Una Palermo romanzata

Tra i colori e i sapori della Sicilia
Scritto da: pannapanni
una palermo romanzata
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Bip, la lucetta rossa dell’allacciare le cinture di sicurezza si illumina e l’aereo in cui mi trovo inizia la fase di atterraggio. Sono abbastanza vicina al finestrino per vedere fuori, se tiro il collo.

Mentre i bip si susseguono diventa sempre più grande la cima di un promontorio, il confine di un’isola, finché la macchia verde assume la forma degli alberi. La vista è talmente bella che sembra quella di un’isola vergine dimenticata dalle rotte oceaniche e io mi sento un nuovo esploratore ai tempi coloniali.

Lo scossone dell’aereo che tocca il suolo mi riporta al tempo presente; sono atterrata all’aeroporto Falcone e Borsellino di Palermo. Dopo un breve transfer che ci porta in città, Palermo ci accoglie come una città odorosa. Tutti insieme tantissimi sentori mi invadono e sono indescrivibili ed indistinguibili. Da ogni bar, da ogni friggitoria, da ogni take away indiano, da ogni finestra di casa esalano aromi, profumi, spezie, di sugo e di fritto fino a formare una miscela mai sentita prima. Distratta da queste sensazioni mi ritrovo senza rendermene conto davanti alla porta dell’appartamento che abbiamo affittato in una laterale di via Maqueda, non lontano dal famoso Mercato di Ballarò. Il proprietario ci accoglie con un bel sorriso che è solo un piccolo assaggio della gentilezza infinita dei palermitani. Superati i convenevoli e la burocrazia sono le tre, siamo pronti a cominciare i nostri giorni palermitani.

Le nostre passeggiate cominciano e finiscono tutte alla stessa maniera, passando per Piazza Pretoria e restando qualche minuto a bocca aperta ad osservare la fontana, le sue statue, i palazzi che ne cingono i lati come se la volessero abbracciare e la luce del sole che cambia questa piazza ad ogni ora del giorno. Neanche a dirlo, il nostro posto preferito di Palermo. Da qui le direzioni che si possono prendere sono molte. Prima di intraprenderne una qualsiasi però, una tappa obbligatoria è al bar “Piazza Pretoria” che si trova ai piedi di una delle scalinate che fanno accedere alla piazza; che sia il momento della colazione o quello del pranzo qui potrete trovare un sacco di squisitezze. È qui che scopro l’esistenza dello sfincione, una specie di pizzetta con acciughe e cipolle; è la prima cosa che mangio qui a Palermo, le mie papille gustative cominciano a capire che sono davanti a giorni di festa.

Se decidiamo di non abbandonare via Maqueda, da cui siamo venuti, giungiamo presto ai famosi Quattro Canti, detti anche Ottagono del Sole perché durante il giorno almeno una delle quinte architettoniche è illuminata dal sole e perché la pianta della piazza è un ottagono. Per la verità più che una piazza si tratta dell’incrocio tra via Maqueda e Corso Vittorio Emanuele. A passarci senza farci caso sembra di attraversare un qualsiasi incrocio stradale, tra due vie importanti. Ma alzando lo sguardo dall’asfalto o dallo smartphone non si può non restare ammaliati dalla presenza delle quattro meravigliose facciate che ci circondano. Sono gialle, intarsiate, piene di ghirigori e statue e come le facciate di molti palazzi palermitani sono dei varchi spaziotemporali che ci proiettano in un’altra epoca, un’era fastosa e nobile di questa città.

Continuando su via Maqueda, superati i negozietti e i bar, si arriva a Piazza Giuseppe Verdi. Ce ne si accorge quando alla nostra sinistra compare l’immensa, enorme sagoma del Teatro Massimo, il terzo più grande d’Europa dopo l’Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna. Adoro i teatri e l’atmosfera interiore che ogni volta mi suscitano, una sensazione di reverenza antica, che qui si manifesta davanti ad una frase che svetta sopra l’ingresso principale del Teatro Massimo: “L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”. La visita guidata è breve; la parte più curiosa è stata la spiegazione del funzionamento acustico della sala pompeiana. Dovete immaginarla piena di uomini vestiti bene che si recavano qui prima e dopo gli spettacoli per concludere affari. Un particolarissimo effetto, appositamente ottenuto tramite un’asimmetria della sala, fa si che in qualsiasi punto la risonanza sia talmente forte da far risultare impossibile sentire cosa dicono gli altri ospiti, a meno che essi non siano molto vicini. Questo permetteva ai presenti di “appartarsi nella folla” per concludere affari senza essere uditi dagli altri. Se si voleva essere uditi da tutti invece, era sufficiente posizionarsi esattamente al centro della sala.

