto un cielo plumbeo, si fanno vivi i musicisti ed anche le donnine Miao che indossano i famosissimi … ma !? Non è possibile, i costumi non sono finemente decorati a mano ma di tessuto stampato, mentre i monili e le collane d’argento sono in realtà di latta !! A dirla tutta i costumi non sono neanche di loro proprietà, alcune bancarelle lungo fiume li affittano alla gente che paga per indossarli. Altro che tradizione, è una carnevalata! Un attimo, guardiamo meglio! Di turisti cinesi in comitiva non c’è neanche l’ombra; la gente che balla e canta intorno a noi è tutta Miao, non stanno recitando una parte, si divertono sul serio. La festa dunque è originale, sono i costumi che non esistono più, o comunque chi li ha non li usa. Nella zona intorno a Kaili solamente i Geija indossano ancora giornalmente l’abito tradizionale; mentre le donne Miao ora perlopiù indossano una casacca nera e usano raccogliersi i capelli in uno chignon in cima alla testa con una spilla di latta talvolta coperti da un ‘asciugamano ospite’ di fattura industriale. Le donne Miao della zona di Gulang invece, hanno una casacca azzurra ed un copricapo di stoffa color rame cinto da un tovagliolo blu, a volte decorato con spille o collane in china-silver. La Cina è un continente dove sopravvivono ancora molti usi e costumi antichi, una grande tradizione e cultura millenaria, ma al contempo è una nazione in forte sviluppo, che sta cercando di ammodernarsi nel più breve tempo possibile, inevitabilmente a scapito di qualcosa e qualcuno. Alcune cittadine o monumenti dichiarati ‘storici’ in realtà non lo sono minimamente, in compenso, ve ne sono molti altri in luoghi dove non ti aspetteresti nulla; valli che dovrebbero essere isolate ed irraggiungibili sono invece oggetto di devastanti cantieri stradali, mentre invece nel centro di Shanghai si possono trovare quartieri che sembrano cristallizzati all’epoca di Mao. Abbiamo trovato parchi giochi al posto di monasteri buddisti, ma anche templi confuciani intatti nascosti tra i palazzoni di cemento, un’intera tribù in abiti ultratradizionali dell’etnia Akha prendere un volo aereo tra Xining e Chengdu ed un centinaio di monaci tibetani dal cappello giallo fare una processione di alcuni km tra le montagne senza che ci fosse un solo fedele. Noi, in qualità di visitatori al primo approccio con questo panorama socio-cultural-popolare in rapidissima trasformazione non possiamo fare a meno di sentirci confusi e disorientati. E poiché sembra che sia impossibile sapere quando si potrà trovare ciò che si sta cercando, è forse meglio non cercare nulla ed accettare ciò a cui si assiste senza nessuna aspettava futura (che poi, per me, è un po’ il vero senso del viaggio).

Sabato 6 marzo 2010 – gg 144

Qui come in India, il treno è il mio mezzo di trasporto preferito, lo uso ogni volta che posso. Ci danno sempre le cuccette in alto, non so perché, forse un caso o forse ai cinesi non piacciono molto, non mi importa, io le adoro. In nottata siamo tornati a Kunming dove ritroviamo il caldo e il sole che contraddistingue il clima dello Yunnan. Girovaghiamo per l’intera giornata, domani mattina vorremmo andare a Dali, ma non possiamo in treno poiché risulta essere completamente pieno. Speriamo di avere più fortuna con gli autobus, ma al momento, qui in centro città, non c’è modo riservare alcun biglietto quindi lo scopriremo solo vivendo. maledetti musi gialli, per certe cose sono avantissimo, per altre meno. Nel sud-est asiatico, normalmente, in una qualsiasi delle mille agenzie presenti anche nei villaggi più sperduti o semplicemente alla reception di una guest house economica si può trovar di tutto. Dalle cose più semplici: informazioni, guide, connessione internet, servizio lavanderia o ristorante; alle più improbabili: cambio di valuta, biglietti ferroviari, autobus o aerei, visti per paesi stranieri, escursioni guidate, masterizzazione cd e dvd, ecc… Qui no, gli alberghi fanno solo da alberghi, i ristoranti solo da ristorante, ed i cambiavalute solo cambio di valute. Per lavare i vestiti bisogna andare in lavanderia, per connettersi a internet bisogna andare in un internet-cafè, per acquistare un biglietto ferroviario bisogna andare in stazione, per un biglietto dell’autobus al terminal di partenza, per un biglietto aereo in una delle rare agenzie viaggi oppure, di nuovo all’internet-cafè che però non stampa anche i biglietti, quindi con i file su chiavetta si cerca qualche negozio che abbia un p.c. collegato ad una stampante. Insomma, non è per nulla facile, ci sono molte cose da dire a molte persone diverse e quasi nessuno parla una parola di inglese.

