Weekend a Belgrado
Dall’alto della Fortezza, che sorge sulla collina alla confluenza della Sava nel Danubio, il panorama è affascinante: non capita spesso di avere in un’unica visione i palazzi di una città e il verde di una regione disabitata. La larghezza del Danubio, infatti, ha protetto dall’urbanizzazione le isole e la sponda settentrionale. L’elemento paesaggistico trova poi il suo momento più suggestivo nella gita in barca sui due fiumi, durante la quale la natura e l’opera dell’uomo si incontrano in un felice connubio. In città, invece, ai palazzi ottocenteschi del primo stato serbo moderno, si alternano tristi costruzioni dell’epoca comunista; qualche edificio sventrato ricorda i bombardamenti operati dalla NATO nel 1999.
La storia è sempre presente in città. La visita alla tomba di Tito, ormai “negletta”, riporta alla mente un’epoca storica non lontana dai nostri giorni e stimola riflessioni sugli avvenimenti successivi alla morte del leader. I ricordi del periodo monarchico trovano invece la loro sintesi nel Complesso Reale, oggi aperto al pubblico, nel quale si viene accolti dal “re” e dalla “regina” in persona.
A Belgrado sono alloggiato in pieno centro, nella simpatica guesthouse “Villa For Ever”. La mia visita inizia da Piazza delle Repubblica, ombelico della città. Davanti alla facciata del Museo Nazionale, nascosta dalle impalcature, il principe Mihailo Obrenovic a cavallo alza un braccio verso sud per indicare le terre ancora da liberare dai turchi. Salito al trono nel 1860, fu assassinato durante una passeggiata nel parco Kosutnjak nel 1868; ancora oggi è considerato il governatore più illuminato della Serbia moderna. Di fianco il Teatro Nazionale è un bell’edificio rifatto nel Novecento. La piazza ha una forma irregolare, con un lato trafficato e uno pedonale che si prolunga verso Knez Mihailova, asse pedonale della città vecchia. La Casa della Stampa è un mastodontico edificio nel triste stile dell’architettura socialista degli anni cinquanta.
Knez Mihailova è dedicata alla shopping e al piacere di sedere nei caffè. Nel suo nome ritorna il principe ottocentesco; percorrendola incrocio subito la Fontana del Soldato, ricostruita sul luogo di una vecchia fontana turca distrutta dagli austriaci. La candida struttura esagonale in marmo ha forme ottomane e costituisce un punto di incontro cittadino. Lungo la strada si alternano prestigiosi palazzi ottocenteschi e brutture delle epoche successive. Raggiunto il parco Kalemegdan sotto la Fortezza, piego a sinistra fino alla Cattedrale Ortodossa (1845). La facciata tinteggiata di grigio non è certo bella: solo la guglia barocca si concede qualche decorazione. I due alberi di tasso sono stati piantati nell’Ottocento. La credenza popolare gli attribuisce poteri magici; un cartello spiega che possono vivere fino a quattromila anni. L’interno della chiesa è un unico vasto ambiente coperto da volta a botte. Non sembra di essere in una chiesa ortodossa; anche l’iconostasi ha un aspetto neoclassico con colonne corinzie dai capitelli dorati. La chiesa ospita la tomba di Milos Obrenovic e dei sui figli Mihailo e Milan. Milos fu il fondatore della dinastia: dopo aver partecipato alle fasi finali della Prima Rivolta Serba nel 1813, fu uno dei pochi leader della ribellione a restare in Serbia nonostante il ritorno degli ottomani. Successivamente, fu uno degli istigatori della Seconda Rivolta divenendone il leader assoluto. Nel 1817 le sue capacità diplomatiche riuscirono a garantire una certa autonomia alla Serbia, sempre nell’ambito dell’Impero Ottomano, segnando di fatto la nascita del moderno stato serbo.
Di fianco alla chiesa, l’osteria “?” è uno dei pochi edifici ottomani sopravissuti a Belgrado: ai suoi fianchi, un palazzo ottocentesco con decorazioni rococò e un brutto condominio anni cinquanta riproducono la tipica commistione delle architetture cittadine. La kafana tradizionale deve il suo nome al fatto che il precedente, “Alla Cattedrale”, non piacque alle autorità ecclesiastiche: il provvisorio “?” è diventato poi definitivo. Mi siedo ai suoi tavolini per un dolce e un caffè serbo (cioè turco).
Di fronte alla cattedrale la sede del Patriarcato Serbo Ortodosso ospita un museo, un miscuglio di epoche e oggetti che ripercorre la storia della chiesa serba. Per primo mi colpisce il bastone pastorale di avorio lavorato, con due draghi nell’impugnatura, appartenuto ad Arsenio II (XVIII secolo); seguono mitra e quadri di patriarchi serbi dalle lunghe barbe (XX secolo). Tornando indietro nel tempo una stampa ritrae il monastero di Krusedol (1775); il Grande Vangelo, con una copertina di metallo lavorato che reca un crocefisso, risale al 1549. I pezzi più interessanti, anche da un punto di vista storico, si trovano alla fine dell’esposizione. Si tratta di oggetti legati ai grandi re della Serbia medievale: il sarcofago ligneo di Stefano Decanski è dipinto con decorazioni vegetali (1343), l’Epithapion di Milutin (XIII/XIV secolo) è un grande panno rosso ricamato con la figura dorata di Cristo morto, circondato da angeli, gli occhi chiusi, il volto sereno e delicato, il corpo coperto dei segni della Passione. Infine il vestito con grifoni accoppiati appartenne al principe Lazar (1389).
Oltre l’incrocio sorge la casa appartenuta alla principessa Ljubica. La konak fu costruita per la moglie del principe Milos Obrenovic, che vi trascorse dieci anni insieme ai due figli, Milan e Mihailo. L’edificio è una commistione di elementi turchi e occidentali. Gli arredi esposti provengono da varie case di Belgrado e risalgono all’Ottocento. Al pianoterra le stanze si aprono intorno a una divanhane (sala delle conversazioni) centrale, dotata di un salottino rialzato che termina con una parete circolare sulla quale è poggiato il divano. Le altre stanze sono arredate secondo il gusto ottomano con bassi tavolini, panche coperte da stoffe colorate lungo le pareti e tappeti per terra; tra gli oggetti esposti spicca un paravento di noce, tutto lavorato con inserzioni di madreperla e argento. La stanza più lussuosa era quella dotata di piccolo bagno e hammam con la caratteristica cupola bianca piena di fori. Salendo al primo piano, gli arredi diventano di gusto occidentale: nei salotti si alternano stili Biedermaier, secondo impero e altri ancora.
