Balkantour
Ci troviamo intrappolati nella Serbia meridionale, a poche centinaia di metri dal confine con la Macedonia, nell’unico corridoio sicuro rimasto, incastrato tra la polveriera etnica del Kosovo e il versante delle montagne popolate dagli albanesi. In realtà esistono altri due valichi assai meno frequentati a qualche Km di distanza da qui, ma dai nostri amici macedoni ci sentiamo dire senza tanti giri di parole: “noi non ci fidiamo a passare di là, se volete andate voi.” L’attesa e la rassegnazione si mescolano: non resta che ammirare l’occhieggiare dei ritti e candidi minareti fra i tetti rossicci delle case di villaggi adagiati ai piedi delle colline, e lo spettacolo del cielo orfano della luna che lentamente s’imbruna, quel “cielo slavo del sud pieno di grazia” che qualcuno ha cantato. Sono trascorse ormai più di 24 ore dalla partenza da Piacenza: sei dogane già attraversate per tre stati che fino a poco più di dieci anni fa condividevano la stessa bandiera. L’Italia abbandonata esattamente alle due e venti di questa mattina per fare ingresso in Slovenia, direzione Lubiana. Del piccolo stato alpino che fu il primo, con la Croazia, a separarsi da Belgrado colpisce l’aspetto pulito e asburgico. Una sosta per qualche ora di sonno in uno sperduto autogrill fra le montagne, il caffè che ci viene servito ancora espresso, e si riparte alla volta di un’altra frontiera, quella con la repubblica croata. Albeggia ed il profilo dei rilievi si materializza gradualmente come fossero di vapore: superata Zagabria e il primo ponte sulla Sava a pochi Km dal confine, si fa rotta verso Slavonski Brod e Vukovar. Cominciano a riecheggiare alle nostre orecchie toponimi risuonati ossessivamente sui mezzi di informazione durante gli anni in cui queste zone furono il teatro di una guerra sanguinosa. Le tracce non sono più visibili, solo alluse dalla realtà: all’avvicinarsi della frontiera con la Serbia l’autostrada sembra dirigersi verso il nulla. Più nessun centro abitato nelle vicinanze, poco traffico e ai lati solo un paesaggio di desolazione, alberi maestosi, campi incolti probabilmente ancora avvelenati dalle mine e la luce di un sole che comincia a farsi battente: a rendere evidenti più le assenze che le presenze intorno a noi. L’assenza, per esempio, di un’indicazione stradale che ci notifichi la destinazione verso cui ci stiamo avviando: si accentua l’impressione di non essere diretti in alcun luogo. Repubblica Serba e Belgrado non esistono, i croati hanno cancellato pure i nomi dai cartelli: il mondo finisce a Lipovac. L’unica certezza ha il nome della stazione di confine fra i due stati. Nella zona franca tra i due posti di blocco della frontiera hanno trovato pure lo spazio per farci una bella aiuola fiorita. Con il visto pagato sul passaporto si entra in Serbia, diretti a sud: l’autostrada è malridotta, l’asfalto è consunto e malamente rappezzato, la mancanza pressoché totale di cartelloni pubblicitari la rende assolutamente spoglia. In compenso automezzi incredibili la solcano: Trabant, Lada, Koral di tutti i colori e le immancabili Zastava, una specie di “Fiat 128” dal sedere un po’ più basso; spesso arrancanti ai bordi della carreggiata o addirittura morenti sui frequenti tratti in salita. Guardata dal finestrino di un’automobile in movimento – e non c’è punto di osservazione più precario e parziale – la Serbia appare un paese sofferente, arrugginito, popolato di abitazioni non finite, di scheletri di edifici, abitazioni fantasma. Sono solo alcuni tra gli effetti collaterali della guerra piovuta dal cielo poco più di tre anni fa. Capace di paralizzare il futuro e i progetti delle persone: rimasti in sospeso proprio come tutte le case incompiute disseminate ai lati della strada, macabri monumenti al rimpianto. L’orizzonte si spiana man mano che ci si avvicina a Belgrado: l’ingresso in città avviene alle 14,30 di un sabato qualsiasi, l’autostrada sfocia direttamente in una tangenziale che s’incunea nel comprensorio urbano animato da un traffico caotico. Il nostro transito è veloce: casermoni anonimi e sullo sfondo il centro storico e amministrativo con alcuni resti ancora evidenti dei bombardamenti, la sosta è rimandata al viaggio di ritorno. Oltrepassato l’enorme ponte sospeso sulla Sava che qualche centinaio di metri più in là confonde le proprie acque con quelle del Danubio, qui Dunav, all’improvviso la strada si mette a salire. E’ il monte Avala dal quale si domina tutta la “città bianca” ormai alle nostre spalle. L’arrivo a Niš, ormai nella Serbia meridionale, avviene nel tardo pomeriggio: i cartelli stradali finalmente segnalano a grandi lettere Skopje e addirittura Thessaloniki, in Grecia. A dispetto delle indicazioni cartografiche, inopinatamente l’autostrada s’interrompe e senza nessuna possibilità di deviazione la macchina si ritrova alla deriva su di un mare di buche e crateri: ci spiegano che è un altro regalo della guerra, il transito dei mezzi militari pesanti ha ridotto la sede stradale in condizioni quasi insostenibili. La velocità di crociera subisce così una drastica riduzione almeno fino Leskovac; poi iniziano le montagne e il traffico si fa sostenuto: segnali inequivocabili che ci stiamo avvicinando al confine, la nostra settima dogana si chiama Preševo.