Domenica 7 marzo 2010 – gg 145

Bus cittadino dalla stazione ferroviaria al terminal; autobus fino New Dali, e altro bus locale fino a Dali vecchia. Alle undici del mattino stiamo già passeggiando nel centro storico di Dali, o per lo meno in quel che ne resta. Ne ho viste di cagate patrocinate dall’Unesco, ma i cinesi superano ogni limite. Dov’è la cittadina ‘storica’ patrimonio dell’umanità? I sigilli sono apposti in ogni strada, su ogni monumento, quasi su ogni edificio, ma io ho il sospetto che le targhe siano false. Penso proprio che qui la gente le compri alle bancarelle e poi si auto patrocini, la casa, il pollaio, la moto, il maiale. Una sosta di qualche giorno tutto sommato può essere piacevole, vi sono anche numerose guest house e ristoranti adatti ad un target occidentale. Forse eredità di coloro che frequentavano questi luoghi negli anni ’70 e che sono andati via via diminuendo fino a scomparire del tutto. Tra le orde di turisti cinesi, le bancarelle ed i negozi di souvenir, sembra che di storico sia rimasto ben poco. Una parte della città vecchia è stata demolita e un’altra è in fase di demolizione; pare stiano costruendo complessi turistici e residenziali in stile “nuova vecchia Cina”. Neanche le antiche mura perimetrali sono state risparmiate, la parte nord ormai è scomparsa, in compenso però, hanno costruito una nuova ‘antica’ torre in centro. C’è anche un quartiere per il divertimento notturno, con discoteche e birrerie, completo di torrente sormontato da centinaia di lampade rosse con cascatelle e ponticelli in pietra.

Lunedì 8 marzo 2010 – gg 146

L’idea di pagare 120Y per mescolarmi con le migliaia di persone che ogni mattina si accalca davanti agli ingressi del favoloso tempio delle tre pagode mi fa rabbrividire, quindi proveremo a visitare i dintorni del lago. Veniamo subito a sapere che la navigazione civile sul lago Erhai è stata sospesa già da qualche anno, ora le uniche barche che possono attraversarlo sono quelle di proprietà dei grandi tour operator. Questi ultimi chiedono una cifra imbarazzante (150Y) per vedere quattro siti turistici d’interesse appositamente realizzati sulle rive. L’opzione “b” è viaggiare via terra; la strada tra il villaggio di Wasè e Jiangwei è in costruzione ad al momento non è transitabile. E allora come fanno gli abitanti della costa est ad arrivare alla costa ovest e viceversa? Fanno semplicemente il giro. Numerosi minibus collegano più volte al giorno Wasè con New Dali e New Dali con Jiangwei, e così faremo anche noi, ci si impiega qualche ora ma pazienza, il governo ha altre esigenze. Dalla fermata che sta vicino all’‘antica’ porta ovest prendiamo un bus e si và. Muovendosi di giorno tra campagne e città, attraversando valli e pianure, si ha l’impressione di essere perennemente nel mezzo di un cantiere. Dalle grandi opere, con scavi, rinterri, gru, ruspe ed escavatori che non si fermano neanche di notte, fino alle piccole costruzioni di privati che demoliscono, ampliano, riadattano o per lo meno ritinteggiano case e porticati. Ogni cosa sta mutando velocissimamente e forse già domani potrebbe essere diversa. La mia L.P., pubblicata solo qualche mese fa, in alcuni casi sembra descrivere una nazione diversa da quella che ho davanti agli occhi. L’antico in abbandono, lo storico ricostruito, il vecchio ammodernato, ed il nuovo antichizzato in stile “cina-imperiale” si mescolano in una insalata monocromaticamente piatta da cui non risalta il sapore di niente in particolare. La conclusione è uno stato d’animo altalenante, che passa dalla meraviglia all’orrore, dalla gioia alla rabbia, sfociando poi in un senso di impotenza e rassegnazione. La colpa un po’è nostra che ci eravamo illusi di poter visitare la Cina di Marco Polo ma molta è anche di queste piccole formichine che sono arrivate ad imitare loro stessi. Fortunatamente però, non tutto ciò che è marrone poi risulta essere merda e con un pochino di fortuna si riesce a vedere qualcosa che difficilmente si può trovare altrove. Visitando villaggi come Càicun, Shaping, ed altri che non sono neppure segnati in mappa, tra i viottoli che si inerpicano verso le colline e le viuzze che costeggiano il lago, non è difficile imbattersi in un umanità rurale e tranquilla, fatta di signore con abiti strani e copri capi colorati, tipici di chissà quale minoranza, che camminano, lavorano, e cucinano ed uomini, che fumando giocano a domino sotto i portici. Si possono trovare, anche se raramente sono visitabili, numerose abitazioni storiche, antecedenti alla rivoluzione culturale di Mao*, complete di portali monumentali e patii interni con dipinti benauguranti. (poiché ci sarebbe materiale per un libro, non mi dilungherò nella descrizione degli elementi architettonici e di decoro). Nel villaggio di Zhouchèng, la cui piazza ospita anche un bel mercato giornaliero, abbiamo l’occasione di assistere ad un funerale in pompa magna, con tanto di musicisti, corteo funebre, offerte di torte e dolciumi e tumulazione della bara in un cimitero di collina (mai visto il funerale di un cinese in Italia). Il villaggio di Wasè, con il suo mercato del mercoledì ci appare devastato dai bulldozer, le case sul lungo lago devono fare posto alla nuova strada, ma proprio qui in un piccolo tempio molto ben conservato, assistiamo alla nostra prima cerimonia religiosa taoista. Ci sono solo cinque persone: un uomo che ufficia la cerimonia e quattro signore anziane, ma sono fedeli veri, non figuranti. È fantastico!

