Cè – zù – bèh Myanmar

Per una serie di circostanze e di contrattempi “dovrò” andare in Myanmar da solo. E’ la prima volta che faccio un viaggio “solitario”, chissà che esperienza sarà. Ho contattato via internet qualche persona in Myanmar per concordare l’itinerario del viaggio ed il noleggio dell’auto + autista. Dopo svariati contatti ho scelto...
Scritto da: Bushman
cè – zù – bèh  myanmar
Partenza il: 28/01/2008
Ritorno il: 15/02/2008
Viaggiatori: da solo
Spesa: 2000 €
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Per una serie di circostanze e di contrattempi “dovrò” andare in Myanmar da solo. E’ la prima volta che faccio un viaggio “solitario”, chissà che esperienza sarà. Ho contattato via internet qualche persona in Myanmar per concordare l’itinerario del viaggio ed il noleggio dell’auto + autista. Dopo svariati contatti ho scelto l’offerta fattami da T. Innanzitutto perchè il prezzo richiesto era molto conveniente, ed anche perchè da ciò che avevo letto sul suo conto e dalle varie e-mail che ci siamo scritte (in italiano), mi aveva suscitato molta fiducia che, alla fine del viaggio, è stata ben riposta.

29 gennaio Sono partito alle 19,50 di ieri (28 gennaio) da Roma ed alle 9,00 di questa mattina sono arrivato all’aeroporto di Yangon, con un volo della Thai Airways Roma – Bangkok e Bangkok – Yangon. Mentre disbrigo le veloci formalità burocratiche, intravedo un tizio che espone un piccolo cartello con su scritto il mio nome. E’ t.. Ci presentiamo mentre mi accompagna a ritirare il bagaglio. Dopo pochi minuti di attesa arriva la mia valigia, sana e salva. Fuori l’aeroporto c’è S. Che ci aspetta. Sarà il mio autista-guida per tutto il viaggio. Prima di iniziare la visita di Yangon passiamo dall’hotel (Yoma Hotel) consigliatomi da T.. Vedo la stanza, la prendo per $ 13 a notte. Teo mi accompagna per un primo giro di Yangon con visita al porto sul fiume Yangon, al Budda reclinato (enorme!!), alla Sule Paya, ad un Budda seduto (anche questo grandissimo), al parco del lago Kandawgy con una stupenda veduta della Swedagon Paya. Facciamo il giro anche di due grandi mercati. Torno in hotel verso le quattro, faccio una dormitina di un paio d’ore e, dopo una doccia, esco per una prima esplorazione solitaria di Yangon, anche perchè l’hotel si trova proprio in centro, non molto lontano dalla Sule Paya. I locali dove si mangia sono tutti pieni e dopo aver girato per un pò, mi convinco ad entrare in uno di essi per cenare. Ordino del riso fritto con pollo e bevo un paio di birre alla spina. Pago il conto (2.500 Kyat, poco più di 2 $). Accendo un sigaro e faccio una camminata prima di tornare all’hotel. Sono l’unico occidentale in giro, e vengo notato facilmente. Qualcuno mi sorride, altri mi ignorano, altri ancora mi salutano. Credo che, comunque, sia un popolo aperto ed ospitale, e penso che debba “sciogliermi” anche io.

30 gennaio Alle 8,00, puntualissimo, arriva S. E partiamo per Bago dove arriviamo intorno alle 10,00. Per visitare tutti i templi bisogna pagare una tassa di 10 $. Saw mi suggerisce di non pagare e di visitare i templi dall’esterno, anche perché in alcuni di essi l’entrata è libera. Visito tutto ciò che c’è da vedere. In particolare mi colpisce un monastero buddista con i monaci che sono intenti alla preparazione del pasto principale, ovvero quello che si consuma intorno alle 11,30. I monaci mangiano due volte al giorno: a colazione ed a pranzo ma non oltre le ore 12,00 perché trascorso mezzogiorno non possono più toccare cibo. Ci fermiamo ad ammirare un enorme Budda reclinato. Lascio S. Per il pranzo ed io mi avvio verso un’altra Pagoda molto bella dopo aver mangiato un paio di fette di cocomero (è il mio pranzo). Finita la visita di Bago ci avviamo alla volta di Kinpun da dove, l’indomani mattina presto, si partirà per la Golden Rock. Durante il tragitto facciamo tappa presso il mercato di un villaggio dove una ragazzina, che mi offre delle cipolle fritte che però rifiuto, si fa fotografare ridendo a crepapelle. La gente mi sorride ed è molto cordiale. Arriviamo alle porte di Kinpun dove S. Mi lascia al Sunrise Hotel. Albergo molto bello e dove prendo una stanza per la notte al costo di 15 $.

Dopo aver fatto una doccia ristoratrice, verso le 19,00 mi incammino per la strada che conduce a Kinpun. La strada è buia e devo ricorrere all’ausilio di una torcia a batteria per non inciampare in qualche buca e per segnalare la mia presenza alle auto che incrocio. Dopo una breve camminata di circa 10 minuti, giungo a Kinpun. Questa cittadina non è altro che una strada con ai due lati una miriade di bancarelle, ristoranti, guest house, ecc. Come sempre mi sento molto osservato, anche perché sono l’unico occidentale che c’è in giro. Molti mi guardano distrattamente, altri mi osservano con più attenzione, altri mi salutano con un cenno che volentieri ricambio. Ceno in un “ristorante” e mangio dei vermicelli di riso fritti con pollo. Mi servono anche una zuppa (acqua bollente con verza a pezzettini) e bevo una birra. Credo che mi abbiano “fregato” perché ho pagato 4.500 kyat (poco meno di quattro dollari) ma non è così perchè la birra costa molto. Sono rientrato in albergo ripercorrendo a ritroso la strada completamente buia. Sono solo ma con il favore del buio ho l’occasione di apprezzare un luminosissimo cielo pieno di stelle (quasi come quello africano). Ora spero di dormire perché domani devo svegliarmi alle 5,00 in quanto alle 6,00 si parte per la Golden Rock.

31 gennaio Sono le 21,30 e tra una mezz’ora andrà via la luce. E già perché in Myanmar alle ore 18,00 circa, tutti i giorni, c’è il black-out elettrico, ed allora molti, specialmente coloro che hanno delle attività commerciali, si sono muniti di un generatore, però ad una certa ora, questa sera alle 22,00, viene spento anche quello.

Oggi è stata una giornata fantastica, e più precisamente la prima metà di essa, perché dalle 13,00 alle 19,00 abbiamo viaggiato da Kinpun a Taungoo. Mi sono svegliato alle 4,00 del mattino perché dalla piazza di Kinpun arrivava la voce, irradiata da un altoparlante, di un tizio che dava istruzioni (almeno così credo perché non capivo nulla) ai pellegrini in attesa di raggiungere la Golden Rock. Gli addetti dell’hotel si sono dovuti svegliare prima del solito solo per permettermi di fare colazione alle 6,00 così da poter andare presto alla Golden Rock. Alle sei ed un quarto il buon S. Mi accompagna nel centro di Kinpun da dove partono i camion che trasportano le persone per metà dell’ascesa che conduce alla Golden Rock. Gli automezzi sono dei camion adattati al trasporto di persone. Su di essi sono stati montati, in fila, sette assi di legno, dove si “accomodano”, su di ognuno di essi, sette persone. Si parte quando il camion è completamente pieno, non prima. S. Mi indica il mio camion e mi fa una mappa del percorso. Una prima parte, che viene percorsa in circa 1 ora, si fa con il camion. La seconda parte, che è una salita, in alcuni punti molto impegnativa, deve essere percorsa a piedi o, se si vuole, seduti su una sorta di sedia sorretta da due grosse canne di bambù e portata a spalla da quattro persone. Salgo sul camion e, manco a dirlo, tutti mi osservano, un ragazzo seduto davanti a me si mostra, sorridendo, molto gentile. Mi chiede da dove vengo e mi informa su quanto debbo pagare per il camion.

