La schiava circassa

Georgia in primavera
Scritto da: Kingsize
la schiava circassa
Partenza il: 25/04/2015
Ritorno il: 03/05/2015
Viaggiatori: 10
Spesa: 2000 €
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Terra selvatica, terra libera, estranea alle nostre campagne a misura d’uomo e ai nostri boschi addomesticati. Terra che s’è scoperta troppo grande, colle sue montagne per sempre innevate, colle sue valli per sempre fertili, col suo cielo che ogni giorno rinasce remoto ed altero come il primo giorno che fu creato. Terra indomita, indifferente alle vicissitudini umane – troppi andirivieni per credere alla permanenza di un particolare ospite e impegnarsi a venirci a patti. E’ un’immensa vita, quella che questa terra vive, che appena s’accorge di ospitare un tesoro di comunità umane – 150 gruppi etnici – e che tiene lo sguardo fisso sulla propria libertà. Libertà che da sempre, per chi vive qui, s’è rivelata essere un sogno troppo fragile. Contesa com’è dall’Europa e dall’Asia Centrale, prezioso passaggio tra Oriente e Occidente, questa terra ha acceso i desideri di conquista degli espansionismi del momento – Gengis Khan, Tamerlano, gli Ottomani e, più recentemente, la Russia. Ombre che i georgiani esorcizzano attingendo alla fonte di un’identità intrepida, di una sapienza che non proviene dal passato né punta al futuro ma appartiene all’eterno presente dell’esistenza, manifestandosi in tradizioni nobili tanto radicate quanto improbabili, in quest’era di uomini piccoli piccoli. La frequenza dei rovesci umani ha insegnato ai georgiani, perennemente al confine di storie altrui, una sagacia pragmatica, cavalcando l’onda delle possibilità del momento, elevando la propria autenticità fino alle epopee delle fortezze e delle città scavate nella roccia, degli eremiti e dei guerrieri di montagna che mettono in versi le ingiunzioni a duello, dei mandriani a cavallo sullo sfondo del tramonto. Non ce lo si aspetterebbe, ma non lontano da noi esiste un regno di fantasia dove i borghi medievali sembrano costruiti dall’immaginazione e le donne belle sembrano modellate dal desiderio.

A questo proposito, nel suo Voyage de Paris à Ispahan, l’ugonotto Jean Chardin, che aveva attraversato la regione del Caucaso verso la fine del XVII secolo, dichiarava “Il sangue di Georgia è il più bello dell’Oriente e posso dire del mondo. Non ho mai notato un viso brutto in quel paese, tra l’uno e l’altro sesso; anzi, ve ne ho visti di angelici”. E, durante i secoli, il fascino indiscreto delle schiave circasse (quasi un sinonimo di caucasiche, se ci si riferisce ai vicini abitanti di questa regione del Caucaso) è stato proverbiale in Oriente: le loro grazie, rivelava Chardin nel 1686, “fanno la delizia dei serragli musulmani”. Senza esitazioni, in quattro (ore di volo) e quattr’otto sono in Georgia con dollari e talleri, zecchini e scellini, rubli e sesterzi alla ricerca di una schiava circassa. La traversata del Grande Caucaso, una mulattiera tra strapiombi paurosi che passa per il villaggio di Stepantsminda, era così stimolante che tanti scrittori vi si cimentarono, dopo che i soldati russi la resero carrozzabile nel 1783. Anche Dumas volle calcare le orme di Mitridate inseguito da Pompeo, ma la neve dell’inverno 1858/9 glielo impedì. E’ un percorso che sale al Passo della Croce sfiorando, come allora, villaggi di legno e pietre, di galletti e maiali, serpeggiando in panorami il cui tetto di nuvole è sostenuto dai picchi che le trapassano e che d’inverno continuano a essere grandiosi, tristi e d’un bianco accecante. Ma i miei 100 cavalli‑vapore permettono in tre ore distanze che Dumas, nella sua carrozza trainata da cinque cavalli e dodici buoi, avrebbe percorso in tre giorni e più.