Tutta questa cultura mette fame, e così ci avventuriamo alla ricerca di un tipico mercato palermitano che non dista molto dal teatro, Mercato del Capo. Lungo una via stretta tra alti palazzi si snodano i banchi di verdura, di carne, di pesce. È ora di pranzo e abbiamo fame, entriamo in una gastronomia in cui ordiniamo una porzione di anelletti e delle polpette di sarde al sugo. La signora prende cucchiaiate generose di cibo dalle teglie e le sbatte letteralmente in un piatto di ceramica facendo schizzare dappertutto il pomodoro. Mentre il nostro pranzo passa qualche minuto nel microonde, la signora pensa sommariamente a quanto ci possa fare per il cibo e due peroni e butta lì un generico “Facciamo 10 euro”. Per mangiare ci sediamo in strada su un tavolino di plastica. Le polpette di sarde hanno il sapore del paradiso. Vicino a noi sono seduti quattro palermitani che scopriamo presto essere insegnanti. Non possiamo evitare di ascoltare i loro discorsi; parlano delle recenti alluvioni che hanno creato molti problemi nelle periferie, parlano di cose che non vanno nelle loro scuole, parlano di una manifestazione prevista per questo pomeriggio pro aborto. Rimaniamo incantati da questo scorcio fatto di abitanti del luogo, sugo, bancarellai che urlano, peroni fredde e tavolate in strada. Siamo proprio due turisti imbambolati che hanno trovato il loro angolo preferito di Palermo.

Ritornando sui nostri passi, risalendo via Maqueda al contrario, all’incrocio dei Quattro Canti svoltiamo a sinistra e scendiamo lungo Corso Vittorio Emanuele che ci porta dritto dritto alla meraviglia delle meraviglie, il Foro Italico, una lunga passeggiata a ridosso degli scogli e del mare blu che sembra ancora conservare il calore dell’estate appena trascorsa. Qui c’è il vociare di un sacco di gente. C’è chi corre, chi va in bici, ci sono i bambini che giocano e i chioschetti dei gelati. Qualcuno legge, qualcuno pesca, i più sono venuti qui a fare una passeggiata come noi. Penso a quando io non so che fare nella mia città e penso a come deve essere bello non sapere che fare qui a Palermo perché si può sempre uscire e venire a guardare il mare.

Alla fine della passeggiata, un bellissimo scorcio su una piccola spiaggetta dove sono ritratte alcune barche colorate e la vista della città in lontananza blocca il tempo; cartolina da Palermo. Lasciandosi il lungomare alle spalle basta attraversare la strada per entrare nel Giardino di Villa Giulia, un angolo di verde che immagino essere molto prezioso durante i mesi più caldi dell’anno. Al suo interno c’è una piazzetta circondata da panchine e strane strutture architettoniche molto colorate che guardano tutte verso una specie di fontanella in cui però al posto dell’acqua c’è una pila di rocce. In cima, la statuetta di un bimbo riccioluto che sorregge un dodecaedro. Con la mia perspicacia non me ne sarei mai accorta ma, poiché sono fortunatamente accompagnata da un fisico quantistico mancato (che poi non si sa mai), scopro che il dodecaedro non è altro che una favolosa meridiana e che su ogni lato sono segnate solo alcune fasce orarie, quelle durante le quali i raggi del sole investono quel lato del dodecaedro. Mi esalto come Edison quando scoprì la lampadina. Eh lo so, il mio approccio con le “cose scientifiche” è questo.

Il pane per i miei denti lo trovo invece alla Kalsa, un quartiere di origine islamica oggi considerato uno dei quartieri popolari di Palermo. Due cagnoni liberi che ci guardano sospettosi e che ci inducono a cambiare strada sono il nostro benvenuto.

