1 città 1000 sensazioni
La prima volta che vi misi piede fu nell’estate del lontano 1997, quando la speranza di una pace duratura e concreta si respirava nell’aria e si leggeva negli occhi dei suoi abitanti, occhi che oggi sono consumati dalla tante lacrime sparse, ma che non hanno smesso di credere che il futuro possa essere migliore, perché si può credere nella pace, di deve.
In inverno, l’inverno Israeliano, Gerusalemme appare triste, sferzata dai freddi venti che portano con loro il gusto del deserto, chiusa sotto un cielo grigio e plumbeo più consono ad altri luoghi ed altre dimensioni, eppure Gerusalemme vive, si muove, respira sempre secondo i suoi ritmi e i suoi diversi abitanti. Ogni qualvolta vengo nella città santa, non posso tralasciare il quartiere che più mi affascina quando sono qui, Mea Shearim, il quartiere degli Ebrei Ultra Ortodossi.
Le vie di questo quartiere sono sospese nel tempo, perché guardandosi bene attorno, si potrebbe tranquillamente essere in qualche ghetto dell’Europa del secolo scorso, dove l’Ebraismo è vissuto secondo precetti e leggi che riguardano ogni aspetto della vita quotidiana, mai cambiate nei secoli dei secoli. Per tanto, è quasi superfluo ricordare che per visitare Mea Shearim bisogna vestirsi nella maniera più classica, dove le donne dovrebbero indossare abiti o gonne che coprano le ginocchia e le gambe e maglie che non lascino intravvedere nessun centimetro di pelle delle braccia. . Gli uomini invece dovrebbero coprirsi la testa con una kippah (zucchetto) e non indossare pantaloni corti .
Ricordo ancora la prima volta che mi sono trovato a passare di qui, quasi per caso, guardando con curiosità quella moltitudine di uomini, tutti vestiti di nero e con cappelli a falda larga o di pelliccia a secondo della loro affiliazione, e quelle donne con in testa ingombranti parrucche, che tenevano per mano bambini bellissimi che sorridevano da sotto la loro papalina colorata.
E così, ogni volta che mi trovavo a Gerusalemme, dovevo venire qui, per trovare quella pace che cercavo, e così mi sedevo in un angolo per strada o su qualche scalinata, guardando quella folla sempre indaffarata, e vedendoli, vedendo il loro rigore, il loro zelo religioso, non so perché ma la mia anima si placava e si struggeva, perché ogni visita a Mea Shearim, era un po’ più di Gerusalemme che entrava a far parte di me. E ancor oggi, malgrado venga spesso a Gerusalemme, non tralascio mai di perdermi per i vicoli polverosi di queste case che sembrano uscite da un racconto di Isaac Bashevis Singer sugli Shtetl dell’Europa Orientale.
Da Mea Shearim si è vicinissimi a Jaffa Road, King George Road e Ben Yehuda Street, il cuore della Gerusalemme moderna e laica, irriverente e mondana. Qui la religione è lontana, e i tanti giovani che vogliono solo gustarsi un caffè al sole, chiacchierare da Mc Donald’s o dare un’occhiata alle boutique alla moda, per un attimo mi fanno dimenticare di trovarmi nella città santa e mi danno il sapore di quella Tel Aviv festaiola che tanto si diverte dietro alle aspre colline della Giudea. Pochi passi più avanti, si trova uno dei posti, per me, più magici di questa incredibile città, il mercato di Mahane Yehuda.. Qui si respira la Gerusalemme vera, quella delle sue mille etnie e mille voci. Si vende il “Kube” tanto caro agli ebrei di origine Irachena, il gefilte fish che è il cibo classico degli ashkenaziti (ebrei dell’europa centro-orientale), si può assaggiare il delizioso “sahlab”, gustarsi una fresca spremuta di melograno, e lasciarsi conquistare dagli odori del kebab che cuoce lento sul fuoco, dei falafel che vengono preparati con tanta meticolosità, delle spezie, delle verdure, delle olive che crescono proprio qui vicino. Si verrà chiamati a comprare questo o quell’altro, e i differenti accenti di chi compra e chi vende, si fondono all’unisono nella lingua comune, quell’Ivrit (ebraico) che oggi associa tutti gli ebrei insieme, ashkenaziti e serfarditi. Insomma, Mahane Yehuda è Gerusalemme, perché qui si può davvero incontrare tutta la città nelle facce che la compongono.
Mahane Yehuda si trova su Jaffa Road, la strada nuova, larga e che oggi sta diventando moderna più che mai grazie al nuovo progetto della rete tramviaria che sta per essere ultimata tra le mille polemiche, l’arteria di questa Gerusalemme che sta cambiando il suo aspetto non sapendo bene il perchè, e che essendo l’arteria di questa città, non può che terminare al suo cuore, il cuore di Gerusalemme, la città vecchia, quella parte della città così santa, così bella e così contesa.
Ogni volta che percorro Jaffa Road ed intravedo la porta di Jaffa con i suoi minareti e le sue croci cristiane, non so perché ma rimando sempre senza fiato. E’ sempre così, mentre cammino tra le sventolanti bandiere con la stella di Davide, tra gente indaffarata nelle loro spese, i miei occhi si fermano su quelle mura segnate dal tempo, sul portone di legno pesante che si apre timidamente sulla torre di Davide, e rimango li, fermo in muta contemplazione. La gola si ritrova secca mentre gli occhi si velano di emozione, ogni volta, questo è l’effetto che mi fa la città vecchia.