Percorrendo Via Kralja Petra I passo sull’altro lato di Knez Mihailova. Alcuni interessanti edifici Art Noveau risalgono all’inizio del Novecento. Sul lato opposto della strada, il moderno edificio Zepter in vetro e acciaio mostra nel cortile interno una curiosa facciata semicircolare a specchio. Ancora pochi passi e raggiungo il Museo Etnografico in Piazza degli Studenti. L’interessante esposizione inizia al piano terra con costumi popolari della Grande Serbia, cioè di tutte quelle regioni della ex Jugoslavia dove vivono (o vivevano) comunità serbe. I copricapi delle spose sono decorati da monete, come avevo già osservato nell’analogo museo a Pristina in Kosovo; gli uomini indossano stivali di stoffa con i pantaloni infilati dentro. Il vestito di una donna dalmata presenta una “parannanza” tutta coperta di monete, mentre l’uomo al suo fianco indossa un gilet coperto da palline argentate e porta la pistola infilata in una larga fascia alla vita. In una vecchia foto in bianco e nero i bambini hanno uno sguardo tra il fiero e l’imbronciato. Dalla regione Sumadija provengono copricapi delle spose, decorati oltre che da vari giri di monete anche con piume di pavone. Al secondo piano si passa alla vita dei tempi passati: case tradizionali di legno dai villaggi nella Alpi Dinariche, riproduzioni degli ambienti di una casa di villaggio, modellini di abitazioni tradizionali. Le steli con volti umani (uno presenta lunghi baffi, elmetto, occhi che sembrano occhiali) sono pietre sepolcrali bogomili, il movimento eretico che si diffuse in Bosnia nel medioevo. Segue una sezione dedicata al lavoro nei campi, alla viticultura e alla pesca.
Terminata la visita mi concedo un momento di riposo nel bel giardino fiorito di Piazza degli Studenti, ombreggiato da alti alberi. Tutto intorno i palazzi richiamano la triste architettura del secondo dopoguerra. Tra le aiuole colorate spuntano varie statue di serbi illustri, ma il cirillico e le iscrizioni consumate mi impediscono di identificarli. Navigando su Internet scoprirò di chi si tratta. Il famoso botanico Josif Pancic assomiglia a Giuseppe Verdi, mentre sopra la testa pelata del geografo Jovan Cvijic è appollaiato un piccione che non sembra essere il primo ad apprezzare quella postazione, visti i segni bianchi sul suo volto! Il tipo in abiti del Settecento, che sfoggia bastone e cappello a cilindro nelle mani, è Dositej Dimitrije Obradovic: scrittore, filosofo, linguista, viaggiatore e poliglotta, protagonista della rinascita culturale nazionale. Nel parco, come in tutto il mondo, le mamme fanno conversazione in circolo, i bambini giocano rincorrendosi e le coppie si fanno le coccole. Se siamo tutti uguali perché ci facciamo le guerre? Su un lato della piazza, la turbe dello sceicco Mustapha è un mausoleo quadrato sopravissuto dall’era ottomana. Da una finestra scorgo il candido interno intonacato a calce, con il sarcofago verde collocato nel mezzo e sormontato da un turbante.
Proseguendo il tour dei musei, visito la Galleria degli Affreschi dove sono esposte copie tratte dalle chiese serbe più famose. Molti di questi monasteri si trovano in Kosovo, un paese ormai straniero, e anche per questo il museo assume un significato particolare. Naturalmente la visione delle copie non ha il fascino della visita a un antico monastero, ma grazie all’illuminazione artificiale è molto più agevole rispetto agli originali, che ho ammirato appena qualche mese fa, durante il mio viaggio in Kosovo. Subito riconosco il grande albero genealogico della famiglia reale Nemanjic dal patriarcato di Pec, insieme ad altri affreschi come l’Ultima Cena e la Deisis. Sempre dal Kosovo, sono tratti Stefano Decanski che offre il modellino della chiesa da Decani e la Dormizione da Gracanica. In quest’ultimo i personaggi appaiono bruttini; saranno così anche nell’originale? Nell’esposizione sono presenti le intere ricostruzioni dei portali occidentali delle cattedrali di Trogir e Decani.
Poco lontano dal museo, la moschea Bajrakli è l’unica sopravissuta a Belgrado. La moderna facoltà di studi islamici gli incombe a fianco. Tutto intorno gli edifici moderni lasciano poco spazio alla costruzione in pietra, accompagnata dal brutto minareto distrutto dagli austriaci e ricostruito successivamente in altro materiale. Nel 2004 la moschea è stata danneggiata durante le sommosse anti islamiche, scoppiate in reazione a quelle contro i serbi del Kosovo. L’interno in pietra nuda è affascinante, coperto da un’alta cupola di mattoni. Il pulpito insolitamente è collocato parallelo alla parete di fondo, girato di novanta gradi rispetto alla posizione canonica. Sul davanzale di una finestra, un corano è poggiato sopra un tradizionale leggio di legno.
Concludo le mie visite giornaliere con il museo dedicato a due grandi studiosi serbi. L’esposizione è ospitata nella bella casa turca in cui Dositej Obradovic (1742-1811) fondò la prima scuola superiore serba; Vuk Karadzic (1787-1864) fu uno dei suoi discepoli. Tutte le spiegazioni sono in cirillico; solo qualche diploma in latino mi risulta comprensibile.
Proseguo la mia passeggiata attraverso il quartiere di Dorcol, in passato occupato da una comunità cosmopolita turca, austriaca, greca, ebrea, valacca e serba. Oggi poco o nulla rimane a ricordare quei tempi, mentre Strahinijica Bana è soprannominata “Silicone Valley” per la fauna femminile alla ricerca di qualche ricco sponsor, che frequenta i suoi numerosi caffè. Nel quartiere sorge la chiesa dedicata a Alexander Nievski, che non poteva mancare in una nazione dal passato fortemente legato alla Russia zarista. Costruita nel Novecento, presenta un esterno bizantineggiante in pietra scura. Una targa dietro la chiesa ricorda le vittime del bombardamento nazista del 1941. L’interno, tinteggiato candidamente di bianco, è privo di decorazioni. In fondo l’iconostasi di marmo sembra la facciata di un edificio con porte e finestre. Durante la mia visita è in corso la messa e quando il prete ha finito di benedire i fedeli con l’incenso, una porta si apre “magicamente” da sola, tanto che il sacerdote sembra passare nell’aldilà.
Concludo la giornata cenando al “Club degli Scrittori”, luogo d’incontro di letterati durante l’era comunista, tra i quali personaggio di spicco fu sicuramente Ivo Andric, premio Nobel nel 1961. Il ristorante è ospitato al pianoterra di un edificio neoclassico tinteggiato di bianco, sede ai piani superiori della Associazione degli Scrittori.
