Io no spik inglish nella verde Hibernia
Lo sciopero dei treni in Gran Bretagna c'ha fermato a Londra per un giorno. Una giornata forse è stata poca per visitare la Capitale inglese, ma mi è servita comunque per dare uno sguardo a questa città decantata da molti come una mèta mitica per un turismo giovane. Comunque, finito lo sciopero, un bel trenino regionale porta me e i miei due...
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Lo sciopero dei treni in Gran Bretagna c’ha fermato a Londra per un giorno. Una giornata forse è stata poca per visitare la Capitale inglese, ma mi è servita comunque per dare uno sguardo a questa città decantata da molti come una mèta mitica per un turismo giovane. Comunque, finito lo sciopero, un bel trenino regionale porta me e i miei due compagni di viaggio da Londra al Galles, al porto di Holyhead dove c’è il traghetto per l’Irlanda. Sì proprio una bella traversata, in giro per la nave, tra il ristorante dove un televisore trasmette a raffica scenette di Mister Bean, il duty free e i vari ponti con vista sul mare che scorre sotto di noi. Arrivati sulle coste irlandesi, bisogna prepararsi a scendere. Una nutrita orda di turisti sbarca a Dún Laoghaire; giusto il tempo di fare un po’ di tragitto in treno e siamo a Dublino, Connoly Station. Da qualche parte dovrei avere l’indirizzo di un ostello, ma tra le scartoffie sparse per lo zaino è difficile trovarlo, poi non vorrei avere la responsabilità di proporre un posto poco accogliente ai miei compagni di viaggio: me lo rinfaccerebbero a vita. Annuncio di avere da qualche parte questo nome, ma, per non perdere tempo a rintracciarlo nel marasma, e per spirito d’avventura, decidiamo di buttarci alla ricerca di un lettuccio andando a naso. Il naso ci porta in una stradina nei dintorni di Connoly Street: lì ci sono parecchie insegne di Bed and breackfast, ne scegliamo una. C’informiamo, c’è posto, il prezzo non ci dispiace, paghiamo. Il tipo ci mostra il dormitorio, lo seguiamo. Dopo l’ambiente della reception c’è uno stanzone buio con materassi in terra e tanta polvere tra i materassi. «Mamma mia, non sarà mica che dobbiamo dormire qui?». Infatti no, passiamo oltre, attraversiamo un cortile, saliamo una scaletta esterna e ci accomodiamo in una soffitta scura e freddina con letti a castello. Sempre meglio della stanza senza finestre e coi materassi nella polvere, però è comunque un po’ troppo ammuffita. I miei amici mugugnano, non è che sia propriamente una sistemazione dignitosa, ma ormai la frittata è fatta. C’inventeremo qualcosa. Dopo esserci sistemati, facciamo per uscire e, toh, piove! Che piova in sé non è un problema, ma che piova nell’ostello non è bellissimo: dovendo passare per il cortile, anche per andare in bagno bisogna portarsi sempre qualcosa per coprirsi, e poi, i bagni: stanno parecchio distanti. No, no, questa sistemazione non piace proprio ai miei amici, e, in definitiva, neanche a me. Bene, mi sa che mi tuffo nello zaino e cerco l’indirizzo dell’altro ostello. Trovato, chiamiamo, c’è posto, domani saremo lì, bye! Forza ragazzi, usciamo per questa Dublino piovosa! Appena fuori dal b&b incontriamo alcuni nostri compagni di scuola. «Ma tu guarda, che combinazione!…», baci, abbracci… «Li mortacci!