…Porta la mamma in Malesia!
Dopo un’organizzazione un po’ più elaborata del solito (mia madre e Alice non erano avvezze a viaggiare zaino-in-spalla ed a far fronte ai normali inconvenienti che capitano durante i viaggi non organizzati), tipo prenotare le prime tre notti a Kuala Lumpur via Internet dall’Italia (Aaaargh!!!) e chiedere qualche consiglio al pediatra di Alice relativamente a vaccinazioni particolari ed alimentazione integrativa (Alice mangia come un pettirosso; assaggia ogni cosa ma si ciba veramente di quantità risibili di cibo) per non rischiare di vedercela crollare per inedia a metà viaggio, procedo con la parte ante-viaggio che preferisco: la prenotazione del volo.
Viaggiando fuori stagione (perlomeno per la mentalità occidentale), cioè verso la metà di Maggio, le offerte convenienti fioccano davvero. Alla fine decido per la British Airways che propone un Genova-Londra-Kuala Lumpur che mi soddisfa in termini di orario, attese tra un volo e l’altro, giorni disponibili e, ovviamente, prezzo.
Procurato uno zaino anche alla mamma e persa la pazienza una dozzina di volte per insegnarle come riempirlo correttamente; acquistato l’integratore alimentare iperproteico supervitaminico megacarboidratico per Alice; rimpinguata la necessaria scorta di Bimixin, medicine varie e salviettine preinumidite; sostituite le batterie delle macchine fotografiche e stipulato un mutuo ipotecario per l’acquisto dei rullini; mendicata la telecamera digitale dal fratello (ottenuta alla fine in cambio della promessa che avrei immortalato ogni scena ridicola avente la mamma come protagonista); controllato lo stato di salute degli zaini (che compiono tredici anni di vita e maltrattamenti e qualcosa come almeno 140.000 chilometri); declinate le richieste di acquisto di beni durevoli da parte di amici senza ritegno (tipo: passi da Kuala Lumpur? Me lo compri un lettore di DVD?); direi che c’è tutto, no? E allora si parte.
Il volo si svolge come al solito senza grossi problemi (anche perché in caso contrario non credo che sarei qui a scrivere queste righe), l’aereo che ci trasporta da Londra a Kuala Lumpur è un nuovissimo Boeing 767 con display personali per guardare i programmi in-flight; Alice si addormenta durante la fase di decollo da Londra e – mentre il sottoscritto, a causa di un’insonnia perniciosa indotta dal non ampissimo spazio a disposizione per le gambe, si guarda per tutto il volo (14 ore) un pot-pourri di American Beauty, Casablanca rimasterizzato, il meglio di Mr. Bean e Stuart Little – si risveglia fresca come una rosa meno di mezz’ora prima dell’atterraggio. Recuperati i bagagli e sistematili su di un trolley (aaaargh!, ma voglio mantenere mia madre in forze il più possibile) ci avviamo alla volta della fermata degli autobus (F.B.V. Anche quest’anno, thanks) dove uno splendido coach con aria condizionata ci porta in centro.
La mamma, uscendo dall’aeroporto, compie l’errore che tutti abbiamo commesso almeno una volta: alla prima facciata dentro l’aria rovente del clima tropicale esclama “Mamma mia, mamma mia, con tutti i posti dove potevamo uscire siamo finiti proprio dietro il motore acceso di un autobus!”; spiegatole che questo “motore acceso” è il clima con il quale dovrà convivere per i prossimi ventun giorni – e sostenutala per un accenno di svenimento – saliamo finalmente sul bus.
L’albergo, pur discostandosi di molto (verso l’alto) dallo standard delle topaie dove sono solito pernottare in Oriente, costa relativamente poco (tipo 12 Euro per quattro persone con colazione compresa) ed è strategicamente posizionato in centro, “comodo mezzi e negozi” come si suol dire. La stanza è ampia, gode di due letti matrimoniali, un microterrazzo, un bagno dignitoso ed un rumorosissimo condizionatore d’aria.
La Malesia peninsulare è di solito conosciuta come “gli Stati Uniti dell’Oriente”; osservando la modernità dei mezzi di trasporto, la pulizia di Kuala Lumpur, il fatto che praticamente tutti quanti conoscono un inglese decente, la facilità nel muoversi all’interno del Paese, la possibilità di poter prevedere più soluzioni per raggiungere la stessa meta di fatto a parità di prezzo, l’elevato standard qualitativo delle strutture anche dichiaratamente “low budget” non si può che convenire con questa definizione. D’Altro canto, avessi previsto di incontrare gli stessi problemi di Sumatra, del Borneo o dell’India mai e poi mai avrei acconsentito a farmi accompagnare da mia madre… Il nostro primo giorno in Malesia trascorre innanzitutto a disfarci in parte del fuso orario, che Alice sembra non patire assolutamente; devo dire che – contrariamente a molte persone con cui ho parlato – io personalmente patisco molto meno il jet-lag quando mi trovo a viaggiare verso est. In fondo, arrivando in un posto quando “è più tardi” rispetto al mio orologio biologico (il che implica tra l’altro il dover andare a letto quando di fatto non abbiamo ancora tanto sonno) mi sembra meno frustrante di arrivare – chessò – in California alle 5 del pomeriggio quando dentro di me sono le 2 di notte, andare a dormire rovinato dalla stanchezza alle 9 ora locale (le 6 del mattino per me)…E risvegliarmi bello pimpante quando il mio ritmo circadiano mi dice “Dormiglione, alzati, hai dormito fino a mezzogiorno!”, per scoprire che nel posto dove ho aperto gli occhi sono le 3 di notte! Anche per fare lentamente acclimatare la mamma al clima tropicale che la sta massacrando, decidiamo di sacrificare buona parte della mattina a girare per la Kuala Lumpur “bene”: negozi e centri commerciali. Dopo un paio d’ore io e Roberta siamo evidentemente già stufi, e per la nostra gioia la Lonely Planet ci consiglia di visitare le grotte di Batu, a pochi chilometri dalla capitale e raggiungibili mediante un autobus di linea. Corriamo, per quanto ce lo consente la temperatura ignobile, fino alla fermata più vicina; paghiamo un biglietto dal costo che definirei “simbolico” e dopo una mezz’ora circa scendiamo di fronte alla lunghissima scalinata (per i maniaci sono 272 scalini…) che conduce alle Grotte di Batu.