Al valico macedone sono presenti i soldati in divisa con i fucili imbracciati: sono da poco passate le 3, dopo quasi sei ore di attesa il paese del sole a sedici raggi ci accoglie beffardamente nella notte più cupa. La Macedonia è un piccolo stato, grande come il nostro Piemonte, le distanze da un estremo all’altro del suo territorio superano di poco i duecento chilometri: un paio d’ore di strada ci separano dalla nostra destinazione finale, all’estremità sud est del paese, a qualche centinaio di metri dal confine bulgaro, a una cinquantina di km da quello greco. Precisamente nella vallata di Strumica, la vallata dei piacentini di Macedonia.
L’attraversamento delle zone calde in cui solo pochi mesi si svolsero ripetuti scontri a fuoco fra le due etnie della repubblica, macedoni e albanesi, avviene quando la notte è ancora alta. E la notte macedone fa sul serio: non è come una qualsiasi notte in Italia. Per le strade non s’incrocia un auto, i lampioni inesistenti, indicazioni stradali neanche per idea: Kumanovo, Veles, Stip sono attraversate nell’oscurità più assoluta. La seconda alba consecutiva accolta da un sedile d’automobile si fa annunciare da una leggera effusione di chiarore che traccia il primo incerto bordo delle montagne: la Macedonia si rivela gradualmente col far della luce. Il paesaggio si presenta densamente spopolato, larghe superfici paiono incolte, coltivazioni a macchia di leopardo, discontinue. Moderatamente esotico ai nostri occhi assuefatti alla campagna italiana del nord, intensamente antropizzata. I rilievi non sono particolarmente elevati e qualche affinità forse sussiste con le brulle e riarse mesetas spagnole. Una sensazione si insinua gradualmente di fronte alle immagini che prendono forma come un film, l’interminabile piano sequenza proiettato dietro ai vetri dell’automobile, e non è solo una questione di latitudine: si respira un’atmosfera di profondo sud. Sono i nostri sensi a rivelarcelo, le gradazioni cromatiche, l’aspetto della vegetazione, l’odore dell’aria. Alle 5 e mezza finalmente il transito in una Strumica ancora deserta, ma è Murtino il primo dei piccoli paesi che conosciamo da vicino. Una scuola elementare, un vecchio centro culturale di stato convertito in locale da ballo e dall’altra parte di una strada alquanto sconnessa la modesta abitazione di Dimitar, nostro compagno di viaggio. Muratore per 11 mesi all’anno a Piacenza e contadino per l’unico che gli rimane da trascorrere nella sua casa. All’apertura della portiera l’aria del mattino finalmente dilaga, giunge alle narici e profuma di una fragranza strana, di qualche fiore sconosciuto alla memoria olfattiva. Dimitar offre una sorta di anteprima di quello che è lo spirito d’accoglienza del posto: caffè turco e poi un assaggio della bevanda nazionale, la “strumca”, una specie di gazzosa colorata di giallo che sa di pera. Forse è un po’ troppo dolciastra, ma viene spiegato che il suo gusto si è dovuto adattare alla concorrenza delle bibite occidentali che hanno recentemente invaso il mercato nazionale: una volta la strumca veniva prodotta da industrie di stato ed aveva un sapore meno “commerciale”. La meta finale del lungo viaggio che ci ha portato ad attraversare tutta la ex Iugoslavia, si chiama Novo Kuniarevo. E’ un piccolo paese di campagna e la maggior parte degli abitanti sono immigrati che si sono stanziati in due zone: Piacenza e Locarno, nel Canton Ticino. Ospiti a casa di amici che risiedono ormai abitualmente Piacenza, ci troviamo catapultati nella vita di un paese al contempo vicino e lontano dall’Italia.
