Lost in Cambogia
Prima tappa: Siem Rep/Angkor
Siem Rep può sembrare un posto finto, costruito apposta per visitare questo patrimonio dell’umanità. Infatti è così. Ma ciò non toglie che sia una cittadina proprio carina e accogliente. Soprattutto le persone sono particolarmente accoglienti, di una grande semplicità. Ho due ricordi ben impressi nella mente: la signora della guesthouse che ci ospitava e il ragazzo del tuk tuk che ci scarrozzava per i templi.
Lei gestisce questa guesthouse di cui non faccio nome perché non voglio farle una cattiva pubblicità. La camera che ci è toccata in sorte era sporchissima, io non ci ho mai dormito in una stanza così sporca. Ero quasi scioccata, poi ho switchato e ho pensato che forse quello faceva parte del gioco. Pareti giallo citronella, polvere in tutti gli angoli, polvere a quintali, zanzare come se piovesse e un bagno che chiamarlo bagno è troppo.
Me ne vado o resto? Butto questi soldi e pago un albergo migliore? Ecco, quella è stata la prima decisione importante da prendere in viaggio. Ma è il primo viaggio in Asia, anzi, nel sud-est asiatico, che pensavi che fossero le Hawaii? Vabbé dormo, poi sono stanchissima, ma stanchissima stanchissima. E il letto è proprio comodo.
Primo giorno per vedere i templi. Appena usciti dall’albergo (?) frotte di tuk tuk ci assalgono. Dopo un po’ di contrattazione concordiamo con Sean il percorso per i tre giorni e via verso il primo tempio. Sono emozionatissima. Sono felicissima. Il mio viaggio è cominciato. Sean è un ragazzo meraviglioso. Parla poco, conduce il suo tuk tuk portandoci in giro, aspettandoci per le foto e cercando di dirottarci verso i ristoranti e/o negozi dai quali riceverà una provvigione. Noi un po’ lo assecondiamo, un po’ no. Ma non ci sentiamo presi in giro, anzi vogliamo aiutarlo. Ci ha raccontato che il suo sogno è di diventare guida di Angkor, ma non può farlo perché non va a scuola e per acquistare la licenza dovrebbe pagare 3000 dollari (e cioè circa 2250 euro). Questa cosa mi stringe il cuore, perché penso che questi soldi che per lui sono la realizzazione da noi qualcuno li spreca per comprare degli abiti o prodotti tecnologici. Quasi piangerei. Pure perché lui, che guida il tuk tuk tutti i giorni guidando per kilometri e kilometri nella polvere, cerca di vestirsi bene e si pulisce continuamente dalla polvere che gli copre il viso e le braccia solo un poco scoperte. Sean ride quando io parlo male inglese, veramente rido anche io, ma lui ride perché non mi vuole mettere in difficoltà, mi vuole “salvare la faccia” come fanno i cambogiani.
Siem Rep è stato anche il nostro primo, e fallimentare, impatto con la cucina khmer, il cui ingrediente immancabile è la citronella, o lemongrass che è più raffinato a dirsi, tuttavia si tratta sempre del repellente per le zanzare che noi usiamo in quei cocci con la cera gialla che d’estate tengono lontane le zanzare dalle terrazze. Non posso dire che sia disgustosa, ma un poco fastidiosa sì. E poi loro nelle zuppe, che sono pure cucinate bene, ci mettono veramente di tutto. Un po’ di tempo fa ho letto che un nuovo cuoco-genio si è inventato la cucina con le piante che crescono nel Central Park di New York. Ora io non le ho assaggiate, ma non mi venite a dire che sono buone perché non vi credo, perché a NY sarà sicuramente moda, qua in Cambogia è solo per necessità, sono talmente poveri che rendono commestibile qualsiasi cosa abbia un nutrimento. Insetti e scarafaggi compresi. Quelli non li ho assaggiati, ho invece assaggiato la carne di coccodrillo che – come dice Obelix ad Asterix nelle dodici fatiche – è buona ma è un po’ stoppacciosa!
Insomma, la cucina khmer è impegnativa assai. Dopo tre sere si alza bandiera bianca e si cominciano a sognare le pizze, i cannelloni, la pastina in brodo, cioè qualcosa che sia veramente commestibile. E comunque io ci ho provato, carne di coccodrillo a parte, mi sono cimentata con l’amok (una zuppa di pesce con contenuto misterioso), la banana flower salad (che è proprio bella bella ma della banana usa solo la buccia) e altre cose impronunciabili e difficilmente appetibili.