Dopo circa tre quarti d’ora giungiamo ad una piazzola dove il camion si ferma e veniamo fatti scendere. Io, senza indugio, mi avvio per la salita che effettivamente è molto faticosa. Per un primo tratto mi fa compagnia il ragazzo che era seduto davanti a me sul camion il quale mi chiede di tutto e, comunque, facciamo una piacevole chiacchierata.

A metà della salita avevo già tutta la maglietta zuppa di sudore, mi siedo per riposare un attimo e, immancabilmente, vengo avvicinato da un altro ragazzo. Inizia, come d’uso, a chiedermi da dove vengo. Si chiacchiera di tutto e mi fa compagnia fino alla Golden Rock e giuntoci ci lasciamo ed io me ne vado, in perfetta solitudine, ad ammirare questo sito molto importante per buddisti.

Faccio un largo giro andando a visitare anche altre piccole pagode che si trovano nei dintorni, rigorosamente scalzo. Perché in tutti i luoghi di culto si deve andare senza nulla ai piedi, neanche le calze. Mentre faccio il mio giro (circa un paio d’ore) mi viene incontro il ragazzo di prima, scambiamo ancora delle battute e poi lo saluto definitivamente ma prima lo ringrazio per la simpatica compagnia. Mi avvio per la discesa per raggiungere il piazzale dove si trovano i camion. Scendere è sicuramente meno faticoso che salire, ma spezza le gambe ed indolenzisce le ginocchia. Giunto al piazzale mi avvicino al primo camion che è in procinto di partire, su di esso sono già seduti una coppia di turisti (credo tedeschi) e tre donne birmane. Quando salgo anche io sono le 10,30 e prima che il camion si riempia completamente trascorre un’ora e mezza. Infatti, quando si parte è mezzogiorno. Questo è il Myanmar, bisogna armarsi di pazienza e… Attendere. Di nuovo tutti mi osservano ma nessuno mi rivolge la parola, credo perché nessuno sappia l’inglese. Tra i passeggeri c’è anche un anziano monaco ed un bimbo anch’egli monaco buddista. Quando mi volgo a guardarlo lo sorprendo a fissarmi ed immediatamente distoglie lo sguardo. E’ un gioco che andrà avanti per parecchio. Durante l’attesa della partenza, poiché stare seduti non è particolarmente comodo, mi alzo per evitare che le gambe si atrofizzino. La prima volta che mi alzo vengo fatto oggetto di attenzione e tutti mi sorridono facendomi cenni di comprensione per il dolore alle gambe. La seconda volta che mi alzo una ragazza, che è seduta dietro di me, fa notare a tutti che io sono seduto sulla testa di un bullone che sporge dalla trave e che quindi è anche questo il motivo del mio dolore al didietro. Tutti i passeggeri del camion, con la sola esclusione dei due turisti tedeschi che imperterriti continuano a fissare il retro della cabina di guida (???), scoppiano in una fragorosa e prolungata risata. Un omaccione dalla faccia simpatica mi guarda e si sganascia dal ridere, ed allora, ridendo anche io, a gesti gli chiedo se vuole fare a cambio di posto, ma lui non accetta. Altro motivo, per gli altri passeggeri, di farsi un’altra risata. Per tutto il viaggio di ritorno fino Kinpun mi sento particolarmente osservato. Osservano tutto ciò che faccio, cosa guardo, forse anche cosa penso. Me li sento tutti addosso i loro occhi ma non mi danno fastidio, non mi sento in imbarazzo. Inconsapevolmente mi ritrovo stampato sulla bocca un sorriso sereno e soddisfatto. Non sarà che il loro proverbiale sorriso ha il potere di essere contagioso ? Chissà! Comunque, a parte l’essere seduti in modo scomodo, è stato un breve piacevolissimo viaggio.

A Kinpun mi attende S.. Passiamo dall’hotel a saldare il conto e ci avviamo alla volta di Taungoo dove pernotteremo. Il viaggio fila senza intoppi ed arriviamo a Taungoo che è già sera. Il Mother’s Hotel è pieno e quindi andiamo alla Myanmar Beauty Guest House. Camera molto ampia e bella, arredata con gusto con mobili in tek, ma il bagno lascia un po’ a desiderare. Comunque la prendo per 12 $. Insieme a S. Vado a cenare al ristorante cinese del Mother’s Hotel. Dopo cena si va a nanna. Mi addormento presto, non ce la faccio neanche a scrivere, la Golden Rock mi ha proprio stremato.

1 febbraio La tanto rinomata prima colazione della Myanmar Beauty Guest House risponde a verità. Non sono riuscito a finirla, ne avrò consumato poco più della metà, ed ero già completamente pieno. Pago il conto, salutiamo e si parte, ma fatti appena cento metri, mi accorgo che ho in mano la chiave della camera. Dico a S. Di fermarsi e mentre stiamo per fare retro marcia ci accorgiamo di essere rincorsi da una ragazza dell’hotel. Mi stava portando il mio zaino, l’avevo dimenticato. Finalmente si riparte ma, appena fatti un paio di chilometri, mi accorgo di aver dimenticato gli occhiali. Bisogna tornare indietro. Salgo in camera, prendo gli occhiali e, sperando che questa sia la volta buona, si riparte. Durante il tragitto facciamo una breve sosta nei pressi di una piccola scuola dove faccio un paio di foto ai bambini e dove consegno ad una insegnante alcune penne e pennarelli portati dall’Italia. Lungo la strada non si incrociano molte auto, gli autobus sono stracolmi di viaggiatori pigiati come sardine. I camion trasportano merci e persone accovacciate sulla cabina di guida e, in caso di una improvvisa fermata, farebbero un bel volo. Poi ci sono molti piccoli vecchi camioncini di fabbricazione cinese, quelli che davanti hanno il motore simile a quello di un trattore e due piccole ruote. Ci sono molti motorini ed una infinità di biciclette, come in Cina fino a qualche anno fa. Per i motociclisti il casco è obbligatorio. Esso però è identico al vecchio elmetto usato dai soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale o a quello indossato dai soldati tedeschi. Lungo il tragitto incontriamo alcuni gruppi di persone, composti per la maggior parte da donne, che lavorano alla manutenzione delle strade. S. Mi dice che lavorano 8 ore al giorno per circa 2,50 $. Nei villaggi ed anche nelle periferie delle cittadine, l’abitazione non è altro che una palafitta. E questo per essere all’asciutto anche durante la stagione delle piogge. Ho osservato che lungo le strade, ogni tanto, sopra una specie di scaffale di legno, sono state poste due o tre otri di media grandezza. Saw mi ha detto che sono piene di acqua e chiunque passi ne può approfittare per dissetarsi, insomma sono delle “fontanelle” pubbliche. I Birmani guidano in una maniera che per noi sarebbe impossibile. E’ vero che molte infrazioni al “codice della strada” se le possono permettere perché il traffico è assai scarso, ma ad esempio ho notato che se si incrocia un automezzo che sta effettuando un sorpasso invadendo, in senso opposto, la tua corsia di marcia, non gli si dicono le parolacce ma, bensì, si rallenta o addirittura ci si ferma per permettergli di concludere il sorpasso.