Dall’alto, una sacra sentinella di pietra mi controlla. Sacra era e sacra deve restare. E così la teleferica costruita dai russi nel 1988 è stata distrutta, e a questa veneratissima chiesa – alta su una cresta a cui fanno da sfondo i 5.033 metri del massiccio Monte Kazbek – si arriva dopo una mezz’ora di energici scossoni dentro un fuoristrada ed essersi infangati gli scarponi lungo un sentiero su cui la neve del maltempo di ieri, nonostante il cielo terso e il sole brillante, stenta a sciogliersi. In linea d’aria la Russia dista meno di dieci chilometri: la millenaria chiesa della Santa Trinità sta a baluardo dell’integrità e testimonia la fede della Georgia, seconda solo all’Armenia nell’abbracciare il cristianesimo predicato dagli apostoli Andrea, Simone e Matteo e, più tardi, diffuso dai Padri Siriani venuti da Antiochia. La nuova religione ha tanto segnato il territorio che non si può prescindere da questi centri antichissimi in cui la cultura classica veniva tramandata e i testi esoterici venivano tradotti. Oltre i grigi blocchi di granito del portale, decorati da licheni arancione e da serpentine scolpite da mani rozze, e protetti da queste pietre tenaci riassemblate dopo antiche devastazioni, venivano trasferiti i tesori dei monasteri più esposti e le reliquie più significative, come la caratteristica croce di Santa Nino, simbolo della chiesa ortodossa georgiana: due tralci di vite legati coi suoi capelli, con cui la santa predicò il Vangelo più d’un millennio e mezzo fa.

A sud, via via che la morsa delle montagne s’allenta, la trama regolare del basalto scuro – ammassi di laviche colonne esagonali e lastre verticali in frantumazione – fa spazio a rilievi non più innevati ma ancora brulli, nelle cui valli pascolano mucche e cavalli, forse allo stato brado. L’occhio ritorna a spaziare e la Georgia s’apre con le promesse di fertili valli, di sterminate greggi e del generoso vino che tutti sanno nato qui. I georgiani ricambiano bevendolo altrettanto generosamente: “Un georgiano non è mai ubriaco, al massimo perviene a quello stato di beatitudine che induce ad avverare l’invito evangelico di amare il prossimo come se stessi” (Dumas, Le Caucase).

Superata la stazione sciistica di Gudauri, la Strada Militare Georgiana segue il corso dell’Aragvi bianco – bianco per il calcare in sospensione – che stenta, a Pasanauri, a fondersi con l’Aragvi nero – nero per i minerali del suo greto – col curioso risultato di un fiume panna e cioccolato per un lungo tratto. Più a valle, le mura merlate di Ananuri affacciano dal 1986 sul lago artificiale di Zhinvali. Scandalosamente, il progetto originario della centrale idroelettrica prevedeva che la fortificazione venisse sommersa. Fortunatamente, le proteste del buon senso popolare – come nel caso della blasfema funivia alla Santa Trinità – prevalsero, e il maschio, le torri e le chiese all’interno del recinto possono testimoniare anche a noi di vite semplici e dure, di scalini di pietra rozza, d’una religione fagioli e cotiche, di angeli con gli zoccoli, di santi dipinti e d’un inferno naïf di anime pesate e di diavoli imbroglioni. Sulla facciata meridionale della chiesa dedicata all’Assunzione le iscrizioni, nei peculiari caratteri georgiani, sembrano stenografate, e sopra il portale ad arco acuto compresso stupendamente scolpito – un po’ gotico ma molto più arabo – campeggia, in rilievo, una croce gigante affiancata da leoni e alberi persiani.