Quando lasciamo la stanza a Siem Rep abbiamo una discussione con la proprietaria. Ma discussione non è la parola giusta. I cambogiani, ma anche i thailandesi, non litigano mai, sono persone estremamente pacifiche. Alla fine, e non so nemmeno se avesse torto lei o noi, abbiamo trovato una soluzione e lei ci ha chiesto scusa e ci ha agevolato in tutti i modi per sopperire alla sua “mancanza”. Lei e Sean sono parte di un mosaico, insieme a tutti i volti che ho incrociato in quei giorni. Ai volti dei bambini che ti vendono le cartoline fuori ai templi. Che ti seguono e cantano “ten for one dollar” fino all’infinito, perché sanno fare solo quello, perché non hanno molto. Te li ritrovi poi sui margini della strada, dove i marciapiedi non esistono, a giocare a calcio con una bottiglina d’acqua vuota, che qualche turista ha lasciato vicino al cassonetto. Eppure sorridono, tutti. Non ho visto nessun bambino piangere in Cambogia. Lasciare Siem Rep è stata dura. Quando abbiamo preso l’autobus per Battambang ho pianto un pianto lungo e silenzioso. Ancora non so dire se fosse un pianto di gioia o di dolore. Mi ricordo solo che mi scoppiava l’anima, e che cercavo di ricostruirla alla luce di questa nuova consapevolezza: esiste un’altra possibilità che è non avere tutto per forza. Che detta così sembra proprio una cosa retorica, ma al momento c’era da starci abbastanza male. L’autobus per Battambang è storia a parte. Quattro ore per percorrere poco meno di 200 km. Quattro ore in un autobus diroccato, con un televisore piazzato sulla testa del conducente che trasmette canzoni e videoclip in khmer stretto a ripetizione, e il povero conducente che guida in una strada senza confini, con un senso di marcia un po’ confuso e una moltitudine di personaggi che gli oltrepassano la vista tra cui: bambini appiedati, ragazze in bicicletta, animali di ogni fatta, tuktukkari che trascinano di tutto (mi ricordo in particolare un motorino che rimorchiava dieci materassi doppia piazza e uno che portava un maiale morto). Lui che fa? Calmo e placido, suona il clacson, ogni minuto. Ma non perché si arrabbia, lo fa solo per avvertire che sta per passare anche lui, così che nessuno si faccia male. Naturalmente dopo quattro ore di viaggio le orecchie sono belle che andate. Se ci aggiungi che c’erano quaranta gradi all’ombra e neppure un alito di aria condizionata capisci che raggiungere Battambang non sarà proprio un giochino. Ma anche questa volta ne vale la pena. Battambang, il cui nome sembra uno scherzo, è la cittadina di provincia conosciuta per il bamboo train. Ma è anche la città dove è ancora possibile vedere tutto il passato coloniale di questo paese, con i suoi palazzi in stile e il lungofiume dall’aspetto un po’ decadente. Ma di Battambang mi ricordo soprattutto un bambino dallo sguardo timido e pieno di speranza che mi ha inviato un bacio con la mano, pur non sapendo nemmeno cosa significasse. Non mi ricordo come si chiamava, ma mi ricordo il suo volto impiastricciato dalla terra e cotto dal sole, uscito da una casa improbabile in una strada di polvere (tanta) e asfalto (poco), a rincorrerci per giocare. Chiunque tu sia il tuo sguardo è rimasto nel mio cuore e imprigionato in una lacrima.
E poi c’è la regina: Phnom Pehn. Ecco di questa capitale c’è molto da dire. Avevo letto, e mi avevano detto che non era troppo bella, che era caotica, polverosa, rumorosa. E, infatti, è così. Ma PP è bellissima. Dal lungofiume che costeggia tutta la strada e che incrocia due fiumi, il Tonlé Sap e il Mekong, al suo palazzo reale, dai suoi mercati alla sua tragica storia ancora visibile nei campi di concentramento e nel Tuol Sleng. Anche arrivare a Phon Pehn non è stato facile. Poco più di 200 kilometri per sei ore di strada, traffico, clacson e interminabili soste dove mangiare è quasi impossibile: solo cibo khmer. E basta. Però l’arrivo è subito bello. L’albergo è bello, la città è bella ed è quasi come andare indietro nel tempo di cento anni.
Il primo giorno l’abbiamo dedicato alla visita di questo liceo adibito a prigione. Inutile dire che lo strazio prevale su qualsiasi sentimento. La follia della strage messa in atto da Pol Pot proprio nell’anno in cui sono nata mi sciocca a morte, e mi distrugge l’immagine di queste persone prelevate dalle loro case per raggiungere la campagna e i campi di lavoro in nome di un ideale folle, inconcepibile. La visita dei Killing Fields del giorno dopo completa il racconto orribile di un popolo ancora dolorante. Lo stupa commemorativo racchiude tutte le ossa dei teschi di questi cambogiani, vittime di altri cambogiani, e non nel nome della razza, o di una guerra civile, o di una disputa religiosa (tutte follie), ma qui non c’è neppure la follia a giustificare il gesto. E poi la guida, il racconto di donne umiliate, stuprate, di bambini uccisi contro alberi, madri strappate ai figli, uomini mandati a morire chissà dove. E tutto questo dove? In un luogo bellissimo, pieno di alberi, con uno stagno dove una signora in perfetto stile cambogiano mi consente di fare una fotografia bellissima, che evoca pace e non morte. Phnom Pehn è anche il suo re, morto da sei mesi: il mitico Sihanouk, personaggio sfuggente, ammaliante, ricordato dal suo popolo come un dio. Per lui era chiuso il palazzo reale, ma abbiamo potuto vedere la Pagoda d’argento, così detta perché ricoperta da un pavimento d’argento di notevole impatto. Come d’impatto erano i fiori che ricoprivano le statue dei Buddha del giardino, e faceva un caldo che non si credeva mentre qui in Italia diluviava, e ti sentivi davvero parte di qualcosa che ha un ordine, un’idea, un progetto. Ti sentivi davvero parte di qualcosa di più grande di te, che ahimè devi alzare le braccia e devi far fare a loro, ai provvidenti dei che col loro placido sorriso risolvono tutto. È questo che mi manca davvero della Cambogia. Mi manca l’indolenza, l’attesa serena, l’apaticità, il traffico senza nervi tesi, la pace nel caos più totale. I mercati pieni di robe cinesi e di riproduzioni del Buddha e del mio amatissimo Jayavarman VII (quello che ha fatto costruire Angkor) che come fai a non portartene uno a casa pure se pesa otto kili? Infatti, l’abbiamo portato. Ora è qui che ci guarda nei nostri inutili affanni quotidiani e che col suo sorriso khmer ci tranquillizza e ci dice che, in fondo, andrà tutto bene.