* a parer mio, uno dei più grandi cretini che la storia ricordi;

Giovedì 11 marzo 2010 – gg 149

Stamattina ci siamo alzati presto per arrivare a New Dali e prendere l’autobus che ci lascerà al bivio per Shaxi; il tutto per poi accorgerci che il suddetto autobus si sarebbe comunque fermato a Dali. Tutta fatica inutile, ma va beh, poteva essere pieno !! Dal bivio prendiamo un taxi che ci porta in centro (30 Y nonostante trattativa, ma del resto io e Sabri eravamo gli unici ad aspettare un mezzo, nei precedenti 40 min. non è passato nessuno). Percorrendo i 27 km che ci dividono da Shaxi pare subito ovvio che la grande mano uniformatrice del governo qui non è ancora arrivata, Infatti l’indice di cantierizzazione è decisamente calato e la strada, a mala pena larga due corsie, è per lo più trafficata da carretti e motorette. I villaggi sono composti da piccole case in fango e legno con il tetti di tegole grigie incastonati tra i campi e ornati da ciliegi in fiore. Nessuna cava di sabbia o collina sventrata fa da sfondo. Da Shaxi una passeggiata di due ore su di un sentiero ben segnalato porta alle grotte di Shibao, contenenti templi di oltre 1300 anni ed incisioni buddiste rupestri e, tra le altre, le famose immagini del Bodhisattva Guanyin. Shaxi è un incantevole cittadina storica sulla via del tè, il centro è molto piccolo, ci sono sole tre vie ed una incantevole piazzetta. Tutti gli edifici sono stati ristrutturati con grande maestria in modo da esaltare il loro valore storico (per forza, a fare i lavori è stato l’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia di Zurigo mica il governo di Pechino). Seduti a un tavolo di legno di un localino che si affaccia sulla piazza cerchiamo di goderci al massimo l’atmosfera idilliaca ed incantata che ci circonda. Tutto è perfetto, nella sua bottega il barbiere taglia i capelli ad un uomo che indossa la divisa blu di Mao, nel locale accanto il calzolaio aggiusta un paio di scarpe, due bambini che giocano a biglie, il silenzio è rotto solamente dal cigolio della bicicletta di un contadino che con una zappa in spalla rientra dai campi. Ah no! Dimenticavo: ad un capo della via principale hanno portato due enormi massi, servono a costruire un’altra terribile anacronistica fontana, sintomo di un inevitabile quanto imminente tracollo del buon gusto. Per questa volta però facciamo finta di niente, ci godiamo per un paio di giorni il sole e la tranquillità di questa valle.