Queste grotte sono particolarmente affollate solo in un determinato periodo dell’anno, verso la fine di Gennaio (il decimo mese del calendario Indu), durante il quale si tiene la cerimonia del Thaipusam, con oltre 800.000 partecipanti. Avrete visto sicuramente delle immagini raccapriccianti di fedeli con la schiena tormentata da uncini acuminati ai quali sono legate delle corde che a loro volta tirano dei carretti colorati; altri fedeli si perforano guance e lingua con spilloni da cappelli, il tutto per ingraziarsi con il loro dolore le divinità venerate ed ottenere magari qualche favore. Le grotte di Batu sono popolate da un nutritissimo branco di macachi, che non esitano ad aggredire anche piuttosto violentemente il turista che offra loro noccioline, banane o patatine (strategicamente vendute in gran copia dalle bancarelle ai piedi della scalinata); Alice si innamora di una scimmietta che le si avvicina con in braccio il piccolo, veramente giovanissimo e tenero (praticamente un feto…) e mi fa spendere una consistente percentuale del budget di viaggio in leccornìe per il piccolo primate.
Una volta all’interno ci fermiamo un istante a riprendere fiato e ad osservare con calma le dimensioni davvero impressionanti delle grotte, la più imponente delle quali ha una volta alta quasi cento metri. Qualche piccolo pipistrello svolazza indisturbato, qualche venditore ambulante cerca di piazzarci la sua merce, qualche “guida” improvvista ci offre i suoi servigi…L’Oriente, insomma. In un paio d’ore abbiamo completato una visita che definirei “a fondo” di questa giustamente famosa attrazione, e ci fermiamo a bere un cocco fresco in un localino posto vicino alla fermata dell’autobus (dove per inciso i prezzi sono esattamente la metà rispetto alla concorrenza situata ai piedi della scalinata, cento metri più in là; come al solito la F.B.V. Ha avuto ragione: è bastato seguire una famiglia di autoctoni con bambini capricciosi per capire che non era il caso di regalare soldi agli acchiappaturisti!). Ritorniamo in città e facciamo sperimentare alla mamma un vero ristorantino lercio “di quelli che piacciono a noi”, con piattazzi di plastica, posateria mista e tutto il resto. Incappo subito in un piccolo malinteso di carattere valutario: la moneta della Malesia è il ringgit, che – ho capito quella sera – i residenti per comodità chiamano “dollaro” (!), anche se del biglietto verde esso non ha certo il valore (nel 2000 circa 22 centesimi di Euro); quando ho chiesto i prezzi dei cibi, il cameriere me li ha enunciati in ringgit, chiamandoli però “dollari”. All’annuncio che un piatto di Nasi Goreng mi sarebbe costato 4 dollari mi sono un po’ inalberato; il padrone del locale ha chiarito il malinteso e ci siamo seduti belli pronti a consumare una lauta cena. Mia mamma ha assunto fin dal primo giorno un atteggiamento con il cibo che giustificherebbe un subitaneo matricidio: ogni portata che le viene proposta viene esaminata con occhio critico, sguardo disgustato, smorfia di sufficienza sul volto e gli occhi che mi dicono: “Ma che merda hai ordinato anche stavolta?”; due colpetti di forchetta a spostare il cibo nel piatto di qua e di là, il primo boccone annusato mezz’ora con sospiri e schiocchi della lingua…E subito dopo tutto quanto divorato a quattro palmenti! Onestamente parlando, dopo il giretto orientativo in centro, le grotte di Batu, una moschea carina ed un giro al mercato (ivi compreso un lunch al Planet Hollywood caldeggiato dalla genitrice…), non è che Kuala Lumpur abbia così tanto da offrire, specie se paragonato con quello che avrei pianificato di visitare durante questo viaggio. Grazie ai suggerimenti dell’immarcescibile Lonely Planet, riesco a prenotare per l’indomani un autobus che ci porterà direttamente a Kuala Tembeling, punto di partenza delle piroghe che, risalendo il fiume, ci depositeranno all’ingresso del Parco Nazionale Taman Negara, la prima VERA meta del nostro viaggio.
Questo parco è giustamente famoso in quanto ricomprende l’unica foresta pluviale al mondo che non è stata spazzata via durante l’era glaciale; si può quindi affermare che nel Taman Negara si può osservare la giungla più vecchia del pianeta; la guida dice che vi si possono osservare numerosissimi animali: dalle scimmie ai serpenti, da rari anfibi a mammiferi medio-grandi (facoceri e tapiri)…Fino alla famosa Tigre della Malesia (il cui avvistamento, viene però onestamente sottolineato, è considerato a dir poco impossibile, a meno di non volersi avventurare nel profondo della giungla per un trekking avente la durata minima di quindici giorni). Sbarchiamo alle porte del Taman Negara National Park…E scoppia subito il primo casino. Sulla riva del fiume opposta al lussuoso resort sorge un villaggio con carinissime guesthouse (d’accordo, senza aria condizionata, ma che diamine…) dai prezzi ridicoli (tipo 5 Euro per una camera da quattro persone). Incuriosite, mia mamma e Roberta vanno a vedere i bungalows offerti dal resort: in mezzo alla giungla, interamente in legno, veranda con sedie a sdraio, bagno-doccia con antibagno, aria condizionata; il tutto per il controvalore di circa 20 Euro per tutti e quattro. Inutile, dopo due ore di urla, strepiti e minacce velate tipo “allora me vado in giro da solo cercatevi una guida per i fatti vostri brutte ignoranti di merda che senza di me non uscite neanche dal cesso, altro che dalla Malesia, vieni Alice andiamocene”, sono costretto a cedere 2 contro 1 (Alice non vuole votare) per due pernottamenti al resort, patteggiando solo alla fine l’ultima notte in una guesthouse dell’oltrefiume..