Durante il tragitto ci siamo fermati in una cittadina di nome Takkone affinché S. Potesse pranzare. Io, invece, me ne sono andato un po’ in giro. Entro nel mercato e, come ormai mi succede abitualmente, sono l’unico occidentale che è in giro. Mi sento osservato come se fossi un marziano, ma ormai ci sto facendo l’abitudine. Takkone sembra una città mercato, ci sono negozi e bancarelle dappertutto che vendono di tutto. Nessuno mi importuna o tenta di vendermi qualcosa, al massimo te lo chiedono una volta sola. Arrivati a Kalaw prendo una stanza all’Eastern Paradise Hotel ($ 10). Nella hall dell’hotel incontro una turista solitaria abbastanza giovane, le chiedo da dove viene e lei, tutta risentita e con fare acido, mi risponde che viene dalla Grecia. Da quando sono in Myanmar è la prima persona sgarbata che incontro e, guarda un pò, è occidentale.

Esco verso le 19,00 per la cena. S. Mi ha detto che alle 20,00 i ristoranti chiudono. Vado a cenare al Myanmar Food. Noto che alcuni avventori hanno i lineamenti simili ad alcune etnie nepalesi. Trovo conferma nella Lonely Planet. A Kalaw vivono i discendenti di Gurkha, i soldati nepalesi che prestavano servizio nell’esercito britannico e che, alcuni di essi, si sono stabiliti a Kalaw. Ordino un piatto tipico birmano, il montone con del riso, ma mi portano anche tante altre cose, tra di esse una zuppa con mais e cipolle, e delle specie di palline che non sono altro che dei dolci fatti con lo zucchero di canna.

2 febbraio Alle 7,30 si parte e, dopo un breve giro di Kalaw si parte alla volta di Nyaungshwe (Lago Inle). Si attraversano delle zone di collina molto belle e noto che i campi vengono ancora arati con l’ausilio dei buoi. Alle 10,00 arriviamo a Pindaya non senza aver prima fatto un paio di soste per le foto. Una a delle ragazze che lavoravano al rifacimento del manto stradale; un’altra ad un uomo che con l’aiuto di un passino e del vento stava cernendo il grano; un’altra ancora ad un gruppo di bimbi che nel rivedere le foto sul display della macchina fotografica esclamavano meravigliati e si son fatti un mare di risate; ed infine ad una simpaticissima nonna che mi abbracciava ed alla quale ho anche dato un bacio sulla fronte.

La visita alla grotta di Pindaya dura circa un’ora. La grotta è stupefacente. Ci sono decine e decine di statue di Budda delle più svariate dimensioni ed in varie posizioni e tutte dipinte color oro. Ci si addentra nella grotta camminando, tra le statue, per degli stretti percorsi ed a volte si fa fatica a passare. Dopo aver fatto un giro visitando anche un monastero dove risiedono dei monaci buddisti, alle 11,30 circa si riparte per raggiungere il lago Inle.

Attraversiamo una bellissima campagna e facciamo uno stop presso un gruppo di persone che, in mezzo ad un campo, sta “trebbiando” il grano come si faceva da noi fino a qualche decennio fa. Mi avvio a piedi verso di loro, appena mi notano iniziano a fare commenti tra di loro e a ridere, però non si sottraggono alla mia richiesta di fotografarli, anzi ne sono ben lieti. Si riparte e dopo un po’ ci fermiamo in un villaggio perché S. Deve pranzare. Io, come al solito, me ne vado in giro. Entro in un chiassosissimo mercato dove compro anche dei mandarini per il mio pranzo. Alle 14,45 arriviamo a Nyaungshwe ed andiamo subito da un amico di S. Per vedere se è possibile fare un giro in canoa lungo i canali che si trovano nei pressi della cittadina. Nyaungshwe è una piccola città che si trova lungo un canale a circa 6 chilometri dal lago Inle e da dove partano tutte le barche per fare il giro dei villaggi situati ai bordi del lago e lungo i vari canali che discendono dalle montagne circostanti e si gettano nel lago. Ci accordiamo per un giro di un’ora al costo di K 2.000 con partenza alle ore 16,00. Nell’attesa andiamo all’Aung Mingalar Hotel. L’albergo è molto buono, simile al Sunrise Hotel di Kinpun e prendo la camera per 2 notti a 12 $ a notte.

Alle 4 in punto salgo su una piccola e, per me, instabile canoa che una graziosa ragazza manovra con un singolo remo. Sarà anche “turistico” ma il giro in canoa tra i piccoli canali, con sosta anche ad un monastero, non è niente male. Torno in albergo e, dopo una rigenerante doccia, esco per cercare un ristorante per la cena.

Passo davanti al Golden Kite, dove fanno anche pasta e pizza, ma rinuncio innanzitutto perché ci vedo solo turisti e poi perchè difficilmente mangio cibo italiano quando sono all’estero. Torno indietro e decido di cenare allo Smiling Moon. Mangio piatti cinesi molto buoni e poiché ci sono solo altri due avventori, ho la fortuna di essere servito da due graziosissime ragazze che scopro essere sorelle.

3 febbraio Dopo aver incontrato il proprietario della barca, altro amico di S., che mi accompagnerà per il giro del lago, alle 8,00 si parte. Il giro del lago dura fino alle 15,30 circa e mi costa K 15.000, però sono da solo. Sono sicuro che se si fa insieme ad altri si risparmia, però per me va benissimo così.

Appena giunti al lago incontriamo i pescatori che remano con l’ausilio di una gamba. Avevo letto in qualche diario di viaggio che questi pescatori remano abitualmente con le mani ma quando vedono qualche turista si mettono a remare con la gamba. Ebbene, non è vero, perché li ho visti da lontano che remavano con la gamba e nei paraggi non c’erano turisti. Essi sono costretti a remare con una sola mano aiutandosi con una gamba perché l’altra gamba la tengono sulla barca e l’altra mano gli serve per tendere le reti o manovrare una specie di cesta fatta ad imbuto che immergono nell’acqua dall’estremità più grande.

Attraversiamo molti villaggi costruiti su palafitte lungo i canali ai margini del lago, faccio visita anche ad un paio di pagode e vedo anche i famosi orti, dove vengono coltivati, principalmente, i pomodori. La vita si svolge tutta lungo i canali e sul lago, e dipende dall’acqua. Infatti, essa viene utilizzata per lavarsi, per bere e per tutti gli usi domestici. Ho notato che poco distante dalle abitazioni c’è un “casotto” più piccolo, è il “bagno” che dà direttamente in acqua.

Ritorno a Nyaungshwe e, prima di andare in albergo, faccio una passeggiata per la cittadina. Esco per la cena e, anche perché sollecitato da S., decido di andare a mangiare al Golden Kite. Entro, mi siedo ed immediatamente viene verso di me il titolare. Mi saluta e mi chiede da dove vengo, gli rispondo dall’Italia e gli chiedo se è vero che la pasta è buona come si dice. Immediatamente mi invita ad andare in cucina e, con l’orgoglio di chi mostra a parenti ed amici il suo figlio primogenito, mi fa vedere la “macchina” con la quale fa la pasta che le è stata regalata da una signora di Bologna. E’ lo stesso attrezzo che usiamo nelle nostre case per fare la pasta. Poi mi mostra il forno, rigorosamente a legna, nel quale cuoce le pizze. Notando però il mio scetticismo, quasi lanciando una sfida, mi sprona a mangiare le tagliatelle. In fin dei conti cosa mi costa, al massimo avrò consumato una cena non buona, e non sarà mica la prima volta. Mi decido ed ordino le tagliatelle con pomodoro e basilico. Lui mi consiglia di aggiungerci anche dei funghi champignon. Accetto. Quando il cameriere mi porta un molto abbondante piatto di tagliatelle, porta anche un piccolo recipiente con del “parmigiano” grattugiato. Solo che il “parmigiano” viene importato dall’Australia. Attacco il piatto di pasta e, gradita sorpresa, è molto buono. Mangio anche una banana fritta al cioccolato insieme a S. Che nel frattempo mi aveva raggiunto. Dopo aver bevuto un Myanmar Rum, faccio i miei più vivi complimenti al titolare del Golden Kite, accendo un sigaro e mi incammino, soddisfatto, verso il mio hotel. A proposito, a Kalaw e sul lago Inle la sera ed il mattino fa un po’ fresco quindi bisogna portarsi qualcosa di più pesante.

