Peru’ Indimenticabile
II° Giorno – 22.febbraio.2003 “Etologia metropolitana” Ci svegliamo abbastanza presto, pronti per una colazione che facciamo appena fuori l’albergo. Cominciano già le prime fisse sull’acqua e ci facciamo preparare dei succhi di frutta, pregevoli tra l’altro, con la minerale imbottigliata. La compagnia cerca di abituarsi da subito alle abitudini alimentari locali e così si ordina l’uovo di prima mattina. Io, che non lo riesco a sopportare, come mio solito mi lancio in ordinazioni di cibi che non conosco, ma scoprirò a mie spese che un’idea vaga su cosa si va a mangiare è una buona e sana cosa. Dopo colazione la città ci aspetta. Non si vede l’ora di cominciare il viaggio vero e proprio ma siamo bloccati in albergo ad attendere il tizio dell’agenzia che dovrebbe portarci i biglietti aerei Cuzco-Lima. È un modo come un altro per scoprire come viene intesa in Perù la puntualità. L’attesa è un po’ più lunga del dovuto, anche se devo dire che i tempi rumeni sono molto peggiori. Alla fine arriva, si paga e finalmente si parte. L’uscita, oltre al puro scopo turistico, è sottesa anche a scopi pratici, cioè la compera del biglietto d’autobus per Pisco e al cambio di valuta. Comincerò a capire qualcosa sul valore del denaro e del rapporto Nuevo Sol – Dollaro – Euro all’incirca verso la terza settimana, più o meno all’altezza di Huaraz. Ovviamente per andare dall’albergo al terminal della Ormeño cerchiamo di passare per luoghi interessanti. Quindi ci dirigiamo verso piazza Grau, assediata dal traffico, e il palazzo di giustizia. Lo passiamo ed entriamo in una zona non molto raccomandabile, a giudicare da quanto la gente ci dice, è infestato da piranha. 2.1: Piranha A questo punto è meglio aprire una parentesi su questa specie d’animale metropolitano. Il piranha è un essere che si muove generalmente in gruppo, ma sporadicamente può agire anche da solo, di età compresa dai sette ai diciassette anni, è particolarmente attratto da oggetti, specie di proprietà di turisti inesperti, e viene preso dall’insano impulso ad appropriarsene. Ed è proprio questo comportamento che genera nella specie del homo sapiens una repulsione, o meglio un odio verso questi esseri poco evoluti. Chiusa parentesi. Riapriamo la parentesi. Sabrina infatti viene presa di mira da un esemplare di questa specie che stranamente sta agendo da solo. Grazie all’intervento del prode Ermanno l’orologio di Sabri è ancora al polso della legittima proprietaria. Raggiungiamo quindi il terminal, prendiamo il biglietto e dunque siamo liberi e possiamo visitare la città con un occhio però attento anche alle proprie cose. Giungiamo a Plaza San Martìn che troviamo particolarmente bella. Qui Cleo si lascia infettare dal virus dello shopping (temibilissimo, dato che si scoprirà incurabile), compra infatti gli animaletti da dito da una signora che caratteristicamente porta la bombetta. Gli altri, invece si lanciano a fotografare la piazza e i suoi palazzi. Qui si comincia a mettere in evidenza l’esperto di arte: – Fammi una foto davanti al giallo, che è carino! A parlare è Cristina. Si riferisce ad palazzo coloniale di un bel color canarino (Foto 2.2). 2.2 Palazzo Coloniale La piazza è per noi particolarmente importante perché appena dietro l’angolo si apre una via fatta di “casas de cambio”. Andrea, con il suo spirito da uomo d’affari, o meglio dalle braccine corte, si lancia alla ricerca del cambio più favorevole. Ma non si riesce a strappare nulla di più del prezzo di listino anche cambiando un’ingente quantità di denaro. Qui si potrebbe aprire una parentesi sulla natura del popolo peruviano e la sua tendenza a fregare il popolo dei turisti, ma con questa frase ho già detto tutto. Cambiamo tutti utilizzando la tecnica dello smutandamento, neologismo coniato in questo viaggio e relativo al modo di estrarre il denaro custodito in un luogo intimo. Ci dirigiamo quindi verso Plaza de Armas, in quanto ci hanno riferito che verso l’una c’è il cambio della guardia. Ci affettiamo, ma scopriamo che in realtà era avvenuto un’ora prima. Chissà, forse così abbiamo evitato un assalto dei piranha. Perso per perso, si decide di mangiare qualcosa e troviamo un bel ristorantino (la casa de Evita) e veniamo a contatto finalmente con la cucina peruviana, che devo dire mi ha lasciato piacevolmente sorpreso. 2.3 Cattedrale di Lima Continuiamo la visita alla piazza ed entriamo in cattedrale. Prendiamo una guida, una delle poche che parlerà italiano durante tutto il viaggio. La visita è interessante, scopriamo che l’edificio custodisce, tra l’altro, le spoglie di Francisco Pizarro, il conquistatore del Perù, ma anche quelle di quel Francisco Pizarro, primo arcivescovo di Lima dopo la dichiarazione d’indipendenza dalla Spagna. Inoltre veniamo a sapere che la cattedrale è costruita sopra una città segreta che veniva usata dagli spagnoli per custodire l’oro di cui riuscivano ad appropriarsi. Noi visiteremo solo la parte più superficiale che è costituita da tre ordini sovrapposti. Cominciamo pure ad entrare in contatto con le credenze popolari. Ci viene infatti spiegato che solo nominalmente i peruviani sono cattolici, mentre in realtà la religione che professano è una mescola del cristianesimo e di culti incaici. Memore di un programma televisivo che avevo da poco visto, chiedo se è vero che capita ancora che nelle Ande qualcuno venga sacrificato. La risposta è laconica: – sì, ma anche in Amazonia! In questo momento comincia a vacillare il mio desiderio di visitarla. Supero in un modo o nell’altro lo shock provocato dall’informazione, aiutato fra l’altro dal cambiamento di città. A sera siamo infatti a Pisco. Ridente cittadina adagiata nel deserto peruviano… ma che sto dicendo!? Pisco è terribile, soprattutto la prima impressione mi mette in uno stato d’animo non certo dei migliori. Aggrediti dai procacciatori di alberghi ci lasciamo sballottare un po’ finché non si trova un hotel, l’Embassy, che si scoprirà senz’acqua, con gente che non dà molto l’impressione di essere amichevole. Poi qui si scoprirà che esiste il popolino che va nelle doppie (leggi io, Ermanno da una parte, e Cristina e Sabrina dall’altra), mentre i conti si possono permettere le singole (leggi Andrea e Cleo), anche se erano poco più che buchi e si pagava a persona e non a camera. Per fortuna si mangia bene al ristorante Paraiso. III° Giorno – 23.febbraio.2003 “LE GALAPAGOS DEI POVERI” 3.1 Plaza des Armas a Pisco. Ci si sveglia spesso senza sveglia in Perù, la luce filtra dalle finestre senza imposte, anche se le suddette raramente s’affacciano verso l’esterno. Le camere dello hotel Embassy non fanno eccezione, anzi in questo caso mettono addirittura in comunicazione due stanze. La mia e di Ermanno dà direttamente su quella di Cri e Sabri; la cosa non mi disturba, anzi diventa un pretesto per uno spettacolino di cui sono spettatore involontario. Ma facciamo un passo indietro alla sera prima. Il gestore della struttura ci aveva più o meno assicurato che la mattina ci sarebbe stata l’acqua nelle camere, che per inciso avevano anche un bel bagno. Così non fu. Il malumore serpeggiava da una stanza all’altra, volevamo lavarci. Cristina mi chiama ed io mi affaccio alla finestra. Stavo dicendole che sarei andato a chiedere una tanica d’acqua quando la Sabrina, magnifica nella sua totale nudità, appare sulla porta del bagno. Devo dire che sono rimasto favorevolmente colpito, mentre Sabri ha solo lanciato un grido e si è defilata nuovamente verso il bagno. Penso che avrò materiale per autoerotismo sufficiente per un paio di mesi ancora e poi temo che il ricordo piano piano si affievolirà. Alla fine ottengo acqua “in abbondanza” per tutti e mi sto lavando quando Cleo arriva per avvertirci che siamo in ritardo e ci stanno aspettando per partire per le isole Ballestras. In ritardo? Ma non si doveva partire per le 9:00? Sono solamente le 8:50, vuoi vedere che i soli peruviani puntuali li abbiamo trovati nel momento meno opportuno? Comunque si parte di corsa, non sarà l’unica volta, alla volta del pulmino e ci si ferma subito a fare gasolio. La domanda sorge spontanea ed è ovvia quindi non la farò. Anzi sì, ma porca paletta, non potevano fare rifornimento prima e poi venirci a prendere?! Va bhè, arriviamo all’imbarcadero, compiliamo la lista d’imbarco con nome, cognome, professione, età. Quest’ultima mi risulta sempre più faticosa da scrivere. Si parte, tutti impomatati di protezione solare, chi con bandana chi con cappello, ed in questa occasione sarà l’ultima volta che vedrò il mio comprato in Namibia, tutti intruppati in una barchetta che dava a tutti molta fiducia visto che era obbligatorio allacciare il giubbetto di salvataggio. 3.2 Parte del gruppo prima dell’imbarco. Roby con il cappello della Namibia che non vedrà mai più. Cominciamo pure a masticare la travelgum, anche se non farà effetto a tutti in ugual misura. La nostra guida non è proprio oriunda dato che porta un nome che non si può proprio dire peruviano. Si chiama infatti Giovanni Moretti, come la birra, anche se un bel po’ d’italiano se l’è bello che scordato nel passaggio generazionale; la sua famiglia è italiana ma lui è nato in Perù. Ad avere maggiori aspettative in questa escursione è Cleo, la quale ha visto una videocassetta che parlava della zona di Nazca-Paracas. Per quanto mi riguarda io sono un po’ perplesso, a momenti volevo proporre di saltare questa fermata per andare direttamente alle linee, quindi non mi aspettavo poi nulla di che, poi scopro pure che la Routard descrive queste isole le Galapagos dei poveri ed un po’ ‘sta cosa mi ringalluzzisce. Prima di giungerci vediamo un simbolo che per me ed Ermanno ha un significato che va oltre la rappresentazione in sé, ovvero da un momento all’altro ci appare sulla penisola di Paracas il grande Candelabro. Che emozione, c’è addirittura in copertina sui “Meridiani”. Oltre a ciò, la guida ci spiega che “la Candelabra”, come la chiama lui, ha più di 1500 anni e che pur essendo disegnata sulla sabbia non è ancora stata cancellata dalla forza degli elementi poiché la zona costiera del Perù è desertica e quindi praticamente non piove mai, poi la figura si trova su di una bassa collina riparata dai venti che invece spazzano la zona circostante. La domanda seguente, ed ovvia, è cosa possa rappresentare il candelabro. Ben difficilmente la cultura che l’ha disegnato pensava all’oggetto da cui prende il nome, più facilmente si può trattare dell’albero della vita o di un uomo che tiene in mano un cactus, tipico simbolo che si ritrova anche nella cultura Wari. 3.3: La Candelabra Ci allontaniamo dalla penisola per puntare verso le isole del guano, e posso assicurare che il nome non è stato scelto a caso! Effettivamente già in epoca preistorica le isole erano sfruttate come riserva di concime, e con la conquista Inca sono pure state poste sotto una rigida regolamentazione. Solo che parlare di preistoria in Perù non ha effettivamente molto senso; infatti se si considera come confine tra preistoria e storia la scoperta della scrittura e successiva registrazione dei fatti, la storia in Perù comincia nel sedicesimo secolo con la conquista da parte degli spagnoli, i quali non hanno cambiato destinazione d’uso alle isole della merda, pardon del guano. Quindi un po’ d’odore di deiezione animale ce lo aspettavamo, e ad essere sincero, ricordandomi di quando ho visitato le colonie di otarie in Namibia, io mi aspettavo pure la puzza di pesce… non siamo stati delusi! Lo spettacolo, però è abbastanza coinvolgente, specie per chi non aveva preconcetti su questa escursione. Vediamo martin pescatori (anche se quelli del vecchio mondo sono più carini), i soliti gabbiani, ma anche pinguini (all’equatore?), leoni marini e lupi di mare, i quali si lanciano in concerti a dire il vero non molto melodici, e molte altre specie soprattutto di volatili. 