Per quanto Apostolo del viaggiare al risparmio, devo ammettere che la prima notte nella giungla, circondato solo dal silenzio e dai mille rumori naturali che riecheggiano da un universo verde che sembra respirarci addosso, me la godo proprio. Per colmo di superbia – e all’insaputa delle mie compagne di viaggio – mi esibisco in un autoscatto Chatwin-style con me fintamente assorto a riempire una moleskine di appunti di viaggio, spaparanzato su di una sdraio di vimini nella veranda del nostro bungalow! L’indomani mattina all’alba mi reco presso la postazione delle guide del Parco, mi faccio consegnare una mappa (che più artigianale non si può) e chiedo consigli su di un “trekking” non troppo impegnativo – 4-5 ore al massimo – da intraprendere in mattinata. Decidiamo per una puntatina sulla collina panoramica del parco, la cosiddetta Bukit Teresek, un percorso di ritorno che ci porti a percorrere il circuito di ponti sospesi (solita baggianata accalappiaturisti, penso…) e quindi l’arrivo stremato a casetta. A questo punto, un aneddoto quasi obbligatorio.
Da sempre Alice ha sofferto di inappetenza, e prima di partire il pediatra – in previsione di digiuni forzati a causa del cibo magari non appetitoso come la nostra “dieta mediterranea” – ci ha consigliato di munirci di un integratore proteico/calorico in grado di fungere da complemento ad un’alimentazione non completa. Quella mattina leggo sulla bottiglia del prodotto (che è lo stesso che utilizzava Lance Armstrong per correre – e vincere – il Tour de France) che le dosi per un bambino di dieci anni sono circa di un cucchiaio da minestra al giorno. Dopo la colazione, che Alice salta quasi completamente come al solito, mi distraggo qualche minuto per terminare i preparativi per la partenza, e quando mi ripresento di fronte ai miei compagni di viaggio vedo che la ragazza si lecca i baffi compiaciuta. Guardo Roberta con fare interrogativo, e lei mi confessa che – preoccupata per la “sorte” di nostra figlia – le ha somministrato TRE cucchiai colmi di integratore. In pratica per tutta la durata del nostro trekking Alice ci ha preceduto correndo e saltando, incitandoci a “darci una mossa”, balzando da un sasso all’altro del sentiero con l’agilità di uno stambecco, guizzandoci intorno senza il minimo accenno di stanchezza ed arrivando sempre ben prima di noi ai vari traguardi che ci eravamo prefissati.
Il caldo è veramente feroce, e l’umidità degna di una foresta pluviale; dopo pochi chilometri i miei pantaloni di tela sono già fradici, e lo sgocciolìo di sudore che mi cola dal naso è ormai un flusso continuo. Mia madre arranca senza neppure più la forza di commentare la sua infausta decisione di seguirci in questo viaggio; Roberta incazzata come al solito…E Alice corre su e giù. Arriviamo bene o male in cima a Bukit Teresek, ci godiamo il panorama, scattiamo un rullino di fotografie e ci apprestiamo a dirigerci verso il percorso di ponti sospesi. Una volta giunti al primo ponte, capisco anche dall’alto del mio presuntuoso scetticismo che, di certo, chi ha progettato questo percorso non ha minimamente pensato a soddisfare i turisti “Alpitour”: i ponti sospesi sono REALMENTE alti (oltre 30 metri da terra), DECISAMENTE lunghi e SICURAMENTE traballanti; inoltre, essendo costituiti da fibre intrecciate (d’accordo, rinforzate con nylon robusto ma al tatto ed alla vista quantomai artigianali), lungo le pareti appaiono “buchi” sufficientemente ampi da preoccupare un malcapitato che dovesse scivolare malamente.
Considerando che Roberta soffre di vertigini patologiche (tipo che le gira la testa se sale su di una seggiola), vi lascio immaginare dopo quanto (pochissimo) tempo questa piacevole esperienza si tramuti in un’odissea di proporzioni ciclopiche: Alice, dopata come una lanciatrice di peso ucraina, che corre avanti e indietro sui ponti sospesi facendoli traballare ancor più; mia madre, che con i suoi 80 e passa chili costringe i ponti a cigolare sinistramente ed a piegarsi verso il basso come nelle imprese di Wile E. Coyote; Roberta, che percorre in ginocchio i vari ponti bestemmiando ad occhi chiusi ed inveendo all’indirizzo di Alice (che corre), di mia madre (che pesa) e naturalmente del sottoscritto (colpevole di aver organizzato il tutto). Ritorniamo al villaggio visibilmente provati, ciò che resta dei miei calzoni mi aderisce al corpo come una seconda pelle, mia madre ansima come una vaporiera, Roberta scuote la testa sconsolatamente da ormai qualche ora…E Alice saltella qua e là come un grillo e mi chiede di fare un altro giro. Depositata la genitrice in camera e dopo essermi assicurato in maniera empirica che non rimarrà vittima di un colpo apoplettico in un immediato futuro, mi congedo da Roberta che siede sulla veranda con lo sguardo fisso verso un punto indefinito e insieme ad Alice ci rechiamo in uno dei tanto decantati “punti di osservazione”: capanne di legno costruite in maniera da integrarsi perfettamente con l’ambiente e che, nelle intenzioni dei progettisti, dovrebbero consentire di avvistare “non visti” la fauna autoctona.