4 febbraio Alle 8,00 circa si saluta Nyaungshwe e si parte per Mandalay. Dovrebbe essere solo una tappa di trasferimento, ma viaggiando in auto non è mai noioso, c’è sempre qualcosa da vedere. Ci fermiamo una sola volta in un villaggio per il “solito” pranzo di S.. In un momento che resto solo vengo avvicinato da un tizio che si presenta e mi chiede da dove vengo. Gli rispondo che vengo dall’Italia e lui mi dice che è il “responsabile” della “sicurezza” del villaggio. Gli dico che non parlo bene l’inglese ma lui insiste e, finché non ce ne andiamo, resta a parlare con noi. Ho avuto l’impressione che fosse un “governativo” con l’intento di indagare. Mentre attraversiamo un villaggio notiamo una certa animazione e lungo la strada ci sono delle balle di cotone bruciate e si sente un odore acre. Penso che possano essere i “residui” di una manifestazione popolare, ma un paio di chilometri più avanti, lungo le sponde di un piccolo lago, vediamo una moltitudine di gente che sta osservando le operazioni di spegnimento di un camion carico di balle di cotone e che il conducente, accortosi dell’incendio, ha pensato bene di condurlo direttamente nel lago. Infatti, è immerso nell’acqua per una buona metà di esso, ma nonostante ciò alcuni uomini sono costretti, con l’ausilio di secchi, a gettare l’acqua sulle balle che ancora “fumano”. Appena entriamo in Mandalay, mi coglie un pungente odore di smog, si fa perfino fatica a vedere, gli occhi mi bruciano un po’. Arriviamo al centro di Mandalay ed andiamo all’ET Hotel dove mi offrono una stanza per 10 $ a notte. La vedo e non mi piace. E’ piccola, non certamente linda, ed il bagno è poco funzionale, infatti non è propriamente un bagno con doccia, ma una doccia con dentro il water. Si deve scegliere perché una volta fatta la doccia il bagno diventa impraticabile. Comunque la prendo lo stesso ma avendo ottenuto uno sconto, infatti mi costerà $ 8 a notte. Mi siedo ad un tavolo di un “ristorante” che si trova non molto distante dall’hotel e che mi è stato consigliato da S., dove cucinano gli spiedini, ne ordino 3 ma non è come da noi, gli spiedini te li cucinano e poi te li servono conditi con del sugo piccante, in un piatto. Finito di mangiare torno in hotel e me ne vado a nanna.

5 febbraio Alle 5,30 circa vengo svegliato da vari rumori provenienti dello stesso albergo e delle case circostanti. Non c’è verso di dormire ancora. Con un po’ di difficoltà riesco a farmi la doccia ed alle 7,45 scendo in strada. Ho appuntamento con S. Alle 8,00.

Partiamo per il “porto” sul fiume Irrawady per potermi imbarcare su un barcone che mi porterà a Mingun. In attesa della partenza, che è fissata per le 9,00, faccio due passi lungo il fiume dove molte persone sono impegnate a caricare e scaricare merci. Sulla sponda del fiume ci sono alcune capanne dove vivono le famiglie di coloro che lavorano, quando ne hanno l’opportunità, al “porto”. Alcuni minuti prima di imbarcarmi osservo gli altri turisti e faccio il solito gioco di cercare di capire quale è la loro nazionalità e le loro caratteristiche. Alle nove e qualche minuto si parte. Sul battello saremo circa una ventina di persone. Il viaggio in barca dura circa un’ora e non è niente di interessante ed allora trascorro il tempo a scrivere il mio diario di viaggio. Arrivati a Mingun sulla riva del fiume ci sono molti carretti trainati da buoi in attesa di poter caricare qualche turista e guadagnare qualche Kyat. Mi incammino per la stradina che conduce ai vari siti che devo visitare e che ai suoi lati è piena di bancarelle. Vado in giro, faccio foto e poi vado oltre i siti e mi addentro nel villaggio tra capanne poverissime e molta sporcizia in giro.

Poco dopo mezzogiorno, mi siedo al fresco, sugli scalini di una pagoda in ristrutturazione. Sto godendomi la frescura quando noto un gruppo di monaci bambini che stanno andando al fiume per lavarsi e fare il bucato. Uno di essi mi fa un cenno di saluto, condito da uno smagliante sorriso, e mi invita ad andare da loro. Non me lo faccio ripetere due volte. Vado, li saluto con un sorriso (non parlano inglese) che prontamente ricambiano, e mi metto a fotografarli. Essi ne sono ben lieti e si divertono un mondo a rivedersi sul display. Mi incammino verso il battello ma manca ancora una mezz’ora prima della partenza, ed allora mi siedo su una panchina, piazzata vicino a due otri piene di acqua, le “fontanelle pubbliche”. Sto lì una ventina di minuti e, salvo un paio di persone, tutti coloro che passano mi salutano e sorridono. Mi accorgo che è sempre più contagioso. Anche un paio di auto tipo Jeep stracolme di ragazzi mi saluta chiassosamente. Beh, è proprio bello.

Poco dopo l’una si riparte senza che prima lo zelante “controllore” abbia verificato che tutti fossimo provvisti di biglietto, e così facendo becca due australiani che non avevano pagato. Sulla barca credo che lavori un’intera famiglia, infatti al timone c’è un uomo basso e grassoccio, a prua, pronta ad ogni evenienza, c’è una signorotta, ed inoltre ci sono due ragazze, anzi una è poco più di una ragazzina che danno una mano.

Appena sceso dal battello arriva anche S. E si parte per fare il giro di Mandalay. Vado a vedere una bottega dove lavorano le sottili sfoglie d’oro che i fedeli buddisti incollano sulle varie statue di Budda che si trovano nelle pagode in giro per il Myanmar. Successivamente, visito il Mandalay Palace. E’ enorme e può ricordare, per certi versi, la città proibita che ho visto a Pechino (anche se quest’ultima è sicuramente più maestosa). Visito un paio di pagode ed in una di queste, mentre mi aggiro ad ammirare e a fare foto, noto un giovane monaco buddista che è intento a leggere. Mi avvicino e gli chiedo se posso fare qualche foto e, come succede sempre, acconsente molto volentieri. Scattate le foto mi invita a sedere accanto a lui ed iniziamo a conversare (lui parla inglese). Purtroppo non posso trattenermi per molto perché è tardi. Andiamo alla Mandalay Hill che è piena di turisti ad attendere il tramonto. Prima di rientrare in albergo S. Mi porta a vedere una festa all’aperto dove si esibiscono alcuni atleti in un gioco tradizionale del Myanmar. L’oggetto è una “palla” grande circa la metà di quella che si usa nel calcio, solo che non è di cuoio ma è fatta da strisce di bambù intrecciate tra loro. Le squadre sono composte da sei giocatori posizionati in circolo con, a turno, uno di loro al centro, e che palleggiano queste specie di palla. I molti spettatori presenti osservano estasiati. Torniamo all’hotel e dopo una doccia me ne vado a cena allo stesso “ristorante” di ieri sera a mangiare gli arrosticini.

