12 giorni in Brasile
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Rio de Janeiro
18/11 – La giornata è nuvolosa, non piove ma potrebbe da un momento all’altro. Nelle mie fantasie non avrei mai pensato di non trovare il sole a Rio, ma vedendo la vegetazione lussureggiante è ovvio che debba piovere anche abbastanza spesso. Rio è una città grandissima, più di sei milioni di abitanti, il 25 per cento dei quali vive nelle favelas. Si estende nella zona costiera e sulle pendici dei monti e colline alle sue spalle, lungo una serie di suggestive baie. Il nostro hotel è di fronte alla spiaggia di Copacabana, alla sua estremità orientale. Abbiamo un tour prenotato nei luoghi simbolo di Rio, a cominciare dal Corcovado, un monte di 700 metri, sulla cui sommità troneggia la statua del Cristo Redentore, inaugurata nel 1931, alta 38 metri. Per salire la strada si inerpica stretta e tortuosa partendo dal pittoresco quartiere di Santa Teresa, con le sue caratteristiche casette un po’ diroccate un po’ restaurate, i fasci di fili elettrici, alberi, fiori, rampicanti che cercano di mangiarsele. Per un buon tratto stiamo alle calcagna del 18, un piccolo tram giallo dalle fiancate aperte. Siamo nel cuore del parco nazionale della Tijuca, il massiccio montuoso che fa da spina dorsale alla città, coperto dalla mata atlantica, la foresta pluviale tropicale, un parco urbano di 4.000 ettari. La strada si inoltra tra altissime piante tropicali che nei nostri appartamenti sopravvivono asfittiche e di piccole dimensioni, mentre qui sono enormi e si intrecciano le une alle altre con spettacolari volute e tentacolo. Tra tutte spicca il giaca, un grande albero da cui pendono a grappoli frutti verdi bitorzoluti grandi anche il doppio di palloni da rugby, dolcissimi e nutrienti, sembrano le mammelle della dea della fertilità. Qui vivono le graziosissime scimmiette brasiliane, grandi come scoiattoli, dal folto pelo grigio con strie arancioni sulla coda e attorno alle guance e al mento, il faccino dai grandi occhi curiosi e tristi. Non fanno che giocare a rincorrersi sui rami, chiedere da mangiare ai turisti con la loro aria graziosa e patetica, dormire arrotolate le une alle altre in un ammasso peloso. Sono più fotografate loro del Cristo Redentore, che con la sua espressione semplice e solenne, a braccia tese, si erge a protezione della città stesa sotto di sé.
Dalla sommità del Corcovado il panorama è incredibile, una serie di baie contornate da spiagge color crema, isole sparse nel mare, dolci colline ammantate di verde, la laguna, il lungo ponte gettato sul mare, i picchi appuntiti. E l’effetto sarebbe sicuramente moltiplicato se invece di queste nubi ci fosse il sole… Si vede anche il cerchio bianco del Estadio Jornalista Maria Filho, più conosciuto come Maracanà, dal nome del quartiere in cui è situato, lo stadio più importante del Brasile. Lo stadio è la tappa successiva del tour, mi sorprende la sua condizione di apparente degrado nella parte esterna, ma sembra che questo effetto voluto per dargli un aspetto popolare, mentre l’interno pare sia bellissimo. Secondo me una mano di vernice sulla facciata gli farebbe solo bene.
Lo stesso effetto ci fa la cattedrale di San Sebastiano, completata nel 1979. L’architettura è molto originale in forma di tronco di cono, costruita con tutta una serie di aperture a bocca di lupo per dare aria e luce soffusa all’interno. E’ in cemento che con il tempo è diventato grigio e pieno di sbavature, immagino che anche questo effetto sia voluto, soprattutto per non dover procedere a un onerosissimo restauro. L’interno è invece molto suggestivo: le grandi vetrate colorate dalla base del cono disposte ai quattro punti cardinali si elevano fino all’altezza di 96 metri, dove si riuniscono a formare una grande croce bianca attraverso la quale la luce si diffonde impalpabile e solenne sul Cristo in croce sospeso nel centro sopra l’altare, attorno al quale, in cerchio, sono disposte le panche per i fedeli.
La scalinata Selaron, tra i quartieri popolari di Lapa e Santa Teresa, è l’opera originalissima dell’artista cileno Jorge Selaron, trasferitosi a Rio negli anni ottanta, inizialmente impiegato presso una ditta di demolizioni fino a trovare successivamente la sua vene di pittore e ceramista. Cominciò a rimettere a posto gli scalini diroccati davanti a casa sua, applicando sulle alzate delle piastrelle colorate di risulta. Poi il lavoro lo prese e continuò a piastrellare tutte le alzate, e poi le scale stesse e poi le pareti attorno alle scale, con piastrelle di ceramica dipinte da lui stesso e poi inviate da tutto il mondo, aiutato da altri appassionati. Nel 2013 venne trovato morto riverso sulla scala, il corpo pieno di bruciature, probabilmente per un regolamento di cinti nell’ambito del mondo della droga. Era un personaggio amatissimo a Rio: i grandi baffoni neri, sempre pronto a parlare con tutti e a fare linguacce quando lo fotografavano. I colori prevalenti delle piastrelle sono il rosso, il verde, il giallo e il blu, come la bandiera del Brasile.