Sentendoci molto Folco Quilici ed un po’ Indiana Jones, ci arrampichiamo sulla ripida e striminzita scaletta di legno e – a passo di leopardo degno dei migliori commandos dei Navy Seals – ci avviciniamo alla finestra ricavata da una parete. Scegliamo una posizione e ci immobilizziamo (Wilbur Smith docet) per evitare che i sensibilissimi animali possano percepire anche un nostro minimo movimento. Dopo un’estenuante attesa di circa sei/otto minuti, Alice muovendo le labbra e unendo le dita nell’italianissimo gesto del carciofo, mi chiede “Ma dove sono gli animali?”; le “labializzo” un sintetico “non rompere i coglioni e aspetta”, ma un po’ mi rompo le palle anch’io…Siamo abituati ad avere tutto e subito, noi sfortunati mortali figli del progresso: un click su Internet ed ho già acquistato una macchina fotografica digitale; una telefonata al numero verde e mi arriva a casa un elettrodomestico/televisore/batteria da cucina/mountain bike/servizio di piatti con scene di caccia; una semplice firma-in-calce-al-modulo ed otteniamo un finanziamento a 48 mesi ratacostantetassoagevolatopaghitraunanno per acquistare quello che desideriamo, ma soprattutto SUBITO, hic et nunc; un appuntamento al Servizio clienti ed usciamo belli fieri dopo mezz’ora con il nuovo telefonino che non serve a niente, ha la batteria tre volte più pesante ma che con il nuovo display a 35 milioni di colori dura un quinto del tempo rispetto a prima, fa le foto (di merda), i filmini (di doppia merda), le videoconferenze (di merda al quadrato) e con la famigerata portabilità del numero nessuno riuscirà più a rintracciarci per i prossimi quindici giorni.
E noi, abituati così, possiamo accettare di sedere ignavi e immobili per ore ed ore nella (magari vana) speranza di intravedere un animale selvaggio? Ma proprio mentre sto per rassegnarmi al mio “pendolare sfigato inquadrato schiavo del suo tempo” interno ed acconsentire a ritornare al lodge con Alice, un robusto fruscìo proprio sotto la capanna mi fa trasalire; sogno già di avvistare la mitica Tigre della Malesia, ma – mi dico – mi accontenterei di un giaguaro zoppo, un orang-utan spelacchiato, un ocelot anoressico…Persino un pitone reumatico. Alice sgrana gli occhi e perde due sfumature di colore; i cespugli si muovono come agitati dal vento, persino un paio di rami si piegano…Lentamente, molto, lentamente, le frasche si spalancano come le acque del Mar Rosso…E bello pimpante come un commendatore della Brianza spunta fuori un tapiro. Alice lo guarda e mi chiede “Ma è un maiale?”; scuoto la testa con fare saccente e le sillabo “TA-PI-RO”; lei mi risponde “Eeeh??” al che chiudo la conversazione con un rapido dito medio in moto ascendente. L’animale, probabilmente un audioanimatrone di silicone fornito dall’Ente per il turismo della Malesia, non si gira neppure per un istante al suono del nostro malcelato diverbio ma continua a trotterellare verso il folto della foresta. Spero ancora per un attimo che prima di uscire dalla nostra visuale venga assalito da un feroce branco di tigri mangiauomini, ma neanche per idea. Scendiamo mesti dalla capanna e ci rechiamo verso “casa” pronti a subire lo sfottò delle nostre compagne di viaggio. Roberta è stramazzata sulla veranda e dorme come un orso a Febbraio; dall’interno della capanna proviene un rumore assordante: un misto tra una segheria canadese, lo stridìo di una lama rotante che trancia del pesce congelato ed un coro di pensionati tubercolosi che scatarrano in un secchio di alluminio; mia madre che russa.
Alice va a farsi la doccia, io mi fermo sulla veranda a completare sulla Moleskine il diario della giornata e a pensare alle attività dell’indomani. La maggiore urgenza è la cena di questa sera. Se vi soffermate a pensare, nell’economia di un viaggio, quanto tempo si perde per decidere quando, dove, come e cosa mangiare, non potrete fare a meno di stupirvi dell’enorme percentuale di tempo che ciò riveste. Riflettiamo; appena svegli, se siamo viziati e/o fortunati e/o previdenti, il nostro albergo ci offrirà la prima colazione; almeno mezz’oretta se ne va tra buffet, bevande, succhi, cibi tradizionali ecc.; dopo, almeno per ciò che mi riguarda, si impone una sosta alla toilette. La mattina (o ciò che ne resta) poi trascorre normalmente in giro, ma già verso mezzogiorno se non prima uno dei viaggiatori esclama “Ehhh…Giàhhh!! Abbiamo mica un’idea su dove mangiare oggi?”; qualcuno tira fuori la guida, legge e propone; gli altri leggono, discutono la proposta e fanno alcune controproposte…Poi di norma si decide sempre per un posto dall’altra parte della città, per raggiungere il quale bisogna abbandonare subito le attuali attività in modo da arrivare in tempo; quando lo si è raggiunto, di solito a) è chiuso per turno, b) è chiuso da tre anni ma la nostra guida è stata stampata da quattro, c) ha cambiato gestione ed ora offre cucina turca (se siamo in Malesia) o cucina malese (se siamo a Istanbul). Bene o male ci si siede al tavolo e dopo un’attesa variabile dai dieci secondi alle tre ore il cameriere porta la lista: qualche compagno di viaggio ne chiede la traduzione, qualcuno sussurra “non ho fame, adesso” (di solito è quello che prima di mezzogiorno aveva chiesto dove volevamo mangiare); immancabilmente, a seconda della qualità della vostra compagnia, qualcuno chiederà un piatto italiano (tipo “sì sì vabbè tutto buono, magari…Ma una pizza me la faranno?”) o più sommessamente si lascerà andare alla nostalgia più bieca (“Ma ve lo immaginate? Adesso si apre la tenda e invece dei tre nasi goreng il cameriere ci porta un piattone di penne all’arrabbiata! Dio cosa darei per un pezzo di focaccia al formaggio! E il polpettone di mia madre?”); dopo mangiato, pagato il conto, discusso sulla divisione dello stesso, lasciato il tempo a tutti di visitare il locale gabinetto si riparte per il pomeriggio di attività, fino a che, di solito verso le cinque/cinque e mezza, qualcuno chiede “Per stasera sappiamo già dove andare a mangiare?”. Ore ed ore di tempo si perdono ogni giorno, ed alla fine del viaggio saranno interi giorni gettati al vento; calma, calma…È solo una riflessione, non un invito a digiunare per tutta la durata della vostra permanenza all’estero, ma magari un invito a cercare di razionalizzare un po’ meglio le pause-pranzo; con un’abbondante colazione, ad esempio, un rapido snack a mezzogiorno è più che sufficiente (dai fast food occidentali ai carrettini dell’Oriente, ma anche un gelato, un frullato, un po’ di frutta fresca). La cena per contro può essere vissuta non come un mero momento di “rifornimento” ma come un piacevole incontro “gambe sotto il tavolo” per ripercorrere la giornata e pianificare magari qualche attività per l’indomani.
