Amsterdam e i Castelli dei Paesi Bassi
La giornata di sabato era cominciata presto, alle sei e mezzo, nella nostra cabina “matrimoniale” dagli oblò inapribili velati da due minuscole tendine blu e dallo spazio ridotto, spesso conteso fra il mio consorte e me. La cabina 11, che è stata il nostro alloggio per 7 notti, è posizionata non lontano dai motori della De Tijdgeest, la barca che ci ha portato alla scoperta dei dintorni di Amsterdam e delle provincie di Utrecht e del Gelderland. Eravamo ormeggiati nel porto di Amsterdam, nei pressi della Stazione Centrale. Il porto era piuttosto trafficato e ogni volta che passava un’imbarcazione le onde facevano rollare la nave, con conseguenti cigolii, che avrebbero potuto anche favorire la ripresa del sonno, ma si fiutava una certa tensione nell’atmosfera de! mattino: tramestii, andirivieni a poppa e a prua. Naturale; i trentadue turisti, fra i quali c’eravamo anche noi, si preparavano a lasciare la Tijdgeest. Pronta per lo “scarico” dei turisti ormai spremuti e per il “carico” di nuovi turisti da spremere, la barca non si lasciava intimorire dalle altre grosse imbarcazioni che popolavano il porto, ma forse era preoccupata per il passaggio di proprietà imminente (sulla sua fiancata campeggiava la scritta TE KOOP=in vendita). Ma è certo che una barca dal nome che vuoi dire “l’essenza de! Tempo” o qualcosa di simile, non si scoraggia facilmente… Tutte le settimane uno spettacolo simile, una rotta analoga, un gruppo di persone diverse ma accomunate da una stessa scelta: quella di trascorrere sette giorni fra bici, boschi, campi coltivati, fiumi, mulini, pecore, mucche, “polchure” (vedi più avanti) e castelli ubicati nei Paesi Bassi. Rewind. Torniamo indietro di un sabato. Adesso è sabato 10, quello del nostro imbarco… Se solo fossimo capaci di trovare la nostra barca! Al molo di fronte al n. 125 di Prins Henrikade non c’è. Manca ancora un’ora all’imbarco, resta tempo per una ricerca accurata. Solo che le valigie pesano. O.K., io mi offro di restare seduta su una panchina lungo al molo con tutti i bagagli, mentre Leo va a informarsi. Il cielo è nuvoloso, sembra ottobre. Be’, intanto mi leggo la guida di Amsterdam. Sono già passati 20 minuti. Forse prima di riprendere l’aereo per l’Italia avremo i! tempo per visitare la capitale. Uffa, perché non torna? Ah, ah, è andato a comperare le sigarette! La vecchia storia. E’ l’una e non è ancora tornato, è stato via quasi un’ora! lo ho il suo numero di cellulare, ma come faccio a telefonargli con tutti i bagagli non mi posso muovere e di cabine non se ne vedono. Poi dovrei anche comprare una carta telefonica della Telecom olandese, come faccio? Tra poco chiedo a qualcuno se ha un cellulare e mi lascia chiamare il mio consorte smarrito. L’avranno accoltellato qui nella zona del porto? Quando la tensione e la preoccupazione si stanno trasformando in panico eccolo arrivare tranquillo: ha trovato la barca dall’altra parte della stazione. Con il nostro carico di valigie trotterelliamo indietro verso la stazione centrale. Il mio umore non è alle stelle, del resto il viaggio non è cominciato sotto i migliori auspici. Finalmente arriviamo, ma la barca è ormeggiata lontana dalla banchina e non si sa come fare a salire. Alla fine chiediamo agli occupanti di un’altra barca: per accedere alla Tjidjest bisogna transitare per il ponte di un’altra imbarcazione. Chiediamo “permesso” e siamo a bordo della nostra “nave”. Veniamo accolti dal capitano che ci mostra la cabina e ci informa che tra non molto ci sarà una riunione sul ponte. Non vedo l’ora… Scaravento i bagagli nella cabina: un ambiente asfittico e tristanzuolo. Sono affamata e mentre aspettiamo la partenza divoro le provviste saccheggiate al mattino in hotel. Mentre sorseggio un tè faccio conoscenza con gli altri passeggeri: due ragazze di Treviso, due famiglie di Rimini e una di Milano, due famiglie inglesi di Londra, una coppia canadese, una coppia francese, una coppia americana originaria dei Paesi Bassi, due amiche tedesche, una