6 febbraio Dopo una veloce e scarna colazione (devo dire che l’ET Hotel, a parte il prezzo, non ha proprio niente di buono) si parte per la visita al Mahamuni Budda. E’ splendido e già di primo mattino è pieno di fedeli. Successivamente si va ad Inwa che si raggiunge facendosi traghettare, da una sponda all’altra del fiume, da una barca. Giro Inwa su un carretto trainato da un piccolo cavallino. Inwa non è niente di particolare e si potrebbe anche evitare, la cosa più bella è un incontro con una vecchietta ed il suo nipotino. Si parte per Amarapura e, mentre passeggio sull’U Bein Bridge, che attraversa il lago Taungthaman, mi si avvicina un ragazzo con il quale facciamo tutto il ponte insieme chiacchierando cordialmente. Dopo una breve sosta in hotel andiamo (insieme a S. Che è mio ospite) a cena al Golden Duck, un bel ristorante dove servono un’ottima anatra. E’ sicuramente da provare anche perché, per noi occidentali, non è per niente cara. A proposito del traffico non credo che noi saremmo in grado di districarcisi, specialmente quando cala il buio perché le biciclette non hanno la luce anteriore né la luce di segnalazione rossa posteriore, praticamente camminano al buio aiutandosi con la luce emessa dai motorini e dalle auto. Le automobili ed i motorini non fanno altro che strombazzare ed agli incroci non c’è modo di sapere chi abbia la precedenza, passa quello che si infila per primo. Non credo ci sia in vigore un codice della strada e, comunque, anche se ci fosse non lo rispetta nessuno. Ma il bello è che in tutta questa bolgia, in nove giorni che sono in giro per il Myanmar ho visto un solo incidente. Un piccolo tamponamento tra un camion ed un autobus nei pressi di uno sperduto villaggio. Altra curiosità sono i cani. Ce ne sono parecchi e a me sembrano di una medesima razza, anche se con varie sfumature. Gironzolano liberamente nei villaggi, nelle case e lungo le strade. Ebbene, non ne ho mai visto uno che fosse stato investito da qualche auto, come invece succede da noi.

Intorno al mio albergo, il famigerato ET Hotel, che si trova al centro di Mandalay a due passi dal Mandalay Palace, sia durante il giorno che la sera ai bordi delle strade si affacciano negozi di ogni genere ma soprattutto “ristorantini” o comunque posti che sono ubicati lungo i marciapiedi. Ho avuto l’impressione che molti vivano lungo i marciapiedi, nel luogo dove esercitano la loro attività.

7 febbraio Alle 8,00 si parte per la visita di Sagaing e successivamente proseguire per Monywa. Finalmente sono venuto fuori dall’ET Hotel, una vera sporca topaia. Di peggio mi è capitato solo quando ho trascorso una notte a Nukus (Uzbekistan) che si trova nei pressi del lago d’Aral. Un vecchio, malandatissimo e sporchissimo “hotel” dove neanche i topi si sarebbero sognati di dormire. Sagaing è bellissima. La si raggiunge attraversando un ponte sul fiume Irrawady. E’ una specie di grande promontorio pieno zeppo di pagode molto frequentate dai fedeli birmani. Prima di iniziare la visita delle varie pagode facciamo una sosta ad un monastero, che è anche una scuola, per consegnare dei libri per i bambini inviati dall’Italia da una mia carissima amica. E’ quasi una cerimonia ufficiale dove S. Consegna i libri ad un monaco buddista (che credo sia il responsabile) ed io devo immortalare l’evento scattando alcune foto. Scatto anche delle foto ai bambini che, prima di iniziare le lezioni, le bambine vestite con una tunica rosa ed i maschietti con quella di color rosso, pregano. Una bambina recita le preghiere ad alta voce e tutti gli altri ripetono. Salutato il monaco iniziamo la visita delle pagode piene di fedeli e, guarda un po’, l’unico occidentale sono io. Molti mi sorridono, qualcuno scambia due parole con me iniziando a chiedermi, come sempre, da dove vengo. Si riparte alla volta di Monywa ed il bello di fare il viaggio in automobile è quello di attraversare campi e vedere mentre la gente lavora, villaggi, visitare mercati, ecc. Ci si ferma per il pranzo di S. In un locale affollatissimo, ma che chiamarla bettola è fargli un complimento. Al solito sono l’unico che non ha gli occhi a mandorla e questo è il bello di questo viaggio; tutti, almeno all’inizio, mi guardano come se fossi il solito marziano, ma non è un problema per me anche perché quando incrocio lo sguardo di qualcuno questi mi regala uno splendido sorriso. S. Ordina un’enorme quantità di cibo (Myanmar food) io ordino del pollo arrosto e mi portano anche una scodella di zuppa con dei pezzettini di montone che ho anche il coraggio di mangiare. Oramai mangio nei posti peggiori (per noi europei) e continuo a bere birra molto fredda (Myanmar beer) che però è molto buona. Dopo l’abbondante, e per me inusuale, pranzo, riprendiamo il viaggio per Monywa. Solite soste per fotografare paesaggi e la vita che scorre lungo le strade ed i villaggi che attraversiamo, e così raggiungiamo Monywa alle 15,00 circa. Prendo una stanza al Monywa Hotel per 15 $ che, in confronto all’ET hotel di Mandalay mi sembra una reggia. Si riparte subito per la visita di una pagoda unica e splendida dove faccio molte foto. Si prosegue per la visita di una statua di Budda alta 140 metri ancora da ultimare. Maestosa. Infine salgo sulla sommità di una pagoda ad osservare il tramonto. E’ buio quando si ritorna a Monywa. Dopo una breve sosta in hotel vado a mangiare in un locale, è affollato da solo birmani e da qualche cane che gironzola tra i tavoli alla ricerca di qualche avanzo. Mi siedo ad un tavolo ed ordino degli spiedini di carne e la solita Myanmar beer. Alzo lo sguardo e sorprendo un cameriere, che non è altro che un ragazzino, a fissarmi, ed a gesti gli chiedo se mi fissa per via della barba. Mi risponde di sì. Quando pago il conto offro la mancia al cameriere ma lui rifiuta, io insisto ma devo fare intervenire il padrone del locale per fargli accettare la mancia.

8 febbraio Oggi dovrebbe essere solo una tappa di trasferimento da Monywa a Bagan ed invece si fanno sempre incontri inattesi e visite non programmate. Lungo il percorso facciamo una prima sosta ad una grande cava a cielo aperto, di rame, dove vi lavorano e vivono decine di famiglie. Successivamente S. Mi porta a visitare l’Hpo Win Daung Caves (delle piccole caverne all’interno delle quali sono state poste delle statue di Budda). Mi incammino per la visita di questo sito e subito mi si accoda un tizio che, con a tracolla una preistorica Yashica, asserisce essere un fotografo. Capisco che è un uomo che cerca di sbarcare il lunario e non lo allontano. Mi accompagna per tutto il tragitto e mi fa anche un pò da guida. Terminata la visita si riparte alla volta di Bagan. Attesa di circa un’ora per l’imbarco sulla chiatta che ci deve traghettare sull’altra sponda dell’Irrawady, e nel frattempo faccio amicizia con due pastori tedeschi che sono tremendamente timorosi, forse perché prendono molte botte dal padrone. Si traghetta sull’altra sponda dell’Irrawady in circa un’ora. Diamo un passaggio in auto ad una giovane monaca buddista. Andiamo all’Aung Mingalar Hotel vedo la stanza, è OK ma la ragazza mi chiede 20 $ a notte, gli dico che il prezzo è troppo alto e dopo un tira e molla riesco ad ottenere il prezzo di $ 12 a notte.