Dov’eravamo? Ah, mia madre che russa e io che scrivo. Verso sera si risvegliano tutti (anche Alice che dopo la doccia e il “down” dell’integratore ha avuto un crollo subitaneo), mi faccio la doccia io (bontà loro) e ci rechiamo in uno dei ristorantini galleggianti che brulicano sul fiume. La qualità generale locale/cibo/gestione/servizio è, diciamo, “media”; mia madre si esibisce nel solito, patetico numero “Ma cosa avete ordinato?.. Bleah!” e poi spazzola tutto il piatto, lecca le posate e raccoglie le briciole sul tavolo; paghiamo un conto ridicolo e torniamo in camera dove, complici il silenzio, il tiepido calore del giorno che finisce, ma soprattutto la nostra ciclopica stanchezza, stramazziamo nei letti senza profferir parola.
L’alba arriva anche troppo presto, e con essa la routine della colazione (non “continental” ma piuttosto “malaysian”, con tanto di riso fritto al peperoncino e succo di mango) e della pianificazione delle attività della giornata; ho letto sulla guida che a poca distanza dal villaggio è possibile – con guide autorizzate – visitare una grotta piuttosto profonda dove alligna una nutrita colonia di pipistrelli (che si cibano di insetti), una di rane albine (che si cibano degli insetti superstiti e di quelli che proliferano negli escrementi dei pipistrelli) ed una di serpenti (che si cibano di rane e dei piccoli dei pipistrelli che cadono perché ancora non sanno aggrapparsi come si deve alle rocce a testa in giù), insomma uno splendido esempio di “cerchio della vita” (Re Leone docet). Prendo accordi con i rangers che mi comunicano il nome della mia guida nonché l’ora e il luogo dell’appuntamento; ritorno al bungalow per dire agli altri di prepararsi (mia madre ha dato forfait: soffre di claustrofobia, vede poco al buio e ODIA pipistrelli, anfibi e rettili vari) e faccio in tempo a vedere Roberta che nasconde rapidamente un cucchiaio sporco di cioccolato, mentre Alice si lecca i baffi con aria colpevole: di nuovo l’integratore! La guida ci attende al molo di attracco delle imbarcazioni, ci presentiamo e saliamo su di una canoa piuttosto fatiscente dotata di un fuoribordo di pari condizioni. Circa venti minuti di pacifica navigazione fluviale e il nostro nuovo amico si arena volontariamente su di una spiaggetta direttamente prospiciente la giungla. Ormeggiata alla meglio la barchetta, si volta verso di noi per un primo briefing: “Seguitemi: ci sono circa quaranta minuti di cammino per raggiungere l’ingresso della grotta. Poi entriamo. Poi usciamo. Poi torniamo alla barca per un’altra strada.” Ciò detto, si volta e comincia a camminare piuttosto speditamente.
Dopo mezz’oretta ci troviamo effettivamente di fronte ad un preoccupante foro nerissimo sul fianco di una collinetta. La guida, che indossa un’equipaggiamento da speleologo di prim’ordine (K-Way giallo con una cordicella legata in vita, calzoncini tipo-Sundek strappati nel sedere, infradito sbrindellate e una torcia elettrica che non userei neppure per trovare la luna nel pozzo), ci lega uno all’altro con una corda piuttosto ruvida e ci invita ad entrare nell’antro, aprendo la strada con un sorriso sardonico sulle labbra.
In effetti troviamo ben presto una specie di buio assoluto, tanto da non vederci neppure le dita di una mano tenuta davanti agli occhi; la guida accende la luce che come previsto è deboluccia e giallognola, e subito intorno a noi è tutto un frenetico svolazzare; seguendo le indicazioni del nostro cicerone guardiamo verso l’alto per scoprire che ci troviamo dentro la “casa” di qualche migliaio di pipistrelli, che evidentemente non gradiscono moltissimo l’intrusione. C’è un fortissimo odore di ammoniaca, ed il terreno è particolarmente scivoloso; per salvaguardare l’equilibrio emotivo di Roberta decido di soprassedere a esternare a voce alta le probabili cause di queste particolarità (non è infatti difficile attribuirle alla grande quantità di guano presente sul fondo della grotta; quantità che, a giudicare dai rumori di sgocciolamento che tempestano le mie orecchie e la mia maglietta, viene continuamente e costantemente rimpinguata dal metabolismo dei simpatici roditori alati). Proseguiamo nell’esplorazione ed entriamo in un’altra “sala”, anch’essa popolata da pipistrelli ma con in più il bonus di numerose rane panciute e biancastre che saltellano beate in pozzanghere di acqua mista a escrementi, dove non è difficile intravvedere un brulichìo di vita inferiore. La guida esclama qualche parola in malese stretto e ci fa segno di guardare sopra una roccia dove, bello beato, sta strisciando un serpente di dimensioni tutt’altro che trascurabili.
La nostra “gita” si protrae per circa quaranta minuti, dopodiché, come scrisse un mio conterraneo lievemente più colto, “uscimmo a riveder le stelle”, qui sostituite da un sole lacerante anche se filtrato dagli alberi e dal sottobosco. La guida ci indica la via del ritorno e, vedendo che Alice (ricordate l’integratore?) scalpita un po’, esclama “Va bene, vediamo di accelerare la nostra andatura; statemi dietro però, perché io cammino MOLTO veloce.”; Alice parte di gran carriera, ed io dietro per non perderla: arriviamo alla barca almeno dieci minuti prima della guida, che ci raggiunge cercando di mimetizzare il fiatone con una fischiatina folcloristica. Alla luce del giorno anche Roberta, osservando lo stato dei suoi vestiti, ha finalmente capito dove abbiamo sguazzato per oltre mezz’ora e, non appena realizzato appieno il punteggio di disgusto attribuibile all’impresa appena ultimata, ha deciso di sacrificare al Dio della Giungla una buona parte della sua malaysian breakfast accompagnata da un tributo volontario di succhi gastrici misti.