Percorrendo vie strette arriviamo ad un’enorme piazza, o forse è un piazzale, con al centro una chiesa e vicino un campo da calcio. Il sole è accecante, il silenzio frastornante, sento forte la sensazione di essere entrata a casa di qualcun altro, ma in giro non c’è nessuno. Passiamo vicino a tre condomini enormi sulle cui facciate sono stati realizzati tre murali meravigliosi. Il quartiere è pieno di altri graffiti, più modesti. Siamo qui soprattutto per vedere il Complesso di S. Maria dello Spasimo, che per tutta la vacanza ho chiamato S. Maria dello Spasmo. Un altro luogo fuori dal tempo. I lavori della Chiesa non erano ancora terminati quando la minaccia turca rese necessaria la costruzione di un bastione accanto alla chiesa; il complesso fu poi trasformato in una fortezza, poi in un teatro, poi ancora in un lazzaretto, in ospizio per i poveri e in ospedale finchè alla fine, nel 1986, venne abbandonato. Oggi il complesso è stato recuperato e ospita, oltre alle visite, concerti ed altri eventi artistici. Quando si entra si è accolti da un bellissimo chiostro, di un’eleganza semplice, e se si prosegue si arriva a quella che doveva essere la chiesa per la quale Raffaello dipinse il dolore della Madonna davanti alla croce (l’opera è conservata al Museo del Prado a Madrid). Un luogo unico, magico, senza il tetto, forse mai esistito. È evidentemente una chiesa, per come sono organizzati gli spazi, ma non ce ne sono i fasti, i muri sono di pietra nuda, non ci sono argenti e ori che brillano, e non c’è il tetto. Alzando lo sguardo si vede il cielo, si può stare qui ad osservare il passaggio delle nuvole ed io, che non credo, penso che qui dentro una persona con fede possa sentirsi più vicina al suo dio che in qualsiasi altra chiesa. È una magia, non c’è che dire, creata dal tempo, dal susseguirsi delle cose, dalle intenzioni poi non realizzate, dalle opere incompiute, dall’incalzare della storia ed il tutto è consacrato lì in fondo, in quell’angolo, dentro la chiesa, dove è nato un albero.

Forse Palermo è questo, un pendolo sospeso nel tempo che oscilla tra l’estasi del sacro e l’ebbrezza del profano, tra il silenzio del sole che arde e brucia e l’assordante brulicare della vita nelle vie tra le ombre delle palazzine. E se c’è un posto in cui questa tensione esplode questo è il Mercato di Ballarò. Percorriamo stradine dimenticate tra case che ci guardano sospettose e quando svoltiamo l’ultimo angolo siamo travolti da un’onda di grida di venditori che in un dialetto incomprensibile urlano a squarciagola ciò che hanno da offrire. Non siamo così ingenui da dimenticare che il Mercato di Ballarò è ad oggi anche un’attrazione turistica e che indubbiamente questo contribuisce a farne aumentare la rumorosità, ma non per questo la sensazione che dà è meno reale. E sicuramente reali sono gli odori che ancora una volta in questa città mi prendono per il naso e mi portano tra i banchi di pesce, di verdura, di formaggi e mi conducono, senza farmi capire dove sto andando, da lui, da lei, da questa entità celeste di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza, da questo pezzo di paradiso gettato giù dal cielo per noi comuni mortali: un pezzo di pane cunzato.

Quando comincia a farsi sera andiamo nel quartiere Vucciria. Da via Maqueda svoltiamo a destra e scendiamo per una scala stretta, quasi invisibile. Sceso l’ultimo scalino alla nostra destra c’è un carretto dove bolle l’acqua per la carne dei panini con la meusa; a sinistra qualcuno pulisce con la canna dell’acqua un banco del pesce e nell’acqua che scola a terra si riflettono le luci della piazzetta che si apre davanti a noi. Al centro non ci sono monumenti, ma tavoli e sedie di plastica bianchi e rossi, quelli della Coca Cola di una volta, che stanno lì in attesa di ascoltare le chiacchiere di qualche gruppo di amici che si gode una birra a fine giornata. Tutt’intorno negozi che chiudono, bar che aprono. Ci mettiamo trenta secondi a capire che il nostro preferito è la Taverna Azzurra. Una porta a vetri piena di etichette e adesivi conduce ad un bar che è un lungo corridoio con un bancone, muri di bottiglie, altri adesivi e un’atmosfera spensierata. E il barista mette musica bellissima. Sorseggiando le nostre birre fredde osservo meglio il muro e vi leggo una grande verità scritta con un indelebile nero “Il sapere non è fatto per conoscere, ma per prendere posizione”.