3.4: Foche e leoni Marini. Giriamo attorno alle isole che come struttura non sono altro che scogli buttati davanti alla costa, dove le onde si infrangono lanciando alti spruzzi e che appaiono inaccessibili agli uomini e perciò regno incontrastato degli animali. Bhè, come dire, in mezzo a tutta quella merda ve le potete pure tenere! 3.5: Isole Ballestras Torniamo a Pisco pronti per il pranzo e con ancora le banane comprate da Sabri, che salteranno ogni tanto fuori durante l’arco della giornata finché non si deciderà di lasciarle al loro destino alla stazione delle corriere di Ica. Ma prima di partire bisogna pure mangiare. Giriamo per le vie della città dove infuria una battaglia di gavettoni. È, infatti una domenica di carnevale e capiremo a nostre spese che in Perù vuol dire acqua. Stiamo guardando il menù di un ristorante, appena fuori della porta, quando veniamo investiti da un torrente proveniente dall’alto; la relazione, a distanza di tempo, la trovo alquanto singolare. Abbiamo “tranquillamente” lasciato giù i listini e ci siamo allontanati dal luogo del misfatto brontolando sommessamente, finché non siamo approdati al ristorante di fronte, facendo bella mostra di essere andati dalla concorrenza, che per inciso, ci ha fatto un buon prezzo e ci ha cucinato del cibo buonissimo! Finito il pranzo ci ritroviamo alla stazione, pronti per dirigersi a sud verso Nazca, solamente che non ci si può arrivare per via diretta, ma bisogna far tappa forzata ad Ica. Il primo tratto di viaggio lo possiamo definire pittoresco; siamo infatti finiti in quello che io definisco l’autobus dei peones. Comunque aveva il suo fascino dato che non c’era un solo turista, a parte noi ed era gremito di peruviani. Però non sono stato molto accorto nella scelta del posto, dato che mi sono seduto accanto al finestrino. Questo fatto che in luoghi diversi, o magari solamente in periodi diversi, è la cosa più normale, durante la domenica di carnevale in Perù diventa un fatto rischioso; sono infatti diventato bersaglio dei gavettoni provenienti da fuori. Ne ho ricevuto uno direttamente sul collo che oltre a bagnare me e le mie vicine (Cri e Cleo), mi ha procurato non poco dolore. Se io mi sono lamentato per il bagno ed il dolore, altri si sono lamentati per la puzza, ma alla fine siamo rimasti tutti contenti per il notevole risparmio. Dopo poche ore siamo ad Ica, che come Paracas è una ridente cittadina della costa meridionale del Perù. Balle! Entrambi questi luoghi non lasceranno un’ impronta positiva nel nostro bagaglio d’esperienze. Abbiamo un po’ di tempo da spendere e così io, Sabri e Cleo optiamo per una visita al museo antropologico, mentre Andrea, Ermanno e Cri si lanciano alla scoperta della città e si faranno una birra alla facciaccia nostra. Devo dire che la birra me la sarei fatta volentieri pure io, ma sono felice di non aver rinunciato al museo che ho trovato molto bello se pur piccolo. Come in tutti i musei peruviani si trovano delle mummie, ma a me sono piaciute in modo particolare le loro radiografie in cui si poteva scoprire la causa del decesso (deformazione professionale?), mentre Sabrina l’ho vista particolarmente colpita dal drappo funerario messo sotto teca dopo un accurato restauro, invece Cleo impazziva per la spiegazione delle tecniche di trapanazione cranica, e la vedremo morbosamente interessata a questa pratica per l’intero periodo del viaggio; strano non abbia mai provato a metterle in pratica sui partecipanti. Arriviamo alla stazione degli autobus della Ormeño prima dell’altro gruppo giusto per vederli arrivare e ammirarli intanto che si guardano in giro, per buoni dieci minuti, alla nostra ricerca mentre noi eravamo lì a guardarli. Durante la nostra assenza avevano deciso la meta del viaggio da realizzarsi l’anno prossimo. Pensare che Cristina, prima di partire per il Perù diceva:- Faccio questo, e poi tra tre o quattro anni l’India! Non ci credeva nessuno. Il tratto Ica-Nazca lo facciamo sul più bel autobus che avremo, un extra lusso con hostess, film, musica in cuffia e con clima interno fissato ad una temperatura piacevole, peccato che il tragitto sia risultato di così breve durata, forse sarebbe servito di più in un altro momento del viaggio. Ma la cosa più bella non ce la offrì l’Ormeño, bensì la natura; infatti mentre eravamo così comodamente seduti all’interno dell’autobus, fuori era in corso uno dei più bei tramonti di cui sono stato spettatore (foto 3.6). 3.6: Tramonto dal bus Arrivati a destinazione, troviamo un albergo segnalato anche sulla Lonley, la Estrella del Sur, che risulterà uno dei migliori a detta di tutti. Ed è qui che accade il fattaccio delle ocarine. Qui esistono due versioni dell’accaduto: la prima, quella meno probabile, è che inavvertitamente io, appoggiando il mio bicchiere di Sheridan, abbia urtato un sacchetto che conteneva le famigerate ocarine appena comprate dalla Sabrina e che quindi sia io l’involontario colpevole dell’accaduto; la seconda, e più probabile, è che la stessa Sabri abbia appoggiato male il sacchetto e che quindi quest’ultimo abbia raggiunto il pavimento per gravità (maledetta fisica) e che quindi sia la stessa proprietaria delle ocarine ad averle rotte. Fatto sta che non me la sono goduta affatto la bevutina serale e che per tutto il resto del viaggio sarò continuamente vessato dall’ingiusta accusa di Sabrina. Sono proprio una povera vittima! Nonostante tutto Nazca ci appare come una città piacevole, sarà difficile lasciarla!
IV° Giorno – 24.febbraio.2003 “Misteri nel Deserto” Avevamo dibattuto parecchio se fare o meno colazione prima di prendere l’aereo per vedere le linee di Nazca, ed in questo caso sono stato categorico:- Io non parto se non mangio qualcosa! Poi alla fine il volo era fissato attorno alle dieci; io rischio lo svenimento ad aspettare così tanto senza mangiare. Prendiamo qualcosa al ristorante dell’albergo e ammazziamo poi l’attesa lanciandoci in un’allegra salsa. O meglio io e Cleo ci lanciamo e ci raggiunge poi anche Luisa che gestisce l’albergo. Scopro così che la salsa ballata in Perù segue un ritmo diverso da quello caraibico ed europeo, più lento e meno atletico. Finalmente ci vengono a prendere e ci portano al campo di volo. Naturalmente anche qui c’è da attendere ed allora l’organizzazione ci porta in un albergo antistante la pista per vedere un VHS assai datato e alquanto generico sul Perù, solamente era in italiano, così ce lo danno da sciroppare. Come ogni albergo che si rispetti era dotato di reperti archeologici con mummia di età Nazca. Ma non è illegale tenerla fuori dai musei? Bho! Al fine arrivano a chiamarci per il volo e andiamo a fare il “check-in”. Dobbiamo dividerci in gruppi di tre, in quanto l’aereo ha quattro posti compreso quello del pilota, e naturalmente nessuno di noi sa pilotare. Dopo un po’ di confusione tipico italiana fissiamo che il primo turno lo fanno le donne ed il secondo gli uomini. Attendiamo, ed infine arriva l’aereo cosicché può partire il primo scaglione. Le salutiamo commossi ma alleggeriti dal pensiero che almeno la cassa ce l’abbiamo noi. Attendiamo, è una giornata d’attesa! Arrivano le ragazze, felici e su di giri il che ci rianima, almeno me. Io ero memore di un altro volo con un cesna sul deserto del Namib che mi aveva lasciato scombussolato e con lo stomaco in gola. Siamo quindi tutti armati di travelgum ed Andrea avrà bisogno di una dose doppia. Attendiamo, il pilota, tale Juan Carlos, deve fare i suoi controlli prima di ripartire e finalmente possiamo salire. Ermanno si accaparra il posto da co-pilota, mentre io ed Andrea ci accomodiamo dietro (foto 4.1). 4.1 : La bara volante. Devo dire che per quanto mi riguarda il volo è stato tranquillo dal lato scombussolamenti, mentre è stato alquanto agitato dal lato della scoperta. Ero eccitatissimo al vedere triangoli perfetti della lunghezza di 3 km e colibrì di 100 metri, per non parlare della scimmia, del pappagallo o del ragno. Nessuno sa esattamente cosa siano questi disegni e perché siano state tracciate queste lunghe linee rette che tagliano da parte a parte questa piana deserta. Questa cosa la dibatteremo assieme alle ragazze una volta tornati in albergo. Loro ne hanno parlato con la signora che le ha riaccompagnate in albergo, la quale, dopo aver valutato le altre possibilità, propende per una spiegazione extra terrestre del mistero. Questa interpretazione, nel mondo scientifico, è molto criticata, anche se non viene totalmente esclusa. I detrattori dicono che le “piste d’atterraggio” sarebbero poste su di un terreno troppo fragile per reggere grossi pesi come potrebbero essere delle astronavi, mentre cercano al contempo di portare una teoria indigena al mistero delle linee. Alcuni ricercatori, compresa Maria Reiche che vi ha dedicato quasi tutta la vita al loro studio, propendono per un’interpretazione astronomica dei disegni in cui, ad esempio, è stato visto che il ragno, simbolo di fertilità, corrisponderebbe alla costellazione che nel mondo classico è chiamata Orione. 4.2: Il Ragno 4.3: La scimmia 4.4: L’Extraterrestre. Le rette, che invece tagliano da est ad ovest la piana ed alcune delle quali sono lunghe anche 65 Km, seguono il tragitto che fa il sole prendendo come centro la linea del solstizio e aprendosi poi a ventaglio. Comunque, se risolviamo in questo modo il perché dei disegni, resta lo stesso il problema del come essi siano stati realizzati! In primo luogo è stata sfruttata la conformazione geologica del terreno in cui al di sotto di uno stato di circa 20 cm di terra bruna se ne è trovato un altro di gesso bianco che dà così il contrasto necessario per discernere le figure, poi pare che per tracciare linee rette basti solamente piantare 2 pali nel terreno ed aiutarsi con una corda, ma la cosa più interessante sono certe rappresentazioni vasali in cui appaiono disegni che possono sembrare aquiloni o mongolfiere; ritrovamenti di tessuti atti al volo e resti di fuochi sulla piana di Nazca fanno pensare ad un uso di aerostati nella realizzazione dei disegni. Con ciò non si esauriscono i perché ed i come riguardanti queste realizzazioni, poiché se è pur vero che le figure potevano essere offerte come dono a degli esseri celesti, e per ciò visibili solo dall’alto, come ha potuto una popolazione autoctona rappresentare una specie di ragno endemica dell’Amazzonia? Rientriamo in città in tempo per un pranzo a “El Greco” dove si mangia bene e si spende solamente dieci nuevos soles di menù turistico; buon prezzo ma il gruppo non aveva preso il nome di “braccine corte”, più avanti riusciremo a fare di meglio. Il pomeriggio è dedicato alla visita del cimitero di Chauchilla, siamo appena a 30 km da Nazca e apparentemente le mummie che vi troviamo sono della medesima cultura. Arriviamo con un fuoristrada e raccogliamo lungo la via la nostra guida, Rolando, che comincia una corte spietata con Cleo, che naturalmente ne rimane lusingata. Guardando l’ambiente in cui si trova il sito vengo preso da una strana nostalgia d’Africa, un dejà vu, mi sembra di essere tornato in Namibia. A questo sentimento si aggiunge quello che viene generato dalla vista di tutte queste mummie in posizione fetale con quelle ossa di un candore straordinario. Il luogo è cosparso di piccoli frammenti d’ossa e a qualcuno potrebbe venire la tentazione di prelevare un ricordino, vero Andrea? 4.5: La mummia detta “Bob Marley”
Quando si torna in albergo per prelevare le valigie e per partire diventa faticoso lasciare il personale dell’Estrella del Sur. Si era instaurato un rapporto di amicizia con Luisa, Lina e gli altri gestori dell’hotel, complice qualche bevutina allo Sheridan e due passi di ballo. È proprio qui, a Nazca, che io acquisto il mio soprannome di salsero ed Ermanno di orejas cocidas, sottintesa dal sole. Questo sentimento di “casa” ci accompagnerà durante il viaggio, e la Piriquita in particolare, resterà uno dei luoghi del Perù in cui si è sentita più a proprio agio, e non credo che gli altri possano smentirla!