Ritornati alla capanna, vedo mia madre seduta – un po’ rigida in verità – sulla veranda; mi avvicino e la vedo sudaticcia anzichenò, lei mi sorride ermetica e con un movimento impercettibile della testa mi invita ad osservare meglio il tavolino sul quale appoggia un gomito: al centro di esso, arrotolato nel suo modo inconfondibile ad un ramo di mangrovia decorativo, fa bella mostra di sé uno splendido esemplare di pitone arboricolo. Afferro il ramo e l’animaletto verde brillante e non senza un certo timore reverenziale li porto verso il più vicino cespuglio. Mia madre si sgonfia come un soufflé preso a martellate e ci confessa di essere rimasta immobile per circa due ore, da quando cioè ha scoperto il suo compagno di tavolo. Decidiamo di passare il pomeriggio con una rilassante gita sul fiume, dove – a detta delle guide – esistono alcune adorabili spiaggette che consentono un buon riposo ed un facile accesso per qualche tuffo nelle fresche acque. Declino la loro collaborazione e, dopo mangiato, ci dirigiamo verso il luogo che ci è stato decantato; in effetti è molto piacevole, giustamente ombreggiato, silenzioso, intimo ma nello stesso tempo maestoso per la giungla che incombe da ogni angolo sull’acqua.
Fedele all’idiosincrasia per i turisti o comunque per chiunque si trovi a condividere con me momenti e luoghi che a mio parere necessiterebbero di una totale intimità, mi dirigo verso un’isoletta di sabbia un po’ discostata dalle sponde più facilmente raggiungibili. Il guado è veramente semplice, l’acqua nel punto più alto lambisce le gambe appena sopra il ginocchio, ed in pochi secondi sono sulla “mia” isoletta, ed invito gli altri compagni di viaggio a raggiungermi. L’ultima è mia madre, che ad un tratto – vestiti appallottolati in una mano, borraccia nell’altra – incespica in un misterioso ostacolo subacqueo e sparisce tra i flutti in un nanosecondo. Siccome stavo riprendendo la scena, che da “pomeriggio bucolico nel Magico Oriente” si è trasformata in “Paperissima 2000”, per quanto scosso dalle risate non riesco a spegnere la telecamera e devo demandare ad Alice il soccorso della malcapitata “subacquea-per-caso” (per la cronaca il filmato in questione è stato realmente trasmesso da Mediaset nel 2005, in occasione di una puntata di Paperissima Sprint…).
Una volta tratta “in salvo”, esaminiamo il corpo della mamma per verificare eventuali danni: a parte una contusione in una tibia che sembra una melanzana dopata, un graffio sulla fronte, un’alga fluviale che le decora una guancia ed il morale più a terra di quello di un sultano impotente, tutto il resto è perfetto.
Come in molte altre occasioni stabiliamo che sì, il tempo vola… e ben presto (dopo una notte trascorsa come pattuito in un losmen “come si deve” nel villaggio di fronte, completa di letti a pagliericcio, condizionatore rumoroso e ospiti notturni indesiderati) ci troviamo sul molo in attesa della piroga che ci riporterà a Kuala Tembeling; notiamo che un po’ in disparte è ormeggiato un motoscafo modello offshore, rosso Ferrari con a bordo un tipo con bandana e occhiali alla Top Gun. Mi avvicino e scopro che trattasi della cosiddetta “fast boat”, in grado di raggiungere la nostra destinazione in 40 minuti anziché in due ore e mezza. Il prezzo richiesto è di poco superiore a quello che eravamo già disposti a spendere per la piroga, e siccome avevo programmato per oggi una giornata dedicata al trasferimento e due ore rappresentano una conquista non da poco, senza troppi indugi saltiamo sul motoscafo rombante, che parte dal molo in un trionfo di schiuma lasciando basiti gli altri viaggiatori in mesta attesa.
Il “capitano” è probabilmente uno psicopatico recentemente fuggito da un manicomio criminale: gli strumenti di bordo (che spero difettosi) non scendono mai sotto una velocità di 55-60 nodi (che moltiplicati per 1,852 come insegnano gli atlanti restituiscono un valore prossimo ai 100-110 Km/h) e le anse del fiume vengono affrontate con un’inclinazione che solo per un semplice motivo di forza centrifuga non ci spedisce diretti nella giungla circostante. Alice si diverte, Roberta soffre di nausea come al solito, io mi sento lievemente in apprensione pensando a cosa potrebbe succedere se incocciassimo in un ostacolo appena sotto la superficie dell’acqua, e mia madre tiene lo sguardo fisso davanti a sé, viso pietrificato e colorito marmoreo. Puntuali come la morte, dopo 40 minuti approdiamo con un sospiro di sollievo assordante al molo di Kuala Tembeling, ringraziamo il nostro skipper consigliandogli una visita neurologica per turbe legate alla conduzione di mezzi navali e ci dirigiamo verso il posteggio dei bus diretti sulla costa est della penisola malese, indifferentemente con destinazione Kota Bharu o Kuala Terengganu. I prezzi del trasporto sono però quantomeno alti, e neppure contrattando in indonesiano e minacciando ritorsioni verso le loro famiglie gli autisti mi consentono di ottenere il benché minimo sconto. Quando sono riluttante ma ormai rassegnato ad acquistare i biglietti, Alice mi fa notare un cartello appeso a poca distanza dalla fermata ufficiale dei bus, proprio di fianco ad un paio di taxi scalerci, che riporta per l’appunto il prezziario ufficiale della “Cooperativa Tassisti Malesi” (o qualcosa del genere…): il prezzo per un taxi privato che ci porti fino alla nostra destinazione programmata, diviso per quattro, è di poco INFERIORE a quello di quattro biglietti dell’autobus. Relegando quindi per una volta la F.B.V. Nel mio personale sottoscala mentale, saltiamo sul primo veicolo disponibile e – una volta spiegato all’autista dove vogliamo andare, che non ci servono consigli su negozi/ristoranti/alberghi/amici traghettatori né ci interessa un giro turistico delle “perle dell’entroterra malese”, e che se arriva in tempo gli offriamo la cena – finalmente si parte tra parecchi sussulti.