Secondo giorno
La mattina seguente raggiungo la Fortezza, il monumento più significativo di Belgrado. Il complesso sorge alla confluenza della Sava nel Danubio, sopra una collina nella quale già i romani avevano stabilito un forte, quartier generale della IV Legione Flavia; consiste di una Città Superiore, una Inferiore e un parco. Inizio la mia visita proprio dal Parco Kalemegdan, creato nell’Ottocento sul pianoro di fronte alla fortezza, che per secoli era stato mantenuto libero per permettere di avvistare eventuali nemici in arrivo. Lo spazio verde è decisamente piacevole, con panchine ombreggiate, statue e busti, un padiglione e persino uno zoo. La vista si apre subito sulla Sava e gli alti edifici di Neo Beograd, nata nel dopoguerra sull’altra sponda del fiume. La fontana intitolata “La Lotta” rappresenta un uomo muscoloso, seduto su una roccia, mentre stringe un serpente per la gola; una rete da pesca è poggiata sulle sue cosce. Subito dopo si erge il Monumento alla Francia: la figura scura sopra un alto podio bianco ha solo il busto avvolto da un mantello, che si protende all’indietro come spinto dal vento. Il suo carattere possente rende difficile intuire che si tratta di una donna. L’opera del celebre scultore croato Ivan Mestrovic fu collocata nel 1930 a ricordo dei caduti francesi che combatterono a fianco dei serbi nella prima guerra mondiale.
Dietro il monumento già si scorge la fortezza, protetta da possenti mura di mattoni. La porta Strambol Interna, con i suoi grandi blocchi di pietra bianca, fu costruita nel 1740 e presenta due torrette laterali sporgenti in mattoni. Superato il profondo passaggio, mi trovo di fronte a un secondo giro di mura, questa volta in pietra, nelle quali si apre un’altra porta sormontata dalla bianca torre dell’Orologio. Nello spazio sotto le mura sono collocati carri armati, cannoni e altri armamenti.
Prima di addentrarmi nella cittadella, raggiungo il Museo Militare ospitato in una grande edificio costruito nel 1923-24. La lunga esposizione è utile per farsi un’idea della storia serba, una storia fatta di guerre. L’esposizione procede in ordine cronologico. Si inizia con Illiri, Traci e Celti (1000-400 a.C.): bello l’elmetto di bronzo. La romana Singidunum era un avamposto sul confine danubiano dell’impero; da qui passò la spedizione di Traiano alla conquista della Dacia. Seguono il periodo delle invasioni germaniche e il dominio bizantino con i resti di un elmetto d’oro. La mostra prosegue con le vicende dei vari stati feudali sorti nel medioevo nei territori della ex Jugoslavia, un’impostazione espositiva retaggio certamente dell’epoca comunista. È illustrata la storia dello stato croato (VII-XII secolo), della grande Macedonia dello zar Samuilo, del principato di Raska da cui sviluppò il Regno di Serbia, del principato di Zeta corrispondente sommariamente all’attuale Montenegro. Una copia riproduce il codice dello zar Dusan, il più importante sovrano serbo. Una sala è dedicata alla battaglia di Kosovo Polje (1389), che nella “mitologia” serba segnò l’inizio della secolare dominazione turca; insieme a un grande schema della battaglia, sono esposti un elmetto e uno scudo turchi. Nella sezione dedicata all’epoca ottomana, oltre ad alcuni vestiti, si distingue un plastico che riproduce il castello-monastero di Manasija costruito all’inizio del Quattrocento nella valle del Resana: la chiesa è circondata da mura turrite in mezzo alla gola di una montagna, con il fiume di fianco. L’esposizione si fa più difficile da seguire perché le spiegazioni sono solo in cirillico. Alcune cartine illustrano i tentativi turchi di espandersi sempre più a nord: una riporta il percorso di un’incursione in Istria.
Nell’Ottocento iniziarono le rivolte serbe. Le rappresaglie furono spesso crudeli: una riproduzione della Torre dei Teschi a Nis mostra una parete nella quale sono incastonate varie file di teschi umani. Finalmente la Serbia riuscì a raggiungere l’indipendenza; una cartina riporta i confini di Serbia e Montenegro dopo il congresso di Berlino del 1878, separati dal sangiaccato di Novi Pazar ancora sotto il controllo nominale dell’impero ottomano ma nel quale gli austriaci ottennero il diritto di installare guarnigioni militari. Oggi il sangiaccato è diviso tra Serbia, Montenegro e Kosovo.
Dopo le guerre dei Balcani si passa alla prima guerra mondiale, con le foto dell’attentatore alla vita dell’arciduca austriaco, di un’impiccagione e di uno zeppelin tedesco. Belgrado fu posta sotto assedio, mentre Zemun oltre la Sava era già austriaca: il fiume segnava, infatti, il confine con l’impero asburgico. L’avanzata di austro-ungarici, tedeschi e bulgari costrinse l’esercito serbo in rotta a una tragica ritirata attraverso l’Albania: una foto ritrae una colonna di soldati nella neve, un’altra impressionante, scattata nell’ospedale di Corfù, un soldato serbo ridotto a 27 chili di peso. Dei 563.181 soldati dell’esercito serbo nel 1915, solo 170.000 riuscirono a passare in Albania. Malati e civili furono trasportati a Corfù. Con l’aiuto dei francesi le truppe furono riorganizzate e trasferite sul fronte di Salonicco. La Serbia rimase per tre anni sotto l’occupazione germanica, finché il fronte fu rotto nel settembre del 1918; una cartina riporta gli schieramenti contrapposti, con i contingenti serbi, francesi, inglesi, greci e italiani da un lato, e tedeschi, austro-ungarici e bulgari dall’altro.
Salendo al primo piano, lungo le scale un’interessante cartina illustra l’evoluzione dello stato serbo: dal Pashaluk di Belgrado (1804-1833), fino al regno dei Serbi, Croati e Sloveni (1918), passando per il principato di Serbia (1833-1878), il regno di Serbia (1878-1912) e il regno di Serbia allargato con il Kosovo e la Macedonia dopo le guerre dei Balcani (1912-1918). Nel primo dopoguerra, il 9 ottobre 1934 il re Alessandro I fu assassinato a Marsiglia. Una foto lo ritrae subito prima insieme al ministro francese Louis Barthou, anche lui vittima dell’attentato. La bara fu riportata in patria; tra le foto del funerale mi colpisce quella che ritrae la gente assiepata lungo i binari. Durante la seconda guerra mondiale Belgrado fu bombardata dai nazisti, il 6 aprile 1941; una foto ritrae i palazzi distrutti, un’altra, un’impiccagione a piazza Terazije. La resistenza fu portata avanti dai cetnici e dai partigiani. Una sala è dedicata a Tito, con una grande statua del leader comunista. Grandi foto raccontano la liberazione di Zagabria, Skopje, Lubiana, Titograd, Belgrado, Pristina, Sarajevo e Novi Sad. Una placca in bronzo copre un’intera parete con i nomi degli eroi jugoslavi.
Infine, un’ultima saletta racconta la storia recente, i bombardamenti della NATO: il 7 maggio 1999 sedici civili furono uccisi a Novi Sad. Sono esposte divise americane e dell’UCK.