V° Giorno – 25.febbraio.2003 “La Persecuzione del Complessino” Arriviamo presto ad Arequipa dopo aver passato la notte su di un bel autobus di classe Royal. La scelta su questo tipo di corriera non è stato voluto quanto imposto. La sera prima eravamo per strada a Nazca quando il tipo da cui avevamo comprato il passaggio per Arequipa ci raggiunge e ci dice che per un disguido non ci sono più posti per la classe inferiore che avevamo scelto e ci dà dei biglietti per il royal con un sovrapprezzo irrisorio; raggiungo la cassa (Andrea), che “stranamente” era attaccata a internet e sommariamente spiego la faccenda facendomi dare il denaro. Solo in un secondo momento mi è venuto da pensare che ci poteva essere una truffa sotto, che i soldi se li poteva intascare l’uomo e buona notte. Come al solito avevo gestito con troppa facilità la cosa mettendo in mezzo altre persone, ma come al solito mi era andata bene! Comunque, come stavo dicendo, arriviamo ad Arequipa, la seconda città per numero d’abitanti del Perù, e ci viene a prendere la proprietaria della “Posada del Cacique”, la quale posata è stata scelta anch’essa per caso dato che il giorno prima telefonando agli alberghi selezionati dalla Lonley, per prenotare il pernottamento, siamo incappati in questa struttura a conduzione familiare per nulla segnalata. Qui i tre boys dormo assieme mentre Sabri e Ginger spice sono in una camera doppia e Cleo continua a fare la contessa in camera singola. Abbiamo appena il tempo per una doccia e per una tazza di mate de coca, quella vera in foglie, che poi ci comunicano che siamo incappati all’inizio dei tre giorni, che capitano ogni tre-quattro anni, della manutenzione delle condutture dell’acquedotto della città, e che quindi non solo non ci sarà acqua calda ma che mancherà del tutto. Va bhe, alla fine siamo pronti per visitare Arequipa. Scopriamo che siamo ad un tiro di sputo dal centro e a due passi dalla maggior attrattiva della città: il monastero di Santa Catalina. 5.1: Entrata al Monastero. Non ci resta che andare a dargli un occhiata. Una volta entrati decidiamo di prendere una guida. È una ragazzina giovane, almeno ai miei occhi di quasi trentatreenne, ma con un leggero problemino di irsutismo. Ha infatti un bel paio di baffi scuri che le incorniciano il labbro superiore, ma non sta a me giudicare i canoni estetici locali, possiede già un pregio per me più importante, ovvero la conoscenza della lingua italiana. Dapprima ci porta nel parlatorio in cui le suore, le quali si trovavano in clausura, potevano parlare con l’esterno senza tuttavia essere viste. L’ambiente, infatti, è immerso in una penombra data dalla luce che attraversa un particolare tipo di pietra, esclusivo della zona, molto simile all’alabastro che dà al locale un’atmosfera particolare e, per quanto mi riguarda, suggestiva. Da qui passiamo per le assolate vie del monastero, dove capiamo perché viene definito una città nella città, infatti è enorme e tuttavia tranquillo nonostante il discreto afflusso di turisti. Qui, dal 1580, data della sua fondazione, venivano rinchiuse le figlie cadette delle più illustri famiglie spagnole del Perù, le quali dovevano portarsi appresso un’ingente dote per potervi accedere. Era quindi un luogo ricco di prestigio dove il potere veniva esercitato allo stesso modo che “nel mondo”. Lo si capisce dall’ampiezza delle celle e dal fatto che alcune erano veri e propri appartamenti con salottino ben arredato e cucina dove poteva trovare posto il servizio da tè francese assieme al giaciglio per la schiava personale. Tutti i letti erano in muratura e sovrastati da un arco che permetteva una certa stabilità durante le frequenti scosse telluriche (per fortuna non ne siamo stati testimoni). Questa situazione si protrasse fino al 1871, anno in cui arrivò al convento suor Josefa Cadena che, per ordine del papa, portò Santa Catalina ad essere un vero e proprio convento e non più un circolo elitario. Oggi nel monastero rimangono una ventina di suore relegate in una parte della struttura, ma al di là di tutto resta un luogo magnifico, quasi mediterraneo nei colori e nel calore, con questi viottoli di selce che lo attraversano ci pare di essere nel sud dell’Europa. La guida ci spiega che a seconda del colore dominante era adibito a novizie o a suore; ad esempio il bianco, colore della pace, era associato alle novizie, mentre il rosso-arancio, colori della purezza, si trovava nelle aree adibite alle suore. Pure il blu entra in questo codice a simboleggiare il paradiso (foto 5.2). 5.2: Interno S. Catalina Passiamo dagli ambienti esterni a quelli interni e vediamo collezioni di mobili europei, di ceramiche inglesi e spagnole e pure arredi e paramenti sacri. Ad un certo momento entriamo in contatto con alcune immagini religiose tipiche della cultura indigena. Nella fattispecie restiamo colpiti dal martoriato cristo andino. Andrea ci dà la sua personale visione di questa caratteristica iconografia, infatti secondo lui si era conciato così andando in spiaggia, cioè già in costume, a bordo di un motorino. Facendo una curva un po’ stretta ad elevata velocità trovò sull’asfalto la tipica sabbietta del litorale che lo mandò a terra rovinosamente grattugiandosi le ginocchia, i gomiti e il petto. Dopodiché si alzò, nominando il Padre e la Madre associati a nomi di animali e a professioni millenarie, e si fece crocifiggere dallo sconforto. Riassumendo:” Bruuuum-bruuuuum, skkreeeeeckht!! Badabambt!!! Porco D…, Madonna P……….. Che dolore! Voglio morire!” Questa teoria venne accettata dal gruppo finché non è stata in seguito confutata da un’altra guida che ci spiegherà che il cristo andino in realtà è una rappresentazione delle sofferenze del popolo peruviano sotto la dominazione spagnola. E pensare che la spiegazione di Andrea era così acuta e circostanziata! Per me ha tutt’ora ragione lui! La visita si conclude su di una torre dell’edificio da dove si può ammirare la vista su Arequipa e i monti circostanti, peccato per la foschia, e qui paghiamo la nostra pelosisssima guida, soldi ben spesi. Quando usciamo dal monastero è già quasi ora di pranzo e ci dirigiamo verso la “solita” plaza de armas alla ricerca di un ristorantino con terrazza. È una guerra! Siamo presi d’assalto dalle butta-dentro che, armate di listino, cercano di spingerci dentro i ristoranti per cui lavorano; ci lasciamo convincere da una che ci dà una birra gratis. Solo alla fine scoprimelo che non era così, ma la malfatricce non si renderà più reperibile. Saliamo dunque la scala che ci porta al ristorante “La Pontezuela” dove quasi tutti noi ordina il cuy. 5.3: Cuy Cristina non ce la fa a prendere questo piatto tipico arequipeño in quanto trattasi di porcellino d’india arrosto e schiacciato e aveva visto un grazioso rappresentante di questa specie pochi minuti prima al convento così non se l’è più sentita di mangiarlo. Io l’ho trovato molto buono anche se con poca carne. 5.4: Slurp! Per fortuna che Cleo ha scartato la pelle, parte più saporita, e me l’ha data. Il pasto è stato guastato, otre che dal conto, dal complessino che si è piazzato a suonare per allietare il nostro desinare. In sé non sarebbe una brutta cosa, se fosse incluso nel pranzo, anzi magari, e dico magari, lo avremmo anche cercato un locale con musica, ma così, che ti arriva inaspettatamente e senza essere richiesto e a pagamento…! All’epoca non eravamo ancora “la compagnia delle braccine corte” ma le premesse c’erano tutte. Una cosa il locale aveva di positivo: una bella vista sulla piazza e la sua imponente cattedrale. A fine pasto scendiamo in piazza in un sole abbacinante e puntiamo su un giretto sotto i portici ed è qui che io e Sabrina veniamo rapiti da una maestosa, quasi solenne, torta al cioccolato che ammiccava da una vetrina di pasticceria. Gli altri sono stati tutti più forti e quindi appuntamento a fine scorpacciata. Non so quanto avrà mai pesato il blocco, porzione o fetta sarebbero riduttivi, di dolce ma appena lo si metteva in bocca si scioglieva in qualcosa di poetico. Uno dei miei più dolci ricordi del Perù! Trovato gli altri gironzoliamo per la plaza, passiamo da un “utilissimo” ufficio turistico, e quindi ci dividiamo. Ermanno e Sabrina preferiscono ritornare alla posada, mentre i restanti decidono di fare i “turisti per caso” entrando dentro i vari patii che scovavamo per strada. Una bella esperienza da ripetere anche nei viaggi futuri, ed è stramo come mi sia capitato ancora la stessa situazione in un viaggio precedente sempre con Andrea. Esploriamo dunque questi bei edifici che potevano essere chiese parrocchiali, chiostri, ma anche scuole d’informatica o uffici. Nel patio della chiesa de la Merced ci imbattiamo in un signore che ha voglia di fare quattro chiacchiere con noi ed io mi lancio in una conversazione in uno spagnolo molto fantasioso. Ci lascia un po’ perplesso, ma più avanti nel viaggio mi farò. Ci raduniamo agli altri ed in qualche modo riusciamo a lavrci, almeno io e dopo un riposino siamo pronti per la passeggiata pre-prandiale. Visitiamo la bella chiesa di San Francisco e poi troviamo un bel posticino che applica uno strano happy hour, ovvero per tre o quattro ore di seguito. Raggiungiamo un tavolino che dà sul vicolo sottostante, ci sediamo, ordiniamo otto birre (una ed un terzo a testa), ed ecco che arriva il solito gruppetto di musicanti, ormai un persecuzione, che comincia a suonare. Siamo solamente noi nel locale, cominciamo a fare di tutto per non guardarli e scoraggiarli ma sono imperterriti, anche bravi ma non se ne può più. Anche ‘sta volta siamo stati più bravi noi e se ne sono dovuti andare con le pive nel sacco. Non vogliamo mangiare li ma Ermanno fa di tutto per confondere le acque. Ad un certo punto il cameriere viene da noi al tavolo per chiederci se vogliamo mangiare, ma commette l’errore di chiederlo ad Ermanno (che in spagnolo è simile a fratello), dicendogli: “¿Comer?” (che in spagnolo vuol dire mangiare, ma che in italiano è molto simile a :”Com’è?”); coerentemente la risposta è stata: “Buone, grazie”. Effettivamente le birre erano veramente buone, e la cosa sarebbe morta pure lì se il buon Andrea non l’avesse fatto notare. Le risate si sono protratte per un buon quarto d’ora. La perplessità del cameriere è durata finché non abbiamo deciso di alzarci e di andarcene. È ormai ora di cena. Cerchiamo un posticino frequentato dagl’indigeni e a buon mercato. Finalmente lo troviamo. All’inizio ci piace ma poi ci rendiamo conte che è veramente fetido, in più a me occorre anche di andare al bagno, manca l’acqua ad Arequipa e penso di aver superato la mia più grande prova di coraggio pisciando in… non posso nemmeno scriverlo da quanto schifo; il solo cercare di ricordarlo mi fa venire i conati di stomaco. Tralasciando questo inghippo, aspettiamo veramente secoli il nostro cibo che alla fine si rivelerà pure ottimo, ma ormai siamo stanchi e rinunciando ai progetti di discoteche o altro luogo di divertimento approdiamo alla “posada del cacique” e ci mettiamo a letto alle dieci di sera. Almeno per questa notte si dorme in un letto vero e proprio.