…» Ma che succede? Attimo di panico. «L’hai visto quer pischello? J’ha fregato la borza!» e di corsa all’inseguimento. Noi non c’abbiamo capìto molto, ma ad una delle ragazze appena incontrate hanno or ora scippato la borsetta, praticamente in diretta, e alcuni degli amici sono andati all’inseguimento del ladruncolo. Di lì a poco, tornano dicendo che l’hanno seguìto fino ad un gruppo di case popolari un po’ più giù, dove un gruppetto di giovanotti locali ha indicato loro dove fosse finita la borsa. Era in terra con tutto dentro, anche il portafogli, ma senza più un soldo. Meglio che niente. Iniziamo bene! I condomìni di Dublino: mi fanno un po’ impressione. Sono palazzotti tutti uguali in mattoni, un po’ trasandati, con davanti ai portoni o nel centro delle strade, delle grandi statue della Madonna, di Cristo o di qualche Santo, statue policrome, quasi a grandezza naturale. Sono un po’ inquietanti, sembra di stare al cimitero! Poi, nelle stazioni dei treni, ho notato, oltre ai vari manifesti pubblicitari, ce ne sono altri, con su scritti alcuni passi del Nuovo Testamento. Quasi un ammonimento ai passanti. In Irlanda, si sa, la fede è importante, ma mi sembra tutto un po’ ingrandito, un po’ troppo. In ogni modo, passata la bufera dello scippo, salutiamo gli altri amici e ci facciamo un giretto. Arriviamo a Connoly Street. Passeggiamo, attraversiamo il fiume Shannon e ci infiliamo in Temple Bar: una via su cui si affacciano parecchi pub. Ci torneremo dopo cena. E infatti, dopo una rapida mangiata da Mac Donald’s siamo in un pub. Noi tre, prima di arrivare in Irlanda siamo stati in Turchia e nell’Est Europa, dove, si può dire, abbiamo fatto i signori. Ora siamo qui a fare i conti con gli spiccetti, e, per forza di cose, a mangiare un panino al Mac! La prima brutta impressione monetaria l’avevamo avuta appena arrivati a Londra, dove, in cambio di 100.000 belle e grasse Lire c’hanno dato circa 30 Sterline intirizzite: un paio di fogli e due o tre monete: una miseria! E in Irlanda non è stato diverso. Oltretutto sono finite sùbito. Però una bella birra irlandese non ce la toglie nessuno. Seduti comodi in un pub di Temple Bar, tra i fumi e le note della musica irlandese e tra le chiacchiere dei presenti, ci gustiamo il prodotto più tipico di queste parti: la birra Guinnes. Io chiedo una mezza pinta per il prezzo di 90 pence (2.500 lire). Confrontata con tutti gli altri prezzi, la birra è veramente a buon mercato. E poi è buona. Sapremo, qualche giorno dopo, che il sapore della Guinnes che c’è da noi è così diverso da quello che si gusta in Irlanda perché prima di essere esportata, la birra viene pastorizzata, e ciò le dà quel retrogusto amarognolo che in Irlanda non c’è. A Temple Bar è d’uso fare il giro dei locali: si entra, si beve, s’esce e si entra in un altro pub, si ribeve, col tasso alcolico man mano in crescendo, il tutto fino all’orario in cui i gestori smettono di servire da bere. È un discorso detto e ridetto, ma l’ho potuto notare di persona anche io: molta gente gira ubriaca già di mattina presto, ma allora, a che serve smettere di servire alcolici di sera? Per me resta un mistero, son fatti loro in definitiva! Io me ne vado a nanna, i miei amici mi seguono dopo un po’. L’indomani facciamo armi e bagagli, colazione e via, verso l’ostello di cui avevo l’indirizzo. Come ogni bravo “inter-rail man”, come viene anche segnalato nella guida “ufficiale” dei bravi interailisti, dal bagno dell’ostello mi frego un rotolo di carta igienica azzurro e uno rosa: possono sempre servire. Dopo aver mangiato uno scotch egg in una specie di friggitoria-panetteria-salumeria nei dintorni del b&b, andiamo all’ostello prenotato. Si trova in Mountjoy Street, in una zona vicina al Centro, ma un po’ distaccata. Si tratta di un ex convento riadattato ad ostello: pulito, comodo, con personale gentile: veramente un bell’ostello! Ora si ragiona. Stiamo altri due giorni a Dublino. Abbiamo scelto di goderci l’Irlanda con comodo, dopo aver attraversato tutta l’Europa un po’ di corsa. Visitiamo il Dublin Castle, la Cattedrale di S. Patrizio, la Cristchurch e altre chiese, entriamo in diversi edifici e negozi, e capitiamo in una specie di associazione culturale di