Sabato 13 marzo 2010 – gg 151

Taxi collettivo a ritroso per 27 km fino al bivio, autobus dal bivio al terminal di Lijiang e bus cittadino fino in centro. Se si dovesse giudicare tutta una città dal suo ingresso ce ne saremmo dovuti andare subito. L’enorme piazzale, anticamera della gloriosa ‘capitale dei Naxi’, è addobbato come un presepe; centinaia di lanterne rosso fuoco sono appese ad ogni angolo; un grazioso ruscelletto scorrendo, tra cascatelle e ponticelli, fa girare le ruote di un posticcio mulino ad acqua; su di un muraglione in cemento che fa da sfondo sono disegnati alcuni simboli della cultura Naxi; non mancano neppure i pastori erranti dell’Asia che con i loro pony si fanno scattare foto ricordo con i turisti in comitiva. In mezzo a tutte queste boiate, come un Gesù bambino nella mangiatoia, campeggia una scritta: Unesco World Heritage Centre. In realtà questo è un biglietto da visita che Lijiang non merita, un po’ come Piazzale Roma a Venezia: sembra essere solamente un parcheggio, ma è l’ingresso della città più bella del mondo. Dopo essere entrati un una ventina di guest house con insegne e cartelli in inglese, e dopo aver constatato per altrettante volte che nessuno parla inglese, affittiamo una stanzetta da una signora, senza dare garanzie inerenti alla durata del nostro soggiorno*, e ci apprestiamo a fare un giro. La cittadina è indubbiamente bella, con le sue casette basse, le strade acciottolate, i ponti e i canali. La mattina presto quando le attività commerciali sono tutte chiuse e le orde di turisti devono ancora arrivare si possono vedere le donnine Naxi, indossanti il vero costume Naxi, andare al mercato o al lavatoio. Verso le dieci la macchina turistica comincia a lavorare a pieno regime per cui, tra guide in costume, venditori ambulanti, e greggi di impiegati armati di Nikon c’è più pace. La tranquillità tornerà verso le 22:30 quando le discoteche della catena Sakura, ubicate in pieno centro chiuderanno. Gli Han hanno fatto proprio un bel lavoro, sono proprietari de tutte le attività commerciali presenti nel centro storico, i Naxi sono quasi scomparsi, nonostante il ‘corridoio culturale’ ad essi dedicato. In realtà, qui come altrove, la cultura etnica è sfruttata (quasi ridicolizzandola) a scopo turistico, solamente per fare cassa. Non serve molto per capire che il problema di Lijiang è lo stesso problema che ha tutta la Cina; troppi cinesi! Il posto comunque ci piace non poco, complice anche il clima decisamente caldo e soleggiato, e decidiamo di fermarci per qualche giorno.

*Sia gli alberghi che le guest house chiedono, oltre al costo della camera, una caparra che verrà restituita alla fine del soggiorno se non saranno stati causati danni e se tutti i patti saranno stati rispettati (tra cui anche il giorno di partenza) ** A Lijiang, alberghi e guest house dovrebbero far pagare ad ogni ospite un biglietto di 80Y che da il diritto di visitare la città; fortunatamente solo i grandi hotel rispettano questa regola.

Domenica 14 marzo 2010 – gg 152

Per evitare ressa, abbiamo deciso di visitare il centro di Lijiang solo di prima mattina e nel tardo pomeriggio. Durante il resto della giornata ci dedicheremo ai dintorni. Lijiang Shuhe è un villaggio satellite ad una manciata di km a Nord, raggiungibile con un bus cittadino (1Y) che come la maggior parte dei bus si ferma di fronte all’indegna piazza precedentemente descritta. Shuhe, non è nient’altro che la fotocopia rimpicciolita del centro di Lijiang, anche qui, passato e presente si prendono a pugni e le strade sono affollate da mandrie di cinesini in vacanza. Seduti al tavolo del “Mamma Mia” dove ci fermiamo a pranzare facciamo la conoscenza di Francesco e di Sergio Il primo, un ragazzone sulla quarantina, insieme ad un amichetta a mandorla, gestisce il suddetto ristorante italiano, ma in realtà credo che faccia tutto lei. Lui pare che non abbia neppure coscienza di dove si trova. Il secondo invece, nonostante la faccia pulita e rispettabile come quella di un impiegato di banca, è un viaggiatore duro e puro. Ormai da più di trent’anni (e ne ha cinquantacinque) vaga per il mondo; ogni tanto va in Australia o Nuova Zelanda, lavora per qualche mese e riparte. Nessuna casa, nessuna proprietà, nessun legame, solo una sorella in Italia a cui spedire una cartolina a Natale (stile di vita un po’ estremo che può fare solo chi ha una grandissima passione).(…). Un po’ più a Nord, il villaggio di Baisha, raggiungibile da Lijiang con un minibus (3Y) o da Shuhe con una piacevole passeggiata tra i campi, è al momento della nostra visita una piacevole alternativa al precedente. Quasi privo di negozi di souvenir e comitive, ospita un palazzo e qualche bancarella, ma pare essere famoso più che altro per la clinica del Dott. Ho. Chi sia in realtà questo signore col camice bianco non saprei dirlo, forse un medico, forse un erborista, sicuramente un simpatico vecchietto con una sala d’attesa gremita di contadini e un sacco di pazienza. Trova tempo anche per noi, ci intrattiene per mezz’ora raccontandoci un pochino la sua vita, di quando da giovane andava a raccogliere le erbe sulla “Montagna del Drago di Giada dal Corno Bianco” (ma perché i nomi cinesi sono sempre così lunghi? Fa schifo un nome come Cervino ?! … oppure Mottarone ??) Comunque; in cambio di una offerta ci da una tisana che ancora oggi Sabri tiene come reliquia su una mensola in camera.

