Arcobaleno su Kiev!
E io sono Puà e ho una coda: si, sono un clown con la coda! Ho capito che il mio clown era nato quando ho trovato lei. C’è un momento in cui il tuo clown nasce, lo senti. Forse clown dentro lo si è da sempre, questo non lo so, ma c’è un momento in cui scatta qualcosa e tu capisci che con quei vestiti, con quegli oggetti colorati in mano ti senti a tuo agio, ti senti te stesso: che clown lo sei, non lo stai facendo. E la coda è il mio mezzo per arrivare ai bimbi, per avvicinarmi a loro, per conquistare la loro fiducia e i loro sorrisi.
A Kiev di sorrisi ne ho ricevuti tanti, che mi sono rimasti dentro: ho visto il sorriso di Vova che avrà 13 anni più o meno, che c’è stato sempre, tutti i giorni, alla stessa ora, che ci aspettava e ci chiedeva se il giorno dopo saremmo tornati, che voleva le foto con noi, che l’ultimo giorno ci ha guardato andare via e chissà dentro quale paura aveva. Ho visto il sorriso di Julia che ha 5 anni e che ci aspettava perchè stava guarendo e aveva tanta energia ora, tanta voglia di rimettersi a giocare. Julia ci ha regalato un disegno e ci ha chiesto se potevamo restare con lei tutta la vita. Ho visto il sorriso di Vladi: aveva davvero voglia di esplodere, di gridare, di farsi sentire, forse di combattere. E anche di truccarmi tutta la faccia per un’ora intera! Ho visto il sorriso che ci faceva Pietro, raccontandoci che la sua casa era troppo lontana e che lui vive in ospedale con la sua bimba, come quasi tutti genitori, che ogni giorno si prendono cura dei loro bambini, preparano da mangiare, vivono con loro in una camera di ospedale. La bimba di Pietro è in carrozzina, ma lui ha tanta forza per tenerla in braccio, tanta forza per lottare. Rita, invece, è stata la prima che è riuscita davvero a farmi emozionare: è stata la prima a toccarmi. é strano come un clown a volte riesca a comunicare tanto con un bimbo senza avvicinarsi, senza cercare il contatto fisico. Perchè a volte il contatto non serve, a volte dà fastidio, a volte è difficile. E Rita, invece, il primo giorno che ci siamo conosciute si è seduta vicino a me e mi ha disegnato sulle braccia, mi ha abbracciato e io mi sono emozionata perchè in quel momento lei stava rompendo una barriera. Quella barriera che ho costruito e che sto cercando di rompere, quella barriera che ci accomuna tutti, che mette tra di noi paure e distanze. Si, sono i contatti che mi hanno emozionato di più: Viktoria ha 12 anni e non può camminare perchè non ha una gamba. Nonostante sia sempre stata con noi, è rimasta in disparte, riservata. Ma l’ultimo giorno ha chiesto alla mamma di aiutarla ad alzarsi, ha voluto avvicinarsi a tutti noi e uno alla volta ci ha voluti abbracciare. Io sempre li, con la mia barriera, a darle un bacio sulla guancia e lei mi ha abbracciato forte, a lungo . E non voleva più lasciarci andare. Forse perchè aveva da poco visto il suo papà andarsene via. Ho visto il sorriso di Naissa, di Siviglia, di Nikita, di Michael, di Vova, di Vladi.
Ma ancora ho una domanda. Una domanda difficile, che riemerge spesso: mi chiedo se il clown serva. Si, se quello che facciamo ha senso. Ho visto anche Antonio. Antonio ha 18 anni, è paralizzato e forse non ha le gambe. Antonio muove solo la testa e quel giorno in neurochirugia Antonio ci ha sorriso, ci ha ringraziato, ci ha raccontato la sua vita. Ma io Antonio facevo fatica a guardarlo, mi vergognavo, perchè li con lui, in fondo in fondo mi sentivo inutile. Mi sentivo a disagio di fronte a quel ragazzo di pochi anni più piccolo di me che stava lottando con la morte e la malattia e intanto regalava a noi un sorriso. A noi che siamo stati con lui solo 5 minuti. Non ha funzionato il mio clown quando in oncologia quel bimbo nella sua stanza piangeva, gridando, perchè si sentiva male. Gridava tanto che l’infermiere è corso da lui per cercare di calmarlo e io fuori da quella stanza ho pensato che li dentro non sarei riuscita ad entrare. Non ce la facevo. Forse perchè in fondo non sono ancora un clown maturo. Forse altri ce l’avrebbero fatta.
Non è facile scrivere di Kiev perchè ora, a casa, ripenso a tutto quello che ho vissuto e razionalmente mi rendo conto di quello che ho visto, della sofferenza che mi sono trovata di fronte. Eppure ripenso alle emozioni che ho provato, ripenso a quei sorrisi, ripenso a quelle mamme che ci hanno ringraziato e si sono commosse. E mi ripeto che il clown funziona. Non combatte per salvare il mondo. Il clown combatte per rompere quelle barriere. Il clown funziona sul bimbo che decide di fidarsi di me e di meravigliarsi per una magia; funziona per la mamma che per mezz’ora non ha pensato alla malattia del suo bambino, ma si è divertita alle nostre battute; funziona con noi che per essere clown dobbiamo imparare ad avvicinarci, a non guardare nessuno come una persona che soffre, ma come qualcuno che ti sta regalando delle emozioni, che ti sta offrendo un contatto vero, intimo. Il clown sta li, crea un mondo magico, fatto di storie meravigliose e personaggi fanstatici, di bolle e di colori e lascia la libertà di scegliere al bimbo se ha voglia di lasciarsi andare, di meravigliarsi, di divertirsi, di riconquistare il mondo di fantasie a cui ha diritto, alla mamma di sfogarsi se vuole, a lui stesso di sentirsi, magari solo per un attimo, utile. Questo per me ha un senso, questo fa il clown. A questo serve il mio clown, a questo serve la mia coda. A poco forse, ma a qualcosa.
La coda l’ho riportata a casa, la valigia anche, un pezzetto di cuore, invece…bè, quello è rimasto a Kiev.