VI° Giorno – 26.febbraio.2003 “Prendere e Lasciare” Almeno io mi sveglio bene, infatti c’è chi ha avuto dei problemi con il letto che ha trovato, vero Andrea!? Ma per quanto mi riguarda la “Posada del Cacique” è stata una delle migliori esperienze oniriche, nel senso che mi son fatto dei bei sonni. La mattinata è bella e luminosa, la signora dell’albergo ci offre il solito mate de coca e noi lo prendiamo con una pastina dolce comprata appena fuori la pensioncina. Ma con tutti ‘sti mate non diventerò mica dipendente? Si tratta pur sempre di coca! Datemi tempo un paio di giorni e smanierò per una tazza di caffè! Dobbiamo prendere un po’ di tempo prima di partire per Chivay, decidiamo quindi di fare due passi per Arequipa prima della partenza. Io mi riprometto di ripassare per la chiesa di San Francisco per vedermela con il favore della luce, e magari scattare anche un paio di foto. Malauguratamente incappiamo in un mercatino. Un po’ questa cosa dei mercati l’ho già spiegata, ovvero basta che qualcuno ci sventoli qualcosa di etnico sotto gli occhi che andiamo, chi più chi meno, in fibrillazione atriale. L’unica cura: comprare! Siamo, in questo caso, nella tana del lupo, la trappola per turisti, nel paese di Bengodi. In dieci metri quadri ce n’è per tutti. L’approccio all’acquisto è però diverso da persona a persona. Io credo di essere il meno contagiato, anche se poi alla fine mi lascio andare e finisco per fare tutti gli acquisiti, o quasi, all’ultimo minuto. Ermanno mi viene dietro, lui è un ansioso di tipo diverso; cerca un qualcosa che deve piacere ai sui amici, compra quasi su commissione ed ogni volta il momento è amletico: “piacerà o non piacerà? E se comprassi un’altra cosa? Cosa dici è meglio questa o quest’altra?” Poi, alla fine, finisce quasi sempre a fare il gioco delle tre carte e ad appioppare agli uni quello che era destinato ad altri. Per la Piriquita, poi, l’importante sono le dimensioni, specie nelle spese! Cerca continuamente qualcosa di piccolo, che non prenda posto e finisce così per fare incetta di ninnoli del tipo braccialetti, porta accendini e ammennicoli vari. Andrea è la scienza fatta persona. A lui non può scappare nessuno! Gira con una lista con nomi di persone a cui associare un regalo, poi si lascia andare quando si tratta di morosa e familiari vari. Alla fine però anche i più perfetti peccano e capiterà che si dimenticherà di sette, otto acquisti che doveva fare. Cleo è quella che risente maggiormente del fascino del mercato, è peggio di una droga, si potrebbe dire shopping addicted. Compra il comprabile! Qualcosa se lo terrà, mentre altro lo regalerà. Non sa bene cosa, così compra tutto ciò che potrebbe stare bene su di lei o nella sua casa. Sabrina poi, dovrebbe essere la più ponderata ma alla fine della trattativa sentirà sempre quella sensazione bruciante di essere stata inculata, specie dopo aver fatto i debiti confronti di prezzo con il guru, ovvero Cleo. Penso che non servirebbe nemmeno dirlo, ma abbiamo trascorso tutta la mattinata a gironzolare e comprare in questo famigerato mercatino. 6.1: Noi per mercatini. Abbiamo appena il tempo di salutare i proprietari della posada e partiamo a spron battuto verso il terminal delle corriere per andarcene a Chivay. Ci immergiamo in questo girone dantesco e abbiamo appena il tempo di mangiare qualcosa al volo (1), di comprare i biglietti che da Arequipa, una volta tornati, ci porteranno a Puno sul Titicaca (2) e di lasciare in deposito il grosso dei nostri bagagli (3); questa volta si viaggia leggeri. Io prenderò anche dei churros al volo, quasi contemporaneamente alla partenza. E siamo sopra il nostro autobus. Sono in fase di sperimentazione gastronomica e alla prima fermata compro anche una pannocchia bollita che mi viene venduta con qualcosa che a primo acchito interpreto come burro, ma che si rivelerà poi dell’ottimo formaggio! Siamo un po’ strettolini, per fortuna che abbiamo prenotato i posti a sedere perché altrimenti avremmo potuto anche rimanere in piedi assieme ad altri sfortunati. Danno un film con John Travolta durante le cinque ore di viaggio e mi ritrovo a seguirlo tramite i sottotitoli in spagnolo piuttosto che dall’originale in inglese. Sono piacevolmente stupito da ciò, vuol dire che il mini corso di dieci ore che mi ha fatto Adriana, la mia amica messicana, è servito; ma vuol anche dire che ho buttato anni e anni di lezioni di inglese nel…! Un po’ seguo il film e un po’ guardo il paesaggio che continua a cambiare. Mentre si sale l’aspetto del territorio circostante s’inasprisce sempre più, nei passi addirittura incontriamo luoghi in cui da poco è caduta la neve e una desolazione infinita e mi trovo a pensare a tutti gl’imprevisti che potrebbero capitare e a cosa vorrebbe dire trovarsi da soli in questa nuova specie di deserto. Però le stelle, sì le stelle sarebbero bellissime! Oltre al paesaggio cambia un po’ anche lo stato di salute finché ad un certo punto Cleo manda me, che “so lo spagnolo” a chiedere se per cortesia ci si può fermare un attimo perché non si sente troppo bene. Gli addetti mi dicono che può trattarsi di “mal de altura”, avevamo oltrepassato abbondantemente i quattromila metri, e acconsentono ad arrestare la corsa. Io penso di approfittare della sosta per una pausa-piscio ma scopro che altri hanno avuto la mia stessa idea. Ci troviamo, io e Cleo, assieme ad altre quindi persone, maschi e femmine, ad orinare in poco più di un metro quadrato. Peccato non ci siano stati giudici a registrare questo fatto, altrimenti avremmo potuto entrare nel Guinness dei primati! 6.2: Non guardatemi o mi blocco! Ricominciamo a scendere e tra la nebbiolina creata da una pioggia lieve e sottile scorgiamo un branco di lama al pascolo, quindi io ed Andrea sfoderiamo le nostre armi, pardon, macchine fotografiche pronti ad una ripresa stile National Geographic. L’autobus da noi preso aveva la caratteristica di andare ad un passo poco superiore della camminata di un anziano novantenne con displasia dell’anca dopo una sbornia a base di amaro Broglio; questo fino al momento di essere a portata di mirino del suddetto branco di lama per trasformarsi poi in Ben Johnson con in corpo la dose massima di steroidi anabolizzanti di tutta la sua carriera inseguito dalla giustizia sportiva e penale e con in più il peperoncino al culo! Addio servizio fotografico. Alla fine passano anche le cinque ore di questo viaggio che come minimo si può definire interessante e vediamo sotto di noi la valle del Colca con Chivay adagiata nel mezzo, che diventa via via sempre più grande durante la nostra discesa dalle Ande (foto 6.3). 6.3: Chivay. Non ci preoccupiamo di dove andare a dormire la notte dato che abbiamo prenotato da Ricardito’s. Le trattative erano cominciate al terminal terrestre di Arequipa ed intercorsero tra una parente del proprietario e la Cri. Mentre gli altri erano indaffarati a valutare gli orari, le compagnie e, non da ultimo, i prezzi, la Piriquita veniva avvicinata da questa tipa, trattava e alla fine proponeva al gruppo l’esito della negoziazione. La stessa figlia/nipote/cugina/altro aveva dato in custodia a me una sporta con degli alimenti da consegnare al padre/zio/cugino/altro. La cosa è arrivata a destinazione e ho pure scoperto che una bottiglia conteneva del buon miele dato che s’è rotta ed il contenuto s’è sparso per tutta la borsa. Quindi non sono riuscito a far arrivare sana una cosa data in me in custodia, ma almeno mi sono ricordato della sua presenza. Sabrina, invece, ha lasciato sul bus il suo bambino! Aveva già tentato di abbandonarlo in ogni angolo appena ne aveva avuto l’occasione, ma ogni volta spinta da un certo rimorso tornava a riprenderselo promettendogli che la mamma non l’avrebbe mai più abbandonato, che si sarebbe ricordata sempre di lui, e che per questa incombenza avrebbe incaricato pure gli zii. Ma alla fine l’ha fatto lo ha lasciato solo in un vecchio autobus lanciato verso un’ignota città nel cuore del Perù. Alla fine però anche gli animi più duri cedono e disperata è corsa da me perché “so lo spagnolo” decisa a recuperarlo. Ci rivolgiamo a Ricardito e con lui andiamo a telefonare alla compagnia. I momenti sono carichi di pathos. Ci sarà ancora? O qualcuno di più buon cuore se lo sarà preso con se? La telefonata sembra interminabile ma alla fine esplodiamo in un urlo liberatorio di gioia e ci abbracciamo per la contentezza. L’hanno trovato tutto intero e sarà di ritorno a Chivay per l’indomani. A difesa di Sabrina bisogna dire che non è una madre snaturata! Stiamo infatti parlando della sua bolsa de dormir, ovvero il sacco a pelo! E malgrado tutte le promesse cercherà ancora di dimenticarsene. Ma facciamo un passo indietro. Siamo arrivati a Chivay a metà pomeriggio, giusto il tempo per passare all’albergo lasciare il grosso della roba e fiondarci direttamente verso la maggior attrattiva del luogo ovvero le terme. Eravamo tutti ben felici di scrollarci giù un po’ di fatica accumulata in tutti questi giorni di viaggio. Ma quanti sono? Siamo appena al sesto! In realtà a prescindere da ciò a chi dispiace passare qualche momento di relax in una piscina riscaldata? Arriviamo dunque alle terme verso le cinque del pomeriggio per dedicarci circa un’oretta. Avevamo preso un taxi e come il solito facevo il cane della situazione alloggiato nel portabagagli assieme alla Cri. 6.4: Terme. Quando ci immergiamo nelle acque della piscina scoperta del centro è per noi tutti una splendida sensazione. O meglio dovrei dire per quasi tutti, dato che la Piriquita per conformarsi alla stagione in corso in Perù, il suo corpo stava vivendo la propria stagione delle piogge e quindi s’è limitata alle riprese. Devo dire che il risultato alla fine è stato quanto meno artistico, assomigliando a quei dipinti di Dalì in cui la realtà viene deformata e distorta. Un strano effetto da mettere in un filmino amatoriale. Ma oltre alle riprese dell’affascinante ambiente circostante abbiamo avuto varie rivisitazioni di celebri film; una splendida interpretazione di Cleo in “Tettanic” mentre nuota a dorso. Una rivisitazione di “California girls” in cui le girls erano una prestante Andrea, una pepperina Ermanno ed una smaliziata Roberto. Per non parlare della scena del lago di “Tre uomini e una gamba” in cui Ermanno/Aldo e Andrea/Giovanni facevano la battaglia delle foche mentre Sabrina/Marina e Roberto/Giacomo flirtavano. L’ora d’aria è poi finita nel modo più classico con un pullman di turisti rovesciati nella “nostra” piscina e con una tazza di mate de coca ai bordi piscina. Neanche il tempo di rientrare al Ricardito’s che ci ritroviamo tutti a gironzolare per il mercatino antistante l’albergo, dicono sempre che è possibile farcela ad uscire dal tunnel, ma poi… Abbiamo però delle incombenze che vanno evase e quindi: 1 – bisogna trovare qualcuno che l’indomani ci porti a Cruz del condor; 2 – bisogna pur mangiare. La prima parte della faccenda è un po’ complicata, troviamo infatti solo due persone sulla piazza che possano accompagnarci e alla fine, tirando sul prezzo, finiamo per scegliere chi conosce la strada. Non so se la scelta è delle migliori, apparentemente sì! Mangiamo al Lobo’s, assaggiando per la prima volta l’alpaca, che personalmente trovo squisito. Sabrina s’è lavata i capelli, forse vuole essere apposto per quando torna il bambino, e si piazza davanti ad ogni fonte di calore per tentare di asciugarli. Impresa difficile nel freddo-umido di Chivay. Trascorriamo una piacevolissima serata in questo locale e alla fine, dopo che Andrea ha finalmente usato internet, restiamo in tre, con Cleo, a dividerci una caraffa di Sangria. Ma la giornata inizia presto il giorno seguente e ci appropinquiamo ai nostri rispettivi letti con guanciali ridicolmente sottili e coperte esageratamente pesati. Ma forse ‘sta volta sono addirittura le undici passate. È tardissimo!