australiana anche lei tornata nel paese d’origine e una giapponese. L’equipaggio, invece, è costituito dal capitano, dalla cuoca, da un’aiutante della cuoca e da un “marinaio” diciassettenne. La guida è una signora di mezza età, olandese, che d’inverno va a fare la farmacista nelle antille olandesi e d’estate lavora come accompagnatrice turistica. Navighiamo sul Nijkerkernauw (tipo Valli di Comacchio olandesi), fra isole, mulini a vento e chiuse da superare fino a che non sopraggiunge la sera. La cena è alle 18.30 (tutte le sere). I sapori non sono proprio quelli di casa ma ci adattiamo. Dopo il gelato arriva il momento della “sbiciclata”. La prima tappa è nella cittadina di Harderwijk. C’è un’arietta frizzante ma facciamo la nostra prima uscita in bicicletta (ormai sono le otto e mezza). Subito sorge una lamentela: la turista giapponese, Marico, sostiene che le bici giapponesi sono totalmente diverse da quelle olandesi e che comunque quella a lei assegnata è troppo grande e che non riesce a toccare per terra con in piedi. Le fanno provare la bici da bambino di 9 anni, ma anche quella non sembra corrispondere agli standard giapponesi. Non ha scelta, si deve accontentare di una bici marcata Peugeot, come quella degli altri. In occasione dell’assegnazione della bici e del “collaudo” prendiamo dimestichezza con la terminologia (che dovrà esserci utile nella nostra escursione cicloturtstica). Termine essenziale è “pòlchure” (non so come si scrive, ma la pronuncia è questa) che indica il paletto collocato ad hoc in mezzo alla pista ciclabile e che bisogna scansare ogni volta per arrivare sani e salvi alla fine del tour. Altro termine utile è fits, che indca la bicicletta e in particolare la bici che arriva in senso opposto al tuo senso di marcia e che devi evitare a tutti i costi se non vuoi che la vacanza abbia fine in modo repentino. Superata la fase di collaudo delle bici assegnateci proseguiamo la serata facendo una passeggiata a piedi per lo stesso paese in compagnia delle ragazze trevigiane che, non appena studiata la struttura architettonica degli edifici olandesi, lanciano l’idea dell’”housewatching”. Infatti tutte le case hanno ampie finestre con le tende aperte e le luci accese sicché si può comodamente vedere l’arredamento locale e le attività svolte dalle popolazioni oriunde. Quando le palpebre cominciano a pesare e l’housewatching perde di interesse ci apprestiamo a trascorrere la nostra prima notte in cabina (per fortuna con servizi in camera). Il mattino dopo la navigazione comincia alle sette. I motori si sentono eccome! Colazione alle 8 in punto. La partenza è dalla città di Kampen, dove vediamo la solita porta d’accesso alla città fortificata e una curiosità: appesa alla cuspide del campanile della chiesa di San Nicola c’è …una mucca di plastica! Pare che la leggenda dica che era cresciuta dell’erba all’altezza del tetto e siccome non la si voleva sprecare si è deciso di issare una vacca fin lassù in maniera da farle brucare i fili d’erba ad alta quota. Naturalmente la mucca ha finito i suoi giorni strangolata mentre la tiravano su con una corda, così d’estate appendono una mucca finta per ricordare questa prodezza olandese… In generale, però, la giornata è stata un po’ deludente perché abbiamo ancora navigato per un bel po’ e poi non ci siamo per nulla coperti di gloria: abbiamo pedalato per soli 20 km (inframezzati da varie pause: pranzo al sacco, caffè, etc.). Lungo la pista ciclabile che seguiva le rive del fiume c’erano enormi, fumanti, cacche di ruminante, che schiacciavamo coscienziosamente con i nostri copertoni. Io tallonavo l’accompagnatrice, per carpire, alla prima occasione, preziose informazioni sul percorso, ma non ho potuto farlo quando ci siamo fermati a mangiare sulle panchine lungo i fiume: siamo stati subito attaccati da sciami di vespe, intenzionate a posarsi su mele e panini e magari a farsi inghiottire. Alle 15.30 eravamo già di ritorno alla nave. Leo, le trevigiane, i canadesi ed io ci siamo dissociati. Scalpitavamo, smaniosi di