A cena vado in un carino e pulito ristorantino dove fanno degli ottimi spiedini (è diventato il mio piatto preferito in Myanmar) consigliatomi da S.. Ci trovo anche lui e quindi ceniamo insieme. 9 febbraio Ieri sera penso di aver bevuto troppo rum perché questa mattina mi sono svegliato con la testa che mi duole un po’ e non mi sento per niente in forma. Non faccio neanche colazione ed alle 7,30 si parte per la visita di Bagan. Si gira per New Bagan, un po’ per Old Bagan e visito tantissimi templi. Devo dire che Bagan è incredibile, su una vastissima pianura che si estende dalla riva dell’Irrawady ci sono più di 2.000 templi di tutte le dimensioni, forme e diversi stili architettonici. Ogni tanto, quando è possibile, salgo sulla sommità di uno di essi ed il panorama che si gode è stupendo. Devo dire che, sempre di più, sono contento di essere venuto in Myanmar. Bagan è una delle meraviglie esistenti al mondo. E’ un vero peccato che molti templi siano in rovina o lasciati all’incuria anche se ci sono dei restauratori dell’UNESCO che provvedono al loro restauro. S. Mi dice che i restauratori sono pochi ed i templi sono tanti. E poi hanno subito dei gravi danni a causa di un terremoto avvenuto nel 1975. La giornata prosegue con un continuo togli e metti i sandali e con un sali e scendi di scale. Poco prima dell’una facciamo rientro in albergo per un riposino di un paio d’ore perché nel primo pomeriggio fa un caldo insopportabile. Alle 3,30 del pomeriggio si riparte per proseguire la visita dei templi di Bagan ed il tramonto me lo godo dalla sommità di uno di essi. A proposito, devo dire che la gente che orbita intorno al turismo, cioè i venditori di cianfrusaglie, sono le peggiori persone che ho incontrato in Myanmar, non hanno nulla di spontaneo, pensano solo a vendere e non ti sorridono mai se non per un fine “commerciale”. Però anche a Yangon, al lago Inle e a Mandalay giravano turisti ma la gente era cordiale, gentile, disponibile e ti sorridevano. Dimenticavo un’altra cosa. Quando un birmano ti porge qualcosa, qualunque cosa, fosse un oggetto, del denaro, un piatto di cibo, ecc.. Con la mano destra te la porge e con la sinistra, che quasi sorregge l’avambraccio destro, accompagna il gesto.

Stasera sono andato a mangiare allo stesso ristorante dove ho mangiato ieri sera. Sono molto cortesi, è pulito, e si mangia bene. 10 febbraio Oggi è la giornata dedicata al giro in bicicletta tra i templi di Bagan. Non è stata una gran giornata, a parte la bellezza dei siti e di tutta Bagan.

La giornata non è iniziata molto bene, dopo aver fatto colazione vado a noleggiare la bicicletta (nello stesso albergo dove sto alloggiando). Il ragazzo mi fa vedere un paio di biciclette, una peggio dell’altra e del tutto inaffidabili. Alla fine mi convince a prenderne una che però ha il copertone della ruota anteriore squarciato e cucito con lo spago. Gli faccio notare che la ruota potrebbe bucarsi da un momento all’altro e che io non ho nessuna intenzione di tornare in albergo a piedi. Mi risponde di stare tranquillo “no problem”. Salgo in sella ma non faccio neanche cinque metri che la ruota letteralmente esplode. E meno male che dovevo stare tranquillo. Il ragazzo mi chiede di attendere cinque minuti, esce e dopo un po’ torna con una bicicletta tutta nuova e con le gomme a posto. Finalmente parto e dopo un paio di chilometri mi addentro per i viottoli dove si trovano i templi. Ma inizia la bruttissima sorpresa, dovunque io vada non faccio neanche in tempo a scendere dalla bicicletta che qualcuno mi si avvicina per vendermi qualcosa, e quando riesco a mandarlo via arriva immediatamente un altro a sostituirlo. Sono insistenti, maleducati a volte anche aggressivi. Avevo dovuto sopportare qualcosa del genere solo quando sono stato in Nepal. Deve essere una prerogativa tutta orientale, mah!! Sono completamente diversi dal resto delle persone che ho incontrato, fino a ieri (giorno di arrivo a Bagan), in Myanmar. Non tutti a Bagan, per fortuna, sono così. Ad occhio e croce la gente si divide al 50%, quella tipica birmana che è gentile e ad ogni occasione ti saluta e ti sorride, ed il restante 50% che invece sono maleducati, invadenti e che cercano solo di fregarti o ammollarti qualcosa. Torno in albergo verso l’una e riesco, dopo un riposino perché ero abbastanza stanco per aver pedalato parecchio, alle 15,30. Non faccio che un paio di chilometri che si buca la ruota posteriore. Rientro in albergo a piedi e me ne danno un’altra in sostituzione. Faccio un altro giretto in bici tra i templi di Bagan e dopo una breve sosta in un bar per bere una birra, rientro in hotel quando sta per fare buio. Esco verso le 7,30 per andare a cena allo stesso ristorante dove sono stato da quando sono a Bagan.

Torno in albergo a dare una sistemata alla valigia e a cercare di addormentarmi il prima possibile perché domani si parte presto. Ci vorranno circa 10 ore per arrivare a Pyay.

11 febbraio Oggi sarà una tranquilla giornata di trasferimento a Pyay. Si parte che è appena fatto giorno e dopo un po’ ci si ferma presso un amico di S. Che produce olio di arachidi. Il metodo è semplice ed usato da centinaia di anni. C’è una mucca che gira continuamente in tondo e fa girare anche un tronco che è infilato in una buca scavata in un tronco e nella quale si fanno cadere le arachidi sbucciate. Si riparte e lungo il tragitto ci fermiamo un paio di volte per le foto ed una per il pranzo. Il “locale” dove S. Si ferma a mangiare è quello classico situato lungo la strada e la cosa che più risalta è il sudiciume che c’è. Tra l’altro le stoviglie ed i piatti vengono lavati in una tinozza con acqua di un vago colore marrone. Mi convinco a mangiare anche io ma per me ordino solo del montone fritto. Mi viene fame e decido di mangiare anche del riso che condisco con due o tre “cose” portatemi in delle scodelle (zuppe, chili, piccoli peperoni cotti).

Arriviamo a Pyay che è quasi il tramonto. S. Mi porta allo Smile Hotel. Vedo una stanza che non è niente di che ma per una notte può andare bene. L’addetto mi “spara” 15 $ che ritengo essere una enormità. Gli dico che sono disposto a pagarne 12 ma o non capisce o fa finta di non capire. Ripeto a S. Che sono disposto a pagare solo 12 $ ed allora S. Convince il tizio a darmi la stanza a questo prezzo. Salgo in camera ma esco subito per andare a visitare la Shwesandaw Paya che è un sito molto importante per i Birmani e che è aperta fino alle nove di sera ed è illuminata. La salita non è agevole ma per fortuna ci sono due ascensori che gratuitamente portano su la gente. Si gode una vista magnifica e mi gusto un bel panorama. E’ pieno di gente, c’è chi chiacchiera, chi prega, chi se ne sta seduto in disparte, e ci sono parecchie ragazzine tutte tirate a lucido che girano ininterrottamente intorno allo stupa, ancheggiando maliziosamente con il mal celato intento di farsi “rimorchiare” da qualche ragazzino. Tutto il mondo è paese. Mi osservano tutti, ma nessuno mi tormenta per vendermi qualcosa come a Bagan. Qualcuno mi sorride, altri mi osservano molto incuriositi, con un paio ci faccio anche una breve chiacchierata.