ispirazione indiana, dove si vendono incensi e gingilli orientali di vario genere e in cui, in fondo c’è una sorta di tempio dove s’entra scalzi, e in un centro di cultura buddista dove alcuni monaci stanno costruendo uno di quei disegni fatti con la sabbia colorata: molto bello. Anche io, come l’amica di scuola del primo giorno, faccio conoscenza con un gruppetto di ragazzini dublinesi. A me rubano solo l’accendino, dopo che gliel’avevo prestato per accendersi una sigaretta. Lì do libero sfogo al mio vocabolario inglese, tirando fuori due o tre belle parolacce anglofone che non mi era mai capitato di dover usare prima. Ho anche io occasione di far conoscere il vero lavoro delle loro care mamme a quei bimbini! La cosa che, però, mi infastidisce, non è tanto il furto dell’accendino (che, tra parentesi, non sapendo come si dica in inglese e non vedendolo su nessun bancone di tabaccheria per poterlo indicare, non posso comprare e mi devo accontentare dei fiammiferi di cui invece conosco il nome), ma il fatto che mi sto rendendo conto che i ragazzini di Dublino non sono propriamente messi bene. Ce ne sono tanti sporchi e poveri in giro, chiedono soldi e sigarette ai passanti. Non è un bello spettacolo, devo essere sincero. Una bella mattina, chiudiamo la nostra parentesi nella capitale irlandese. Io ho con me l’orario ufficiale dell’Inter-rail, che tra l’altro non ho più visto in giro gli anni successivi: è davvero utile, hai tutta Europa in tasca. Ad ogni modo, scopriamo che a Dublino ci sono due stazioni ferroviarie: Connoly da cui siamo arrivati e Euston Station da cui partirà il nostro treno per Galway, sulla sponda occidentale dell’Eire. Dal mio orario risulta che il treno parte tra poco, ma non troviamo indicazioni per la stazione e, quindi, chiediamo ai passanti, e poiché la strada è tortuosa, lo facciamo tre volte. Ora, il mio inglese è pietoso, ma quello dei miei amici è di un certo livello. Per tutto il tragitto, chiediamo lumi per raggiungere questa stazione, ma la gente locale ci guarda in modo strano e fa fatica a capire dove vogliamo andare. Noi chiediamo la strada per “Yùston stèsciön”, come l’aveva chiamata il tipo all’altra stazione, ma i passanti prima titubano, poi, dopo uno sforzo esclamano, il primo «Ah, Òston stescion!», il secondo «Ah, Àston stescion!» il terzo «Oh yes, Ùston stescion!» e ci indicano dove andare. Al che mi chiedo, se in un chilometrino di tragitto, il nome di una stazione ha 4 pronunce diverse, come cavolo fanno gli Irlandesi a parlare tra di loro durante tutta la propria vita? Non l’ho mai saputo. Di riffa o di raffa, alla fine raggiungiamo Yùston/Òston/Àston/Ùston stèsciön e c’imbarchiamo verso l’Oceano. Nelle orecchie ho le canzoni dei Tazenda: il mio walkman mi dà compagnia mentre Marco e Tommy sonnecchiano cullati dal treno. Il famoso colore verde dell’Irlanda è dappertutto: mi scorre a destra e a sinistra attraverso i finestrini. C’è qualcosa nella musica dei Tazenda che si accorda molto bene con questi paesaggi. Sarà il suono della cornamusa che a volte si sente nelle canzoni, che fa tanto Irlanda, sarà la lingua sarda dai suoni un po’ duri e arcaici che s’accosta bene al Gaelico, l’idioma atavico di questo Popolo. Dove stiamo andando c’è ancóra gente che lo parla. Mi piace il Gaelico, i suoi rumori duri che mi sembrano le beccate di un uccello, si sente l’antichità di questa lingua, il suo essere millenario, come un rudere. Ed è questo che mi appassiona dell’Irlanda. Il mito di un popolo arcaico, fiero, robusto come le pietre grigie delle loro croci e dei manieri che svettano tra il verde e il cielo. Secoli di colonizzazione inglese non hanno distrutto le tradizioni degli Irlandesi: a far quasi morire la loro lingua