pedalare ancora; abbiamo chiesto e ottenuto il permesso di tenere le bici per andare ad esplorare i dintorni. Esattamente quando ci siamo rimessi in marcia ha cominciato a cadere una pioggerella sottile. Comunque noi, eroicamente, ci siamo infilati gli impermeabili e abbiamo proseguito per un’altra oretta lungo una pista ciclabile parallela alla strada principale, ma che passava attraverso a un bosco. Al ritorno, però, abbiamo scoperto la triste verità e cioè che gli altri si erano “sbafati” tutti i biscotti del té delle quattro. Ma Leo era felice di essere dimagrito e di non essere stato esposto alla tentazione dei frollini. La sera Leo ed io ci siamo avviati affiancati, sfiorandoci romanticamente le spalle a ogni passo, per il solito … “housewatching”, stavolta ad Hattem e più tardi siamo restati un po’ a socializzare con i compagni di viaggio sul ponte della nave. Il lunedì abbiamo cominciato a pedalare sul serio. Ero a un passo dall’euforia: finalmente una quarantina di chilometri! Siamo partiti al mattino verso le dieci da Wijhe, abbiamo fatto varie tappe, tra cui quella principale nella cittadina di Deventer, dove abbiamo sostato per un bel pezzo nella piazza principale. Come tutte le mattine disponevamo del “pack lunch”: pane, formaggio, prosciutto cotto, mele e alcune sbarrette di cioccolato. Dopo il pranzo al sacco Leo ed io abbiamo ripreso le bici e siamo andati ad esplorare: verso la zona della stazione c’era un bel parco circondato da un canale con cigni e anatre. Arrivati al fiume abbiamo attraversato il ponte e scattato alcune foto. La sera abbiamo pernottato a Zutphen. Il martedì abbiamo pedalato ancora per una quarantina di km da Zutphen fino a Arnhem, passando per Bronkhorst (la più piccola cittadina dei Paesi Bassi, dove c’era un museo dedicato a Charles Dickens!!!), Doesburg e Rozendaal. In quest’ultimo luogo abbiamo visitato un castello stupendo, arredato, con un magnifico giardino. La guida del castello, una signora olandese un po’ agitata, parlava a raffica in inglese, questo le faceva ingurgitare le parole, che pronunciava con un notevole accento neerlandese, perciò non era facilissimo cogliere i dettagli riguardanti mobili e degli altri oggetti che ci descriveva. Gli ambienti erano certamente suggestivi, soprattutto la torre, illuminata da finestroni attorno alla cupola e le cui pareti erano rivestite da una libreria. Sul laghetto si specchiava una galleria decorata da conchigie e delfini di marmo. Il tempo andava progressivamente migliorando e l’umore andava di pari passo; anche se martedì, proprio al castello di Rozendaal, c’è stato un incidente: la bambina della famiglia milanese, di otto ami, si è fratturala un polso mentre giocava nel parco (è scivolata dopo essersi arrampicata su un albero). Sicché ha dovuto andare in ospedale con la madre, ma l’hanno operata la sera stessa e i giorno dopo è tornata sulla barca anche se non ha più potuto proseguire le passeggiate in bici. La sera abbiamo vistato Arnhem accompagnati dalla nostra guida, ma la città era stata bombardata durante la seconda guerra mondiale e non restavano quasi più edifìci antichi. Leo non ha resistito alla tentazione di mangiarsi un gelato al cioccolato belga in una gelateria australiana… (tutto un miscugio di nazionalità e sapori). L’episodio più divertente è stato quando ci siamo accorti che la statua di bronzo che si trovava davanti alla cattedrale e che rappresentava un uomo che si riparava con le mani come da una luce accecante aveva una moletta per i bucato attaccata al naso come se si stesse difendendo da un puzzo ammorbante che impestava l’aria. Dal raccapriccio per gli orrori della guerra alla ripugnanza per gli odori cittadini! Con grande senso civico uno degli inglesi è salito per rimuovere la molletta, ma in quel momento è stato fotografato e ricattato dal dentista canadese, che ha immediatamente chiarito quali erano le sue richieste: o veniva pagato oppure avrebbe mostrato alle autorità locali la foto del vandalo che andava a deturpare i monumenti