Ripresa la visita della Fortezza, attraverso la Porta della Torre dell’Orologio e finalmente sono nella Città Superiore, che oggi si presenta come uno spazio verde affacciato dall’alto di possenti bastioni sui fiumi Danubio e Sava. Il panorama è l’elemento più affascinante; oltre la sponda settentrionale, priva di costruzioni, si estende la piatta distesa della Pannonia. L’isola della Grande Guerra, nel Danubio dopo la confluenza della Sava, è ricoperta di boschi; per la sua posizione ha sempre avuto un ruolo strategico nelle battaglie combattute a Belgrado, tanto che durante la Prima Guerra Mondiale gli austriaci la usarono come base per lanciare i loro attacchi. Sotto la collina fino al Danubio, un tempo si estendeva la Città Bassa, cuore della Belgrado medievale, ma oggi sopravvivono solo pochi resti sparsi tra prati verdi. Dall’alto individuo la circolare Torre Nebojsa, che resistette a lungo proteggendo il porto, prima di capitolare all’assedio turco del 1521. In mezzo alla Città Alta si trova la turbe di Damad-Ali Pasha, visir ottomano vissuto nel Settecento. Una pietra bianca reca un’iscrizione nei due alfabeti cirillico e latino nella quale riconosco solo la data del 22 luglio 1456. Ancora una volta, tornato a casa scoprirò il significato di questa data. Nel 1403 Belgrado era diventata la capitale della Serbia, dopo la perdita dei domini meridionali. La caduta di Costantinopoli nel 1453 aveva messo fine al millenario impero bizantino e il sultano Mehmed II stava preparando le sue forze per conquistare il Regno d’Ungheria. Il primo obiettivo era catturare il forte di Belgrado, città allora proprio sul confine. La fortezza era stata costruita secondo le più moderne tecniche militari del tempo e resistette all’assedio, fino all’arrivo del nobile ungherese Hunyadi. L’episodio decisivo avvenne il 22 luglio 1456, quando gli assediati compirono un’improvvisa sortita che si trasformò in una battaglia campale con il trionfo dei cristiani, costringendo il sultano a togliere l’assedio e ritirarsi. Si dice che l’assedio di Belgrado decise la sorte della cristianità, etichetta per la verità un po’ abusata e assegnata a varie sconfitte turche. Belgrado sarebbe stata poi conquistata dai turchi solo nel 1521 per opera di Solimano il Magnifico, che deportò l’intera popolazione cristiana a Istanbul.
Dopo la prima guerra mondiale, sul lato della Fortezza affacciato sulla Sava, verso i territori austriaci appena liberati, fu collocato il Messaggero della Vittoria. La statua, opera di Ivan Mestrovic, doveva essere posizionata in centro ma la nudità maschile fu considerata troppo scabrosa! L’aspetto fiero del guerriero richiama la scultura arcaica greca; la figura, collocata sopra un’alta colonna ionica, regge in una mano un falcone e nell’altra uno spadone, simboli della libertà e della difesa della pace. Il falcone grigio è un elemento ricorrente nella mitologia serba. Nel poema epico dedicato alla Battaglia del Kosovo, prima dello scontro decisivo, appare al principe Lazar proprio un falcone grigio con un vangelo nel becco. Il libro propone a Lazar una scelta: un regno terreno, cioè la vittoria sui turchi, oppure un regno celeste, cioè costruire una chiesa con un pavimento di seta e porpora per poi morire in battaglia insieme a tutti i suoi guerrieri. Il principe sceglie di guadagnarsi il regno celeste, condannando però il suo popolo a cinquecento anni di dominio turco. Questo poema si è tramandato in forma frammentaria per secoli, e fu inserito nell’Ottocento da Vuk Karadzic in una raccolta di poemi popolari serbi.
Dal piazzale del monumento la vista spazia ampia sulla confluenza dei due fiumi, su Neo Beograd e in lontananza sul gigantesco pilone del ponte Ada. Poco oltre si raggiunge la Porta del Re, formata da possenti bastioni che degradano fino alla Sava. Ricordi delle strutture più antiche sono echeggiati, almeno nel nome, dal Pozzo Romano, in realtà un struttura settecentesca opera degli austriaci, che non posso visitare perché chiusa.
All’angolo opposto della Città Alta, la Porta del Despota è la struttura medievale meglio conservata, fiancheggiata dalla Torre Didzar. A quei tempi questo lato costituiva l’ingresso principale alla cittadella. Subito dopo, la Porta Zindam o della Prigione risale alla stessa epoca ed è protetta da due tozzi torrioni circolari merlati, formando un bello scorcio. La Porta Leopold invece è molto successiva ed è dedicata all’imperatore austriaco; infine la Torre Jaksic è stata ricostruita nel 1938, dopo essere stata distrutta dagli austriaci. Più in basso si trovano due chiese. La Ruzica, dedicata alla Rosa di Nostra Signora, è un unico ambiente con volta a botte, grandi affreschi della vita di Gesù, stile Novecento (riconosco la Trasfigurazione, più in basso patriarchi con modellini chiese). St. Petka esternamente ha forme ortodosse, mentre l’interno stretto e lungo è coperto di mosaici, ed è venerata per l’acqua miracolosa di una sorgente. Da qui si proseguirebbe scendendo verso la città bassa, ma io preferisco costeggiare i bastioni e tornare verso il Parco Kalemegdan.
Terminata la visita della fortezza, raggiungo subito il piccolo Museo Pedagogico. Ospitato nella ex residenza di un sindaco, è stato fondato nel 1896 dall’associazione degli insegnanti di Serbia ed è dedicato alla storia dell’insegnamento scolastico. L’esposizione si sofferma subito sull’alfabeto glagolitico, antenato dello slavo, seguito dal Vecchio Alfabeto o Slavo Ecclesiastico. Il vangelo Miroslav (XII secolo) è una copia del manoscritto miniato conservato al museo nazionale, uno dei testi più antichi in slavo, mentre il vangelo Asemanov (X secolo) è addirittura in glagolitico. La storia dell’insegnamento “moderno” iniziò nel Settecento, quando, con il passaggio sotto l’Austria della Voivodina e la migrazione di molti serbi in questa regione, furono create le prime scuole in lingua serba; la Sava a quei tempi segnava il confine con l’impero ottomano. Si passa poi all’Ottocento con la ricostruzione di una classe e un modello dell’edificio che oggi ospita il museo Vuk che funzionò come scuola dal 1808 al 1813. Al Novecento risalgono varie foto di scolaresche, tra le quali una del 1938 ritrae una classe di bambine vestite da api. Queste immagini mi ricordano sempre la limitatezza dell’esistenza umana: tutte quelle bimbe innocenti che fine avranno fatto oggi?