Scendo dalla pagoda e, prima di andare a cena, me ne vado un po’ in giro. Vado a mangiare in un locale pieno di ragazzi dove incontro S.. Ceniamo insieme e dopo me ne vado a dormire.

12 febbraio Anche oggi dovrebbe essere una tranquilla giornata di trasferimento da Pyay a Yangon, ed invece… Prima di descrivere la giornata devo soffermarmi su qualche punto che non ho preso in considerazione in precedenza. Il telefono pubblico. Il telefono pubblico non è altro che un tavolo sul quale è posto uno o più telefoni. Chi vuole telefonare si siede, compone il numero desiderato, e parla. Con tutte le altre persone che attendono di telefonare che le stanno intorno ed ascoltano la sua conversazione. Alla faccia della privacy e della discrezione.

Il betel. Il betel sono delle foglie “condite” con un pò di calce e non so cos’altro che i birmani masticano ed ogni tanto bevono acqua e produce un liquido rosso che sputano per terra. Quindi tutto il paese è macchiato di rosso. E’ la stessa cosa che ho visto fare nello Yemen dove gli yemeniti masticano il cat.

Dopo un po’ che siamo partiti ci fermiamo in un villaggio dove vado a visitare una pagoda all’interno della quale c’è l’unico Budda con gli occhiali. S. Mi ha detto che ci vanno coloro che hanno problemi alla vista (non è molto diverso da come si fa da noi con i santi). Si riparte e lungo la strada vedo una vecchietta seduta sul ciglio di essa con accanto una ragazza. Dico a S. Di fermarsi, scendo e corro dalla vecchietta. E’ caduta dalla bici e, sotto il mento, si è fatta un taglio di circa 4 cm. Ma molto profondo, perde sangue (non molto perché è talmente magra che non credo ne abbia tanto). Tramite S. Dico alla ragazza di applicare sulla ferita un fazzolettino che ho imbevuto di acqua. Sempre tramite S. Faccio chiedere se nei paraggi c’è un ospedale o qualcosa del genere. Dicono che nel vicino villaggio c’è un posto medico. Facciamo salire la vecchietta (che ci dicono ha 70 anni ma ne dimostra almeno venti di più) in macchina e la portiamo dal medico. Il posto medico è una specie di baracca polverosa senza alcuna idea di cosa siano le norme igieniche. Arriva un medico, dal quale io non mi sarei fatto mettere le mani addosso neanche se fossi stato in punto di morte, che, molto diligentemente, applica un paio di punti di sutura alla vecchietta, gli fa un paio di iniezioni di non so cosa e gli dà delle pillole. Pago io la prestazione al medico, visto le condizioni della vecchietta, che mi chiede Kyat 2.000 (neanche 2 dollari) che per me sono niente ma per la vecchietta sono sicuramente una grossa cifra.

Accompagniamo la vecchietta a casa sua. Per arrivarci dobbiamo percorrere, con qualche difficoltà, una strada sterrata. Sparse qua e là ci sono delle misere capanne abitate da persone ancor più misere. Certo che la vita in Myanmar, per molte persone, è davvero durissima. Arriviamo finalmente alla “casa” della vecchietta dove i suoi parenti, nel vederla tutta incerottata, si spaventano ed iniziano ad urlare. Faccio ampi gesti per cercare di tranquillizzarli e di stare calmi perchè non è nulla di grave. Sempre tramite S. Gli dico che se la vecchietta sentirà ancora dolore alla mascella anche nei prossimi giorni, la debbono portare in ospedale per fare le radiografie. Chissà se lo faranno. Ho la sensazione che da queste parti si possa morire facilmente. Ripartiamo e fatti pochi chilometri, vedo in una verdissima risaia delle donne intente a piantare il riso. Dico a S. Di fermarsi. Scendo dall’auto e scatto un paio di foto, quando se ne accorgono iniziano a ridere e a salutarmi, poi mi fanno dei cenni invitandomi ad andare da loro. Mi tolgo i sandali, mi avvolgo un po’ i calzoni per scoprirmi le gambe, e vado. Camminare nelle risaie, ovvero su dei camminamenti fatti con il rialzo della terra sull’acqua, non è per niente agevole. Si affonda fino al polpaccio. La terra è cretosa e di un colore grigio scuro, ma, evidentemente è ottima per la coltivazione del riso perché trattiene l’acqua. Comunque scatto un po’ di foto e gliele faccio rivedere sul display. Si divertono un mondo, con così poco, e non credo proprio che la loro vita gli dia molte occasioni di divertimento. Quando sto per andarmene una di loro mi prende la mano e me la stringe forte, tutte le altre esplodono in un coro di risatine maliziose. Dopo essermi risciacquato alla meglio i piedi, risalgo in macchina e ripartiamo. La strada è abbastanza buona e non ci mettiamo molto ad arrivare a Yangon. Si va allo Yoma Hotel dove mi danno la stessa stanza del giorno del mio arrivo in Myanmar, saldo il conto con Teo e ci salutiamo. Dopo essermi fatto una bella doccia esco per fare una passeggiata per le stradine intorno all’hotel che, ricordo, si trova nel centro di Yangon. Giro e rigiro ed alla fine noto un ristorante cinese che mi sembra buono, infatti è il ristorante del Queen’s Park Hotel. Mi siedo, ordino una fresca bottiglia di Myanmar beer (fa un caldo bestiale) e del pollo fritto con del riso. Due camerieri non mi lasciano in pace un momento, hanno voglia di parlare. Iniziano con il calcio e poi si divaga Pago il conto e, dopo aver visto 10 minuti di uno spettacolo di strada inscenato da alcuni acrobati vestiti da draghi, e me ne torno in albergo per andare a nanna.