VII° Giorno – 27.febbraio.2003 “Condor nella nebbia” Abbiamo un po’ tutti un’aria sbattuta appena svegli. Ognuno rende partecipi gli altri del tipo di nottata che aveva avuto. Sembra quasi di stare in corsia; c’è chi parla di attacchi intestinali (ogni volta che qualcuno ne parla vedo tanti piccoli microbi con elmetto e baionetta che si lanciano contro l’inerme flora batterica), chi piccoli o grandi problemi respiratori, fino ad arrivare al più classico attacco di panico! Per quanto mi riguarda, mi sono reso conto che non riuscivo molto a tirare il fiato mentre ero a letto, ma più tardi ho realizzato che effettivamente non riuscivo a muovere nemmeno i muscoli che permettono la dilatazione della cassa toracica stante il notevole peso delle coltri. E dopo alcuni mesi sono ancora qui a pensa se per davvero ho avuto il famigerato “mal d’altura” o se semplicemente sarebbe bastato togliere una coperta per poter respirare soddisfacentemente. Fatto sta che non siamo al 100%, e per quanto riguarda Sabrina non la vedo arrivare neanche al 50%! Alla fine riusciamo a salire sul pulmino, ma non facciamo più di qualche centinaio di metri che siamo di nuovo fermi dal gommista per non so che tipo di riparazione. Sono seduto a lato di Manuel, il nostro autista, quindi beneficio della vicinanza alle casse dell’autoradio. Non si rivelerà affatto una buona cosa essere seduto in prima fila, da questo punto di vista almeno, in quanto la nostra guida è un’amante di un genere musicale che si potrebbe definire straziante-penoso. Ascolterà infatti, una canzone di una lunghezza inaudita che alla fine riuscirà a darmi una sensazione di dolore fisico. Al contrario è curioso le decorazioni interne del pulmino. A parte l’immancabile tappetino simil-tupé, si trovano le altrettanto immancabili immagini votive della madonna e di altri santi; nota d’innovazione è data da alcuni adesivi che recitano motti più o meno morali, tipo:”se tu sei gentile con me lo sarò io con te” e amenità del genere. Dopo un’oretta da quando ci ha caricati si riesce ad uscire da Chivay, non senza aver fatto una nuova tappa per il rifornimento di carburante, e qui sorge la solita domanda spontanea: “non poteva pensarci prima!?”. Appena si comincia a salire veniamo accolti da una serie di viste meravigliose, esaltate dalla luce radente del mattino. A nessuno, però, salta in mente di fermare il tizio alla guida per scendere a scattare due foto. Sarà un peccato perché sono quelle cose che si riescono a cogliere solamente in un determinato periodo della giornata e poi si perdono irrimediabilmente! Personalmente, sento ancora il rammarico per non aver fissato quei momenti che, ne sono certo, prima o poi scivoleranno via dalla mia memoria, spero tuttavia che descrivendoli riuscirò a trattenere almeno un fantasma di ciò che mi è passato davanti. Ma come descriverli? Riesco solo ad essere oggettivo, ovvero posso dire di aver visto aprirsi la valle con il fiume Colca che rumoreggiava in fondo, con altre cascate, e più tardi terrazzamenti, e luce e colori e suoni. Manuel ci chiede se preferiamo fermarci prima in qualche villaggio e “mirador”, o se vogliamo giungere direttamene a quello della Cruz del Condor. Noi optiamo per quest’ultima possibilità, e dopo aver incontrato una frana e praticato una deviazione strategica, siamo sulla strada che ci porterà alla nostra meta ultima. Vogliamo vedere i condor! Già, i condor. Le notizie sono da subito contrastanti, c’è chi dice che si possono vedere solo di mattina, chi dice che si possono vedere in qualsiasi momento della giornata, altri ancora che non sempre escono. Ma il problema stringente non era tanto se vederli o meno ma il vedere in sé! Infatti all’affollatissimo (di turisti e venditori) mirador de la cruz del condor c’è una fastidiosa nebbia o nubi basse, dato che ci troviamo alla ragguardevole altezza di quasi 4000 metri. Ma per quanto ci riguarda nebbia o nuvole il risultato è lo stesso: offuscamento completo.
7.1: Il Condor, come avremmo voluto vederlo
Ci dividiamo, la povera Sabrina, che ormai è nel più totale KO, non ce la fa nemmeno a scendere dal pulmino, Andrea e Cristina restano a gironzolare per il mercato, mentre io, Ermanno e Cleo decidiamo per una passeggiata, che si rivelerà alquanto dura a causa del mal d’altura. Ma questo nostro giro ci regala pure la vista di un nido d’uccello, con relativi abitanti, nascosto tra le spine di una specie di cactus. Per me una cosa nuova. Non ce la facciamo più a rimanere fermi nel nulla, decidiamo alla fine di proseguire per Cabanaconde. 7.2:Cabanaconde
La scelta è stata alquanto sofferta visto che abbiamo dovuto dare un extra a Manuel: maledetto. Bisogna dire che questo atteggiamento non rientra nella filosofia della “Compagnie delle braccine corte”, ma siamo costretti dall’inattività. L’idea è quella di vistare il paesello a valle e di ritornare sperando che la foschia nel frattempo si diradi. Mentre entriamo al villaggio vediamo che gli abitanti escono in massa in direzione dei campi; sono tutti vestiti a festa, e in questo frangente a Manuel torna fatalmente il dono della parola e ci spiega che si tratta del rito alla Pachamama, inteso come dea terra, che serve a propiziare un buon raccolto. Cleo, credo interpretando il pensiero di molti, se non di tutti, chiede se è possibile assistere, ma la favella, come era arrivata se ne è andata e la nostra guida si chiude nel suo abituale silenzio. Cabanaconde fa un effetto diverso ai vari componenti della compagnia. 7.3: Viuzze di Cabanaconde. Cleo, ad esempio, è scocciata dal fatto che la gente chieda denaro per le foto, e non è la sola ad esserlo, mentre ad Andrea piace il paese poiché viene gentilmente salutato da tutti quelli che incontra. Però, dopo il giretto di rito a plaza de armas (foto 7.2), non c’è più granché da fare e si decide di tornare alla cruz del condor. Mentre ci si approssima, vediamo dei grossi uccelli che volano fieramente alti nel cielo. Fermiamo l’autobus e ci mettiamo ad osservarli con il binocolo, c’è chi pure tenta di scattare qualche foto. Manuel ci dice che si tratta di condor. Noi ci crediamo perché, come diceva Mulder in x-files: I, in questo caso We, want to belive! Almeno in questo la guida ci ha reso felici! Non parliamo delle condizioni atmosferiche alla cruz, che piuttosto che in via di miglioramento sta andando in direzione opposta con continue apposizioni di coltri. Per rifarci da questo smacco decidiamo di fermarci ad ogni altro punto panoramico che ci si para davanti. Sostiamo al mirador de Madrigal, addirittura Manuel ad un certo punto si arresta, senza che noi lo chiediamo, per farci vedere delle sepolture che si trovano aggrappate ad un costone di roccia; per fare poi un’ultima tappa a Maca, dove ci addentriamo all’interno di una bella chiesa coloniale tutta sgarrupata. Non facciamo più soste perché abbiamo da prendere un autobus, e controllare se un problema con la prenotazione dei biglietti per la tratta Arequipa-Puno è stato risolto. All’arrivo scopriamo che tutto è apposto, è tornato anche il bambino della Sabrina, e siamo tutti ben lieti della scelta del Ricardito’s visto che è stato generoso nei servizi da noi richiesti, anche non di ordine alberghiero, ma che dire invece di Manuel? Manuel aveva solo il pregio di conoscere la strada, con noi è stato particolarmente chiuso e poco disponibile. Non credo che a nessuno di noi dispiacerà mollarlo a Chivay! Arriviamo al terminal circa una mezz’ora prima della partenza del bus. Siamo un po’ tutti affamati, e ognuno si nutre con quello che trova di suo gusto dai venditori che stazionano al capolinea. Chi punta al dolce, chi al saltato, io sono tra i secondi che scelgono il panino con l’alpaca. Solamente che a contrario degli alti non scarto la verdura. Mangio di gusto, ma un po’ preoccupato, non credo che avrò degli effetti legati a questa esperienza, ma la cosa da notare è che sono resistito solamente una settimana, anzi meno, senza verdura cruda. Sono un debole! Saliamo nello stimatissimo autobus. Siamo seduti, noi che abbiamo prenotato, e da questa posizione privilegiata passiamo il tempo del viaggio sonnecchiando, guardando fuori, leggendo e scrivendo. Non c’è ne’ il film ne’ della musica. A me piace questa tranquillità, mi serve a riorganizzare le idee e a rilassarmi. Un coglione, invece per l’ultimo tratto di strada, circa un ora, non fa altro che gridare MUSICAAA! La cosa mi irrita fuori misura e mi rovina un viaggio che rasentava la perfezione! Finalmente arriviamo nella bolgia del terminal ad Arequipa. Dobbiamo recuperare il grosso del bagaglio, anche se devo dire che non ne’ sentivo assolutamente la mancanza, e cerchiamo un posto dove mangiare qualcosa. Optiamo per un locale al piano superiore del terminal dove fanno pollo allo spiedo e patatine. Ad Ermanno luccicano gli occhi dalla contentezza. Cri non ha molta fame e Sabrina sta ancora male, non riesce a mangiare un granché e offre la sua parte a chi ne’ vuole. Ermanno mi guarda e mi propone di dividere la sua generosa porzione, ma io gentilmente rifiuto e gli dico:” No, grazie Ermanno, mangiala pure tu che io mi mangio quella di Cristina!”. A volte sono un signore! Abbiamo anche il tempo di prenotare l’albergo per la prossima destinazione e poi saliamo alle otto di sera su un affollato bus diretti a Puno, sul lago Titicaca.
VIII° Giorno – 28.febbraio.2003 “Incredibile Ermanno” Arriva il nuovo giorno, che ci sorprende ancora in autobus diretti a Puno. Il mezzo è uno di quelli a fermate multiple, in due parole si ferma ad ogni pisciatina di cane, e per giunta è anche molto affollato. La Piriquita è seduta assieme a Sabri, la nostra malata, Andrea, che non se la passa meglio, ed Ermanno ormai fanno coppia fissa, mentre io sono accanto a Cleo. La prima parte del viaggio la trascorro a chiacchierare con la mia compagna, facendo quello che ormai è stato definito “alta portineria”, e commentando la questua effettuata da due ragazzine che si sono limitate a stare in corriera per la sola prima parte del viaggio. Queste due, autodefinitosi estudiantes, si erano messe a cantare delle canzoni strappa lacrime accompagnate dal ritmo di due conchiglie sfregate tra di loro. Cleo ed io siamo rimasti colpiti, non solo da questo spettacolo, ma anche dal fatto che chiedevano denaro solamente in cambio di caramelle, non volevano l’elemosina! Che dignità! Alla quarta settimana, quando ci troveremo io e la Cri su di un colectivo ad ascoltarne altri tre giovani studenti, molto più bravi di queste due, penseremo solamente: “Ma che palle, non se ne’ può più di tutti ‘sti rompicoglioni che si mettono a cantare ‘sta merda di musica e che chiedono ‘sti cazzo di soldi! Che vadano a cagare!” Questo per quanto riguarda la prima parte del tragitto. Durante la seconda i miei piedi hanno fatto da guanciale a Dennis, un ragazzino che si era messo a dormire disteso sul pavimento del bus, poi ho scoperto che anche ad Andrea era capitata una esperienza simile. All’inizio si era accoccolato sul mio piede destro, dopo di che decise che forse era più comodo se si fosse messo tra il destro e il sinistro. E deve essere stato molto a suo agio visto che da lì non si è più spostato. Ma, come dire, tutto ha fine, pure gl’incubi, ed eccoci arrivare all’una di notte alla meta: Puno! Il tizio che ci è venuto a prendere al terminal è alquanto scocciato e non si preoccupa di imprecare contro l’orario tardo, ed in pratica anche contro di noi, usando uno spagnolo che risulta comprensibilissimo a tutti noi. Non ne’ restiamo eccessivamente colpiti, specie perché ognuno di noi ha i suoi acciacchi dovuti a stanchezza e altitudine, vogliamo solamente giungere al “Timi”, il nostro Albergo e finalmente dormire. Proprio così, dormire. Nella nostra fantasia, l’idea era di buttarci a letto appena arrivati in hotel e quindi, la mattina dopo (inteso verso le sette o le otto), cercare una soluzione di viaggio per visitare le isole del Titicaca! Invece ci viene proposto il tour appena giunti in camera. Io, Andrea ed Ermanno, che forse era il più lucido dei tre (come fa a queste ore?!), discutiamo con il gestore dell’albergo su come è strutturato il viaggio e poi, una volta definito i dettagli lo proponiamo alle ragazze che accettano subito in quanto sono talmente distrutte da non opporre alcuna resistenza. In realtà siamo tutti stanchi e avrebbero potuto propinarci il più orrendo tour del mondo che avremmo risposto di sì. Ci hanno preso per sfinimento. Per fortuna che è andata bene, un minimo di intelletto funziona anche in situazioni del genere! È mattina a Puno, anche se non sono in grado di capire che ora sia. Siamo tutti svegli e pronti per la colazione. Andrea, che a suon di trombone anale ci ha dato la sveglia, sta risentendo degli effetti del “soroche”, il mal d’altura, non riesce a mangiare un granché e chiede un po’ di coca per il viaggio. 