cittadini, offendendo con un illecito slittamento di significato la serietà di coloro che ripudiavano la guerra. Al ritorno alla Tjidjest l’aria in cabina cominciava a essere irrespirabile per il caldo e il mancato ricambio, dato che con gli oblò sigillati cera solo l’aspiratore del bagno che garantiva un minimo di ventilazione. Le escursioni più belle sono state senz altro quelle di mercoledì, giovedì e venerdì. Cielo limpido tutti e tre i giorni. Tutto il mercoledì è stato dedicato alla visita di un parco nazionale fantastico chiamato De Hoge Veluwe. Davanti allo spettacolo delle grandi distese di erica in fiore, di quei cespugli dai fiori viola a perdita d’occhio ho sentito come un brivido di esaltazione: qui la Natura trionfava ancora!!! Ero affascinata dalla vegetazione incolta, dalle zone di bosco -dove a volte si percepiva il fruscio delle lucertole che sfrecciavano nell’erba al nostro passaggio-, dalle dune sabbiose. Infine, nel cuore del parco, c’era un museo, contenente una cospicua collezione di opere di Van Gogh e altri pittori del secolo scorso. Appena siamo arrivati all’ingresso del parco, però, ci siamo resi conto di aver “smarrito” tre dei nostri ciclisti… La guida è passata all’azione: ci ha sguinzagliati in bicicletta per il parco ed è andata a cercare i “desaparecidos” (per fortuna poi ci siamo tutti ritrovati al museo, compresi quelli smarriti). La sera di mercoledì le trevigiane, le tedesche, Leo ed io siamo andati in un pub con un balcone affacciato sul canale a prendere qualcosa da bere, a condividere rutti squassanti e a trascorrere una piacevole serata in compagnia, insomma. Leo ha raccontato le solite storie dei viaggi in Libia e Marocco, con l’episodio del latte di cammella: bastava chiedere e lui dava la stura a storie appassionanti, come quelle vissute in Russia o in Ucraina. Il giovedì siamo partiti dal paese di Vijk bij Duurstede e abbiamo fatto tappa per il pranzo al sacco dove c’era una specie di lago artificiale chiamato De Meent. II posto era molto affollato, tipo una piscina dalle nostre parti, infatti un sacco di persone sedevano o stavano sdraiate a prendere il sole, mentre altre facevano il bagno, anche se la temperatura non era del tutto estiva. Sono rimasta esterrefatta nel vedere che l’australiana sessantenne del nostro gruppo si tuffava in reggiseno e bermuda, perché non aveva portato il costume (è comunque stata la sola a provare l’emozione delle acque olandesi). Quando siamo ripartiti aveva tutto il sedere ancora bagnato, ma sicuramente poi si sarà asciugato nel corso della pedalata. La pausa pranzo al “De Meent” è durata un paio d’ore, ma dato che noi non ce la sentivamo di fare il bagno e nemmeno di stare distesi sul prato, abbiamo ripreso le nostre bici e via, per nuove avventure solitarie. Abbiamo proseguito un po’ lungo il fiume e poi abbiamo fatto una volata al ritorno per essere al punto d’incontro per le due, ora convenuta per la partenza. Nel pomeriggio ci siamo fermati a Culemborg e la sera a Vianen. Appena si tornava alla nave tutti si fiondavano a mangiare i biscotti prima che venissero esauriti in un battibaleno. Evidentemente la pedalata stimolava l’appetito… Alla sera, dopo la passeggiatina in paese, ci siamo ritrovati sulla prua della nave con le tedesche, le trevigiane, la coppia francese e Marico, la ragazza giapponese. La conversazione si è subito concentrata su barzellette e canzoni. Ciascuno ha cantato una canzone del proprio paese: Leo ha intonato “Faccetta nera”, i francesi la Marsigliese, perché era una delle poche melodie di cui ricordavano le parole (io ho sondato la mia memoria alla ricerca di motivetti utili e ho suggerito “La vie en rose” e anche “Alouette”, ma in vano) e la più gettonata è stata la canzone di Marico, in giapponese, ovvio. Ho dato a mio marito un’affettuosa strizzatina al ginocchio: adesso palla a te! Lui aveva ancora un asso nella manica: due barzellette in inglese –che a lui erano state raccontate da un napoletano- e la cosa più divertente era che Marico non coglieva mai la