Bye London, amici come prima
Mi perdonerà perciò, spero, la moltitudine di estimatori di questo immenso cuore pulsante, la mia dichiarazione di disamore, che ha a che vedere piuttosto con sensazioni personali, che con giudizi globali di merito che, del resto, non avrei alcun titolo per esprimere. Londra è ordinata, razionale nella sua disposizione “aggrappata” al fluire del suo fiume, educata e frenetica. Un pomeriggio inoltrato, a Victoria Station, mi sono soffermato a riprendere, dall’alto, il brulicante formicaio che si spostava a velocità stratosferica da un ingresso all’altro, nero il colore prevalente dei vestiti, gli sguardi rigorosamente rivolti davanti, malcelato fastidio per qualsiasi ostacolo, umano o meno, che potesse rallentare la corsa. Capisco che qualcuno possa trovare affascinante questa determinazione nel non perdere tempo, capace, apparentemente, di attribuire valore ad ogni singolo momento della vita, a me sembra ai limiti del ridicolo, persino della follia: è una sorta di tumultuoso ed ordinato migrare, ad orari fissi, di una moltitudine di solitudini, non attenuate da contatti casuali, scanditi da ripetuti “sorry”, privi di sostanza.
Il fatto che ci sia sicuramente del metodo in questa follia (mezzi pubblici puliti e perfettamente funzionanti, rispetto per le file, nessuno che suoni il clacson, educazione, sia pure un po’ sussieguosa), non attenua il disagio che discende dalla considerazione che, a questo way of life, o ci si adegua o si viene emarginati.
E io non amo l’emarginazione.
Ciò premesso, Londra è ovviamente bellissima e ricca di attrazioni. In quattro giorni è obbligatorio fare delle scelte (ho già più volte sostenuto come un viaggio non possa ridursi allo “smarcare” le cose viste, come davanti ad un compito scolastico, correndo da un posto all’altro – alla londinese, appunto -); se capiterà, in un altro tempo, in un’altra vita, si vedranno altre cose.
E così, in questo tempo, British Museum, Tate Britain (entrambi gratuiti), Westminster Abbey, Tower Bridge e Tower of London, poi vista esterna di Buckingham Palace (io, al posto di Elisabetta, avrei scelto qualcosa di meglio come residenza), St Paul’s Cathedral, London Eye, Big Ben, Trafalgar Square. E naturalmente Hyde Park (mia moglie è riuscita a farsi mordere a sangue da uno scoiattolo, mentre gli dava da mangiare, debitamente ripresa con telecamera, parolaccia inclusa!) e Portobello (ormai troppo turistico e con prezzi esagerati, a parte quelli della frutta esotica).
Lo shopping, a Camden Town, riserva colori e profumi indiani, thai, cinesi, oltre a cordialità informale poco anglosassone. I saldi londinesi, per gli amanti della cosa, sono assolutamente sbalorditivi, riguardando tutti i generi, compresi quelli farmaceutici. Nel settore macchine fotografiche digitali, ad esempio, ho trovato sconti fino al 65%, tali da giustificare appositi viaggi dall’Italia (già programmato da mia moglie, “in solitaria”, per l’anno prossimo).
Il vitto, a differenza che in Scozia, è mediamente di buon livello, grazie all’amplissima scelta multietnica dei ristoranti, ed a prezzi accettabili, compatibilmente con Londra.
L’alloggio: parodiando Grucho Marx – a proposito dei visi delle persone -, normalmente dimentico sempre gli alberghi, ma in questo caso farò un’eccezione per l’Holly House, specie perché più volte segnalato nel sito dei tpc: presentato come economico e centrale (è vero), spartano e con calda ospitalità: spartano è spartano, i bagni sembrano da casa delle bambole, con lavandino che consente di lavarsi un’emiarcata dentaria per volta, la double ensuite pone di fronte al dilemma: “o noi o i bagagli”, non c’è spazio per entrambi, ed è raccomandabile, date le dimensioni del letto, per coppie sposate o conviventi da poco, e comunque un po’ bassine. Quanto al calore, svegliati la prima notte da un allarme antincendio che avrebbe dovuto portare all’evacuazione immediata, anche per via dell’onnipresente moquette, ci siamo ritrovati da soli per strada, sommariamente vestiti. Dopo 15 minuti di sirena assordante, e dopo aver aperto al pakistano in possesso delle chiavi dell’allarme (ma non di quelle per entrare in albergo!), siamo riusciti a tornare a letto, senza sapere cosa l’avesse fatto scattare (forse la nostra vicina di camera, un’allegra vecchina ottantenne con avvisaglie dell’Alzheimer, che ha passato le nostre quattro notti di soggiorno, a tirare scarpe e biancheria intima nel corridoio e andare a saccheggiare la dispensa, per poi bussare ed offrirci “no money”, l’orange juice!).
E comunque un alloggio è un alloggio, e davvero in questi 4 giorni l’abbiamo utilizzato ben poco, impegnati in chilometri e chilometri di camminate.
La 3 day travelcard è comodissima e consente di dimezzare il costo d’ingresso a varie attrazioni (una delle due ce la siamo ripagata, semplicemente visitando Westminster Abbey ed il Tower Bridge.
A consuntivo, posso dire di essere felice di aver visto Londra – malgrado l’uragano Kyrill, che ci ha trovato in piena city, in un caos di pompieri, ambulanze, polizia e traffico paralizzato, per due ragioni: 1) gli acquarelli di Turner alla Tate Britain, emozione di quelle forti. Adoro da sempre Turner, specie quello dal 1835 in poi, con questa incredibile luce che s’irradia dal centro a saturare e confondere linee e prospettive, in un’accelerazione visionaria che davvero fa dubitare che, ad un certo punto della sua vita, abbia avuto un’esperienza di pre-morte, andata e ritorno dall’aldilà, con tanto di bagaglio emozionale al seguito. L’abbiamo gustato con tanto di aggiunta di scolaresche di bambine in grigio, bellissime e compunte, a disegnare sul pavimento, poesia nella poesia; 2) i pub londinesi, così pieni di calore, atmosfera, ammiccamenti, pinte e pinte di meravigliosa birra ghiacciata, a chiudere in leggerezza le frenetiche giornate di esplorazione.