Andiamo a mangiare in un ristorante a buffet a Copacabana. Nella cucina brasiliana si usa molto mischiare la frutta tra i primi e i secondi, credevo di prendere un’insalata di patate invece era un’insalata di rondelle di banana immerse in una salsa dolciastra e un altro tentativo mi ha fruttato un’insalata di mele. L’insalata di patate di Mike si è invece rivelata di ananas e prosciutto, e ci sono delle ottime pere in salsa viola.
Il Pan di Zucchero è uno spuntone di roccia a forma di ogiva alto 360 metri. Si sale con una funivia al Morro de Urca, un monticello di roccia marrone rossastra, poi con una seconda funivia in cima al Pan di Zucchero, chiamato così perché le navi portoghesi trasportavano la melassa della canna da zucchero prodotta col lavoro degli schiavi in pani di quella forma. Il tempo è ormai diventato pessimo, piove e tira vento, la visibilità è ridottissima, non si vede quasi nulla delle baie, del mare delle isole, cercheremo di tornare uno dei prossimi giorni.
19/11 – Geraldo, una guida di discendenza indigena, ci accompagna a visitare il centro di Rio. Parla un buonissimo italiano, usando anche termini gergali e a volte abbastanza ricercati. Mi colpisce innanzitutto il suo orgoglio di brasiliano, per appartenere a un paese che non ha mai fatto guerre offensive, nel quale vivono in armonia tutte le razze e tutte le culture. L’unica guerra combattuta dal rasile è stata a fianco degli Stati Uniti, con l’invio di un contingente di circa 25.000 uomini a rinforzo delle truppe sbarcate in Italia. Gli Stati Uniti chiesero al paese questo impegno bellico per cancellare il debito che il Brasile aveva verso di loro. La Forza di Spedizione Brasiliana adottò il motto “Il serpente sta fumando”, riferendosi ironicamente al fatto come sia più facile che un serpente fumi piuttosto che il Brasile entri in guerra.
Secondo Geraldo tutti i luoghi comuni sulla pericolosità di Rio sono totalmente da sfatare, come in effetti ci sembra di toccare con mano vedendo le scolaresche multicolori in visita ai luoghi storici della città, la forte presenza di poliziotti, l’ordine e la pulizia che sembrano regnare in tutto il centro, l’efficienza dei mezzi pubblici. Ma ci sono parecchi homeless sdraiati per terra. In autobus per arrivare al centro attraversiamo i quartieri di Botafogo e Flamengo, percorrendo ampi viali che un tempo erano sommersi dal mare. Ci sono da un lato campi liberi per il volley e la pallacanestro, dall’altro lato campi di calcio. Rio ha ben 12 squadre di calcio, di cui sei in prima divisione, il Flamengo ha già matematicamente vinto il campionato anche se manca ancora l’ultima partita. Passiamo davanti all’acquedotto di Lapa, costruito nel 1750 con una struttura uguale a quella degli acquedotti romani, allo scopo di portare l’acqua dalle colline di Santa Teresa fino al centro: uno dei simboli della città di Rio. In tutto il centro ci sono solo uffici commerciali e amministrativi, nessuna abitazione residenziale. La Petrobras, la società nazionale petrolifera brasiliana, ha la sede in un elegante grattacielo grigio, accanto c’è il grattacielo della Banca Centrale, l’altro singolo economico della nazione.
Il Café Colombo è considerato tra i dieci più belli al mondo. Aperto nel 1894 da immigranti portoghesi conserva ancora l’80 per cento del mobilio in stile art nouveau e i pavimenti originali di ceramica. I grandi specchi che ricoprono le pareti sono stati fatti arrivare da Anversa, riflettono la luce calda dei molti lampadari a boccia appesi al soffitto, decorato da una vetrata colorata. Nella piazza XV dicembre c’è il palazzo imperiale, un grande edificio bianco dall’aspetto abbastanza semplice. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica avvenne nel 1889 senza alcun spargimento di sangue, dopo i tumulti che seguirono l’abolizione della schiavitù nel 1888: quattro milioni di schiavi erano stati importati per lavorare nelle piantagioni. Il vecchio porto è nella baia di Guanabara, dove arrivarono i primi portoghesi. I colonizzatori chiamarono la città Rio de Janeiro (il fiume di gennaio) perché quando il primo giorno del 1502 approdarono nella baia credettero di essere alla foce di un fiume. A visitare la parte storica della città ci sono parecchie scolaresche e tanti giovani, notiamo che quasi nessuno fuma, come tutta la gente che vediamo per strada. Alla fonda c’è la ricostruzione di un’antica nave negriera, che scaricava il suo carico su una piattaforma dove si svolgeva il mercato degli schiavi. Nel nuovo porto è ancorata un’immensa nave da crociera della MSC, e svetta la struttura avveniristica del Museu de Amanha, il museo del futuro, progettato da Calatrava, con una lunghissima coda di visitatori all’entrata. Di là dalla strada, sui muri di mattoni dei vecchi magazzini, il pittore di murales Kobra per i giochi olimpici del 2016 ha dipinto il murale di 3 mila metri quadrati Todos somos um (Tutti siamo uno) raffiguranti le Etnie dei cinque continenti.