Tornando verso Piazza delle Repubblica raggiungo il Museo Nazionale, chiuso da anni. Da un ingresso laterale si accede a una scalinata, altra opera di Mestrovic, a fianco della quale coppie di figure femminili, a seno nudo e collocate tra colonne, fungono da cariatidi. L’ambiente buio è ulteriormente incupito dal nero della scalinata. Dalla hall si accede a una grande sala utilizzata per concerti, l’unica visitabile nel museo; vi sono stati sistemati alcuni quadri e una stele del III secolo dedicata a Aurelio Acutio, soldato della terza coorte aureliana.
Il pomeriggio raggiungo Zemun (in tedesco Semlin), un tempo estremo lembo dell’impero austro-ungarico con il titolo di città libera, oggi un sobborgo della Grande Belgrado. L’autobus, dal mercato varcata la Sava, attraversa Neo Beograd portandomi a destinazione in breve tempo. Glavna, il corso cittadino è completamente congestionato dal traffico. Su una strada laterale raggiungo la grande chiesa della Santa Madre di Dio. L’esterno ricorda le architetture austriache, mentre l’interno è un ambiente unico coperto da volta a botte con iconostasi e sedili addossati alle pareti. Passando sull’altro lato di Glavna, verso il Danubio, la chiesa ortodossa di San Nicola, proprio sotto la collina di Gardos, appare messa abbastanza male, ma reca all’interno un’affascinante iconostasi di legno scuro, con porte formate da rami e tralci di vite intrecciati ed icone molto belle. Sulla volta a botte molti affreschi sono scomparsi. Percorrendo stradine sulle quali affacciano belle casette, raggiungo in cima alla collina la Torre del Millenario, costruita dagli ungheresi nel 1896 per celebrare i mille anni del loro stato. Più che una torre sembra un alto edificio in stile eclettico, con torrette di mattoni, basamento di pietra, una loggia con colonne ioniche di pietra. Dalla cima il Danubio appare immenso, neppure un ponte a scavalcarlo; una chiatta avanza lentissima, l’altra riva oltre la striscia di alberi svela la sterminata pianura pannonica. Sotto di me le case di Zemun hanno tetti spioventi di tegole; in mezzo spuntano i campanili delle chiese, quasi un angolo di Austria. Più lontano si ergono i palazzi di Neo Beograd, la grande macchia verde dell’isola della Grande Guerra e ancora oltre la collina della fortezza di Belgrado. Cento anni fa un austriaco poteva salire sulla torre, nell’estremo lembo del suo impero, e scorgere lontano lo stato serbo, nato dalla disgregazione dell’impero ottomano. Con il binocolo non avrebbe potuto vedere, come faccio io, il monumento alla Vittoria. Mi torna in mente il panorama che si ammira dalla fortezza di Prizren in Kosovo, una visione turca opposta a questa austriaca.
Ridisceso nella cittadina, raggiungo la piazza centrale, dove sono in corso le pulizie dopo una giornata di mercato. L’attuale cappella cattolica di San Rocco fu costruita nell’Ottocento; il campanile richiama ancora il barocco austriaco. Probabilmente la chiesa sorge sul sito di una moschea del XVI secolo, mentre nella piazza antistante c’era un cimitero islamico. Durante il dominio turco non esistevano chiese cattoliche a Zemun; i primi cittadini cattolici arrivarono nel Settecento dopo la conquista austriaca.
Tornando sulla trafficata Glavna, raggiungo il quartier generale dell’Air Force, un edificio modernista bombardato dalla NATO nel 1999 e rimasto da allora in uno stato di semi abbandono. Una targa ricorda le vittime delle bombe. Il parco Gradski una volta era l’area di quarantena per chi proveniva dall’impero ottomano. Le cappelle dedicate a San Rocco e all’Arcangelo Michele, una vicina all’altra, accostano la fede cattolico romana e ortodossa.
Tornato lungo il Danubio, mi siedo su una panchina. Un papà e un bambino guardano il fiume tenendosi per mano. Mi torna sempre lo stesso pensiero: se siamo tutti uguali, perché ci facciamo la guerra? Penso al mondo di cento anni fa, agli eserciti della prima guerra mondiale schierati lungo le rive, ai tragici momenti vissuti da Belgrado nel Novecento. Tuttavia la storia sembra avere lasciato poche tracce negli edifici in città: dei secoli turchi è sopravissuta solo una moschea e qualche mausoleo, tutte le chiese non sono poi così antiche. Solo la Sava e il Danubio sono sempre lì a ricordare che i tempi della natura sono molto più dilatati rispetto a quelli delle vicende umane. Spunta il sole, un gruppo di canoisti fila veloce, un pescatore è al lavoro su una barchetta, ma la musica a tutto volume rovina la visione idilliaca, rimbombando nei timpani delle mie orecchie.
La sera non mi faccio mancare una cena a base di pesce in uno degli apprezzati ristoranti di Zemun. Fa troppo fresco per una romantica cena lungofiume e quindi mi rifugio insieme a tutti gli altri avventori nell’affollato “Saran”, ordinando una carpa.
La mattina dopo raggiungo il mercato Zeleni Venac, a due passi dall’albergo. La curiosa architettura, con torrette dipinte come la bandiera croata a quadretti bianchi e rossi, in passato ha suscitato qualche polemica. Nonostante la giornata grigia i banchi sono già affollati e molte nonnette con il fazzoletto sulla testa cercano di vendere le loro verdure.
Una scalinata mi porta all’Hotel Mosca; l’edificio Art Noveau risale al 1906 ed è senz’altro uno dei più piacevoli nel panorama cittadino. La mia passeggiata prosegue lungo Terazije, la strada principale della città moderna, fino al parco dei Pionieri. Affacciati sul viale si fronteggiano i palazzi delle due dinastie rivali che hanno segnato la storia della Serbia e della Jugoslavia fino all’avvento del comunismo. Il Palazzo Vecchio oggi ospita il municipio cittadino e fu costruito nell’Ottocento in stile rinascimentale italiano, come palazzo reale degli Obrenovic. Il Palazzo Nuovo, completato il secolo successivo, funge da gabinetto del presidente ma in passato fu la residenza ufficiale della famiglia reale Karadiordjevic, fino all’assassinio di Alessandro nel 1934. La sua attuale destinazione è confermata dal cambio della guardia da parte di soldati in uniforme di gala. Sul lato opposto del parco, in un angolo, si trova la ricostruzione di un posto di osservazione dell’esercito serbo durante la prima guerra mondiale, proveniente dal fronte di Salonicco. Alcune targhe propongono volti di militari con baffi e berretto. Affacciato sul viale, il Parlamento è un grande edificio neoclassico sormontato da una cupola e preceduto da due statue nelle quali un uomo cerca di calmare un cavallo imbizzarrito. Retrocedendo verso il centro, raggiungo Piazza Nikola Pasic, sotto il comunismo intitolata a Marx e Engels. Al centro si trova la statua del primo ministro filo-russo e anti-austriaco Nikola Pasic (1848-1926); sotto alcune bancarelle di fiori formano una macchia colorata nel grigiore della giornata e dell’architettura dei palazzi. Una fontana lancia alti spruzzi.