c’ha pensato la carestia del 1845 che ha ucciso migliaia di persone e ne ha costretto un milione e mezzo all’emigrazione; in gran parte erano contadini, gli allora custodi dell’identità gaelica. Un mondo globalizzato che parla Inglese, che veste in jeans e che beve coca cola non fa per i miei gusti di viaggiatore. Voglio conoscere cose diverse, culture e Popoli autentici. Oggigiorno è ben difficile trovarli, ma qua in Irlanda voglio cercare qualcosa di originale: chissà se grattando esce fuori un po’ di tradizione. A forza di divagare, il treno è arrivato a Galway. Mmmm, diversa dalle foto dei dépliant: centro commerciale, negozioni. Mah! Andiamo in ostello. E camminando verso l’ostello, Galway man mano si svela. Le sue case basse, le porte di legno, alcune insegne scritte in Irlandese: sì sì, ci siamo, mi piace. Ed eccolo il suono secco e gutturale di una frase gaelica. Due ragazze lo stanno parlando. Ah che piacere: sembra che stiano sbattendo due pezzi di legno «Crock, archh»: che lingua strana! L’ostello sta in Dominick Street Upper, una stradina un po’ fuori dal centro cittadino, che passa tra villette e campagna. È una specie di collegio/scuola gestito da religiosi, dove d’estate affittano i dormitori ai turisti. Un po’ spartano, ma non ci lamentiamo. Posati i bagagli, andiamo in giro e arriviamo in riva all’oceano. Camminiamo sulle rocce scure per raggiungere l’acqua, e sotto ai piedi sento crak, scrok. U mammamia! Sto camminando su uno strato di migliaia di cozze e, passando, sto facendo una strage. È un tappeto di cozze a perdita d’occhio. Non si può fare a meno di schiacciarle. Non resisto, intingo una mano nell’oceano e riscappo in dietro. Cerco di camminare in quei pochissimi centimetri di roccia nuda, ma non posso fare a meno di sentire il crak di qualche povera bestiolina che muore schiacciata. Mi sento un criminale! La sera ci concediamo un’altra birretta in un pub. Quando si fa tardi, il titolare chiude le saracinesche e continua a servire da bere ai clienti che sono dentro. Fatta la legge, trovato l’inganno: tutto il mondo è paese! Più tardi, facciamo un giro per le vie della città dove ci sono molti artisti di strada che suonano e rallegrano l’atmosfera. Incontriamo una ragazza spagnola con cui scambiamo due chiacchiere e che poi accompagniamo al suo ostello, perché ha paura di girare da sola per le strade che nel frattempo si sono fatte vuote. L’indomani c’è l’escursione alle Isole Aran: secondo me la vera Irlanda. A Galway saliamo su un pulmino turistico che ci porta ad un attracco di barche nella cittadina di Roseaveal da cui prendiamo un traghettino. Il tragitto in pullman è rallegrato dalle note di sottofondo di una bella musica celtica, in piena sintonia coi paesaggi che vedono. Al terzo brano i miei amici già si sono scocciati delle sonorità sempre uguali di quelle musiche. Che gente poco poetica! Ad ogni modo, il barchino naviga fra le onde alte dell’Oceano traballando verso Inis Mór, l’isola principale delle Aran. Allora, come muoversi? Noleggiamo una carrozza col cavallo? È così pittoresca! Urca che prezzi però! No, non se ne fa niente, meglio una bici. Si va ad affittarle e s’incomincia il giro antiorario dell’isola. Per raggiungere la costa, pedaliamo lungo i sentieri nella campagna, delimitati da muretti di pietra scura. Arriviamo in una spiaggetta sabbiosa, nel Sud di Inis Mór e continuiamo verso Nord, sempre costeggiando il mare. Non incontriamo nessuno, solo un paio di mucche paciose che pascolano lungo la strada. Ogni tanto si vede qualche abitante dell’isola che armeggia nelle vicinanze della propria casa. Case basse col tetto di pietra o di paglia, circondate da un prato verdissimo e dai muri a secco bassi. Il silenzio è