20/11 – Anche oggi il tempo è brutto, una caligine bassa si stende sul mare e avvolge le montagne, a tratti cade una pioggerella a leggera come uno spray. Stiamo camminando sul lungo mare quando un ubriaco addormentato su una panchina girandosi cade per terra per poi rotolare nel canale di scolo della fogna che passa proprio lì sotto, l’unica panchina del lungomare piazzata in modo così strategicamente sbagliato. Corriamo a cercare di soccorrerlo ma i bordi sabbiosi sono troppo ripidi, rischiamo di finire dentro al canale anche noi. Per fortuna l’acqua, pur puzzolente, è bassa, l’ubriaco riesce a rigirarsi e infine a mettersi seduto, lo lasciamo lì a smaltire la sbornia. Tranne noi nessuno si è preoccupato della sua sorte. Ci sono tre linee di metropolitana, prendendo la più vicina al nostro hotel torniamo al porto dove siamo stati ieri, al Museo de Amanha, una struttura somigliante ad un’astronave che sta prendendo il volo, progettata dall’architetto Santiago Calatrava. Ieri c’era una coda interminabile perché al martedì l’ingresso è gratis, ma oggi c’è poca gente. L’esposizione interna è piuttosto scontata, oltretutto tutta spezzettata in pannelli interattivi cui può stare davanti solo una persona. Insomma, l’architettura è molto bella ma il contenuto mi è sembrato un po’ infantile.
A Rio i taxi non sono per niente cari, per cui dopo aver fatto l’esperienza dei mezzi pubblici e aver visto che non si corre alcun pericolo, decidiamo di stare comodi. I taxi gialli viaggiano tutti rigorosamente con il tassametro e non cercano in alcun modo di fregarti né sul prezzo né sul tragitto. Il traffico è ordinato e i clacson praticamente sconosciuti, l’80 per cento delle strade è a senso unico. Il Giardino Botanico, aperto al pubblico nel 1820, è situato ai margini del parco nazionale di Tijuca. La vegetazione lussureggiante gronda di gocce di pioggia. Bellissimi sono i viali contornati di altissime palme, le radici tentacolari, i filodendri avviluppati ai tronchi, le soffici felci, le decine di diverse orchidee, le scimmie che danzano tra gli alberi, i versi degli uccelli.
21/11 – Finalmente c’è il sole. Sulla spiaggia gli adolescenti giocano a pallavolo e a un altro gioco dove la palla si può tirare con qualsiasi parte del corpo tranne le mani, il foot volley. Qui le scuole pubbliche hanno il turno del mattino e quello del pomeriggio, nel tempo libero si può andare in spiaggia. Accompagnati da Geraldo andiamo a vedere una favela, i quartieri in cui i brasiliani poveri, prevalentemente neri, che sono poi un quarto della popolazione di Rio, abitano in baracche costruite le une appiccicate alle altre, di lato sopra e sotto. Gerardo e il suo amico Elias ci accompagnano nella favela di Santa Marta, inerpicata sulla montagna sopra il quartiere di Botafogo. Elias vive proprio in questa favela, devolve una parte del guadagno per l’accompagnamento dei turisti alla gente della comunità. Si può arrivare in macchina fino a un certo punto, poi i vicoli diventano troppo irti e tortuosi per proseguire. Da qui in poi, se non si vuole salire a piedi, si prende una cremagliera che porta quasi in cima. La gente che abita qui, se ha cose pesanti da portare, paga dei portatori per farsele arrivare fino a casa. Le favelas sono nate quando è stata abolita la schiavitù, milioni di schiavi si sono improvvisamente trovati liberi ma senza una casa, hanno dovuto arrangiarsi a costruire i propri alloggi di fortuna sulle pendici delle colline alle spalle di Rio, dove nessuno voleva andare perché erano in salita e in mezzo alla foresta. Secondo Geraldo tutto ciò che si dice sulle favelas sono luoghi comuni, la gente vive la sua vita e si fa i fatti suoi, ma tutti si aiutano l’un l’altro e c’è un grande senso di comunità che non esiste nei quartieri borghesi. Abbiamo visto tre o quattro ragazzi col mitra ma sembra siano armati per mantenere la sicurezza. Sempre secondo Geraldo pare che qui vadano tutti d’accordo, al massimo ci sono accese discussioni tra i tifosi del Flamengo e quelli del Botafogo. Le case se le costruiscono da sé, in origine erano di legno ma adesso la maggior parte è in muratura, alcune persino piastrellate o con porte di entrata e scale ben tenute. I fili della luce sono un groviglio unico, il 40 per cento delle famiglie paga per la corrente ma le restanti sono allacciate abusivamente. Tutte le case hanno sul tetto una cisterna blu, rifornita con delle pompe dall’acqua pubblica, la fogna scorre in rigagnoli lungo le scale. Ci sono in giro bellissimo gatti dal pelo lustro e cani mansueti, e anche le loro cacche. E’ tutto un dedalo di scale e vicoli, se fossimo venuti qui da soli il vero pericolo sarebbe stato perdersi. In un piccolo baretto incontriamo l’angelo della favela, che nel quarto d’ora che siamo lì si fa quattro caipirinhe. E’ un carioca (nativo di Rio) bianco sposato con una russa, ha messo su una scuola di musica e una biblioteca, insegna ai bambini a suonare gli strumenti e familiarizzarsi con la lettura e il disegno. Un bellissimo ragazzino nero dai capelli ricciuti ci intrattiene suonando il piano.