battuta (si trattava di barzellette a sfondo sessuale) sicché bisognava spiegargliele varie volte prima che finisse per ridacchiare, non senza prima essersi messa la mano davanti alla bocca per celare la sghignazzata intempestiva. Successivamente anche Marico ha raccontato una barzelletta svizzera o meglio, sugli svizzeri. Dopo che si sono affievolite le ultime risate ed è calato il silenzio ci siamo augurati la buonanotte. Il venerdì abbiamo percorso l’ultima tappa del nostro viaggio: Breukelen-Amsterdam. Quasi tutto l’itinerario si snodava lungo il fiume Vecht. Verso Amsterdam le rive del fiume somigliavano vagamente alla Riviera del Brenta: sulle sponde sorgevano varie ville di ricchi che si costruivano i palazzi subito fuori Amsterdam. C’erano anche moltissime case galleggianti, arredate di tutto punto. All’ora di pranzo abbiamo visitato un bellissimo castello, il Muiderslot, dove c’era la solita coppia di sposi che si faceva ritrarre davanti al monumento. L’interno era arredato e una guida ci ha illustrato la storia del castello, illuminando i quadri e i dettagli con una torcia elettrica, perché le stanze erano piuttosto oscure. Nel cortile c’erano due falchi e una civetta trattenuti da una catena. La civetta sgranava due occhioni giganteschi sui turisti e in particolare seguiva la borsa rossa di Leo: se lui la spostava a destra il suo sguardo seguiva la borsa a destra, se la spostava a sinistra immediatamente volgeva la sguardo a sinistra. Finito il giochino con la civetta Leo ed io ci siamo avviati al parcheggio bici e lì ci siamo resi conto che tutti gli altri erano già pronti a partire e ci stavano aspettando… Una cosa che ci ha colpito è stato che per strada c’erano delle bancherelle che vendevano prugne e marmellata “self-service”. Cioè c’era scritto il prezzo e c’era una scatola dove lasciare il denaro e i sacchettini dove mettere le prugne, ma nessun venditore. E’ sorprendente come si fidino, vero? Non sanno forse che ci sono anche degli italiani in giro? Una volta arrivati a Amsterdam ci siamo ritrovati esattamente nel luogo in cui il nostro viaggio era cominciato: al porto, di fronte alla stazione centrale dei treni. Dopo cena ci siamo aggregati a una escursione in battello lungo i canali di Amsterdam e poi, assieme alla guida, ci siamo addentrati nella zona “a luci rosse”: mi è cascata la mascella al vedere alcune ragazze in vetrina, con bikini fluorescenti”!!! Ma la cosa più spaventosa era il tanfo insopportabile di pipì e l’affollamento degno di una discoteca nelle ore di punta. La visita notturna a quel guazzabuglio pestilenziale mi ha lasciato addosso una sensazione sgradevole, in quell’istante Amsterdam mi è sembrato un luogo piuttosto squallido. La mattina del sabato eravamo stanchissimi e avevamo circa 5 ore a disposizione prima di andare all’aereoporto a prendere l’aereo, però si sa che se si fa qualcosa di interessante il tempo scivola via con innegabile e a volte inquietante velocità. Quindi abbiamo deciso di unirci a un giro turistico della città in autobus di un paio d’ore. Non era un autobus a due piani come quelli inglesi, era una normale corriera, ma almeno ci ha scarrozzato per Amsterdam e ci ha portato a vedere una fabbrica di diamanti, dove ci hanno mostrato le procedure per tagliare i diamanti e qualche gioiello, soprattutto nella speranza che facessimo spese nel loro negozio, ma putroppo per loro non eravamo in target… Eppure manca qualcosa. Ma sì, siamo andati in Olanda e non ho fatto menzione nemmeno di un mulino a vento? Tranquilli, c’è, c’è anche quello: un giorno siamo entrati in un mulino a vento. Ci hanno mostrato come azionare e fermare le pale e come svuotare i sacchi di grano nella macina per fare la farina. E mentre da una fessura filtrava un raggio di luce carico di pulviscolo di farina in movimento sono stata trafitta dall’idea che questa molto probabilmente era l’ultima volta che mettevo piede in un mulino olandese. Per fortuna che c’è sempre il mulino del Po a Ro ferrarese, patria di Sgarbi, proprio vicino a casa…