A proposito della “Montagna del Drago di Giada”; pare strano che un escursione sui monti (che, da mondo e mondo, sono in salita, e sui quali difficilmente si trovano strade asfaltate) sia tanto voga tra le agenzie di Lijiang. La ragione è semplice, ecco come funziona: i maxi autobus a due piani conducono i piccoli cinesini in vacanza fino ad un parcheggio alle pendici del monte; da qui una modernissima funivia li porta fino in quota dove troveranno un’attrezzata struttura turistico-ricettiva, dalla quale poi, inizia una passeggiata sopraelevata larga e comoda in ferro e cemento che arriva quasi fino alla vetta. Verso le cinque del pomeriggio, proprio all’orario della rituale birretta quotidiana, la mia attenzione viene catturata da alcune persone che sotto ad un porticato ridono e scherzano bevendo Beerlao (la quasi introvabile nonché buonissima birra scura Laotiana! altroché le pessime birre cinesi color cedrata). Così mi accorgo subito di essere capitato alla festa di inaugurazione di un locale gestito da occidentali; senza riflettere un istante ci imbuchiamo. Tra una bottiglia e l’altra, ovviamente gratuite, incontriamo Diego; avrà al massimo trent’anni e, tutto da solo, ha messo in piedi un ristorante in centro. Dice che gli affari vanno molto bene, pare che la nuova classe media emergente abbia una gran voglia di spendere e di far vedere la faccia in giro … un po’ come da noi insomma!! Io rimango esterrefatto, in vita mia è la prima volta che sento degli imprenditori che non piangono miseria. Purtroppo Diego sarà il terzo ed ultimo compatriota che avremo il piacere di incontrare durante il nostro soggiorno cinese.

Ancora più a Nord di Baisha, si trova il Fuguo Monastery. La passeggiata di un’ oretta si può fare anche a piedi, la strada attraversa piccoli gruppi di case per poi inerpicarsi sulle colline tra i boschi; nonostante sembri essere un posto fuori dal mondo, quando arriviamo noi, troviamo un cantiere edile ed un set cinematografico con tanto di attori in costume e cineprese. Per l’ennesima volta troviamo qualcosa che non avremmo voluto trovare, non ci resta che rientrare costeggiando la nuova deserta larghissima statale, che passa appena lì dietro. Fortunatamente ci accorcia la strada un Lama, che vedendo due sagome ciondolare tristemente sul ciglio dell’asfalto, ferma il suo suv per offrirci un passaggio fino a Lijiang. Ancora una volta la cortesia e la gentilezza del popolo cinese ci ha sorpresi aiutandoci inaspettatamente e trasformando una piccola delusione in un sorriso.