8.1: la coca. Non c’è niente di peggio di stare male durante le vacanze! Naturalmente siamo in ritardo, il pulmino che sta facendo il giro degli alberghi ci sta aspettando e la tipa con la coca non si vede ancora; Andrea, da buon componente del gruppo “braccine corte”, vuole almeno indietro il sol di spesa. Non c’è tempo, si deve partire. Il malato impreca per il fatto di non avere farmaci e di aver perso denaro, quando improvvisamente appare un bel sacchetto della suddetta foglia miracolosa e con i migliori auguri. A volte i peruviani possono stupire! Siamo finalmente al porto, pronti per partire. Saliamo su una barca che contiene un gruppo eterogeneo di persone; ci guardiamo un po’ attorno e sentiamo tutta una serie di idiomi differenti. In quel battello c’è un pezzetto di mondo. La nostra guida, Hernan, ci dice che la nostra barca si chiama “Candelaria”, come l’immagine vista a Paracas, che il capitano è Sixto, e che stiamo partecipando ad un tour dell’Inkatravel. Poi, durante tutto il viaggio, o dormirà o ci snocciolerà tutta una serie d’informazioni storico-geografiche sul lago Titicaca. Dopo poco più di mezz’ora siamo dagli Uros. Neanche il tempo di scendere che già le donne allestiscono il mercatino. E il gruppo si scatena, con il solito motto :”comprare il comprabile”, anche se poi, come accadrà a Cleo, non saprà dove buttare la roba che compra. A questo proposito la voglio ringraziare per la barchetta di canne che fa bella mostra di sé sul comò della mia camera da letto. Queste isole hanno un loro fascino, specie sotto questo cielo dalle pesanti nuvole, e anche una storia interessante, che ci viene spiegata da Hernan nelle due versioni, inglese e spagnolo. 8.2: Le isole Uros. 8.3: Lo sbarco. Pare che i primi Uros si siano spostati dalle sponde del lago sul lago stesso, per sfuggire ai loro vicini bellicosi, tra i quali il popolo degli inca. Hanno cominciato a costruire questo loro arcipelago con canne di totora e lo hanno ancorato al fondo del lago. Queste particolari isole sono dette “fluttuanti” in quanto possono salire e scendere seguendo il livello del lago, ed inoltre i loro abitanti possono levare le ancore e spostarle come fossero delle chiatte. All’inizio l’etnia Uros era unica, con un suo sistema sociale e religioso, e pure la lingua era diversa dai loro vicini che parlavano aymara, e dai bellicosi inca che, conquistarono le sponde del lago e che parlavano invece quechua. Ora, però gli Uros di stirpe pura sono spariti; erano infatti un popolo aperto e pacifico, e tramite scambi commerciali con gli altri abitanti del lago e successive unioni miste, un po’ alla volta le caratteristiche del popolo sono andate a perdersi. Hernan ci dice che l’ultima rappresentante della razza è morta negli anni settanta, mentre ora vive sulle isole una popolazione di ceppo di lingua aymara. È strano camminare su queste isole di una consistenza elastica. A me sembra di camminare su dei materassi. Dapprima Hernan ci lascia un po’ bighellonare tra il mercatino estemporaneo, dopo di che ci raduna per la lezioncina e comincia a far girare delle canne tra la gente che lo ascolta. Devo dire che a me sono piaciute, le canne di totora, non sono però quelle che si fumano (purtroppo), sono invece quelle di cui sono fatte le abitazioni, le barche e le isole degli Uros. Se le si assaggia, il primo aggettivo che ti passa per la testa è acquoso. Che può sembrare una citazione di “zelig” ma che invece è la realtà nuda e pura. Dall’isola A passiamo all’isola B, chi scegliendo di andare su “Candelaria”, chi sfruttando il passaggio del “Titanic”. 8.4: Il “Titanic”. È questa una delle tipiche imbarcazione degli Uros con la polena a forma di testa di puma; caratteristica, sicura e bella, anche se ho qualcosa da ridire sul nome impostole. Proprio qua sopra mi capita uno di miei soliti crampi, che mi impedisce di potermi godere l’altra isola. Poco male, infatti si passa dal mercatino artigianale al mercatino turistico vero e proprio con tanto di cartoline e bevande. Sulla carta dovevano essere le isole più belle da visitare in quanto le più peculiari, e sotto un certo punto di vista è vero, ma tutto questo mercato ci lascia un senso come di falso. Quando il giro del lago sarà terminato e “la compagnia” si scambierà le impressioni sulle isole visitate, si discuterà se ci è piaciuta di più l’isola di Amantanì, oppure quella di Taquile, secondariamente si parlerà delle isole fluttuanti. Questo alla fine è il metro di gradimento, secondo il mio punto di vista. Ritorniamo su “Candelaria” per un lungo tratto di circa quattro ore che ci porterà ad Amantanì. Cominciamo a notare come è la struttura del battello, con la francese “trapanatrice” assieme all’israeliano, la coppia di tedesche “on the road”, le fighettine francesi, e il solito “simpaticone della compagnia” sempre al centro dell’attenzione. C’è poi un gruppo di più attempati con un’aria da “che ci faccio io qui?!” e le coreane che stanno per conto proprio, solo la Piriquita riuscirà a fare amicizia parlando comunque sempre in italiano con forte accento veneto; la lingua che apre ogni porta! Nel frattempo la compagnia un po’ si divide. Cleo è sul tetto della barca a prendere il sole, a volte la raggiunge anche Andrea, che nonostante la coca è ancora uno straccio. Anche la Piri passa un po’ di tempo fuori e poi assieme ad Ermanno e a me all’interno. Sabrina continua ad avere mal di testa, e qui corre in aiuto Hernan con le miracolose foglie di coca di Andrea. Le sugge e le applica in punti strategici sul viso della povera malata, dicendole che se non passa dopo una prima applicazione bisogna farne una seconda e poi, se nemmeno questa ha effetto, farne una terza, quarta e una quinta. Da questo fatto deduco due cose: la prima è che la Sabri non è per niente “schifiltosa”; la seconda è che le foglie di coca non devono poi essere così miracolose. Anche a me passa il mal di testa con il tempo. 8.5 : Sabrina e la coca. Ma eccoci alfine giunti ad Amantanì. Hernan ci dice che le famiglie che andranno ad ospitarci possono tenere massimo tre persone, così avviene che ci dividiamo, le donne da una parte gli uomini dall’altra. Noi seguiamo la nostra gentile ospite, una ragazzotta tracagnotta e molto timida che fa Norma di nome. Una volta assegnati a queste ragazze, queste partono di gran carriera e sta a te non perderle di vista. Il fatto è che si somigliano tutte, ma il problema non è tanto questo, infatti basta memorizzare il colore della fascia che portano in vita, è che Amantanì è un’isola collinare e bisogna inerpicarsi dietro a queste che c’hanno un’andatura eccezionale; se poi pensiamo che siamo alla riguardevole altezza di 3.900 metri sul livello del mare, camminare spediti in salita non è proprio la cosa più semplice che ci possano richiedere! Una volta raggiunta la casa di Norma restiamo affascinati (foto 8.6), il paesaggio è unico, privo com’è di ogni modernità e autentico nella sua natura. E poi c’è il lago, sì il lago che incornicia tutto. Non credo che riuscirò mai a dimenticare la bellezza di tutto ciò che è Amantanì. Infatti mi scateno con la macchina fotografica e di ogni angolazione prendo una foto. Una volta lasciata la roba in stanza, che più di una stanza sembra una cappella dalla quantità di cristi e madonne rappresentate, bighelloniamo nei paraggi. Visitiamo la cucina (foto 8.7), che non è altro che una stanzina buia resa fumosa dal fatto che non esiste il camino, e quindi il bagno, questo invece è una latrina posta oltre il campo coltivato a muña, che da queste parti sostituisce la coca, con un bidone d’acqua che funge da sciacquone. 8.6: La casa di Norma. 8.7: La cuoca in cucina. Sono circa le quattro quando ci viene servito il pranzo e sono stupefatto nel vedere Ermanno che si lancia sul formaggio, incredibile, dopo aver divorato una zuppetta di un cereale di cui non mi ricordo più il nome ma che sapeva d’orzo, anche se aveva l’aspetto di uova di girino. Andrea, che ha una migliore memoria di me per queste cose mi dice che si chiama quinua. Si finisce con una tisana di muña, una via di mezzo tra menta e rosmarino, che non riscuote molto successo tra i miei compagni di viaggio, ma che per me è una valida variante alla coca. Ormai è certo, non sarò mai un coca-dipendente! Abbiamo appuntamento con il resto del gruppo al campo di calcio e ci rechiamo con la solita buona lena. Arriviamo, dunque ad uno spazio con un paio di file di gradinate in cemento e una porta per lato. Certo che non si può pretendere che sia in piano! Siamo praticamente gli ultimi ad arrivare, ma di questo nessuno se ne cura, sono tutti impegnati a giocare a calcio o pallavolo, oppure a cercare l’occasione al mercatino improvvisato. Secondo le varie attitudini ci dividiamo le attività; Cleo, Sabri e Cri sono al mercatino, anche se la Piriquita non resiste molto a causa di un forte mal di testa, Andrea riprende, io gioco un cinque minuti a pallavolo, fermandomi in tempo per non avere i polsi rotti da un pallone duro e sgonfio, ma soprattutto per non dover risentire del soroche. A disinteressarsi del tutto del mal d’altura è Ermanno che ingaggia una partita a calcio che dura fino ad esaurimento dei giocatori. Ermanno mi stupisce sempre più! Una volta radunati tutti i turisti, Hernan ci prepara alla scalata del colle che domina il luogo dove ci troviamo. Questo è il Pachatata! Sull’isola, infatti c’è la rappresentazione di tutta la cosmogonia della religione locale in forma di elementi naturali; ci sono appunto i colli Pachatata e Pachamama, che sarebbero Padre Cielo e Madre Terra. Poi c’è il lago che viene chiamato Pachakocha, e quindi è la deità acquatica. Questo ed altro ci viene detto dalla guida tra una sosta e l’altra durante la salita che avviene sotto un cielo cupo e con l’accompagnamento di pifferi peruviani di alcuni bambini. Ha del diabolico questa mania peruviana di perseguitare i turisti con questi strumenti spaccatimpani; inoltre i fanciulli eseguono ognuno un brano diverso, solamente che non aspettano che uno finisca per cominciare con un altro, bensì suonano tutt’insieme. Io, l’inferno, lo immagino una cosa del genere! Tant’è che più del soroche poté lo strazio e in un battere di ciglio raggiungo la sommità del Pachatata e finalmente posso ammirare il tempio dedicatogli: praticamente un muro a secco! Sì, va bhè, ma pregno di significato! Così almeno ci dice Hernan, spiegandoci che non si può entrare perché l’accesso è consentito solo alla comunità e solamente per una festa che avviene il 15 gennaio. La delusione è dipinta sul volto di Andrea ed Ermanno, che si risolleva conoscendo la coppia di tedesche girovaghe. Ma come fa se non sa una parola di tedesco e per quanto riguarda l’inglese… bhè forse è meglio stendere il proverbiale velo. 8.8 : Il tempio di Pachatata. Devo essere sincero, non sarà la costruzione che mi tornerà più frequentemente alla memoria quando ripenserò al Perù, e nemmeno il museo associato ad essa, ma la vista, ah, la vista che si gode da quassù! E’indimenticabile (foto 8.9)! Forse anche l’ora, la luce, il lago, la Pachamama, Amantanì stessa aiuta ad imprimere il momento, a bloccarlo, a renderlo eterno! Sì, d’accordo, anche il fatto di essere assieme ad Ermanno, Andrea, Sabrina e Cleo, ha aiutato, ma è meglio non dirlo a voce alta, questa è gente che si monta la testa! Mi spiace solo per Cri, costretta a letto con il mal di testa, ma ci saranno altri momenti memorabili! 8.9: Il tramonto. Mentre discendiamo mi affianco a Sabri che sta imbastendo una conversazione con le due tedesche (foto 8.10) e cerco di rinverdire il mio inglese con un non buon risultato. Ma almeno comunico. Scopro così che è stato meglio non seguire passo passo il giro che aveva pensato di fare Andrea, che era senz’altro più ricco ma comunque da farsi senza fiato, in quanto una meta da lui inserita, cioè La Paz, non era molto sicura dato che quando le tedesche l’hanno lasciata era in preda alla guerriglia. 