Man mano che scendiamo lungo i vicoli verso la città aumentano le attività commerciali, ci sono fruttivendoli, parrucchieri, negozietti. Dove c’è dello spazio libero si può costruire una casa, il sogno di Elias è costruire una casa per le sue figlie in un terreno ripidissimo e totalmente ricoperto di giungla, che ci mostra orgogliosamente come avesse già completato l’opera. La madre e le due figlie di Elias sono parrucchiere, al piano terreno della loro casa c’è il negozio, con una scala a chiocciola si accede ai tre piani superiori, ognuno di meno di 10 metri quadri, fino alla terrazza che è il vero gioiello. Da qui si vede tutto il panorama di Rio, a destra il Corcovado su cui svetta il Cristo, a sinistra il Pan di Zucchero, in mezzo alla terrazza Loro, il pappagallo che, non a richiesta, emette il suo riso gracchiante. Elias mi insegna a preparare la caipirinha, porterò a casa la ricetta.
Dato che il tempo è bello torniamo sul Pan di Zucchero perché ieri con la nuvola bassa non si distingueva nulla. Dalla cima si vede tutta Rio: il porto, le spiagge, il Corcovado, l’aeroporto nazionale situato in piena città dal quale continuano a decollare e atterrare aerei, e la favela di Santa Marta, che si inerpica come una fiamma d’argento sopra il quartiere di Botafogo.
22/11 – Bellissima giornata oggi, non c’è una nuvola. La spiaggia di Copacabana, a forma di mezzaluna, si estende per circa quattro chilometri da nord est (dove c’è il nostro hotel) a sud ovest, nei chioschetti si possono affittare sedie e ombrelloni a prezzi molto bassi e si può pure pagare con la carta di credito (cartao)! Lungo l’ampia spiaggia di sabbia bianca finissima scorrono la pista ciclabile e la passeggiata, piastrellata con cubetti di pietra bianchi e neri a formare disegni di onde, ogni centinaio di metri ci sono attrezzi per fare ginnastica con l’indicazione di quanto manca alla fine del percorso salute da una parte e dall’altra. Ci sono tantissimi campi da beach volley, che generalmente qui giocano alla loro maniera, in quattro invece che in due, nei baretti non suonano musica a palla, per attraversare la spiaggia senza ustionarsi i piedi usano dei corridoi di sabbia bagnata da irrigatori. Ci sono molti venditori di teli, gioiellini, magneti, ma nessuno rompe per spingerti a comprare, e non mi pare che sia usanza contrattare. Al di là della strada a due corsie a senso unico separate da un viale erboso è tutto uno sfilare di grattacieli, complessi residenziali e hotel, tra cui il candido e imponente Copacabana Palace, in stile art déco. All’estremità sud della spiaggia si erge il promontorio su cui è costruito il forte militare, lo lasciamo alla nostra sinistra raggiungendo l’altra famosissima spiaggia di Rio: Ipanema. Il mosaico della passeggiata qui è diverso, invece delle onde, le tessere bianche e nere disegnano un motivo a quadrati arrotondati.
Prendiamo la metro scendendo in centro, alla stazione Carioca, e chiedendo di qua e di là giungiamo alla partenza del tram di Santa Teresa, un tram storico a trazione elettrica, dall’allegro colore giallo, che dal centro sale fino a quartiere di Santa Teresa, passando sopra gli Archi di Lapa, l’acquedotto ad arcate. Essendo continuamente operativo dal 1877, si tratta di uno dei più antichi tram urbani del mondo. Dentro ci stanno solo 65 persone, sedute su panchine di legno, è privo di pareti laterali e per prenotare la fermata si tira una cordicella rossa che percorre il soffitto sui due lati. Per tornare indietro gli schienali della panchina vengono ribaltati e il guidatore si trasferisce all’altro capo, dove c’è un’altra postazione di comando. Non viene usato solo dai turisti ma anche dagli abitanti che vanno e vengono da Santa Teresa. Al ritorno scendiamo un po’ prima del centro passando attraverso il quartiere di Lapa, abbastanza degradato e pieno di senzatetto sdraiati sul marciapiede, ma non avvertiamo alcuna sensazione di pericolo. Ci ritroviamo ai piedi degli Archi di Lapa aspettando il tram che ci passa sopra per fare le foto. Nel frattempo arriva un gruppo di cinque ragazze e due o tre cine operatori, persino con un drone per filmare dall’alto. Le ragazze fanno il ballo del culo, dimenando il posteriore a suon di musica. Le brasiliane con ascendenti neri spesso hanno dei posteriori grossi, sodi e rotondi, sproporzionati secondo i nostri standard ma molto apprezzati qui, tanto che fanno interventi di chirurgia plastica applicando protesi di silicone o mettendo dei posticci nelle mutande se madre natura non le ha fornite a sufficienze. E’ molto divertente assistere al balletto con lo sfondo dello storico acquedotto.