Nella piana di Mtskheta la primavera urge da ogni ramo con piccole foglie d’un verde che controsole s’indora, scoppiando sfrontata negli orti coi mille fiori bianchi dei susini agri mentre manipoli d’alberi s’arrampicano sulle coste brulle. La vitalità dirompente della stagione e la sua naturale eleganza svergognano le catapecchie degli uomini, le casucce senza grazia del contado, alcune vive, altre conchiglie vuote. Le acque dell’Aragvi, ormai d’un torbido azzurro, fluiscono in quelle fangose del Mtkvari a Mtskheta, la vecchia capitale, cuore spirituale della nazione: qui è Svetitskhoveli, l’equivalente georgiano di San Pietro, sulla quale veglia la Chiesa della Croce, appollaiata su uno sperone al di là del fiume. Furono i miracoli a favore della famiglia reale operati qui da Nino – la santa più venerata – a convertire al cristianesimo l’Iveria – l’antica Georgia orientale – dai culti zoroastriani, che avevano rimpiazzato i più antichi dèi ittiti e sumeri. La “strada delle tentazioni”, come è stato scherzosamente definito il tratto pedonale costeggiato dai negozi di souvenir, qui a prezzi particolarmente convenienti, porta al varco nelle mura perimetrali che lasciano ampio respiro alla chiesa, enorme per il tempo in cui fu costruita. Il sito è quello dell’antico palazzo reale e d’una tomba che custodirebbe la tunica di Cristo, sulla quale crebbe un cedro dal quale, a richiesta della santa, fluì la linfa miracolosa dalla quale la chiesa prende nome: Svetitskhoveli significa “colonna che dà vita”. Il nome tradisce un’ascendenza pagana e, soprattutto in montagna, i rituali arcaici ancora affiorano: Tim Burford, nella sua guida della Georgia, attesta di sacrifici animali in occasione delle feste religiose, di corna piazzate sugli altari e di teste di pecora impalate a decoro dei sagrati. A Svetitskhoveli, più discretamente, figurano due teste di toro scolpite, simboli pagani di fertilità, e altre decorazioni di ascendenza persiana, fini come quelle di Ananuri. Una piccola deesis – tema molto rappresentato nei territori di antichissima cristianizzazione – è scolpita dietro l’abside, mentre il bassorilievo di una mano che regge una squadra da capomastro ha generato diverse leggende, tra cui quella dell’architetto Arsukisdze reso monco da un supervisore invidioso. Il mastodontico volume verticale interno è dominato da un Cristo Pantocratore di fronte al quale, nella navata centrale, troneggia un seggio scolpito, lascito d’un tempo in cui le gerarchie, al contrario di oggi, necessitavano dell’appoggio popolare diretto e per ottenerlo dovevano scendere in campo personalmente. Per chi non poteva andare in pellegrinaggio a Gerusalemme supplisce una copia della Cappella del Santo Sepolcro e, oltre il padiglione dipinto che marca il punto della storica colonna, Cristo e gli apostoli, inquadrati in uno zodiaco, sovrintendono la scena dell’Apocalisse. Nell’affresco della crocefissione sull’altare si distinguono due misteriose presenze: si direbbero meduse sospese in aria, ma più probabilmente son dischi volanti in fase di atterraggio, anche se il monaco residente sostiene si tratti di sole e luna. Essere sepolti qui, vicino agli ultimi due re, era segno di distinzione: il pavimento, difatti, è tappezzato di pietre tombali, alcune squisitamente decorate e iscritte in stile musulmano. Il panorama della cattedrale e del villaggio circostante sorprende chi arriva a Jvari, la Chiesa della Croce, 150 metri più su, da Tbilisi, la capitale, dopo aver superato prati verdi e drappelli in marcia di mucche libere e determinate, dirette al loro lavoro di tagliaerba. Tanto geniale fu il progetto di questa cappella semplice e sofisticata da costituire un modello per secoli: quattro aule angolari integrano in quadrato la pianta cruciforme e la cupola sovrasta l’enorme croce di legno posta al centro, sopra lo stesso plinto su cui re Mirian ne fece erigere una dopo la propria conversione. Dal VI secolo un eremita la sorveglia 24 ore al giorno.