Quest’anno ricorrono settanta anni dalla morte di Nikola Tesla. Il grande fisico serbo trascorse quasi tutta la sua vita negli Stati Uniti, ma in patria è considerato una sorta di eroe nazionale. Nel 1951 le sue ceneri furono trasferite per nave a Belgrado, insieme agli effetti personali e archivi, e qualche anno dopo fu inaugurato il museo a lui dedicato. L’esposizione è molto piccola, anche perché un cordoncino blocca la possibilità di salire ai piani superiori. La prima parte è dedicata ai ricordi della sua vita: l’elogio funebre pronunciato alla radio dal sindaco di New York La Guardia, le foto del funerale e il ritorno in patria delle ceneri, conservate nel museo dentro una sfera di acciaio. Si passa poi al racconto delle scoperte. A Budapest nel 1882, Tesla iniziò a concepire l’idea del motore a induzione, sviluppando diversi dispositivi capaci di utilizzare il campo magnetico rotante. Trasferitosi in America, all’Esposizione Universale di Chicago del 1892 installò dodici generatori a due fasi che generavano mille cavalli ciascuno. La storia gli ha dato ragione: nella cosiddetta “guerra delle correnti” con Edison, la sua corrente alternata ha avuto la meglio sulla continua. Uno dei macchinari più famosi è l’uovo di Colombo, un motore a induzione con rotore a forma di uovo. Le ricerche di Tesla non si limitarono comunque al magnetismo, ma spaziarono nei più svariati campi: dai raggi X alle onde radio, dai raggi cosmici alla costruzione di aeroplani a decollo e atterraggio verticale. Nel 1900 fece costruire a Long Island una torre per le comunicazioni radio, riprodotta in un modellino esposto al museo, ma la mancanza di finanziamenti frenò ulteriori studi sulla trasmissione senza fili dell’energia. Nel 1943 la corte suprema americana sentenziò che Tesla doveva essere considerato l’inventore della radio, piuttosto che Marconi. Un film racconta la storia delle scoperte e degli innumerevoli brevetti del fisico serbo. I suoi grandi meriti nel campo del magnetismo sono stati riconosciuti dall’adozione del Tesla come unità di misura dell’induzione magnetica da parte del Sistema Internazionale di misura; la formula T=Wb/m2, insieme alla sua immagine che ricorda Frank Zappa, compare nella banconota da cento dinari serba. Tuttavia a causa della personalità eccentrica e di certe bizzarre affermazioni, negli ultimi anni di vita Tesla fu considerato una sorta di “scienziato pazzo” e non ottenne mai il premio Nobel.
In filobus raggiungo il museo della Storia della Yugoslavia, immerso in un bel parco. Il motivo principale di interesse è la tomba di Tito. Il grande edificio che si scorge già dal viale oggi è utilizzato per mostre temporanee. Una comitiva di ragazzi si diverte a farsi immortalare davanti alla fontana con il palazzo sullo sfondo. Entrato nel parco vero e proprio e superata una statua di Tito in divisa militare, raggiungo la Casa dei Fiori, strano nome per il mausoleo del padre della Jugoslavia comunista. Il semplice edificio accoglie nella corte centrale il candido sarcofago, un liscio parallelepipedo che reca solo le lettere dorate con la scritta “Josip Broz Tito 1892-1980”. Nella stanza sulla sinistra è esposto un campionario delle staffette, che ogni anno, per celebrare il compleanno di Tito, erano portate attraverso tutta la Jugoslavia fino allo stadio dell’Esercito Nazionale Jugoslavo. Sono di svariati tipi e materiali: classiche e futuristiche, di legno e di metallo. Sull’altra lato della corte una grande foto ricorda il Movimento dei Paesi Non Allineati, promosso da Tito in un’epoca in cui la Jugoslavia godeva di grande prestigio internazionale. Si tratta del solo riferimento politico, probabilmente perché il meno controverso. A tutto ciò ha contribuito il crollo del comunismo, ma anche il desiderio di Tito stesso di evitare una culto della personalità. La mancanza di qualsiasi corona e persino di una bandiera non passa inosservata.
Il terzo edificio ospita un’esposizione di alcuni tra i moltissimi regali ricevuti dallo statista durante la sua vita. Si tratta di oggetti provenienti sia dalle varie regioni della Jugoslavia, sia dai paesi amici sparsi per il mondo. Molti sono semplici segni di affetto da parte di persone comuni, come le tovaglie con scritte di augurio e stelle rosse. Sono esposti molti costumi tradizionali da tutta la Jugoslavia, tra i quali spiccano quelli del Montenegro, insieme a vari calzari di lana, scarpe e cappelli. Una pelliccia di lana di pecora proviene dalla Bosnia. Non mancano strumenti musicali, cassapanche decorate e spade. Passando alla sezione internazionale, da Mandalay in Birmania provengono un gong, formato da un disco appeso tra due zanne, e uno xilofono; dall’Etiopia un lunghissimo corno, scudi di pelle di rinoceronte, antilope e elefante. Lance e altre armi tradizionali provengono sempre dall’Africa, come gli ornamenti con piume di un guerriero etiope. Passando al Sudamerica, l’amicizia con il movimento rivoluzionario boliviano è testimoniata dal magnifico costume di carnevale (da Oruro sul lago Titicaca): la maschera ha due grandi occhi a bulbo, denti da drago e corna a tortiglione, la veste rossa è tutta decorata. Infine tra le marionette indonesiane riconosco un Krisna dal volto verde.
Tornato in centro scendo a San Marco, una copia ingigantita del monastero di Gracanica in Kosovo, completata nel 1936. L’interno, completamente spoglio, è impressionante per le dimensioni delle quattro colonne con enormi capitelli che sorreggono la cupola. Sulla destra si trova il sarcofago contenente le spoglie di Stefano Dusan, il più grande re della Serbia medievale, traslate dal monastero del Santo Arcangelo a Prizren in Kosovo. Nella chiesa è in corso un matrimonio: gli sposi portano una corona sopra la testa, mentre le invitate indossano scarpe dai tacchi vertiginosi. Tutti seguono la cerimonia in piedi.
Oltre la chiesa sorge il parco Tasmajdan, con la cappella russa e subito dietro il palazzo della televisione di stato. Un’ala, nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1999, fu colpita da un missile della NATO che uccise sedici lavoratori. L’assurdità della loro morte è accresciuta dal fatto che nonostante fosse chiaro che l’edificio poteva essere bombardato, le autorità minacciarono di portare davanti alla corte marziale chi si fosse allontanato durante i raid aerei. Una targa con la scritta “Zasto (perché)?” ricorda il tragico avvenimento.