Torniamo in hotel sempre prendendo la metro, molto efficiente e ordinata. La gente è molto più educata che a Milano, nessuno parla al cellulare a voce alta, se c’è un anziano o una donna incinta o con un bambino piccolo subito qualcuno scatta in piedi per cedere il posto. Mi ha colpito un avviso a colori vivaci: “La regola è chiara. Cedere il posto non è gentilezza, è obbligo”.
Restiamo due ore sulla spiaggia davanti all’hotel, faccio un bagno in mare anche se l’acqua è piuttosto fredda, vengo travolta dalle onde che mi sommergono completamente. Seduti sulle sedie a noleggio ci rilassiamo guardando una coppia che gioca a foot volley, sono bravissimi, arrivano anche a una trentina di scambi, è molto più difficile che giocare a pallavolo. Il sole sta cominciando a tramontare dietro i grattacieli, il cielo si è un po’ annuvolato, la luce contiene un’impalpabile pulviscolo dorato. E’ tempo di farsi una caipirinha preparata al chioschetto della spiaggia.
Foz do Iguaçu (Cascate di Iguazù)
23-26/11 – Sabato 23 è un giorno di trasferimento verso Foz do Iguaçu, con scalo a San Paolo. Sull’aereo che sta per atterrare scoppia un tumulo. Temiamo un atto terroristico ma subito veniamo a scoprire che il Flamengo ha vinto la Coppa Libertadores tra le squadre del Sud America, battendo a Lima il River Plate, la squadra di Buenos Aires, per 2:1, con due reti di Gabigol, la seconda proprio all’ultimo, prima di essere espulso.
Chiude la giornata una patetica cena a buffet dell’hotel Continetal Inn, dove siamo alloggiati. E’ decorato con tanto di Babbo Natale in slitta, renne e albero di Natale, alquanto anacronistici in questo clima e così presto, siamo solo a fine novembre.
Alla visita delle cascate ci accompagna Oscar, che parla un buon inglese imparato a oltre 50 anni quando è andato in pensione dall’esercito. Le cascate sono formate dal fiume Iguazù, che in lingua indigena guaranì significa acqua (y) grande (guazù) Il fiume nasce a est nei pressi dell’Atlantico, segna il confine tra il Brasile e l’Argentina, e verso la fine del suo percorso, dopo aver formato le cascate, confluisce nel Rio Paranà, il secondo più lungo del Sud America dopo il Rio delle Amazzoni. Le cascate sono incredibili: 275 salti d’acqua, con altezza fino a 70 metri, lungo un’estensione di 2700 metri. Oscar ci ha convinto a fare un giro in gommone lungo il fiume fino ad arrivare sotto le prime cascate. E’ come essere colpiti da un idrante, ci bagniamo completamente, il guidatore continua a passare e ripassare sotto il getto, tra le urla dei passeggeri. Lo strano è che Ettore sta godendo come Anita Ekberg nella fontana di Trevi, lui che ha sempre odiato le barche e i bagni. Ed è quello che sta meglio di tutti perché ha solo il costume da bagno, mentre alla fine noi abbiamo i vestiti fradici. Comunque sono attrezzati, ci sono armadietti per il cambio e spogliatoio. Il sentiero costruito lungo le cascate offre dei panorami meravigliosi delle cataratte che nel verde della giungla si gettano ribollendo nel fiume. Nella foresta vediamo al lavoro due coati, animaletti simili a procioni ma con il musetto appuntito: stanno alacremente rosicchiando del legno marcio alla ricerca d’insetti. Non ci sono per niente zanzare, i timori di dengue e febbre gialla si sfatano completamente. Tra l’altro ci sono migliaia di persone, se ci fosse veramente questo pericolo sarebbe un’epidemia.
Il primo europeo a scoprire le cascate fu nel 1541 Alvar Nunez Cabeza de Vaca nella spedizione verso il Paraguay. Quando le vide esclamò : “Santa Maria!”, così per due secoli le cascate ebbero questo nome, sostituito in seguito da quello indigeno, il nome Santa Maria è rimasto all’isola in mezzo al fiume. Una passerella gremita di turisti si affaccia davanti a un poderoso scroscio d’acqua, percorrendola tra gli spruzzi provenienti dalla turbolenza si giunge ad avere una vista incredibile sulla poderosa cascata della Garganta del Diablo, la Gola del Diavolo. Due cormorani stanno immobili sulle rocce, gustandosi la vista e la doccia. Degli uccelli simili a rondini appaiono e scompaiono nella cortina d’acqua, hanno i loro nidi tra le rocce basaltiche da cui l’acqua cade vorticosamente, dei veri e propri acrobati dell’aria.
Vicino alle cascate, nel grande Parque das Aves (parco degli uccelli) si possono vedere gli uccelli caratteristici della Mata Atlantica, per lo più sono stati salvati dal bracconaggio. E’ incredibile osservare come la natura si sia sbizzarrita nelle forme e nei colori, dal tucano dall’enorme becco giallo e la livrea nera, ai pappagalli dagli sgargianti colori verde, rosso e giallo (la bandiera del Brasile?), ai fenicotteri rosa dalle ali frangiate di nero, agli ibis scarlatti.