Quella croce, assieme a quelle rosse della schiera di bandiere poggiate contro le pareti nude, afferma un’identità che le quaranta invasioni che i georgiani hanno sofferto non hanno obliterato: movimenti armati non certo determinati dai popoli – che, come nell’antichità, continuano a essere trattati come mero corredo del territorio – ma dagli sviluppi delle situazioni geopolitiche. Con radici tanto profonde, dove potrebbero andare questi contadini? Chiuso dal Grande Caucaso che lo difende a nord dai geli russi e protetto dalle calure del Medio Oriente dal Piccolo Caucaso a sud, il triangolo georgiano, grande come l’Italia centrale – terra nera, feconda, capace di dar di tutto, dai soggiorni estivi più ambiti dell’Unione Sovietica in Abkhazia ai rinomati vini prodotti nel Kakheti sin dal Neolitico – è stato teatro di infinite distruzioni dai tempi del capostipite, Kartlos, nato solo otto generazioni dopo Noè. È proprio questa turbulenta storia ad aver plasmato il nazionalismo riservato ma tenace di questa gente coesa dalla comune origine delle parlate che non si integrano con altre né come alfabeto – uno dei 14 esistenti – né come struttura. Le testimonianze degli antenati del Neolitico, ottomila anni fa, e dell’età del Bronzo sono documentate nei musei cittadini: ben presentati i reperti del Museo Storiografico Samtskhe-Javakheti ad Akhaltsikhe, eleganti e sofisticati i rilievi e i fregi del tesoro nel Museo Nazionale della capitale Tbilisi. Troviamo però anche i dolorosi cimeli dei settant’anni di oppressione sovietica – una dominazione esercitata a suon di evacuazioni ed epurazioni di massa. La carrozza ferroviaria crivellata di colpi in cui furono chiusi e assassinati gli insorti nel 1924, gli ordini firmati di uccidere o esiliare, le foto delle famiglie nobili georgiane sterminate dai bolscevichi e la decapitazione culturale perpetrata da Stalin nel 1937 son tutte prove tangibili che giustificano la rassegnazione della generazione nata durante l’occupazione: le ingiustizie del regime erano risapute, ma ribellarsi era vano. Al contrario, l’attuale gioventù, che ha vissuto la crisi rovinosa seguita al crollo dell’Unione Sovietica, è nata combattendo e vive ora uno dei rari periodi di autogoverno del proprio paese, una piccola nazione spesso in contrasto con le piccole nazioni confinanti, che poco ha in comune con gli slavi della Russia e non riesce a riconoscersi né nell’Asia né nell’Europa e permane minacciata dall’orso russo che, perennemente affamato di territori e troppo potente e imprevedibile per aspettarsene correttezza, induce un’incertezza che mina la rinascenza del paese. L’antitesi dell’art brut dei casermoni senz’anima sovietici con l’architettura popolana tradizionale è il minore dei problemi lasciati dai russi. Superato lo scossone della riacquistata indipendenza, sebbene le nuove infrastrutture stiano aprendo il paese, il progresso rimane frenato da comprensibili timori. Le attuali avversità sono particolarmente laceranti: a ovest di Mtskheta le centinaia di casette col tetto in lamiera rossa, tutte uguali, tutte intruppate vicine e sorvegliate da una torre di guardia, sono quelle dei profughi dell’Ossezia del Sud, provincia il cui separatismo è appoggiato e fomentato dalla Russia. L’assurdità d’essere rifugiati nel proprio paese è toccata anche a decine di migliaia di georgiani dell’Abkhazia, altra regione separatista sostenuta dalla Cecenia. La storia importante dell’Abkhazia, e le oggettive differenze che gli abkhazi hanno con i georgiani, sono strumentalizzate dalla Russia che osteggia l’entrata della Georgia nella NATO per promuovere il proprio gasdotto dal Caspio al Mar Nero: la guerra dei cinque giorni dell’agosto 2008 tra truppe georgiane e russe ha lasciato aperte spinose questioni di sovranità e di pulizia etnica.

A qualche soldato russo, entrando nella bombardata città di Gori, non dev’essere sfuggita l’ironia di trovarsi di fronte a un capitolo della propria storia: il museo di Stalin. Ogni criminale rimane il tesoro di mamma, e così mamma Georgia ha protetto dentro un tempio greco la casetta di cui la famiglia Dzugasvili aveva affittato alcuni locali (tutto quel che il padre di Stalin, povero ciabattino, poteva permettersi) e in cui Iosif Vissarionovic era cresciuto, dedicando al suo “Uomo di ferro” (questo significa il soprannome “Stalin”) l’adiacente museo apologetico di foto e cimeli. Col ciuffo corvino del giovane rivoluzionario, Iosif era bello, non vestiva Prada ma ne aveva la stoffa. L’impressione di star sull’orlo della bocca dell’inferno accompagna di sala in sala, di foto in foto: gli occhi vedono l’uomo, l’esecutore, ma l’anima avverte la presenza del Male, del mandante. E’ come vedere lo strumento muto, ma ricordare la musica. Curiosa è una colomba di panno bianco imbottita, dono di emigrate vicino Parigi, dal cui becco pende il cartello “Le donne italiane di Nanterre a Giuseppe Stalin Campione della Pace”. Effettivamente, grazie a Stalin, hanno trovato la pace dai 20 ai 60 milioni di persone: la pace eterna. Nel cortile son stati trasferiti la carrozza ferroviaria del dittatore e la statua che si ergeva nella piazza centrale, difesa fino all’ultimo dagli abitanti di Gori. Una dedizione non ricambiata, visto che Stalin non ebbe certo un occhio di riguardo per la sua terra d’origine, ma Gori non ha altro motivo di fama.