Martedì 16 marzo 2010 – gg 154

Abbiamo preso l’abitudine di far colazione al Mama Naxi Guest-house, un po’ perché costa poco, ed un po’ perché il padrone parla un filo di inglese. Seduti ai tavoloni di legno in veranda, tra un uovo sodo ed una crepe alla nutella si parla con tanta gente: viaggiatori, perditempo, giramondo; è diventata una piacevole occasione per scambiarsi informazioni e punti di vista. Una mattina vedo un cinese che bussa alla vetrata e ci fa segno di uscire in strada. Dice di chiamarsi Roger, parla un buon inglese e fa la guida turistica per occidentali, (un lavoro senza futuro, le presenze saranno calate dell’80% negli ultimi cinque anni) ci propone delle escursioni, facciamo presente che i nostri gusti sono radicalmente differenti da quelli del suo popolo. Per la prima volta ci sentiamo compresi; concordiamo un escursione in collina, tra i villaggi dell’etnia Yi, (130Y). A dir la verità, Roger non è l’unica guida per occidentali che opera in Lijiang, ce ne sono due. L’altra è la sua ex moglie che abbiamo conosciuto ieri. Lei ci ha messo in guardia nei confronti dell’ex marito, dicendoci che è poco serio, che è un confusionario, uno smemorato ed un donnaiolo ma noi abbiamo comunque deciso di ingaggiarlo. Il motivo è semplice: la signora (precisa e professionale) è decisamente sovrappeso e difficilmente avrebbe retto un passeggiata di due ore in salita per arrivare nel primo di una decina di paesini dove non ci sono strade carrabili. Ecco come si è svolta l’escursione: il taxi ci viene a prendere davanti all’‘ignobile piazza’; Il tassista conduce noi e la guida fino ad un paesino non identificato; da qui imbocchiamo una mulattiera in salita; durante la salita faccio un cazziatone a Roger che pare si sia dimenticato i patti e fa confusione con le etnie; dopo un ora e mezza arriviamo nel primo villaggio dell’etnia Yi (figata); seguiamo il sentiero che, nelle prossime ore, attraverserà boschi, valli, villaggi in un clima da vera vecchia Cina (durante tutto il tragitto non incontriamo neppure un Han). A metà pomeriggio Roger si perde e sbaglia strada; verso le cinque si ritrova e sbuchiamo al Zhiyun Temple, un tempio tibetano lamaista molto bello è chiaro però, che l’idillio è finito. Dietro al tempio c’è un grosso cantiere, stanno costruendo il nuovo tempio … almeno non stanno distruggendo il vecchio (per ora); Appena a sud del centro di c’è lo Zhong Yi Marchet, che oltre a essere un movimentato mercato giornaliero dove si possono mangiare rane, tartarughe, cavallucci marini ed un sacco di altre specie in via di estinzione, è il posto da cui partono i minibus. Proprio da qui partono i minibus diretti al Zhiyun Temple, oppure al Puji Monastery. Quest’ultimo è un piccolo monastero (al momento) intatto, anche perché per ora non vi è alcuna strada che ci arriva; il pulmino si ferma al paese sottostante e per arrivarci bisogna seguire una mulattiera tra i boschi. La sera solitamente stiamo a Lijiang, ma prima di buttarci in quel turbinio di corpi sudati di famigliole in astinenza da acquisti che si accalcano nei negozietti o di rampolli adolescenti delle famiglie bene dell’est, che escono già ubriachi alle otto dai disco pub nei quali hanno trascorso il pomeriggio, ci prendiamo una pausa seduti sul dondolo nel minuscolo cortiletto della nostra guest house in compagnia della signora che lo gestisce. È usanza, dopo qualche minuto di conversazione (anche se nessun concetto viene recepito dall’altro interlocutore) bere insieme un tè. Il tè della qualità Pu’er è tipico di questa regione, si ritiene anche essere molto pregiato ed è piuttosto caro. Si può acquistare quasi ovunque qui a Lijiang, ed è venduto solitamente in panetti di foglie pressate dalla forma circolare alta pochi centimetri. Infatti, anche stavolta, ci vengono offerti i bicchieri già colmi di quell’orrido infuso. Rifiutare è impossibile, sarebbe un sacrilegio, se lo facessi probabilmente mi verrebbe tagliata la testa immediatamente … quindi, anche sta volta, mi sforzerò di berlo, nonostante proprio non piaccia. Sarà pure di qualità superiore, non discuto, ma nonostante ne abbia già bevuti una dozzina sta roba proprio non riesco ad appezzarla. Ma come fanno questi a bersela da 800 anni*? Bisogna avere le papille gustative fritte per mandarla giù, a me sembra di bere l’acqua del water scaldata. Ci mettessero almeno lo zucchero!!! … e pensare che il primo tè, avendo paura di non trovare l’occasione per berlo, me lo sono pure comprato, pagandolo quasi come un birra … * Effettivamente, a pensarci bene, tra doberman arrosto, zampe di gallina sotto vuoto e zuppe liofilizzate dall’odore nauseabondo e degli ingredienti sconosciuti, forse il tè è il meno peggio.