8.10: Le Tedesche on the road. È sera e siamo di nuovo da Norma per mangiare la sbobba della sera. Pure io che venivo soprannominato “bello e buono” in Nepal, perché mi piaceva tutto, devo confessare che il cibo è immangiabile, però non sono giunto agli eccessi di Ermanno che a momenti vomitava tutto. Per fortuna che è riuscito a trattenersi! Così cerchiamo di tirarci su con battute, a cui nessuno ride, e con l’Amaretto di Saronno, a cui nessuno piace, ma che servirà a fare bella figura, regalandolo alla famiglia che ci ospita, al momento di lasciare l’isola. Siamo stanchi, ma sappiamo già che ci aspetta la seratina danzante con gl’indigeni. Degniamo loro della nostra presenza e li accontentiamo vestendoci con i loro costumi. E di nuovo un’altra scarpinata, sotto un magnifico cielo stellato, verso la festa all’oratorio. Qui troviamo tutto il gruppo agghindato alla moda di Amantanì pronti a lanciarsi nelle danze. Cristina ha deciso di rinunciare alla serata causa il solito mal di testa, così i maschi si riuniranno solamente con Cleo e Sabrina, le uniche a non essere vestite con gli abiti tradizionali. Dobbiamo ballare tutti seguendo la musica di alcuni brani lunghi e monotoni. 8.11: La Banda della Cumbia Cleo mi spiegherà poi che si trattava di cumbia. E qui devo dire che assisto a qualcosa che ha dello straordinario: Ermanno che balla e si diverte nel farlo! Non solo accetta di ballare per cortesia, ma ricerca pure delle dame! Incredibile! 8.12: Ermanno il ballerino. Che balli Cleo, oppure io è normale, quasi scontato. Che ballino Andrea o Sabrina questi ritmi non è usuale ma rientra in ciò che è ammesso. Ma Ermanno?! Per fortuna che viene filmato. 8.12 :Conciati per la festa. Come al solito ho fatto uno show, ho ballato come un ossesso e ho chiacchierato con un bel po’ di persone, quindi non mi sorprendo più di tanto quando la trapanatrice mi chiede se ho un po’ di erba. La scocciatura sta nello spiegare che non ce l’ho perché non mi serve! Commentando questa battuta si chiude anche questa lunga giornata e allegramente si torna verso la propria abitazione commentando la serata. Siamo tutti molto felici, peccato che le stelle non ci siano più! IX° Giorno – 1.marzo.2003 “Francesi!” Ci svegliamo alle 7 dopo una nottata, che dal mio punto di vista, è stata dura. Dopo nove giorni di Perù è toccata anche a me la maledizione di Atahualpa, ovvero il cagotto! È successo verso le quattro di notte e nel posto più scomodo dell’intero viaggio! Ero lì a letto, svegliato dall’inconveniente, e pensavo: ”passerà, sì dai passerà!” ma non passava. Allora di buona lena, una volta indossati gli scarponi da trekking, e disceso in cortile e quindi passato la cucina e il campetto, eccoci alla latrina, e… forse non conviene addentrarci in particolari, fatto sta che questa passeggiatina notturna mi ha regalato una visione della costellazione dello scorpione giusto allo zenit, di una bellezza mozzafiato. Come dire, c’è sempre un lato positivo! Or dunque, come stavo dicendo, sono le sette di mattina e sta piovendo, una pioggia insistente ma non troppo forte, aumenta d’intensità solamente quando, spinto dalle solite necessità intestinali, anche Andrea è costretto a recarsi alla latrina. In questo caso il lato positivo sta nel fatto che non c’è la doccia in casa! Anche Ermanno, opportunamente attrezzato per la pioggia fa un sopraluogo al bagno. Così, siamo tutti e tre in condizioni pietose e mentre ci portano la colazione, sulla falsariga di pranzo e cena, ovvero una fetenzia, osserviamo sconsolati la scorta che abbiamo di Dissenten. Mezzo blister. Ci scambiamo sguardi che dapprima sono angosciati ma che poi diventano sanguinari; sappiamo che per una pastiglia di antidiarroico potremmo uccidere. Per fortuna non ce ne sarà bisogno. 9.1:Pronti a combattere per il Dissenten. Piove ancora quando raggiungiamo il porticciolo e ci riuniamo con il resto del gruppo per levare le ancore. Cri è notevolmente migliorata e mi racconta delle chiacchierate con le coreane. Cosa si saranno mai effettivamente dette! La nostra nuova meta è Taquile. Sia Taquile che Amantanì facevano parte delle proprietà del conte di Taquila, ed ecco spiegato almeno il nome dell’isola principale. Taquile è più grande di Amantanì, e se quest’ultima è chiamata l’isola delle donne, Taquile è l’isola degli uomini. Questi soprannomi non sono dati a caso; se guardi la gente che incontri vedi che ci sono molte donne ad Amantanì, dato che gli uomini generalmente vanno sulla terra ferma a lavorare, mentre le donne di Taquile sono molto timide e quindi meno visibili degli uomini che vestono in costume tradizionale e li si vede lavorare a maglia o trasportare dei carichi importanti in giro per l’isola. 9.2: Vista di Taquile. Una volta attraccati al porto secondario di Taquile c’impegniamo in una camminata per raggiungere la piazza principale del paese. Naturalmente piove, ciò mi ricorda che siamo nella stagione delle piogge, ma soprattutto che è tipico per me il trekking sotto l’acqua, in Nepal è accaduta la stessa cosa, ed era la stagione secca. In questo caso smette dopo alcuni minuti e riusciamo così a goderci la nostra passeggiata. Taquile è bella! Si godono delle viste eccezionali, e la gente è cordiale e pittoresca. Mi piace, ma è più urbana di Amantanì, anche se parlare di urbanizzazione a Taquile è una contraddizione in termini, ed è forse per questo che finirò per prediligere la prima delle due isole visitate, con buona pace di Cristina che non riesce a capire la mia preferenza. 9.3: La Plaza des Armas. Una volta arrivati alla piazza (foto 9.3) gironzoliamo un pochettino, facciamo delle foto, visitiamo gli onnipresenti negozietti. Sulla piazza c’è un palo con delle frecce con su segnate le distanze delle principali capitai. Solo non riesco a capire come Berlino e Roma abbiano due direzioni diverse. Alla fine veniamo radunati da Hernan che ci fa la solita lezione sulla storia dell’isola e dei suoi abitanti, fino all’ora di pranzo. Lo spiazzo dove mangiamo è una terrazza sul mare, peccato sia un lago, con una vista superba, la quale si potrà maggiormente apprezzare una volta che smetterà di piovere. Mentre siamo seduti a tavola arriva un viaggiatore indipendente, un ragazzo francese che a mio giudizio deve aver dimenticato la crema protettiva a casa, da quanto è escoriato, e bruciato dal sole. Fa più impressione del cristo andino. Si chiacchiera un po’ in melange dato che i compaesani francesi della nostra compagnia non gli dedicano uno sguardo! A Taquile si mangia meglio che ad Amantanì, forse perché il turismo è arrivato prima e quindi si è dotata di ristoranti. È un peccato lasciare la tavola ma dobbiamo raggiungere il porto maggiore dove ci aspetta “Candelaria” per riportarci a Puno. Dobbiamo affrettarci per arrivare prima del tramonto e la via è lunga. Ci avviamo, costeggiamo il colle che domina l’isola e alla fine scolliniamo. È impressionante da quanto è bello! La luce di questo momento della giornata è favorevole, ma credo che sarebbe comunque bellissimo in qualsiasi altro istante. Ridiscendiamo fotografando molto, sia l’ambiente, che le architetture che la gente, che a fatica si porta i carichi a spalle su per la scalinata che dal porto va in paese. È crudele, ma i soliti francesi fermano i pazienti indigeni, li mettono in posa, e tutto non curanti del peso che devono portare. Francesi! Quando arrivo a livello del lago vedo che parte della compagnia si è buttata nelle chiare acque del lago. E io chi sono? Da meno?! E quindi senza badare al fatto di indossare mutande al posto del costume mi butto nei limpidi flutti del Titicaca. Sarà chiara, sarà limpida, ma l’acqua è anche ghiacciata! Credo di rischiare la sincope. Nelle foto apparirò con un bel sorriso stampato sul volto mentre sto nuotando. In realtà si tratta di un ghigno di follia! Cleo che è solo un po’ più furba di me tasta la temperatura dell’acqua immergendo i piedi, e comunque si rende conto del blocco di ghiaccio liquido che è il Titicaca! 9.4: Gli intrepidi. Ad un certo punto veniamo richiamati alla barca e naturalmente mi farò la traversata con il culo bagnato. Per l’ultimo tratto di navigazione si mette al timone il solito francese simpaticone. Non fa niente di sgarbato o di esageratamente esasperante, ma fatto sta che ormai le “braccine corte” non lo sopportano più. Peccato che il Titicaca non se lo sia preso! È sul volgere della sera che raggiungiamo Puno. Salutiamo Hernan e raggiungiamo l’albergo dopo aver prenotato bus e ostello di Cuzco. Non resta molto tempo per organizzare delle visite alla città o nei dintorni. 9.4:Puno. Optiamo quindi per visitare solamente il parco che domina la città. Ci avviamo passando per la cattedrale dove la solita donnina ambulante ferma Andrea per delle compere. È un tira e molla e tra chi va avanti e chi torna indietro la compagnia si smembra. Mi ritrovo con Sabrina e Cristina alla volta del parco. Scopriamo così che anche la Lonely può sbagliare, dato che ci dà una direzione sbagliata, per fortuna che con il mio spagnolo, che sta migliorando, riesco a farmi dare l’indicazione corretta. Arrivo di corsa sul poggio per ammirare le ultime luci sul lago e per prendere qualche foto, solamente che per fare ciò mi stacco dal resto del gruppo. Il parco è in una posizione isolata. La sensazione di pericolo che provo è quasi tangibile. Prima per me, e secondariamente per le ragazze che ho lasciato indietro. Ho dei rimorsi, ma il tutto risulterà infondato, anche perché poi il parco è frequentato dalle coppiette. Anche qui i ragazzi si baciano sotto i monumenti. Il monumento in questione rappresenta il primo inca, Manco Capac I°, che indica il suo leggendario luogo di nascita, ovvero l’isola del Sol, in mezzo al lago in territorio boliviano. Veniamo raggiunti dagli altri che, neanche a dirlo, hanno fatto l’affare. È calata la sera quando saliamo sul bus della Pony Express che ci porterà a Cuzco. Il mezzo dà un’idea di lussuoso e di comodo. Peccato si tratti solo dell’idea. A lungo andare lo trovo scomodo e inoltre anche questo si ferma ad ogni pisciatina de perro! In corriera, in pole position, troviamo la solita francese, la trapanatrice, che assieme al trapano, l’israeliano, apparentemente fa il nostro stesso tour. Ha con sé delle foto scattate durante la navigazione e delle località delle sponde del lago che non abbiamo visitato. Scatta un po’ d’invidia e anche d’ipocrisia. Le facciamo tutti dei gran complimenti per la bellezza delle foto, e per il suo gusto dei dettagli. Quando poi parleremo fra noi, saremo tutti d’accordo sulla bruttezza delle immagini. Ma sai com’è siamo quasi sempre gentili noi italiani! X° Giorno – 2.marzo.2003 “Un generale tra noi” Il soggiorno a Cuzco non si apre sotto i migliori auspici. Arriviamo che è già tardi, veniamo prelevati dai gestori dell’albergo e alla fine eccolo. È una casa de hospedaje, ovvero un’ ostello tra i più economici tra la categoria economica. E si vede aggiungerei! Ma siamo tutti stanchi e abbiamo solamente voglia di buttarci su di un letto, indipendentemente dal fatto di trovarci in una struttura che somiglia di più ad un allevamento di pulci piuttosto che ad un albergo. Ma non ci eravamo ancora accorti di avere un generale tra noi! Dunque, come stavo dicendo, arriviamo in questa topaia e ci dividiamo, i maschi in una stanza, dopo essere stata scartata dalle ragazze, le femmine in un’altra. Stiamo sistemando le nostre cose quando vediamo ritornare sui propri passi l’esercito femminile guidato dal generale Sabrina che sta scagliandosi contro i proprietari dell’ostello. Ne ha per tutti, per la qualità delle stanze, per il fatto che è già pagato, e cosa imperdonabile, non c’è l’acqua caliente! Non va affatto bene così! Sta ancora fomentando la rivolta mentre noi ragazzi arriviamo nel seminterrato, anzi nel del tutto interrato, dove ci sono le stanze che hanno rifiutato le rivoltose. Effettivamente sono veramente brutte, per non parlare del livello d’igiene. C’è un po’ di trambusto e si perde tempo prezioso che potrebbe essere dedicato al sonno ristoratore. Ma finalmente, dopo aver assicurato Sabrina che da lì ce ne saremmo andati l’indomani, ci prepariamo per andare a dormire. Faccio una puntatina al bagno e quando esco chiedo ad Ermanno, il mio compagno di stanza:” ma ti sei già fatto la barba?” “No”, risponde lui togliendo un pelo dal letto dove sta per coricarsi. “Allora, i peli nel lavandino sono di qualcun altro!” Sono ancora immerso in un sonno profondo quando mi entra in stanza Cristina. Mi sta parlando mentre guardo la sveglia e non riesco a capire perché non ha suonato. Eravamo d’accordo che ci saremmo alzati alle nove. Lei parla di Sabrina e di andare via e di altro, ma io sono