Pochi chilometri più in là, a Uplistsikhe, un villaggio rupestre scavato dal 500 a.C. nelle rocce che s’avvicinano al placido corso del Mtkvari, si rifugiarono nel 645 d.C. i re, cacciati da Tbilisi dagli arabi. I cassettoni ottagonali scolpiti nel soffitto del vano centrale della grande grotta del Teatro sono sorprendentemente identici a quelli della Basilica di Massenzio a Roma. Di un’altra grande sala, che porta dettagli architettonici incisi e intorno al perimetro della quale s’aprono accessi arcati ad altri spazi, è crollata una parete ma rimangono le basi delle colonne che reggevano il soffitto, ricordando l’abitato popolare di Petra. Nella sala adiacente, gli enormi orci interrati conservavano il vino. Dello spazio più vasto, di certo un tempio poi convertito in chiesa, non restano che le basi delle quattro colonne e la curva dell’abside. I canali di scolo per il sangue delle offerte testimoniano di sacrifici animali, mentre il lungo tunnel che scende oltre la zona del mercato era usato dai portatori d’acqua. Su queste rocce dalle forme quasi ossee dominano i mattoni rossi della Chiesa del Principe, i cui 5.000 monaci furono passati a fil di spada nel 1240 da Hulagu Khan, nipote di Gengis. Tutto fu distrutto, e ricostruire non è possibile: sarà il grigio della roccia o il grigio della giornata uggiosa, ma le pietre oggi rimangono silenti: immaginare, in queste stanze ricavate nell’arenaria arrotondata dal vento e sullo sfondo d’una tranquilla pianura bucolica, ventimila voci commerciare con le carovane della via della seta è impossibile.

Istintivo, invece, vedere cogli occhi della fantasia il brulicare umano su e giù per l’altra, più conosciuta città rupestre: Vardzia. Il fronte del Monte Erusheli è una groviera: i vani ospitavano abitazioni, forni, fucine, magazzini, scuderie e caserme, ed erano nascosti da un lastrone verticale. L’intenzione era tattica: il corso del Mtskheta è un varco naturale nel Caucaso Minore. Eventuali invasori, che non vedevano villaggi, venivano lasciati avanzare. Con un’improvvisa mossa a tenaglia, la guarnigione di guardia si precipitava dalle caverne e li intrappolava nel vallone, sbarrando l’avanzata e chiudendo la via di fuga. L’impianto doveva essere enorme, se è vero che le 600 camere attuali rimangono dalle 3.000 originarie e che prima del terremoto del 1283, che distrusse due terzi della città, si contassero tredici livelli e non i soli sei odierni. Decorazioni e sbalzi sono rari, ma interessanti sono i pavimenti di alcune grotte, con canali di scolo e buche sagomate per il focolare e per i recipienti. Alcuni ambienti sono ancora occupati dai monaci della Chiesa della Dormizione dove, annerito ma leggibile, un affresco mostra la regina Tamar, un mito ancora molto amato, col modellino della chiesa. Anche qui fu un’invasione, quella ottomana del 1578, a far abbandonare il monastero.

Intrecciandosi con la ferrovia deserta, la strada per Akhaltsikhe doppia il corso del Mtkvari, qui un torrentello biondo tra infinite tonalità di verde. I carpini bianchi si infuocheranno in autunno e i pioppi si indoreranno per rendere i paesaggi del Santskhe-Javakheti i più belli del paese. Ogni tanto una torre in rovina punta alla luna mezza piena e mezza vuota. Anche del mercato degli schiavi circassi, un recinto di mura alte a strapiombo sul fiume, è rimasto poco. In Don Juan (1818-24), Byron aveva scritto: “Una dolce circassa, garantita vergine, era agognata da tutti. I più luminosi colori della bellezza l’avevano ornata di tutte le sfumature del paradiso. Alcuni borghesi rilanciarono le offerte finché furono raggiunte le undici centinaia, ma quando la cifra andò oltre, capirono che era per il sultano, e si ritirarono subito, tornando a casa delusi”. Secondo Blumenbach i circassi s’avvicinavano più d’ogni altro all’idea che Dio ebbe dell’umanità, Voltaire ne parla nelle Lettere inglesi (1734) e perfino Cosimo de’ Medici ebbe un figlio illegittimo da una schiava circassa. M’aspettavo la parte di mia pertinenza, ed invece trovo un gruppo che, con un metal detector, saggia il terreno: certo, nella foga delle aste sarà caduta qualche moneta, ma delle schiave circasse non resta che l’alito nella brezza del fiume. Servirebbe una macchina del tempo che riportasse indietro di trecento anni: il posto è quello, ma or non è più quel tempo e quell’età.