Prima di salutare Palermo decidiamo di fare una piccola gita fuori città per andare alla spiaggia di Mondello, che si raggiunge brevemente con un bus di linea. Ormai è fine ottobre e la spiaggia è quasi deserta, con qualche chiazza di asciugamani, pochi lettori, qualche biondo straniero che prova a fare il bagno. Passeggiamo, l’attraversiamo tutta, giocando con le ombre lunghe delle nostre gambe. A circa metà strada tra la fine della spiaggia e l’inizio del mare c’è un edificio, sempre giallo, che ha un che di Wes Anderson (lo so, lo dico spesso). Sono dei Bagni, di una volta, dentro ora si intravede un ristorante con una vetrata mozzafiato sul mare. Alla fine del percorso, invece, un piccolo paesino, un muretto con un graffito con su scritto “Mondello” in tanti colori, diversi bar, piccoli ristoranti. Mangiamo sarde, panelle e caponata e lo facciamo in silenzio, come farebbe Montalbano, baciati dal sole, cullati dal mare, incantati dai sapori. Quando stai così, non hai mai niente da dire.

Il cibo: cosa non perdere e dove trovarlo

Le cose buone da mangiare a Palermo sono moltissime e praticamente ovunque si mangia bene. Il consiglio più spassionato che posso darvi è che se volete venire a visitare questa città vi conviene basare il piano vacanza su come riuscire a mangiare tutto quello che c’è da assaggiare e scandire le vostre giornate sulla base di questo. Partendo dalla colazione partite sapendo che dovete incastrare almeno un cannolo, una brioche col gelato e una cassatina. Per fortuna esistono anche le versioni mignon di tutti questi dolci quindi fin qui ce la caviamo con poco. La cosa si fa tosta passando al cibo da strada, come si dice oggi, che trovate ad ogni angolo. Imperdibili sono lo sfincione, cioè il pane della pizza imbevuto di salsa a base di pomodoro, cipolla, acciughe, origano e pezzetti di formaggio tipico siciliano (chiamato caciocavallo ragusano); segue il pane cunzato; non ve lo so nemmeno spiegare, è una specie di bruschetta che cola olio e pomodoro. Le arancine, che non hanno bisogno di spiegazioni, che spesso trovate insieme a pane e panelle oppure pane e crocché, cioè un panino con dentro una frittata di farina di ceci o in alternativa le crocchette di patate; in entrambi i casi la bocca si impasta come se aveste mangiato sabbia quindi una birra di accompagnamento è d’obbligo. Per i più temerari un cibo veramente tipico è il panino con la meusa ovvero la milza bollita. Quando invece è ora di sedersi a tavola per me Palermo vuol dire principalmente due cose; pasta con le sarde e sarde alla beccafico (si, mi piacciono molto le sarde). Per quanto mi riguarda se non mangiate queste due cose potevate starvene a casa vostra fin dal principio. La pasta con le sarde più buona la trovate, a mio parere, dai “Cascinari”, una trattoria fuori dal centro. Per le sarde alla beccafico sono un po’ indecisa, ma direi che le più buone le ho mangiate in un bar sulla spiaggia di Mondello. Tra i primi non dimenticate gli anelletti al forno, la pasta alla norma e quella al pesto siciliano.

Altra cosa che dovete assaggiare è la caponata di melanzane, che in questo lungo elenco vi sembrerà un piatto quasi dietetico e leggero ma vi sbagliate di grosso perché le melanzane sono fritte. Un ristorante meraviglioso, accogliente, oserei dire di lusso per i miei standard ma con prezzi abbordabili è la Trattoria Corona, ancora una volta fuori dal centro. Da non perdere un antipasto di gamberi rossi crudi.

Potrei andare avanti ancora per molto ma la verità è che m’è venuta fame e quindi vi saluto. Vi lascio con una conclusione affamata, mai sazia di questa città. Palermo è il sole che brucia sulla Kalsa, gli odori che creano labirinti dell’aria, i palazzi decadenti che agghindano ogni angolo, la confusione, la gentilezza delle persone e infine il mare che mi osserva e che tutto placa.

Dischi ascoltati

Clap Clap, Tayi Beba

Le luci della centrale elettrica, Canzoni da spiaggia deturpata

Libri letti

F. Pace, Controvento

Il blog di Anna è azonzotour.org

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