Il viaggio dura cira quattro ore tra paesaggi francamente prescindibili: quasi tutta la zona è infatti costellata di compagnie petrolifere e raffinerie di varia foggia, e chi si aspettava di vedere la “vera” Malesia si deve ben presto ricredere e rinchiudersi nel suo cervello a riportare alla luce le indimenticabili immagini del Taman Negara. Arriviamo a Kuala Terengganu nel primissimo pomeriggio, in tempo per mantenere la promessa di offrire il pasto al nostro autista e per trovare i biglietti – ancora in giornata – per il traghetto diretto alle Isole Perenthian.
Trattasi di due isole, una di fronte all’altra, che i malesi con una scelta originalissima hanno deciso di battezzare Perenthian Kecil (la più piccola – “kecil” significa per l’appunto “piccolo” in indonesiano-malese) e Perenthian Besar (la più grande…Indovinate cosa significa “besar”…); il mare che le circonda non ha nulla da invidiare ad acque tropicali ben più rinomate, le spiagge bianche circondate da palme da cocco sono effettivamente splendide… ed i resort sparsi qua e là costano un decimo rispetto, ad esempio, alle Maldive. Non appena sbarcati dal traghetto su Perenthian Besar, fedeli alla Lonely Planet, cerchiamo il resort da questa più consigliato, che purtroppo è già pieno. La “seconda scelta” ci vede in brevissimo tempo soddisfatti occupanti di un bungalow a quattro letti direttamente sul mare, nel quale ci tuffiamo senza troppi indugi e senza neppure disfare i bagagli. La temperatura dell’acqua si aggira sui 29°, la trasparenza è ottima così come la quantità di pesce che ci circonda; un primo giro di snorkeling ci rivela fondali da sogno e pesce pelagico a volontà.
Alla sera uno dei mille ristorantini sulla spiaggia ci delizia per pochi spiccioli con una cena totalmente a base di pesce, e scopro con una certa delusione che anche il cellulare trova copertura!! Mi fermo un istante e rimpiango con un po’ di dolore i “bei tempi” di quando viaggiare in paesi lontani significava anche tagliare i ponti con il “progresso” o la “civiltà”; d’accordo, ora siamo più sicuri, sempre in contatto con la rete dei cellulari per qualsiasi necessità, si viaggia tranquilli senza stress e non ci si perde più grazie ai navigatori satellitari e ai GPS che in uno spazio ridottissimo contengono le mappe di tutto il mondo, collegandosi al computer di casa si può ripercorrere tutto il viaggio anche in 3D, memorizzato passo per passo nella “memoria flash” del navigatore; da Internet si scaricano le mappe di qualsiasi posto nel mondo, con definizione fino all’orecchio della nonna seduta in veranda; si prenotano biglietti aerei, alberghi, resort, gite organizzate, automobili, visite guidate, percorsi in elicottero…Ma credo sia venuto un po’ a mancare quel pungente sapore di avventura, quella sensazione avvolgente di smarrimento di quando si usciva dall’aeroporto e si veniva aggrediti da una folla urlante di autisti/tassisti/guidatori da strapazzo/procacciatori d’affari, quel momento di pace alla sera quando alla luce della torcia elettrica si stropicciavano le pagine della Lonely Planet alla ricerca di quell’annotazione fatta di fretta sul pulmann grazie al suggerimento di quell’altro viaggiatore incontrato per poche fermate, quando ogni mattina ci si guardava negli occhi intorno alle tazze con il caffè istantaneo e si decideva cosa fare nelle ore successive.
Io sono un libidinoso tecnologico, e a casa mia è difficile non trovare gli ultimi, pressoché inutili gadget elettronici del momento; quando viaggio però vorrei davvero provare la sensazione di lasciarmi quasi tutto alle spalle. Trovare “cinque barre” sul telefonino a 9.000 Km da casa su di un’isola neanche troppo turisticizzata mi ha trasmesso un’idea di “sono in trappola, ovunque si vada” che mi ha lasciato di cattivo umore per qualche ora.
La mattina, con il sole ancora arancione che spunta dal mare, mi ha rimesso quasi subito in pace con il mondo; spento il telefonino sono andato con Alice ad effettuare il primo giro di snorkeling. Dopo qualche decina di metri percorsi nuotando velocemente all’inseguimento di tre o quattro piccoli squaletti “pinna nera”, Alice mi tocca un braccio e mi dice, con la bocca deformata dall’aeratore, “Guarda papà, la mamma!”. Mi giro di lato e vedo al nostro fianco un bell’esemplare di squalo “pinna nera” adulto di un paio di metri che ci guarda con la pupilla “cattiva” come solo gli squali sanno fare. Decido di prendere Alice per mano e di tornare con una certa rapidità verso la spiaggia.
Nel pomeriggio affittiamo un Hobie Cat e – lasciata mia mamma a rinfrancarsi sulla spiaggia – ci dirigiamo verso la costa di Perenthian Kecil; approdiamo e approfittiamo del tempo a nostra disposizione per un piccolo giro di perlustrazione dell’isola, notoriamente riservata ad un turismo più “primitivo” e da me tristemente scartata per agevolare i sonni dell’anziana genitrice. I bungalow sono davvero “basici” e malridotti, ancorché scarsamente popolati rispetto a qualli dell’isola più grande. Ripartiamo con il catamarano verso “casa”, ma prima non ci neghiamo la libidine di fare un paio di “bordi” verso il tramonto.