13 febbraio Oggi è il penultimo giorno del mio soggiorno in Myanmar. Dedicherò la mattinata per andare a visitare, finalmente, la Shwedagon Paya. Dovrei prendere un taxi perché è distante dall’hotel ma, sia perché sono a corto di Kyats e non voglio cambiare altri dollari, sia perché voglio vedere Yangon, mi incammino con la Lonely Planet in mano sulla quale, ogni tanto, consulto la mappa di Yangon. La città è molto animata e c’è anche un traffico sostenuto. A tal proposito è da ricordare che l’attraversamento della strada da parte dei pedoni è una specie di terno al lotto. E’ molto pericoloso, specialmente con il buio. Sembra che l’auto abbia sempre la precedenza (un po’ come in Cina) ed ai semafori non ci sono segnali per i pedoni. Quindi, ogni volta che si attraversa la strada si corre il rischio di essere investiti anche se, ad amor del vero, non ne ho mai visto uno. Consultando le mappe della Lonely Planet arrivo facilmente alla Shwedagon Pagoda. E’ davvero imponente. Sto per salire le scale ma immediatamente vengo avvicinato da una graziosa ragazza che mi ricorda che devo pagare la tassa d’ingresso di $ 5 (solo per gli stranieri) e con molta cortesia mi invita a lasciare i miei sandali nel suo piccolo box. Altra cosa che ho notato in alcune pagode sono i nuovi contenitori d’acqua da bere. In queste pagode non ci sono quelle piccoli otri d’acqua con un piatto per coperchio e con un bicchiere appoggiato nel piatto che chiunque se ne può servire, no, ci sono dei contenitori, presumo di acciaio con un rubinetto ed un bicchiere legato ad una cordicella in modo che nessuno se lo possa portare via. La Shwedagon Paya è veramente bella. Ci sto un paio d’ore. Durante il mio giro, che faccio in senso orario come fanno i buddisti, vengo avvicinato da un piccolo (di statura) monaco buddista con il quale mi ci faccio una bella chiacchierata. Continuo il mio giro ed ad un tratto mi chiama un’altra signorina addetta ai biglietti, mi avvicino al suo box e gli mostro il biglietto che ho già pagato. Mi chiede gentilmente scusa ed attacca a parlare. Finisco il giro e me ne vado a visitare un’altra bella pagoda che è di fronte alla Shwedagon. Torno in albergo alle 1,30 circa, dopo una breve sosta per una Star Cola (una bibita tipo Coca Cola ma che costa pochissimo). Mentre sto seduto a sorseggiare la Cola osservo una fermata di autobus. Gli autobus non hanno i numeri o le lettere che li contraddistinguono, ma un tizio che viaggia in piedi sulla scaletta, ad ogni fermata scende ed urla le prossime fermate. Questi autobus li ho sempre visti stracolmi di gente. Alle quattro esco di nuovo. In città c’è un traffico molto sostenuto e la gente è in fermento. La vita si svolge lungo le strade, sui marciapiedi. Ci sono le bancarelle che vendono di tutto; frutta, verdura, orologi, attrezzi per ferramenta, insomma tutto. Camminare è difficoltoso perché lo spazio che viene lasciato dai venditori è davvero esiguo. Faccio un largo giro con una puntata alla Sule Paya, sono altri chilometri che si aggiungono a quelli che ho percorso in mattinata. Mi accorgo di avere la maglietta fradicia di sudore, non sono molto lontano dalla Saint Mary’s Cathedral. Ci vado perché ricordo che ha un gran bel giardino, mi siedo su un muretto, ed un rinfrescante venticello in poco tempo mi asciuga anche la maglietta. Vado a cenare nello stesso “locale” dove sono andato la sera del mio arrivo in Myanmar. Torno in albergo per la nanna, domani sarà l’ultima mattinata che trascorrerò in Myanmar, poi rientrerò in Italia. Dimenticavo, questa mattina mentre andavo alla Shwedagon Paya sono stato avvicinato 5 o 6 volte da uomini che mi chiedevano se volevo cambiare soldi, oppure volevano vendermi dei rubini o mi offrivano dei “massaggi”. Fatta l’esperienza mattutina, nel corso del resto della giornata ogni volta che venivo avvicinato da questi individui, prima che loro parlassero li anticipavo dicendogli: “no change, no rubini, no massage”. Alle 21,10 (come d’accordo) mi ha chiamato T. Che mi ha confermato che domani passeranno (lui e S.) a prendermi alle 16,00 del giorno dopo per accompagnarmi all’aeroporto. Era una cosa non dovuta, quindi è stato molto gentile.

14 febbraio Esco dall’hotel alle 8,30. Ho in programma di andare a visitare la Batataung Paya, che non è molto distante dall’hotel, e vedere un po’ il porto sul fiume Yangon. La Batataung Paya non è male e, a differenza di tutti gli altri stupa che sono un blocco unico, questo è cavo ed è visitabile. Alle pareti ci sono incastonati dei piccoli specchietti e, come in tutti gli altri luoghi di culto buddisti, contiene qualche reliquia di Budda. Resto nella pagoda poco più di un’ora, esco per fare una passeggiata per Yangon (non faccio altro che camminare). Lungo i marciapiedi c’è di tutto. Minuscole bancarelline che su un braciere di terracotta cuociono di tutto, a proposito di mangiare ho notato che i Birmani mangiano a tutte le ore ed i “localini” o quelli attrezzati con piccoli tavoli e sedie sui marciapiedi sono quasi sempre molto frequentati. Oltre ai vari venditori di ogni tipo di mercanzie, lungo i marciapiedi si fa anche la pipì. Si proprio così, si fa la pipì. L’ho visto fare solo da uomini e bambini, mai dalle donne. Innanzitutto dalla parte dei marciapiedi che non dà sulla strada scorre un canale che credo sia la fogna, esso è coperto da lastroni di cemento ma qua e là alcuni lastroni mancano e questi “buchi” diventano dei WC pubblici. I Birmani sono agevolati dal fare pipì per strada perché indossano il loungy. Infatti, gli basta accovacciarsi per fare pipì.

Devo dire che a Yangon, salvo coloro che ti avvicinano per chiederti se vuoi cambiare soldi, acquistare rubini od un “servizio” di massaggio (sono molto pochi e per niente insistenti), nessuno ti dà noia, puoi andare dove vuoi ed a qualsiasi ora e nessuno ti rompe le scatole. Questo vale anche per gli stessi Birmani, in Myanmar praticamente non esiste delinquenza. S. Mi spiegava che oltre al fatto che le galere sono durissime (non come i quasi alberghi italiani) chi deve scontare una pena viene quasi sempre mandato ai lavori forzati, e la pena viene scontata per intero. Altra cosa importante del Myanmar, c’è una effettiva libertà religiosa, ognuno può liberamente professare la propria fede. E questa è già la seconda cosa buona di questo Paese. A Yangon ho visto molte chiese cristiane (di varie confessioni), parecchie Moschee e musulmani in giro per la città (le donne con il velo), e dalla mappa della Lonely Planet ho visto che c’è anche una Sinagoga. Un’altra cosa che ho notato sono le case del centro di Yangon. Sono palazzi vecchi e fatiscenti che mi hanno ricordato il centro di L’Avana, non per la loro architettura, bensì per i loro colori e lo stato di incuria. Sono entrato in un piccolo parco vicino alla Sule Paya, anche qui ho dovuto pagare per entrare (Kyat 500), povero turista è sempre più un pollo da spennare. Torno in hotel all’1,30 circa e, con calma, metto a posto la valigia. Alle 16,00 scendo nella hall per saldare il conto e di fuori c’è già S. Ad aspettarmi. Passiamo a prendere T. Ed andiamo a bere l’ultima Star Cola. S. Mi accompagna fino all’ingresso all’aeroporto e T. Fino al check-in, poi vado al gate in attesa dell’aereo però mancano ancora 2 ore alla partenza, pazienza. 15 febbraio Il volo, durato la bellezza di 12 ore, non è andato proprio tanto male perchè ho avuto la fortuna di aver viaggiato in compagnia di un simpatico napoletano che viaggia spesso in Thailandia ed Indonesia per affari, con il quale ho chiacchierato un pò. Con mezz’ora di ritardo giungiamo a Roma, e per un’altra mezz’ora resto in attesa della consegna dei bagagli. Esco dall’aeroporto, fa un pò freddo…Addio Myanmar.

A parte i templi ed i bellissimi siti da visitare, ciò che rimane del Myanmar è la gente, la loro cordialità, la semplicità i loro sorrisi. E’ un Paese, per taluni versi, rimasto ancora a qualche decennio fa e, quindi, il cambiamento, oltre che auspicabile, sarà inevitabile. La speranza (mia) è che il popolo Birmano non si faccia corrompere oltremodo dalla cultura occidentale, anche se ho avuto modo di notare che per certi versi questo è già in atto (musica occidentale, abbigliamento occidentale, stereotipi occidentali). Voglio, infine, ricordare ciò che Ennio Flaviano scriveva nel suo bel libro “Tempo di uccidere”, ambientato durante la guerra di conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia: “…Probabilmente se non fossimo venuti non avrebbero mai sospettato che si può condurre una vita meno difficile, a patto di perdere le loro qualità e di acquistare i nostri difetti”.

Aldo



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