fortissimo. Si sente solo il mare che s’infrange sugli scogli e il vento che muore i pochi alberi, e… Ops, i tuoni! Accidenti, mica pioverà? Non faccio in tempo a pensarlo che viene giù una pioggerella fine fine che man mano cresce e diventa acquazzone. Eccoci qua, cinque minuti dopo, zuppi dalla testa ai piedi con le bici grondanti e il sole che splende. Lasciamo la costa e c’inoltriamo nel cuore dell’isola. Qui ci sono le rovine del Dún Eochla, un piccolo forte, della Teampall an Ceathrar Álainn, la chiesa dei Quattro Meravigliosi Santi, delle Teampall Mac Duagh e Teampall na Naomh, due chiesette dell’undicesimo secolo circa. I turisti sono pochi e girare per questi siti è piacevole anche se sbrigativo per colpa delle bici che un po’ c’ingombrano. Piove e smette per altre due volte. Io decido che la giornata a tre coi miei amici è stata lunga, e preferisco tornare verso il paese. Loro proseguono la visita all’isola incantata, andando al Dún Aonghasa, il più famoso forte delle Aran, a picco su cento metri di scogliera sul mare. Mi dispiace perdermi questo spettacolo, ma ho voglia di stare un po’ da solo. E per fare questo, piglio a tutta velocità la via principale in discesa verso il centro abitato, e vado a perlustrare il pub. Cioccolata calda: buona e ristoratrice. Quando decido di andarmene, mi cade l’occhio sul menù del giorno. La prima della lista è una home made soup. M’informo sul contenuto e la ragazza bionda e sorridente mi dice che è fatta coi funghi. Mi convince e mi rimetto al tavolo. Finita la zuppa, giro ancóra per la cittadina: è rilassante nel fresco del venticello e nell’assenza quasi totale di gente in strada. Bisogna riconsegnare le bici e prepararsi a prendere l’ultimo traghetto. A cinque minuti dalla partenza Marco e Tommy non si vedono ancóra. Tutti i nostri bagagli sono all’ostello di Galway, non abbiamo niente con noi e non mi piace per niente l’idea di andare a dormire al b&b dell’isola: non ha certo prezzi da turisti poveracci come noi siamo. Mentre mi sto preparando la serie di sproloqui da tirare contro ai miei amici perché il traghetto è perduto, li vedo spuntare uno in bici e uno a piedi, bagnati fradici e pronunciando frasi irripetibili. Corrono a posare la bicicletta e scappiamo sul barchino. Appena in tempo: già hanno tolto l’àncora. Insomma? Insomma si sono perduti. Non trovavano il sentiero che da Dún Aonghasa arriva alla strada ciclabile e dove avevano posato le bici, e hanno vagato per le scogliere da soli come lupi mannari, dopo che anche l’ultimo sparuto turista se ne era andato. E sulla strada del ritorno a Tommy si era incastrato un bordo del giubbotto nella catena della bici. La catena s’è tolta dalla sua sede e il giubbotto s’è lacerato. Tutto è bene quel che finisce bene. Siamo a Galway ed è ora di cena. Oggi ristorante. I miei amici favoleggiano di antipasti di frutti di mare, salmoni alla nonsocome, poi arriva la rubiconda signorona col menù. Mangiamo jacket potatoes e onion rings. La mia scelta di questi piatti è data dalla dieta vegetarina, più volte presa in giro durante la vacanza; la loro, dal fatto che, in fin dei conti, mangiare vegetale costa molto meno che mangiar pesce. Eh eh eh, chi ride ora? Da bere acqua. Mi affido all’inglese degli amici per far capire alla signora che non vogliamo acqua minerale (quella costa), ma acqua normale, di rubinetto. Glielo spiegano. «Tap water!» fa lei, «Come tap, che c’entra il tappo? No, quella senza tappo! L’acqua normale! A Costà, come si dice l’acqua di rubinetto in Inglese?» A me lo chiedi? Ma fosse che si dice proprio tap? Le chiedo se ‘sto tap è il rubinetto, facendo i gesti con la mano e dicendo glu glu glu, tipo acqua che scorre, lei fa «Yes, tap water!» E tanto ci voleva? Si