Una passeggiata mi porta fino al mercato Kalenic, il più autentico nel centro cittadino. Attraversato un quartiere di scalcagnati condomini, raggiungo la cattedrale di San Sava. L’idea di costruire una chiesa, sul luogo dove il gran visir Sinan Pasha aveva fatto bruciare le spoglie del santo, risale al 1894, trecentesimo anniversario dell’evento, ma la costruzione iniziò solo nel 1935 e appena da qualche anno è stato completato l’esterno. La massa bianca coperta da cupole verdi, culmina nell’immensa cupola centrale, elemento caratteristico del paesaggio cittadino; è stata completata nel 1989, appena due giorni prima del celebre discorso pronunciato da Milosevic a Kosovo Polje nel seicentesimo anniversario della battaglia, il giorno di San Vito. L’architettura neobizantina si ispira a Santa Sofia di Istanbul, con la cupola centrale, le quattro semicupole sui lati, i piccoli campanili che rompono la massa bianca con le loro coperture verdi.
Nella chiesetta a fianco della cattedrale, è appena terminato un matrimonio e la sposa lancia il bouquet. Ne approfitto per gettare un’occhiata all’interno, tutto affrescato con un bel lampadario dorato di stile bizantino nel mezzo. L’interno di San Sava invece è ancora tutto un cantiere: manca il pavimento, le colonne sono coperte da teli di plastica, i ponteggi salgono in alto lungo le pareti. Lo spazio è immenso e la cupola poggia a un’altezza incredibile. Le pareti mostrano ancora il cemento nudo privo di affreschi. La chiesa è comunque aperta al culto; per questo qua e là sono state sistemate delle icone. Qualcuno ha voluto comunque sposarsi nella cattedrale e nella “navata” sinistra è in corso la cerimonia.
Sulla grande piazza di fronte alla chiesa si affaccia la Libreria Nazionale, costruita nel 1970 per rimpiazzare quella nel centro storico, distrutta nel 1941 dai bombardamenti nazisti. In fondo alla piazza, sopra una tumulo si erge il monumento a Karadorde, Giorgio il Nero, protagonista della Prima Rivolta Serba contro i turchi all’inizio dell’Ottocento. Fallita la rivolta, Karadorde, ritratto mentre impugna un grande spadone ricurvo, riparò in Austria. Allo scoppio della Seconda Rivolta, guidata da Milos Obrenovic, con la quale la Serbia guadagnò una parziale indipendenza, Karadorde rientrò in Serbia ma fu catturato da un uomo di Obrenovic e consegnato alle autorità turche; il pascià di Belgrado lo condannò a morte e fu decapitato. Da allora sorse una lunga disputa per il trono serbo, tra la sua discendenza e la famiglia Obrenovic, che si concluse solo all’inizio del 1903 quando il movimento segreto chiamato la Mano Nera uccise Alessandro I Obrenovic, segnando l’ascesa “definitiva” dei Karadordjevic. Si trattò della fine cruenta di un secolo di lotte: i corpi del re e della regina furono mutilati e i resti gettati a pezzi dalle finestre del palazzo reale.
Da San Sava raggiungo Trg Slavija, importante nodo del traffico cittadino ma decisamente squallida. Tornando verso il centro, all’incrocio tra Nemanjina e Kneza Milosa le due torri del Ministero della Difesa giacciono ancora nello stato in cui furono ridotte dai bombardamenti della NATO. La loro visione è impressionante. Kralja Milana, prosecuzione dell’asse Terazije-Knez Mihailova, mi riporta a Trg Slavija dove prendo un tram fino allo zoo sotto la fortezza.
Una delle esperienze più belle di un soggiorno a Belgrado è sicuramente la crociera sui fiumi. L’imbarco è di fronte al grande complesso sportivo affacciato sul Danubio, oltre la collina della fortezza. Appena salpati già si scorge, in lontananza dietro l’isola della Grande Guerra, la Torre del Millenario che sovrasta Zemun, mentre la fortezza di Belgrado si delinea in tutta la sua imponenza sopra la collina. Il tardo pomeriggio e il cielo coperto attenuano i colori; il sole cerca di fare capolino tra le nuvole, un uccello nero vola basso sopra il marrone melmoso del Danubio. Costeggiamo la riva settentrionale dell’isola della Grande Guerra, che appare disabitata, un’oasi naturalistica ricoperta di alberi; sulla punta verso Zemun un piccolo lido sabbioso con qualche barca ormeggiata. Lungo la sponda sud del Danubio si erge un gruppo di alti palazzi e più lontana sopra una collina si staglia la Torre del Millenario. Sembra di essere in un lago più che su un fiume. Tornando indietro, costeggiamo i palazzi di Neo Beograd e passiamo davanti al Gran Casinò. Molti ristoranti hanno sistemato i tavoli su chiatte ormeggiate. L’avvicinamento al centro storico è spettacolare, con il sole alle spalle che illumina attraverso le nuvole la fortezza e la statua della Vittoria. Il cielo si è aperto con squarci di celeste e nuvole dorate. Passiamo nella Sava; l’acqua diventa verde, questa volta sembra veramente di navigare su un fiume. Lungo le rive sono ancorate navi dall’aspetto di ferrivecchi. Proseguiamo passando sotto una successione di ponti, fino al nuovissimo Ponte Ada: inaugurato allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2011, è arditamente costruito con un solo pilone, poggiato su un’isola, che regge i tiranti. Si tratta del più lungo ponte sospeso di questo tipo esistente al mondo. Costeggiamo un’isola lunghissima, una successione ininterrotta di ristoranti e casette galleggianti: ce ne è per tutti i gusti, da minuscoli monolocali a case di due piani con tetti spioventi. Il disco del sole proprio di fronte a noi cerca di spuntare dalle nuvole. Il piacevole sottofondo musicale della crociera alterna musica popolare serba a valzer viennesi, finché arriva il turno di Goran Bregovic con i suoi ritmi scatenati. Viriamo intorno alla punta dell’isola per tornare indietro. Lungo la sponda di Neo Beograd i ristoranti galleggianti non si contano. Ormai si è fatto buio e le luci dei ponti si scompongono nell’acqua in un effetto impressionista.
Terminata la crociera raggiungo con un autobus Skadarska, in quello che un tempo era il quartiere bohemien di Belgrado. Lungo la strada acciottolata si allineano molti locali storici; per cena scelgo “Dva Jelena” (“I Due Cervi”) dove sono l’unico coraggioso a cenare nella terrazza all’aperto nonostante la giornata di pioggia.
La domenica mattina nella cattedrale ortodossa è in corso la messa: gli uomini a destra e le donne a sinistra seguono la funzione in piedi; le voci femminili del coro invisibile sembrano provenire dall’aldilà. I due officianti indossano vesti bianche coperte di croci, come i vescovi degli affreschi bizantini. Improvvisamente si apre la porta centrale dell’iconostasi; i due sacerdoti pregano cantando con le spalle rivolte ai fedeli. La porta si richiude di nuovo e poco dopo i sacerdoti sbucano da quella di sinistra portando i calici con le ostie. I fedeli si profondono in inchini toccando il pavimento con le mani.