Mercoledì 17 marzo 2010 – gg 155

8:30 autostazione di Lijiang; 12:30 autostazione di Shangri-la; bus n°1 fino in centro. Il clima qui è decisamente diverso, il cielo è terso, ma l’aria è fredda. Durante il giorno arriva sui 20° ma di notte va sotto zero; anche i frequentatori sono cambiati, le strade sono semideserte, (probabilmente per i gruppi è bassa stagione) ed il rapporto ospiti-padroni di casa, passa da 1 su 1000 ad 1 su 50. Lungo le strade acciottolate della città vecchia le attività sono quasi tutte chiuse, ma quelle poche aperte sono carine ed accoglienti, hanno una stufa accesa e si può pure chiudere la porta. Anche le guest house offrono agli ospiti docce calde e coperte elettriche. Nonostante l’indice di cantierizzazione non sia molto alto, ed il monastero con la grande ruota di preghiera in cima alla collinetta nel parco della tartaruga sia in ottimo stato di conservazione, i segni inequivocabili del adeguamento turistico non si fanno attendere. La piazza principale, lastricata in granito, con tanto di statue leonine, mega fontana monumentale e l’immancabile ruscelletto, è il sintomo di un inevitabile destino. Con lo spirito oramai rassegnato, sapendo che non riusciremo mai ad abituarci ai continui interventi quasi mai migliorativi, tentiamo la sorte e cerchiamo di visitare, già oggi, il grande tempio Songzanlin (Sumtselling Gompa). Purtroppo qualcosa va storto, il bus n°3 che abbiamo preso in centro si ferma poco dopo la rotonda a nord della città. Un militare ci fa scendere e mentre il bus riparte ci accompagna in una grande struttura (tipo centro commerciale) per acquistare il biglietto (120Y). L’ennesima Disneyland ! … e poi che rincari ! Ripieghiamo, per oggi si desiste … ma torneremo meglio attrezzati, è una promessa.

Giovedì 18 marzo 2010 – gg 156

Riproviamo ad andare allo Sumtselling Gompa, ma questa volta non vogliamo entrare dall’ingresso principale, ma bensì dal retro. Ieri sera un ragazzo danese conosciuto al ristorante ci ha informati dell’esistenza di un sentiero che aggira la biglietteria e permette di entrare gratis. Su un tovagliolo ci ha disegnato una mappa, piuttosto vaga ma comprensibile. Seguiamo la strada che va verso Deqin, dopo un paio di km imbocchiamo un sentiero sulla destra, che ci porta ad attraversare un villaggio. Accidenti mi rendo conto ora che l’architettura delle case è decisamente cambiata, questi sono villaggi tibetani. È la prima volta che vediamo uno. Le case in pietra e fango hanno porte e porticati finemente decorati, le grandi finestre sono decorate con colori vivaci ed un ed un tettuccio spiovente ne ripara la parte superiore; I pilastri in legno, che sostengono la struttura, hanno sezioni notevoli e le stanze interne sono grandi quanto un monolocale milanese, solo il gabinetto è un po’ angusto, (un buco tra assi di legno nella torretta d’angolo del cortile). Lungo il sentiero sono stati costruiti muri di preghiera dove pellegrini possono deporre le pietre su cui hanno inciso mantra, ed in lontananza possiamo già vedere il tetto d’oro del Gompa sormontato dal Dharmachakra in compagnia di due antilopi. Appena arrivati al Chora, con il grande muro bianco bordato di rosso e nero come le pareti degli edifici sacri alle sue spalle, ci intrufoliamo attraverso una porta di servizio. Cercando di non farci notare, scaltri e furtivi con un camion di eternit verso una discarica abusiva, arriviamo fino al tempio principale.* Accortici che nessuno si cura della nostra presenza, ed avendo già visto quello che ci interessava vedere, decidiamo di fare un giro più ampio. Non avendo esperienze precedenti non sappiamo come giudicare questo complesso religioso, certo è che, passeggiare sotto le bandierine colorate, poter osservare da vicino uno stupa e far girare le ruote di preghiera è una sensazione impagabile tant’è che quasi non notiamo quella gru e quelle betoniere posizionate proprio in cima alla collina.