Il giorno dopo, lunedì, c’è meno gente in giro. Attraversiamo il confine con l’Argentina per l’altra visione delle cataratte. Ancora più spettacolare, anche perché arriviamo con la prima ondata di turisti, c’è meno gente e soprattutto meno persone che si fanno i selfie. Questa dei selfie è diventata una vera barbarie, come si stava bene quando non c’erano narcisisti (me compresa) che brandendo i cellulari o peggio i selfie stick sgomitano per mettersi in pose grottesche davanti a meraviglie che non meriterebbero questo trattamento ridicolo. Siamo così commossi per la poderosa magnificenza di questo paesaggio che vorremmo ringraziare qualcuno o qualcosa per la sua esistenza. Dopo essere arrivati fino al cospetto della Garganta del Diablo con un trenino e poi con un sentiero di passerelle perfettamente ben tenuto, ed esserci ancora abbondantemente bagnati per lo spray, torniamo indietro per prendere il sentiero superiore che guarda le cataratte dall’alto e poi il sentiero inferiore, che passa più in basso. Si vedono spesso i coati, completamente familiarizzati con gli umani, che sbucano dalla foresta a cercare cibo, annusano gli zaini e anche il pannolino di una bella bambina che non si spaventa per niente. Oggi la giornata è soleggiata, spesso si vedono luccicare arcobaleni nel vapore acqueo che si solleva dal turbine. Nel cielo volteggiano gli avvoltoi, in cerca delle carcasse lasciate dai giaguari. La giungla è come una spugna, che assorbe e rilascia l’acqua delle piogge. Ci sono state delle piene così abbondanti da travolgere le passerelle, e una siccità tale da ridurre quasi completamente il flusso nelle cascate.
Al confine tra Paraguay e Brasile, a poche decine di chilometri da qui sul fiume Paranà è stata costruita la diga di Itaipù, lunga 7700 metri, il più grande complesso idroelettrico al mondo, con 20 turbine di cui 1 appartenente al Paraguay soddisfa al 95 per cento il suo fabbisogno di energia elettrica, mentre le 19 del Brasile gli forniscono il 15 per cento del fabbisogno. La sua realizzazione, tra gli anni 80 fino al posizionamento dell’ultima turbina nel 2006, creò il vastissimo lago artificiale Itaipù. Furono evacuati numerosi villaggi guaranì (mai ricompensati) e vennero sommerse le cascate Guairà sul fiume Paranà, le più grandi al mondo per portata d’acqua.
Oscar, la nostra guida dell’agenzia locale Naipi, ci risolve un problema portandoci all’aeroporto per chiarire quale sia veramente il nostro numero di prenotazione per il volo da Iguazù a Rio e da lì a Salvador, perché il numero che avevamo risultava inesistente e un altro che ci avevano fornito pure. Con il nuovo numero in hotel ci mettiamo circa tre ore a fare il checkin on line sui vari siti e app della Gol Airlines.
Stasera mangiamo bene in un ristorante chiamato Madero nello shopping mall a circa 500 metri dall’hotel. Non mi sembra ci sia molto altro in giro.
Salvador
26-29/11 – Quando arriviamo a Salvador sta piovendo. E’ una città moderna di 2.700.000 abitanti, con grattacieli e tangenziali, ma quando si arriva alla città vecchia è come entrare in un altro mondo: strade strette, acciottolate, in pendenza. Siamo alloggiati in un hotel ricavato da un convento di suore dell’ordine carmelitano fondato nel ‘600. E’ affascinante e un po’ inquietante, i lampadari di cristallo con finte candele dalle luci tremule mandano bagliori verso i soffitti altissimi, i pavimenti di grosse assi di legno scuro di jacaranda scricchiolano sotto i nostri passi, un odore di umido, di cera per mobili, di vecchio legno tarlato aleggia nell’aria. C’è da aspettarsi che se di notte ci avventurassimo nei lunghi corridoi ci apparirebbe il fantasma di una monaca dalla tonaca frusciante. La colazione è nel chiostro del convento: una grande vasca rotonda al centro, fronzuti bambù e imponenti alberi tropicali su cui su cui si avviluppano i filodendri. Stamattina facciamo il giro della ittà vecchia con una guida italiana, Alfredo, che vive qui da 32 anni ed è sposato con una brasiliana.
Salvador è stata la prima capitale del Brasile, dalla fondazione nel 1549 fino al 1763, quando venne sostituita da Rio. Fu uno dei più importanti centri in Brasile per l’importazione di schiavi, da impiegare soprattutto nelle piantagioni di canna da zucchero: ne arrivarono 1.500.000. A poche centinaia di metri dal nostro convento c’è il Largo do Pelourinho, che ha poi dato il nome a tutta la città vecchia, dove si svolgeva il mercato degli schiavi e dove questi poveri neri, vittime di un genocidio che supera di gran lunga l’olocausto, venivano per punizione frustati o uccisi. Molti cercavano di fuggire, se li prendevano era morte certa, ma quelli che sopravvivevano alla caccia all’uomo e alle avversità della giungla fondavano delle comunità nella foresta, i quilombo. Gli schiavi erano obbligati a fare molti figli, tra di loro e le donne con il padrone, per avere un rifornimento di mano d’opera gratis che rimpiazzasse l’altissima mortalità.