Il giorno successivo trascorre nell’ozio più bieco, anche se sto pensando alla pianificazione della prossima destinazione; tant’è che l’indomani mattina il traghetto ci riporta a Kuala Terengganu, un bus verso Kuala Tahan ed un altro traghetto ci fa sbarcare sulle spiagge dell’isola di Redang, uno dei posti più indimenticabili che mi ricordi di aver visitato. Redang è un isola tropicale con le coste ricoperte della solita sabbia bianca, un mare che non conosce paragoni (forse qualche remoto atollo delle Maldive…), una foresta che merita lunghissime escursioni ed un patrimonio faunistico terrestre e marino da far girare la testa. Troviamo alloggio presso un gentilissimo cinese che ci offre un bungalow a due piani interamente per noi, di fronte ad entrambe le baie di Pasir Panjang (che credo significhi “spiaggia lunga”; essendo questa in effetti circa 2 km., la mia stima verso l’affidabilità della lingua malese viene rafforzata vieppiù). Solita fuga immediata verso il mare: senza parole. Roberta esclama “A saperlo…Praticamente alle Perenthian abbiamo solo perso tempo!!”. Interi branchi di pesci pappagallo, enormi pesci balestra, squali pinna bianca e pinna nera, razze, trigoni, aquile di mare, pesci tropicali misti a pochi metri dalla riva! Nella baia dietro un piccolo promontorio scopriremo con Alice e Roberta una “famiglia” di tre squali pinna bianca che ci faranno provare anche alcuni momenti di “strizza” (soprattutto quando uno dei tre ci è sparito di colpo dal campo visivo per riapparirci alle spalle), ma il momento migliore è stato quando… Ore cinque circa del mattino. Bussano freneticamente alla porta. Mi alzo e trovo il cinese gestore del resort che mi fa ampi cenni di seguirlo. Sveglio Roberta e Alice, si infiliamo un costume da bagno e corriamo dietro al nostro “padrone di casa”. Spiaggia deserta, dormono ancora tutti. Seguiamo il cinese finché non ci indica una montagnola di sabbia; si muove. Ad un tratto spunta qualcosa. Una cosina nera nera, scura scura. Ne spunta un’altra. Ed un’altra ancora. Testuggini! Stiamo assistendo alla schiusa di una covata di testuggini, per noi e solo per noi!. Ne escono a decine, viene voglia istintivamente di aiutarle ma il raziocinio ci dice di lasciar compiere il corso naturale che si ripete da migliaia di anni. Come nei documentari, appena uscite dalla sabbia le testuggini si dirigono verso il mare, spinte da un’atavico senso di orientamento. Alice, animalista convinta dalla nascita, comincia a scacciare gabbiani ed altri uccelli predatori affinché non catturino i piccoli nati. Nel frattempo qualche altro turista comincia ad affacciarsi sulla spiaggia: ronzano telecamere, scattano macchine fotografiche, esplodono mormorii di stupore, grida di gioia. Qualcuno si tuffa in mare e segue le testuggini che già stanno nuotando per allontanare gli animali marini da queste prede fin troppo facili. Qualche momento di tristezza si fa avanti quando nella sabbia si trovano alcuni piccoli che non sono riusciti a guadagnare in tempo l’aria aperta, e la cui vita è durata veramente qualche respiro; l’esperienza è di quelle che lasciano il segno, e l’entusiasmo per il magnifico momento vissuto aiuta a cancellare le parentesi meno esaltanti. Non ho parole per ringraziare il nostro albergatore, che ha avuto la cortesia di svegliarci per primi; torniamo a letto ma siamo troppo eccitati anche solo per raccontarci quello a cui abbiamo assistito, e ben presto torniamo al normale tran tran: colazione, spiaggia e snorkeling.
Nei giorni successivi riesco anche ad effettuare un paio di immersioni veramente splendide, e ben presto arriva il momento di ripartire. Un triste traghetto ci riporta sulla terraferma, un bus “extra-lusso” ci porta verso sud, nella città di Kuantan, dove persino un semplice pernottamento ci appare come una perdita di tempo, tanto insignificante è questo posto. La mattina dopo ci permettiamo un altro taxi che ci fa attraversare in poche ore la penisola e ci deposita nella splendida città coloniale di Malacca (o Melaka che dir si voglia), dove ci fermiamo un paio di giorni a visitare le vestigia della passata dominazione portoghese.
Ormeggiato ad un pontile del porto fa bella mostra di sé un traghetto-catamarano un po’ datato che opera sulla tratta Malacca – Sumatra; devo reprimere un fiotto di dolorosa nostalgia nonché l’impulso di saltare a bordo e ritrovarmi dopo qualche ora nel Vero Oriente, dove magari i cellulari “non prendono” e dove nessuno capisce più di qualche parola d’inglese, io – da solo – con la mia Lonely Planet e il mio zaino sdrucito; mi giro verso Alice, me la stringo un po’ e le dico “Ciao Amore, ti piace questo viaggio? Andiamo a vedere la via principale, che se troviamo qualcosa di carino te lo compro”.
La tratta Kuala Lumpur – Malacca è coperta da una flotta di super-bus gran turismo con TV Color e aria condizionata; c’è una partenza ogni ora…Neanche il gusto di aspettare, chiedere, prenotare, cercare il proprio veicolo nel tanto coinvolgente e profumato casino orientale. Ovviamente a mia madre fa piacerissimo viaggiare senza intoppi, lunghe attese o colpi di calore, però – non per snobismo da viaggiatore “scafato” – mi aspettavo una Malesia un po’ più “da Sandokan” e un po’ meno da “Alpitour”. Dopo un viaggio che definire comodo è riduttivo, sbarchiamo di fronte al nostro primo albergo; ci resta solo una notte prima della partenza verso l’Italia, e l’umore – almeno il mio – come sempre non è dei migliori.
Ci regaliamo una cena sontuosa in un famoso ristorante indiano, giriamo per gli ultimi acquisti nei mega centri commerciali, scriviamo (le ODIO!!) alcune obbligatorie cartoline e l’indomani è già qui.
Il volo British Airways è poco più di una formalità, e dopo uno scalo a Londra ci troviamo ben presto a sorvolare il suolo italiano. Mia madre è raggiante per l’esperienza dell’Oriente, Roberta è soddisfatta, Alice – appartenente alla nuova generazione degli Instupibili Abituati A Tutto – concede un “Bello, soprattutto le scimmiette e le testuggini”.
Io? Come al solito, sto già fumando per trovare una nuova meta da visitare.