*Nei Gompa spesso i templi principali sono due: il primo, solitamente più piccolo ed alto, contiene una statua di Buddha sovradimensionata rispetto all’edificio stesso, quasi da non lasciare spazio attorno, ai piedi della statua un altare colmo di offerte e profumatissime lampade al burro; Nel secondo invece, molto più ampio e basso, si trovano tavolini e poltroncine in velluto rosso, una foto del Dalai Lama sul fondo e lungo le pareti vetrinette contenenti libri, drappi e altri oggetti sacri. Il porticato antistante, finemente decorato e solitamente coperto da un tendaggio nero molto pesante, i fedeli pregano all’esterno davanti alla porta chiusa. Sumtselling Gompa 2007, Sumtselling Gompa 2012 (la struttura centrale che in origine era più piccola delle due laterali è ora molto più grande).

Venerdì 19 marzo 2010 – gg 157

È ancora tutto ghiacciato, fa un freddo porco, il sole è sorto da poco e noi siamo già sull’incrocio della Tuaniie Lu a cercare un passaggio per andare a Benziland. Passa una monovolume con tutti i vetri brinati; un cenno, si ferma. 80 km a viaggio, un paio d’ore per andare ed altrettante per tornare, altre tre per la visita ed il pranzo. Dovremmo essere di ritorno per le due del pomeriggio; chiudiamo la trattativa a 300Y. Quando arriviamo al Dhondrupling Gompa, non c’è nessuno, solo una manciata di pellegrini che recitano mantra ossessivi mentre fanno girare la ruota di preghiera e una decina di monaci con la testa rasata e l’abito porpora (non hanno l’aria di gente che si lava spesso, è comprensibile, con sto freddo… e poi quando c’è la spiritualità…). Uno di loro ci viene incontro, e dopo averci fatto pagare il biglietto (30Y), ci accompagna all’interno del Gompa. Finalmente qualcuno che parla due parole d’inglese. Durante un’accurata visita nella quale visioniamo svariate e curiosissime statue di Buddha, e ci viene spiegata la differenza tra Mantra e filosofia (che come tutti ben sanno sono le due parti fondamentali del buddismo Mahayana o tibetano), buttiamo lì qualche domanda inerente al governo, alle condizioni dei monaci, al Dalai Lama. Il monaco è un po’ restio a confidarsi, rimane abbottonato; alla fine riusciamo soltanto capire che almeno qui per il momento non sono previsti grossi cambiamenti, e che i soldi del biglietto rimarranno a loro per le piccole opere di manutenzione. Dopo aver visitato con estrema calma il piccolo paesino monastico, rassicurati al pensiero che almeno questo Gompa non corre pericoli immediati ci rimettiamo in auto. Una mezz’ora dopo aver lasciato Benziland troviamo un cartello in mezzo alla strada che cita: “strada chiusa per lavori” (ovviamente in cinese), strano! siamo passati di qui tre ore fa, e la strada era libera. Beh, non c’è nessuno. -“Proseguiamo!” dico io.“Quando troveremo il vera interruzione ci metteremo da parte, magari per allora si potrà passare.” -“Impossibile !” mi cazzia subito l’autista. -“Va bene, allora aspettiamo.” Arriveremo in città alle otto di sera, ovvero, con sei ore di ritardo. La ragione è semplice: il governo se ne frega dei cittadini, chiude e apre le strade a suo piacimento senza dare il benché minimo preavviso. Ora stanno potenziando la strada da Deqin a Lhasa ed è in progetto anche una ferrovia tra Lhasa e Kunming. Ma se gli piace così tanto fare strade perché non ne costruiscono una per andare a Vancouver?? (Nonostante il terribile immenso ritardo, il tassista non ha fatto una piega, non ci ha chiesto nemmeno uno yuan in più. Abbiamo dovuto insistere per lasciargli una mancia di 30Y.)

Lunedì 22 marzo 2010 – gg 160

Siamo tornati a Lijiang per godere ancora per qualche ora del suo clima estivo. Oggi è l’ultimo giorno, passeggiammo tra le viuzze che ormai conosciamo a menadito, nel cuore c’è già un pizzico di nostalgia per questo sud cinese che ci ha dato, tra amarezze e delusioni anche tante … boh … qualcosa! Non so esattamente cosa, ma qualcosa di bello presumo*!!! “Addio, Yunnan ‘dalle cento torri’**”; domani voleremo fino a Pechino, Passeremo dalle campagne alla città, dalla periferia dell’impero alla capitale, dalle stelle alle stalle, dalla padella alla brace!

*No, è uno scherzo, in realtà è stata un esperienza notevole.

**Come soleva dire un mio amico quando se ne andava da un posto che gli era piaciuto molto. pollo.vagante@gmail.com

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