E’ un agosto stralciato dall’ordinaria routine estiva, nel quale trascorrono giorni compiutamente vissuti “altrove”: dentro a uno specchio in negativo – direbbe Calvino – dove i ruoli per una volta sono invertiti, gli stranieri e immigrati siamo noi italiani e i residenti e padroni di casa sono i macedoni. La storia di questo popolo è tutta impressa nei tratti somatici dei suoi uomini e delle sue donne, visi fieri e spesso bruni, dove una certa durezza slava s’addolcisce e declina verso lineamenti mediterranei. Non mancano gli influssi orientali e tzigani, le carnagioni scure, mentre i capelli fulvi e gli occhi chiari in qualcuno diventano segni che complicano magnificamente la decifrazione delle origini di una gente che ha nel sangue secoli di contaminazioni. I piccoli minareti degli zingari musulmani discendenti dai turchi coesistono con le suggestive e raccolte chiesette ortodosse nell’arco di pochi chilometri. Ciascun paese nella valle di Strumica ha il suo contingente di migranti: le auto targate Piacenza che s’incontrano lungo la strada che collega il capoluogo con la frontiera bulgara sono veramente tante; Turnovo, Monospitovo, Bosilovo, Smolare, Sušica, Kolešino, Dabile, in tutti questi piccoli centri si trovano i macedoni di Piacenza o della provincia. Trascorrono le ferie sulla loro terra: nella casa che hanno appena costruito o che si accingono a portare a termine con i soldi guadagnati in Italia. I macedoni di Piacenza si incontrano soprattutto di notte perché in agosto nella vallata di Strumica nessuno sa mai che ore sono, il giorno e la notte non esistono più. L’impressione si rinvigorisce col passare dei giorni: quello in cui stiamo vivendo è un periodo che può definirsi “drogato” per l’economia del luogo. Drogato dal denaro messo in circolo dagli immigrati che hanno fatto ritorno. Soprattutto fra i più giovani la vita è all’insegna dell’eccesso, occorre fare tutto, spendere il più possibile, vivere a 200 all’ora: in queste poche settimane a disposizione non bisogna farsi mancare niente, perché fra poco tutto finirà. Un altro viaggio di 1600 km li aspetta e altri undici mesi di duro lavoro in Italia o in Svizzera, come muratori, manovali, operai; per qualcuno c’è il ritorno alla condizione di clandestinità. Ma dietro a questa “dolce vita” in chiave balcanica, c’è un’altra realtà che se ne sta lì acquattata alle spalle, ma neanche troppo nascosta. La realtà misera di chi non è emigrato ed è rimasto a coltivare la terra, di chi e stato abbandonato da uno Stato che prima si occupava di tutto e all’improvviso non esiste più; la realtà dei carretti trainati dai muli, dei covoni di fieno balcanici ormai anneriti, del lavoro manuale nei campi di tabacco, delle angurie vendute a 600 lire l’una e poi lasciate marcire ai bordi delle strade. La realtà del mercato settimanale di Novo Selo, il principale comune della zona dopo Strumica: un piccolo mercato in stile kolchoziano, dove i contadini vengono a vendere i poveri frutti della terra, peperoni e ortaggi in genere: ma chi li comprerà mai? – viene da chiedersi – visto che qui tutti hanno l’orto. Più il tempo passa ed un altro presentimento prende piede: che quello compiuto non sia stato solo un viaggio nello spazio e uno spostamento concettuale verso culture “altre” da noi; in realtà abbiamo effettuato un tragitto a ritroso nel tempo e ci siamo ritrovati inaspettatamente negli anni settanta. Forse fine anni settanta. Il progredire di questa nazione per tanti aspetti si è fermato lì: certo la Coca Cola onnipresente nelle insegne dei locali pubblici è arrivata dopo, ma qualcuno dubita che il suo approdo in Macedonia abbia costituito un progresso. Le giovani donne girano agghindate – neanche a farlo apposta – con zeppe alte e jeans attillatissimi a zampa di elefante. E poi le Zastava degli anni ’70, edifici dal contenuto architettonico interessante in stato di totale abbandono, senza più interventi di manutenzione. Chissà se il frutto di constatazioni puramente visive alla fine possa prestarsi anche ad interpretazioni storiche. La sensazione di marginalità, di perifericità rispetto ai circuiti politici ed economici che contano è molto marcata: forse è proprio tutto iniziato alla fine degli anni settanta, quando il tempo, in Macedonia, ha smesso di scorrere in avanti. Dopo un viaggio nella terra del sole a sedici raggi, sono tante le cose che si possono riportare in Italia – a dispetto dei severi doganieri serbi – nel bagaglio del ritorno ricomposto alla rinfusa: sapori, odori, visioni, amicizie e malinconie. Niente che si possa racchiudere completamente nei confini di un brano scritto. Forse, lasciato passare un po’ di tempo perché i ricordi si sedimentino, saranno i suoni ad avere la funzione più rievocativa. Basterà una canzone a mettere in moto la memoria: “Ederlezi” composta da Goran Bregovic sulla traccia di un motivo macedone. A suonarla non sarà però la banda dei tre bambini tzigani che si presentarono in formazione quasi completa alla festa del paese in cui abbiamo trascorso un pezzo di questa estate: con percussioni, clarinetto e tromba, l’esecuzione fu un po’ approssimativa, ma forse per questo ancora più struggente.
Mauro Ferri