Semidistrutto era anche il rabat arabo di Akhaltsikhe, ma la cittadella è stata ricostruita com’era, dov’era: un colpo di genio che ha reso la località una desiderata meta estiva. Calata la luce, è d’obbligo una foto alle mura merlate della fortezza, dorate dalla luce delle lampade al sodio. Di giorno, i suoi giardini, i loggiati con colonnine e archi a ferro di cavallo, il gazebo, la moschea e il marmo candido ricreano la frescura e l’ombra godute su quest’altura dagli Ottomani. Altra ricostruzione, altrettanto discussa ma ugualmente riuscita, e anch’essa molto fotogenica in notturna, è quella della cattedrale di Bagrati, distrutta dai turchi nel 1691 dopo quasi settecento anni di servizio. L’enorme croce di metallo accanto alla mole della chiesa domina l’abitato di Kutaisi, tagliato dal serpente blu del fiume Rioni e incorniciato dalle nevi del Grande Caucaso. La chiesa è tanto muta di notte quanto spoglia di giorno: per gli affreschi, di cui la Georgia vanta stupendi esempi, occorre arrampicarsi fino a Sapara, nelle foreste sopra Akhaltsikhe, oppure fermarsi cogli occhi sbarrati per la scoperta e l’emozione a Ubisi, dove il pittore Damiane ha predatato di trecento anni le invenzioni di Giotto. Era il decimo secolo, l’inizio dell’età d’oro della regione: i nomi di re Davide il Costruttore (1089-1125) e della popolarissima regina Tamar (1184-1213) ricorrono con frequenza. Davide costruì il monastero di Gelati e la sua accademia, che divenne, secondo un antico storico, “la seconda Gerusalemme” e “un’altra Atene”, centro di educazione e spiritualità. La sua grande pietra tombale rimane all’ingresso del complesso, ottemperando al suo desiderio di “sentire i passi dei Georgiani”: passi di cristiani, passi quindi di uomini liberi. I fiori posati su quella pietra attestano d’una gratitudine che va oltre il tempo. All’interno delle tozze architetture, i pregevoli cicli di affreschi coprono ogni spazio: nella Cattedrale della Vergine, nella Chiesa di San Nicola e in quella di San Giorgio il corpus del credo cristiano è esposto e dettagliato affinché ognuno veda e creda. Quelle storie ci ricordano di noi, del nostro destino forse ineffabile, delle dimensioni più nobili che pure ci appartengono e dalle quali le impellenze del contingente congiurano per distoglierci. Anche Gelati, come quasi tutti i monasteri georgiani, vanta un panorama senza uguali di vicine colline verdi e di lontane montagne azzurre cinte da nevi eterne. Il monastero di Motsameta, ad esempio, sorge su un dirupo panoramico e, come tantissimi altri siti, lo si trova officiato: per celebrare basta un sacerdote e un fedele.