Nella chiesa di San Francesco, fondata dall’ordine francescano, il chiostro è ricoperto di pannelli di azulejos importati dal Portogallo inneggianti alla virtù. L’interno della chiesa è stracarico d’oro, 800 chili di foglia d’oro sono stati impiegati per ricoprire legni e stucchi. I notabili, in pompa magna, assistevano a interminabili messe domenicali, con i posti rigorosamente suddivisi gerarchicamente: più si donava alla chiesa più si era perdonati dei propri peccati e più si saliva nell’ordine gerarchico. Al lato opposto della piazza c’è la chiesa dei Gesuiti, molto più ariosa e meno carica d’oro. Venne costruita nella città portoghese di Lios, smontata e trasportata via nave. Gesuiti e Francescani si contesero la supremazia religiosa in Brasile fino a che l’ordine gesuita fu espulso dal Brasile nel 1773, fondamentalmente perché l’intento della compagnia del Gesù non era solo quello di evangelizzare ma anche quello di educare gli indios e gli schiavi. Questo obiettivo era ovviamente inviso ai colonizzatori, che cominciarono a costruire le prime scuole solo dopo il 1806, quando il re del Portogallo fuggì in Brasile a seguito delle guerre napoleoniche.
Camminando per le strade siamo avvicinati abbastanza insistentemente da madame nere vestite di pizzo con enormi crinoline e turbanti colorati in testa, che chiedono 5-10 reales per farsi fotografare con te, e da venditori di paccottiglie varie che ti offrono i fithinha, dei nastrini colorati del Bom Fim. Se si legano al polso con tre nodi corrispondenti ad altrettanti desideri, questi si avvereranno quando il nastrino si staccherà per consunzione. Rispetto al deserto di ieri sera oggi tutti i negozi, i caffè e i ristoranti sono aperti, Alfredo ci racconta che ieri c’è stata un’alluvione causata da una fortissima pioggia coincidente con un’alta marea, il traffico è rimasto paralizzato, quasi nessuno è riuscito ad arrivare al posto di lavoro. E’ stata un’incredibile fortuna aver evitato la catastrofe, testimoniata dalle buche e dagli avvallamenti nell’acciottolato già in via di riparazione. Si tratta comunque solo di picchiare con dei martelli le pietre dentro il loro letto di sabbia.
La città bassa si snoda lungo la baia di Todos los Santos. Il primo europeo ad arrivarci fu Amerigo Vespucci, il I novembre del 1501, giorno di Ognissanti. Davanti alla baia si estende l’isola di Itaparica, lunga 33 chilometri, 55.000 abitanti, collegata da un servizio di ferry e da un ponte. La terribile pioggia di ieri ha portato sulla costa parecchi rifiuti trasportati dai fiumi, e affondato molte barche, un relitto ce l’abbiamo proprio davanti. Il mare solitamente calmo e trasparente è oggi mosso e torbido, per fare un bel bagno sulle lunghissime spiagge di Salvador bisognerebbe aspettare un paio di giorni. In pulmino stiamo costeggiando tutta la costa di Salvador Bahia da sud a nord. Nella laguna di Tororò sono piazzate le statue di Orun e dei più importanti orixas del candomblè, una religione afrobrasiliana. Gli orixas sono spiriti protettori che rappresentano forze naturali o attività umane, inviate sulla terra da Orun per trasmettere agli umani l’energia vitale. Una religione come un’altra, spesso mischiata al cristianesimo e ai santi. Questi orixas sono piuttosto pervasivi, simbolo anche del rinascimento della parte nera della popolazione, oggi giustamente orgogliosa della propria origine. Mi piacciono di più figure decisamente umane come Zumbi, raffigurato nel centro della piazza più importante della città vecchia, lo Spartaco nero, morto in um’imboscata nel 1795, l’ultimo leader del Quilombo di Palmares, 600 chilometri a nord di Salvador, resistito per 67 anni agli attacchi dei coloni. O Anastasia, una schiava bellissima nata intorno al 1740, sempre tenuta in catene, con la cintura di castità e una museruola sulla bocca perché non accettò mai consensualmente i rapporti sessuali col padrone. Per il popolo nero diventò una santa.
Alfredo ci porta in una delle case del lungomare, piuttosto decrepita, il cui proprietario è un suo simpaticissimo amico ceramista, compriamo delle bellissime piastrelle dipinte da lui. La chiesa di nostro signore del Bomfin, che guarda la baia di Todos Los Santos, è molto cara agli abitanti di Salvador. La chiesa ha finito di essere costruita nel XVIII secolo, in ringraziamento perché una nave era scampata alla tempesta. E’ molto popolare perché la gente chiede la grazia, il Bomfim, e ognuno, che ci creda o non ci creda, ha qualche grazia da chiedere. Una cappella laterale è tappezzata di ex voto, e appese al soffitto ci sono le parti anatomiche guarite, fatte tutte con una bruttissima plasticaccia giallastra. La maggior parte sono piedi e teste, saranno traumi causati dal gioco del football, visto che siamo in Brasile. I cancelli della chiesa sono tutti ricoperti di fithinhas annodati da persone che hanno espresso i canonici tre desideri. Anche io e Silvana li appendiamo, non si sa mai, siccome abbiamo annodato almeno venti fithinas forse qualcosa si avvererà.