Varcata la porta di Jaffa mi piace perdermi nelle sue strade, nei suoi quartieri, nei suoi luoghi di culto che si rincorrono e susseguono. Si può iniziare dal quartiere Armeno, una città nella città, forse l’unica oasi di pace della Capitale Israeliana, dove la patria lontana ed abbandonata viene dipinta su colorati mosaici e deliziosi oggetti di artigianato. Qualche passo più in la, e subito mi trovo senza accorgermene nel quartiere ebraico, dove le rovine della sinagoga più antica di tutta Gerusalemme si ergono a memoria dei secoli e delle dominazioni, e quasi a guidarmi la via, mi spinge a seguire più avanti, verso l’unico posto in tutta Gerusalemme dove si possa sentire la “shechina” la presenza divina, il Muro del Pianto. Venendo dal quartiere Ebraico, il Muro viene visto in distanza dall’alto, sovrastato dalla Cupola d’oro. Avvicinandomi e con il cuore in gola, mi trovo davanti a questo muro non altissimo, dove ai suoi piedi centinaia e centinaia di uomini e donne pregano incessantemente, e, in occasioni speciali cantano e ballano in circolo. Una tradizione ebraica dice che infilando una preghiera nelle fessure delle pietre del muro, questa preghiere verrà esaudita, proprio perché il Muro è l’unico posto dove ci sia la presenza divina. Io, ogni volta che vengo qui, provo sempre un po’ di timore, perché questo posto ha davvero qualcosa di speciale, unico, ed umilmente, compilo sempre una preghiera malgrado non mi sia una persona molto religiosa. Ed infilandola in qualche fessura, cercando un timido spazio tra i tanti foglietti appallottolati ed incastrati, guardo sempre in alto, scorrendo tutto il muro verso il cielo, sentendomi davvero così piccolo ed insignificante in quell’affollato angolo di Mondo.
Un’altra tradizione ebraica vuole che non si possano dare le spalle al muro, per tanto, per ritornare sui miei passi, mi ritrovo a camminare piano piano, all’indietro, inciampando spesso nelle altre persone o nei tavoli della preghiera, ma l’immagine che lascio e che mi accompagna in quello strano percorso, mi riscalda il cuore e m’infonde fiducia, gioia, emozione.
Con ancora il Muro negli occhi, sento il richiamo dei muezzin, a ricordarmi che il quartiere arabo è proprio li dietro, un autentico labirinto di odori e colori, sapori e prelibatezze. Anche qui, nel quartiere arabo, ho tutta una mia routine, che mi vuole assaggiare uno dei favolosi dolci che si mangiano da Jafar, un posto imperdibile, e sedermi ad uno dei tavolini di Hummus Lina, ad affondare soffici e caldi pezzi di Pita, il pane mediorientale, in uno degli hummus più gustosi di tutta la città.
Dalla finestra di entrambi i posti si vedono i numerosi pellegrini cristiani percorrere quella che fu la via crucis, dove preghiere cattoliche si mescolano ai richiami dei muezzin e ad ebrei ortodossi che tutti vestiti di nero si recano al Muro. Forse è qui che si vede e si vive la vera Gerusalemme, dove ogni pietra, ogni luogo ha un suo significato religioso, diventando un luogo per cui lottare, purtroppo.
Ritornando verso la porta di Jaffa mi piace fermarmi al Santo Sepolcro per sentire l’odore dell’incenso che brucia senza tregua in un altro dei posti di discordia della Città santa.
La chiesa ahimè è divisa fra le varie fedi cristiane, dove ognuno ha il suo perimetro invalicabile e dove ogni tanto preti ortodossi, monaci etiopi, religiosi armeni se le danno di santa ragione citando in causa qualcuno che proprio tra le pietre di questa Città, forse proprio anche in questo luogo, predicava la pace e l’amore universale.
Nella città vecchia tutto è incredibile, fantastico ma anche opprimente, pertanto dopo qualche giro per il souk che offre di tutto e di più, esco e m’inerpico dalla porta dei leoni verso il giardino dei getsemani e il non lontano cimitero ebraico, da dove si gode uno spettacolo a 360 gradi della Gerusalemme che si estende davanti ai miei occhi. Una piccola curiosità, proprio qui, nel cimitero ebraico, si dice che vi sarà la prima apparizione del nuovo messia, che vestirà di rosso e dove, incamminandosi per la valle del Kidron, entrerà a Gerusalemme. Sinceramente non ricordo chi mi ha raccontato questa storia, ma qui a Gerusalemme le storie non mancano. Basta sedersi a parlare con qualcuno, arabo, ebreo o cristiano che sia, e storie di santi, messia o profeti inizieranno a materializzarsi davanti a voi.
Amo Gerusalemme, non potrebbe essere altrimenti, ma temo per il suo futuro. Sembra sempre sul punto di esplodere, prigioniera dell’odio cieco che la sfigura. Eppure arriva un’ora la sera, quando il sole sta per tramontare, dove tutto d’un tratto una calma l’abbraccia e la rende più dolce. Guardo correre i bambini ortodossi verso le loro yeshive tenendo con la mano le loro kippah in modo che non cadano durante il percorso, sento le voci calde e forti di arabi discorrere davanti ad una fumante tazza di caffè nei piccoli ed affollati locali vicino la porta di Damasco, osservo i giovani che si riversano in massa su Ben Yehuda Street per fare due passi e raccontarsi sogni e progetti e mi rendo conto di quanto indivisibile sia questa città, con le sue anime fuse le une con le altre. Tanti anni fa, mentre osservavo Gerusalemme dalla terrazza dello Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, prendendo un po’ d’aria dopo aver vissuto l’orrore dello sterminio e delle persecuzione di tanti uomini, donne e bambini, una signora che si era seduta vicino e me, mi disse che nei secoli Gerusalemme non era cambiata. Era sempre stata contesa da tutti, conquistata ma mai amata. Forse, mi disse con un sorriso, è proprio quello il problema: ha solo bisogno capire che l’amore è l’unica soluzione…