concentrato a guardare le lancette e capisco metà di quello che sta dicendo. Finché non vengo folgorato dalla rivelazione che la sveglia non poteva suonare dato che era puntata effettivamente un po’ prima delle nove e che Cri mi si è presentata davanti ben più di un’ ora prima. Vivo tutto ciò come una violenza personale. Una volta che ho metabolizzato ‘sta cosa capisco che la Piriquita è venuta da noi nelle vesti di ambasciatrice del “generale”, in quanto la più calma delle tre, per dirci che non possono sopportare di rimanere un minuto di più in quel porcile e di avvertire anche Andrea che si è preso la solita stanza singola. Naturalmente non so dove stia dormendo e provo a bussare ad una porta a caso. Sono fortunato, ho beccato la camera giusta. Andrea avrebbe potuto anche aiutarmi in questa ricerca in quanto aveva sentito tutto quello che era stato detto in camera mia, stante la finezza delle pareti divisorie, solo che anche lui non riusciva a credere alle sue orecchie e, come noi, voleva solamente dormire. Mentre facciamo un’ottima colazione, almeno quella, decidiamo che al ritorno da Machu Picchu avremmo cambiato albergo, per la nostra salute fisica, è veramente una topaia, ma soprattutto per quella mentale, il generale sta bombardandoci. A colazione finita, ci viene prospettato il tour della giornata e ci viene appioppato un autista per la giornata. Jesus è un omaccione enorme ed in salute, niente a che vedere con i cristi andini, e se devo essere sincero, mi fa anche un po’ d’impressione. Questo significa solo una cosa: non so giudicare nessuno dalla prima occhiata! Sono già salito in macchina, nel posto del cane, ovvero nel portabagagli, mentre Sabrina, “il generale”, con l’aiuto di Andrea, “la cassa”, e di Cleo, “la lingua”, sta ancora litigando e tirando giustamente sul prezzo, gli altri sono con me. Alla fine ci accorderemo privatamente con Jesus. La prima cosa da fare è quella di prendere i biglietti per Aguas Calientes, la località ai piedi di Machu Picchu e base per la visita al sito. Anche qui la guida della Lonely ha toppato. L’idea era quella di percorrere il tragitto che porta da Cuzco ad Aguas Calientes su di un trenino a scartamento ridotto, una cosa unica soprattutto per la bellezza dei paesaggi e per la caratteristica andatura e modo di procedere del treno, e il tutto doveva essere economico. Sì, un cazzo, 53$! Mica palle!!! Ci mettiamo quasi a piangere per spuntare un prezzo inferiore. Viaggeremmo persino in cima al vagone! La commessa però è inamovibile. Siete turisti, vi spetta il treno per i turisti. Alla fine capitoliamo e ci facciamo succhiare fino all’ultima goccia da questi vampiri. Quando alla fine scopriremo che esisteva anche la strada per arrivarci malediremo il momento in cui siamo entrati in biglietteria! Va bhé! Ormai è fatta. Non ci resta che salire in macchina di Jesus e proseguire con il resto del programma della giornata. È domenica, e quindi la prima tappa è Chinchero, dato che è giorno di mercato, quindi ci dirigiamo verso questa località. Mentre siamo in viaggio a Sabrina torna in mente di aver lasciato una busta di plastica nera appoggiata su di una panca al momento di fare colazione, e che nessuno poi l’ha riportata in camera. Non so se in questo caso è colpa mia, come nel caso delle ocarine, fatto sta che visto che siccome conosco lo spagnolo, mi tocca scendere e telefonare alla casa hospedaje. Quindi scendo dalla macchina e mi avvio all’interno di un bar provvisto di telefono. Mi chino, passo per la porta, che come al solito è bassa, chiedo se posso telefonare e dunque decido che forse è meglio che spieghi la situazione a Jesus e che telefoni lui. Allora mi chino, passo sotto la porta bassa, e vado a chiamare Jesus e gli dico cosa gentilmente dovrebbe fare. Quindi mi chino, passo sotto la porta bassa, e seguo la conversazione telefonica. È tutto ok, devo perciò comunicarlo a Sabrina che aspetta in macchina. Così, alla fine faccio per uscire, passo per la porta bassa e… dimentico un’azione fondamentale. Non mi chino! Lo stipite mi blocca la testa e, siccome stavo correndo, riesco a fare ancora due passi, quindi mi siedo e alla fine mi sdraio tenendomi la testa. Una capocciata da Guinness. Vengo prontamente curato e i postumi mi dureranno per pochi minuti, anche se il dolore e la ferita morale mi resterà impressa nella memoria! È mattino inoltrato quando arriviamo a Chinchero, compriamo qui il boleto turistico che ci servirà per molti altri siti della valle sacra e di Cuzco, e ci dirigiamo alla piazza. È strana Chinchero, è doppia, stratificata. Nella parte inferiore degli edifici vedi il muro tipico inca in cui vigorosi massi sono stati sistemare a formare un muro perfetto senza soluzione di continuità, mentre la parte superiore è formata da muri imbiancati a calce, nella più classica tradizione coloniale. E mi viene a pensare a come possa somigliare questo tipo di architettura a quanto è successo dal punto di vista culturale, dove il mondo europeo e soprattutto spagnolo si è andato a impiantare su quello andino. Il cronotopo che si vede a Chinchero è la grande metafora della colonizzazione, dove, al di sopra di tutto, si può vedere la cultura dominante, ma che sotto, nell’intimo poggia su valori e credenze ancestrali ed estranee. La stessa chiesa è così. Quando giungiamo alla piazza, dopo aver stranamente snobbato il mercato (prima il dovere e poi il piacere?), è in corso la messa officiata in lingua quechua e mentre aspettiamo che finisca per poterla visitare, ci rechiamo al museo, anche perché il prezzo del biglietto comprende l’entrata a quest’ultimo e dobbiamo ammortizzare. Il museo è piccolo ma ricco di oggetti che sarebbero muti se non ci fosse Jesus a spiegarci a cosa erano deputati. Alla fine termina la messa e un folto stuolo di fedeli multicolore si riversa nella piazza antistante, è molto pittoresco, sono tutti vestiti con i loro costumi tradizionali, e alcune foto non si possono non scattare. 10.1 Donne fuori dalla Chiesa. L’edificio religioso è interessante perché costruito su fondamenta inca e perché il legno usato, di una durezza sorprendente, è endemico della valle di Chinchero. L’interno poi, così poco barocco, è una novità nel panorama delle chiese finora visitate. Usciamo e puntiamo al mercato che è stato allestito nel piazzale, e quindi scendiamo a quello inferiore e più grande. 10.2 “Braccine corte” all’opera. Il gruppo “braccine corte” riprende la sua corsa selvaggia all’acquisto. Mentre ci appropinquiamo al ristorante, la Sabri, viene accerchiata da un nugolo di donnine che le vogliono vendere delle borsettine, ad un prezzo più alto rispetto quello a cui ha acquistato Cleo. Non sanno che questo equivale ad un’onta lavabile solamente nel sangue?! 10.3 Ristorante con Jesus. Il ristorante si trova in un punto panoramico, domina cioè il mercato inferiore e si affaccia sulle montagne. Mentre mangiamo Jesus ci spiega che dobbiamo ammirare molto bene il paesaggio che ci circonda in quanto è destinato a sparire per fa posto al nuovo aeroporto di Cuzco. Chinchero ha infatti la sfortuna di trovarsi ad una quota più bassa rispetto Cuzco, e quindi per un turista che arriva in volo da Lima, sarebbe più facile acclimatarsi a tale latitudine. Alla fine, dopo le ultime compere, ci dirigiamo nuovamente verso Cuzco, lasciandoci l’arcobaleno alle spalle. È infatti questo il significato del nome chinchero! Non andiamo direttamente a Cuzco, la nostra meta sono le rovine si Sacsayhuaman, poste su si un colle che domina la città. Per la strada però ci fermiamo incuriositi da uno strano rito. Mentre percorrevamo la via avevamo visto parecchia gente che tirava gavettoni, ma a questo eravamo già avvezzi dopo aver trascorso la scorsa domenica a Pisco, a lasciarci perplessi era un’altra usanza. Ogni tanto vedevamo della persone tutte imbiancate che facevano girotondo attorno ad un albero tutto decorato con bandierine e palloncini. Incuriositi chiediamo a Jesus cosa stia accadendo. Lui ci risponde che è la Iuma, ovvero una tradizione legata al carnevale, in cui si beve chicha e si abbatte una pianta d’eucalipto, chi l’abbatte paga da bere a tutti gli altri. Penso che non deve essere un’usanza molto antica dato che si usa una pianta che arriva dall’Oceania. Jesus pare mi legga nella mente e si affretta a precisare che in passato si adoperava un altro albero, ma che l’eucalipto è più adatto in quanto cresce molto in fretta ed in un anno raggiunge una discreta altezza. Siamo molto interessati e per questo Jesus si offre di fermarsi alla prima festa che vediamo. Che differenza rispetto Manuel, la guida del Colca! Quindi ci fermiamo e veniamo invitati ad unirci al girotondo. Non ci pare vero, solo Ermanno non aderisce, ma almeno scatta le foto. Beviamo, almeno io bevo, la chicha che mi viene offerta. È questa una bevanda a base di mais fermentato e aromatizzata alla fragola. Riesco a berla ma non mi fa impazzire. Nel frattempo siamo vittime, assieme a tutti i partecipanti, a lancio di farina e schiuma da barba. Ad un certo momento vengono invitati Sabrina ed Andrea a dare alcuni colpi di scure. Sabri si comporta bene, ma Andrea tende un po’ ad esagerare e viene prontamente bloccato prima di abbattere definitivamente l’alberello. Ce ne andiamo a malincuore ma felici di aver potuto prendere parte a qualcosa di vero, una cosa peruviana! Quando arriviamo a Sacsayhuaman siamo ancora tutti sporchi. Bella “sexy woman”, come viene chiamata dai gringo, bella la posizione con Cuzco ai suoi piedi. In realtà il nome quechua dovrebbe significare “falco o aquila soddisfatta”, ma pare che le persone di lingua inglese non riescano a ricordare altrimenti il nome del sito. Comincia a scendere la sera e il luogo è grigio a causa della luce. Jesus ci spiega che ad ogni solstizio d’estate si festeggi l’Inti Raimi, o festa del sole e che avvengono, in tale circostanza ancora effettuati tutti i riti inca. Sacsayhuaman è la testa del puma, e lo si capisce perché appena arrivi vedi subito la muraglia che va a zig-zag ricordandone le fauci. Alla sommità c’è l’occhio, e andiamo a vederlo. Dopo aver scattato alcune foto ai cerchi concentrici che lo dovrebbero rappresentare, raggiungo Sabrina, figura muta ed assorta, che come un generale che ammiri il campo di battaglia dopo il combattimento, guarda pensierosa la Cuzco sottostante. Mi avvicino e le dico:- Però, bello! E lei senza guardarmi mi risponde tutta seria:- Taci, che sto facendo sforzi sovrumani per tenermela dentro. Sta parlando della vendetta di Atahualpa, che in questo momento stranamente sta colpendo anche me. Poi scoprirò che anche altri si trovano nella mia stessa condizione. Cerchiamo di migliorare la situazione ricaricandoci d’energia alla pietra gigante che sta alla base della muraglia. Passiamo poi all’altra struttura che gli spagnoli hanno risparmiato. Infatti vediamo solamente il 20% di quanto era presente in epoca inca. L’altro edificio presenta dei cunicoli e mentre il resto della compagnia si addentra per quello più corto, l’altro dovrebbe arrivare fino a Cuzco, io mi pongo al di sopra del passaggio per fare ciao ciao quando la compagnia passa per i tratti scoperti. 10.1: Sacsayhuaman durante l’Inti Raimi. È il crepuscolo quando ci dedichiamo al lato che più ci affascina e che resterà impresso nella nostra memoria per la sua grande valenza culturale e sociale. Dietro una collinetta c’è uno scivolo naturale, o toboga come lo ha definito Jesus. Noi vorremmo tornare solo per questo. È troppo divertente lanciarsi giù da questo scivolo posto in questo luogo ricco di storia. È quasi una cosa blasfema! Prima di rientrare all’albergo passiamo a visionare un altro hotel: il Saphi. Lo troviamo accogliente, pulito e a buon mercato. È fatta, la notte la trascorreremo alla casa de hospedaje ma già l’indomani saremo al Saphi. Nel frattempo ci hanno dato una nuova stanza. Mentre le ragazze sono ad un piano inferiore, divise in una doppia e una singola, noi siamo in soffitta, pardon mansarda, con un bagno esterno e senza finestra. Di noi ragazzi la doccia la fa solo Andrea, tanto lui ce l’ha già il cagotto! La vista, però su la Plaza de Armas è impareggiabile. Mangiamo all’Urumukai e ci balliamo pure provocando l’ilarità dei gestori, anticipando i festeggiamenti per i compleanni. Una puntatina all’internet café dove Andrea passa le stagioni. E alla fine gironzoliamo per la plaza de armas infastiditi dai buttadentro dei vari locali. Per questa sera niente, ma ci ripromettiamo per l’indomani di rifarci!