chiama tap! Che impresa! L’indomani è l’ultimo giorno a Galway e ci gustiamo una gita in bicicletta per la città e i suoi dintorni. Andiamo su una scogliera lì nei pressi e ci rilassiamo sull’erba fresca con la vista dell’oceano che tuona sotto di noi. È di nuovo mattina, treno per Limerick. Tommy ha deciso che non vuole più svegliare Marco, perché ha paura che lo mandi a quel paese, dopo un mese che gli dà il buongiorno. Com’è proprio stamattina c’hai ‘sta paturnia? Non si sa. Vabè, Marco, tesoro, apri gli occhietti, ché bisogna andare a Limerick. Marco oggi non è proprio in sé. Ha movimenti da bradipo e la mente poco ricettiva. Mentre si veste io e Tommy si fa colazione. Finito di mangiare giunge Marco con una faccia poco sveglia. «Muoviti ché perdiamo il treno!» gli fa Tommy. Lui mangia; mangia piano, senza fretta. «Guarda che perdiamo il treno», lui gli risponde biascicando che ha bisogno di mangiare con calma e di godersi la colazione. Fa’ come ti pare, aspettiamo, se perdiamo il treno è colpa tua. Quando mancano 10 minuti al treno, Marco è pronto. Si va veloci alla stazione; a metà strada il treno è ormai partito, rallentiamo, non c’è più fretta. Meno male che le parolacce in romanesco gli Irlandesi non le sanno. Ne avrebbero sentite delle belle in quell’occasione. Mentre i miei amici litigano, me ne vado a far compere in un supermercato. Finalmente, un’ora dopo, si parte col treno successivo. A Limerick piove, ma va? Da vedere c’è il Castello di King John. Dov’è? Boh. Chiediamo! Fermiamo un tale. «Scusi – fa Marco in Inglese – per il Castello?» Il tipo lo guarda interdetto, «Sorry?». Come sorry? «The kàstel». «The?». «Ma che sei tonto? the kàstel!». No, non afferra. «Ma non sarà the kèstel?» fa Tommy. «Guest house?» chiede il tipo. Che c’entra guest house. «Kèstel, con le torri! Kèstel!». No è? «Kòstel?» Ma ti pare kòstel? Vabè che sò Irlandesi, ma kòstel!!! «Aspetta, senza T: kèssel!» Il signore un po’ sorride e un po’ è imbarazzato. Non capisce, non c’è verso! Io provo con la pronuncia che mi ricordavo da scuola: «Kèssöl?» «Oh, yes, King John’s kèssöl!» Ma vaff! Ma che differenza c’è tra kèssöl e kèssel porca miseria!? Euston a Dublino lo pronunciano in quattro modi diversi e qui ti formalizzi per castle? Se uno straniero mi chiede il “castallo”, mica faccio ‘ste storie, capisco che dice castello! Oltre tutto qui c’è solo quello da vedere! Comunque, dov’è? «Come with me, please!» Dove? In macchina? No, dài, ci porta lui. Oh che gentile! Gli avremo fatto pena! Mi fa sedere avanti, al posto del navigatore. Ma il navigatore in Irlanda sta al posto del guidatore: hanno la guida invertita! Che buffo stare al posto del guidatore senza il volante! Pure queste sono esperienze! Tante storie per arrivarci e poi il castello è tutto qui? Naaa! Ma cos’è sto coso? È pure chiuso! Bof, tutto fa brodo, abbiamo visto pure il King John’s Castle di Limerick. Passiamo il pomeriggio a zonzo, poi di nuovo il treno per Galway, di lì quello per Dublino Euston, da lì bus per Connoly, da lì trenino per Dún Laoghaire, da lì traghetto per Holyhead. Sul traghetto ho scoperto di chiamarmi Roberto Baggio, visto che i mondiali d’Italia ’90 sono un ricordo fresco e che il bigliettaio non aveva voglia di copiare i nostri strani nomi italiani sul biglietto e ha preferito scrivere Baggio e Schillaci: contento lui! Allo sbarco in Gran Bretagna, oltre a farsi dare i documenti, il doganiere mi chiede di aprire uno dei miei bagagli. Apre lo zaino piccolo e ne svuota il contenuto sul tavolo: pane di segale, sottilette, bottiglia d’acqua, pacchetto di sigarette e fiammiferi, macchina fotografica e uno rotolo di carta igienica rosa e uno azzurro: sì quelli rubati a Dublino. Che figura barbina!