All’ufficio turistico ho prenotato una visita al Royal Compound. L’appuntamento con il pullman è vicino al Parlamento; nel gruppo, formato da una cinquantina di persone, sono l’unico straniero. Il complesso, situato sulla collina di Dedinje, fu realizzato come residenza per la famiglia reale tra le due guerre mondiali. Il figlio dell’ultimo re, che se fosse sul trono avrebbe il titolo di Alessandro II, è tornato in Serbia nel 2001 dopo quasi sessant’anni di esilio e gli sono state persino restituite le proprietà. Oggi risiede proprio al Royal Compound che ha deciso di aprire al pubblico, come non era mai accaduto in passato. Dopo la fine della monarchia, infatti, il complesso era stato utilizzato da Tito e in tempi più recenti da Milosevic.
Il pullman ci lascia nel piazzale davanti alla gendarmeria. Tutti gli edifici del complesso risalgono al periodo tra le guerre mondiali; durante il comunismo, Tito fece solo aggiungere un centro ricreativo. Proseguiamo a piedi attraverso un bel bosco, fino al Palazzo Bianco in stile palladiano. Appena entrati, nella hall ci accoglie, sopra un camino neoclassico, un grande quadro di Alessandro I in uniforme, il nonno del “re attuale”. Fu proprio lui a ordinare la costruzione dell’edificio, ma venne assassinato a Marsiglia l’anno dell’inizio dei lavori, che proseguirono sotto la supervisione di Paolo, cugino di Alessandro e reggente del regno dopo la sua morte, vista l’età minore di Pietro II. L’ambiente appare abbastanza semplice; una scala porta fino alla balconata del piano superiore, interessanti un paravento cinese e un paesaggio di Poussin. La visita prosegue attraverso ambienti dal gusto neoclassico, tra le quali spicca la grande sala da pranzo, con un lucido tavolo ovale nel mezzo, un grandissimo tappeto sul pavimento e un arazzo che ritrae Antonio e Cleopatra. Nella biblioteca molti libri sono in inglese e francese. Il giro si conclude rapidamente perché limitato al piano terra. Affacciandomi da un finestra scorgo la facciata verso il giardino che appare più imponente rispetto a quella dal lato da cui siamo entrati.
Ripresa la passeggiata nel bosco, passiamo davanti alla tatched house, una costruzione gialla coperta da un tetto di paglia, residenza del re prima che fossero completati i palazzi. Il Palazzo Reale in stile bizantino fu terminato nel 1929 sotto Alessandro I, utilizzando la pietra bianca dell’isola di Vrac. Di fronte, oltre un vasto prato e dietro una piscina, si scorge il padiglione del Belvedere. Nella facciata del palazzo spiccano i capitelli bizantini tutti lavorati. Entrando si ha l’impressione di essere in un castello gotico, per le colonne basse e i soffitti lignei. Nella biblioteca il bel soffitto ligneo è formato da un reticolato di travi decorate con pitture di fiori. Un grande globo celeste reca i segni dello zodiaco con scritte in latino e arabo; il busto in bronzo è un autoritratto di Mestrovic. La sala da pranzo è bellissima: divisa in due parti da lucenti colonne corinzie, si apre su un chiostro tutto in pietra bianca con colonne dai capitelli bizantini a pulvino e il tamburo della cappella reale sullo sfondo.
Nella sala centrale al piano terra ci accolgono il “re” e la “regina”. Lui indossa la giacca ma non la cravatta, lei un completino rosa, stile regina Elisabetta. Alessandro è il figlio di Pietro II, ultimo re jugoslavo, fuggito dal paese durante la seconda guerra mondiale all’arrivo dei nazisti. Dopo due lunghi discorsi di benvenuto, che sono l’unico a non comprendere per problemi linguistici, chi lo desidera può farsi immortalare dal fotografo ufficiale insieme ai reali. Ripreso il giro raggiungiamo una sala arredata con quadri di pittori italiani, tra i quali spicca una Sacra Conversazione di Jacopo Palma il Vecchio. Mi soffermo a guardare le foto in bianco nero della famiglia reale; una ritrae Pietro I insieme a sua moglie, la principessa Zorka primogenita del re Nicola I del Montenegro e sorella della regina italiana; in un’altra Alessandro II bambino compare insieme al padre Pietro II e alla madre, la principessa Alessandra di Grecia, figlia del re di quel paese.
Scendiamo al piano di sotto, dove si trovano le sale più suggestive, ognuna con un suo colore di fondo. Sono ispirate ad analoghi ambienti del palazzo Terem nel Cremlino, che Alessandro conosceva grazie ai suoi studi a Mosca e all’amicizia con lo zar. Il primo ambiente ha pareti rosse, un basso soffitto, volte a crociera con decorazioni astratte dorate, pilastri in pietra tutti lavorati e porte arabeggianti con architrave quadrilobato. Nella seconda sala, arancione, non manca un’immagine cinese e una fontana di marmo, riproduzione della fontana della lacrime a Backchisary in Crimea, immortalata da Puskin. L’acqua, oggi assente, dovrebbe cadere da una vaschetta all’altra; la guida mi spiega in inglese che il re la utilizzava per coprire con il suo rumore le conversazioni riservate. Nella pareti tra tralci dorati si distinguono uccelli e una figura con turbante che legge sotto un albero fiorito. Nella sala gialla con biliardo, il soffitto reca scene di battaglia e una città assediata. Si passa poi a una grande sala verde con tribuna, oggi utilizzata per proiezioni, nella quale un angolino appartato è dedicato al gioco degli scacchi con un apposito tavolino; la colonna che isola lo spazio sembra un grande birillo.
Usciti dal palazzo raggiungiamo la cappella reale dedicata a Sant’Andrea, patrono della famiglia Karadiordjevic. Gli affreschi sono copie da monasteri medievali serbi. La pianta quadrata culmina nella cupola dalla quale pende un grande lampadario ottagonale. Nel 1944 un capitano comunista sparò in mezzo alla fronte del Pantocratore e il segno del colpo non è stato mai cancellato a ricordo di quegli anni bui.
Il mio soggiorno a Belgrado volge al termine: il volo di ritorno è previsto per il tardo pomeriggio e così ho ancora il tempo per pranzare comodamente. Decido quindi di tornare alla Skadarska; la strada è deserta per la pioggia, ma i locali sono affollati per il pranzo della domenica. Un cartello segnala le distanza chilometriche dei quartieri bohemien di altre città: Montmartre a Parigi, Plaka ad Atene, Debaar Malo a Skopje e altri ancora. Al “Tri Sesisa” riescono a trovarmi un tavolo libero. Termino il pranzo accerchiato da un gruppo di musicisti che, una volta scoperta la mia nazionalità, mi allietano con canzoni popolari italiane.