La casa di Jorge Amado nella piazza del Pelourinho ha solo descrizioni in portoghese, così pure il Museo Afrobrasiliano, dedicato soprattutto agli orixas, che stanno cominciando a diventarmi decisamente anticipati. In Brasile pochi parlano inglese o spagnolo, è abbastanza difficile comunicare, spesso anche con il personale dell’hotel o nei ristoranti, persino all’aeroporto. Oltretutto il brasiliano è facile per noi da capire finché è scritto, ma difficile quando è pronunciato, perché abbonda di suoni gutturali, aspirati e fruscianti. Sicuramente si tratta di una lacuna della scuola, ma anche di iniziativa personale, come si fa a non imparare un menù in inglese in una città turistica? Nei paesi arabi ti parlano in tutte le lingue pur di vendere la loro mercanzia, persino i beduini di Petra.
Lo spettacolo serale al Teatro Miguel Santana vale la pena, gli orixas sono piuttosto noiosi, vestiti da samurai e dame del ‘700, come pure le due cantanti lagnose, ma il maculelè, la capoeira e la samba de roda sono emozionanti. La capoeira è un’arte marziale di origine angolana, con mosse guizzanti e acrobatiche che sono col tempo divenute una sorta di danza.
La serata si conclude al Cuco Bistrot con la moqueca, il piatto tipico bayano, una zuppa di pesce immersa in una salsa di latte di cocco e olio di dendé, un tipo di palma. Uno delle cose migliori mangiate in Brasile, dove a quanto mi consta la cucina non è una delle principali attrattive.
L’ultimo giorno a Salvador fa un caldo afoso, passiamo il pomeriggio nel fresco chiostro dell’hotel, al rifugio dalla calura e con il wifi. C’è anche una sala fitness senza aria condizionata dove io e Mike facciamo l’aerobica. Gli unici pazzi.
All’andata avevamo viaggiato di giorno e fatto scalo a Madrid, l’aereo del ritorno è a tarda sera, fa scalo a Capo Verde e inspiegabilmente passa in un lampo. In effetti tutto passa in un lampo, anche un’intera vacanza…Mi restano nel cuore i colori degli uccelli, il musino dei coati e delle scimmiette, le baie sinuose, lo spray delle cascate, il verde della giungla, il foot volley, il Cristo Redentore che lotta con le nuvole, il tram che passa sopra le arcate dell’acquedotto, i posteriori guizzanti delle ballerine.
Consigli utili
Si possono ritirare facilmente soldi con il bancomat negli sportelli delle banche, facili da trovare a Rio, meno in altri posti. Cambiate qualcosa all’aeroporto per il taxi. Le carte di credito le prendono quasi dappertutto. I taxi costano poco e sono onesti.
Gli hotel andavano tutti bene. A Rio siamo stati all’Hotel Arena Leme, av. Atlantica 324 (prenotate camera con vista oceano, spiaggia proprio davanti, ottime colazioni, sconsiglio di cenare lì), a Iguazù all’hotel Continental Inn (non cenate lì), a Salvador al Pestana Convento do Carmo, nella città vecchia, molto suggestivo.
Ristoranti consigliati: a Rio il ristorante Marius, Av. Atlantica 290, vicinissimo all’hotel Arena Leme, un po’ costoso, all you can eat carne o pesce o tutte e due. Il ristorante a buffet Appetito, Av, N .Sra. de Copacabana economico, spartano, buono, lì vicino ci sono almeno 2 banche per ritirare soldi. A Iguazù il ristorante Madero, nel centro commerciale Cataratas Av. Costa e Silva, caruccio ma ne vale la pena, bell’ambiente, non fatevi tentare dai fast food all’interno dello Shopping Mall perché sono pessimi. A Salvador se siete nella città vecchia Cuco Bistrot. L.go do Cruzeiro de Sao Francisco 6. Consigliatissima la gelateria Tropicalia, Rua da Misericordia Loja 3.
A Rio consiglio di contattare la guida Geraldo Martins, parla molto bene italiano, racconta un sacco di cose, porta in giro per la città e in una delle favelas.
A Iguazù si può anche andare coi taxi, sia nella parte brasiliana che in quella argentina, l’importante è presentarsi almeno mezz’ora prima dell’apertura perché c’è moltissima gente. I percorsi sono quasi obbligati. Se volete una guida parla solo inglese, si chiama Oscar e lavora per Naipi Travel Iguazù. Volendo vi vengono anche a prendere all’aeroporto e vi ci riportano. Vi sconsiglio di farvi portare con il gommone sotto le cascate, è parecchio costoso, ci si bagna completamente, sarebbe anzi una cosa da vietare perché i gommoni fanno un sacco di rumore che disturba durante l’escursione alle cascate.
A Salvador sicuramente contattate Alfredo Perolio, è italiano, non si può farne a meno per avere interessantissime informazioni sulla storia passata e attuale del Brasile.
Per gli spostamenti interni abbiamo prenotato aerei della Lam e della Gol, il checkin on line non si riesce a fare con cellulare, fatelo con il computer dell’hotel oppure direttamente in aeroporto. Volo di andata con Iberia con scalo a Madrid, volo di ritorno con Cabo Verde Airlines, scalo a Sal. Sia all’andata che al ritorno per il Brasile è meglio viaggiare di giorno perché la differenza di fuso è di sole 4 ore.