Ma è stata la fregola di primavera che ha contagiato gli abitanti ad aver sfiancato, l’ultima domenica di aprile, gli archimandriti di Tbilisi con interminabili cerimonie nuziali. Nelle chiese ortodosse non ci sono banchi e si sta in piedi, il celebrante gira attorno alla coppia incensandola mentre il coro salmodia la famosa polifonia georgiana – ecco da dove Battiato ha rubato le voci profonde che tanto ci sono piaciute nel Centro di gravità permanente! Gli astanti sono pochi – le chiese ortodosse sono minuscole –, niente fiori, e i testimoni sono ragazze coi tacchi alti e ragazzi visibilmente a disagio dentro una giacca, pronti come gli sposi a schizzare in birreria o in discoteca. Di certo non frequentano i locali di Via Chardin, dove i turisti fumano il narghilè lasciando che i minuti crescano in ore e dove altri officianti, quelli del dio denaro – doppiopetto, figura tozza, sigaretta in bocca, telefonino all’orecchio e un’aria rapace – vigilano nemmeno tanto discretamente per assicurarsi che i clienti col grosso pacco finiscano nei posti giusti. Esito un attimo alla sfrontatezza surreale della scena, e subito una mano apre il cristallo della porta d’un antro di lusso e di lussuria: sicuramente la mano d’una schiava circassa. Mi affretto ad evitare il pericolo, attardandomi invece nelle stanze dell’antico caravanserraglio, riconvertito in rivendite di souvenir, dove l’artigianato georgiano sfoggia le ceramiche, i tappeti, i lavori a maglia, le icone e gli smalti, i deliziosi gioielli e i preziosi, minuscoli quadri provenienti da ogni angolo del paese.

Quanto ancora da vedere! Il deserto su cui sorge il monastero di David Gareja, la cattedrale di Alaverdi sullo sfondo dei vigneti nani e dei bassi frutteti della valle dell’Alazani, le grotte di Sataplia con le impronte dei dinosauri, quelle impressionanti di Prometeo lunghe un chilometro e mezzo, i musei coi reperti risalenti alle primissime uscite di Sapiens dall’Africa, i villaggi colle case a torre dello Svaneti, e a Batumi i sette chilometri di litorale sul Mar Nero… Una settimana non basta per visitare la Georgia. Georgiani non da San Giorgio, che pure ne è il patrono, ma da “gurj” – forse da “gorg”, un dio lupo, o dal greco “georg”, agricoltura –, il nome arabo e persiano per queste genti che chiamano se stesse Kartvelebi, abitanti di Sakartvelo. Il riferimento all’agricoltura non è peregrino: è essenzialmente del lavoro dei campi che la gente vive, sia nell’occidentale Colchide che, separata dalla catena dei Likhi, nell’orientale Iveria. “Georgia: un paese di cui non si sa nulla”, ha commentato un collega. “Come sono?” ha insistito. Abkhazi, osseti, georgiani: se geneticamente siamo tutti caucasici, non stupisce che siano uguali a noi: stessa razza, stessa faccia. Considerata la collocazione geografica, non meraviglia che il costume tradizionale sia una gonna a ruota che nasconde le caviglie e una coroncina sul capo per trattenere il lungo velo. Gli uomini, forse, hanno un aspetto più mascolino dei nostri incravattati e non si vergognano di andare in giro con un voluminoso colbacco di pecora (ancora da tosare) o con un copricapo da ninja, ma questo forse avviene solo negli spettacoli folklorici e nei video musicali, dove sfoggiano un’agilità e una rapidità prodigiose, direi quasi circasse. Non è vero, però, che il vello che Giasone venne a cercare in Colchide sia quello che spunta dai colletti sbottonati dei prestanti georgiani: quella storia si riferisce con tutta probabilità al sistema di bloccare le pagliuzze d’oro portate dalla corrente intrappolandole tra i peli di una pelle di pecora fissata al letto del torrente. Dunque, gente simile a noi, e un paese come il nostro, dove è possibile vedere giardini fioriti su uno sfondo di montagne innevate o prendere il sole su una spiaggia la mattina e il pomeriggio andare a sciare. Una nazione con una tormentata storia di unioni e di divisioni, che ha avuto la sua epoca d’oro e che adesso, come noi, nonostante le difficoltà, sta mettendo in campo tutte le risorse disponibili per un futuro migliore. Il misterioso Kurban Said aveva scritto, nel celebre romanzo Ali e Nino: “Sangue georgiano, il più nobile del mondo”, “Le donne georgiane sono le più belle del mondo” e di Nino, l’eroina del romanzo: “Nino aveva una carnagione chiara, e sotto delicate sopracciglia grandi occhi ridenti, scuri e caucasici. Nessun’altra donna, europea o asiatica, ha occhi così gai e dolci come una ragazza georgiana”. Occhi luminosi… carnagione chiara incorniciata da una criniera di ribelli riccioli rossi… simpatia contagiosa e compagnia deliziosa… Così era Nana, la guida che ha accompagnato per tutto il viaggio. Lì per lì non ci ho pensato, ma ben avrebbe potuto essere circassa…



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