TURKISH MYSTIC MUSIC and DANCE
Entriamo in un ampio salone dalle pareti color crema, all’ingresso un uomo ci dà un opuscolo sullo spettacolo e con la mano ci fa cenno di andare a prendere posto. Le sedie sono disposte a mezza luna su tre file, prendiamo posto nella terza e, osservando l’uomo che è seduto di fronte a me, intuisco che dovrò tirare un po’ il collo per assistere allo spettacolo. Marco mi si siede accanto ma si alza quasi subito per cercare una posizione migliore da dove scattare qualche foto. Leggo che è consentito fotografare, ma è vietato usare il flash.
Alle 19: 30 il salone si è ormai riempito, alcune persone non hanno trovato posto a sedere e rimangono in piedi dietro di noi, l’attesa fa crescere il brusio e distintamente si sentono lingue diverse, parole intuibili che s’intrecciano l’una con l’altra a formare un discorso senza senso.
Dal fondo della sala, sulla destra, da dentro una stanzetta escono i primi dervisci. L’attesa, tenuta in vita dal brusio, finisce quando anche il silenzio prende posto assieme ai musicisti, seduti l’uno accanto all’altro sul fondo della stanza.
Prima della danza mistica assistiamo al concerto di Musica Sufi. Non ho tenuto a mente la melodia che ho ascoltato, ricordo il suono del flauto e dei tamburi e la voce chiara e forte del cantante che si alzava e percorreva tutta la stanza, una musica chiara, rettilinea che invitava alla meditazione più che all’ascolto. Appena il coro si spegne segue un lungo applauso che accompagna l’inizio della Cerimonia Turbinante.
Entrano due semazeni, i dervisci turbinanti (coloro che danzeranno), e la stanza inizia ad essere riempita, oltre che dalla loro presenza, anche dai tanti click delle macchine fotografiche. Entrambi i semazeni portano un lungo mantello nero chiamato hirka che, leggo dal mio opuscoletto, simboleggia la tomba dell’ego, sotto vestono una tunica bianca e un’ampia gonna a ruota chiamata tennure, che simboleggia il lenzuolo funebre e sul capo, indossano un cappello a forma di cilindro, alto, di lana cotta, color sabbia che è chiamato sikke e che rappresenta la pietra della tomba dell’ego. Il loro costume, leggo, indica la morte dell’ego. Uno dei dervisci porta in braccio un tappeto rosso, mentre l’altro un mantello di pecora, entrambi fanno un profondo inchino verso il pubblico e poi si dirigono nel centro della stanza, per depositare a terra i due mantelli. Quell’inchino così rispettoso ed il loro portamento così preciso, dai gesti delicati, creano una cornice di solennità e di deferenza pronta ad incorniciare quello che sarà, non uno spettacolo che vedremo ed udiremo con i sensi, ma che vivremo in pieno con lo spirito.
I due semazeni si ritirano e, pochi secondi dopo, rientrano accompagnati da altri tre semazeni e s’inginocchiano l’uno a fianco all’altro sul tappeto di pecora, centro della Verità Divina che esiste nel cuore di ognuno.
Il cantante allora intona una lode al profeta Mohammed, seguono poi l’improvvisazione del tamburo, che rappresenta il comando divino “Sii”, e del flauto, l’anima data all’universo.
Al cessare del canto del flauto i semazeni, tolto il mantello, si alzano uno ad uno a formare un cerchio e, l’uno rivolto all’altro, si salutano inchinando il capo. Dopo questa cerimonia i dervisci, riprendono posto sul bianco di pecora e qualche attimo dopo si rialzano, sempre uno dopo l’altro e iniziano a girare. E’ tutto molto lento e solenne. I dervisci entrano nel circolo le loro braccia sono incrociate al petto, a significare l’unità con Dio, poi man mano che iniziano a girare su loro stessi, e in cerchio, le loro braccia come petali di un fiore iniziano a schiudersi: le mani scendono lente sul ventre e poi risalgono, i gomiti in alto, seguendo la linea che dal corpo sale al petto e si aprono in alto, sopra la testa.Mentre i corpi armoniosi ruotano, le braccia restano aperte al cielo con la mano destra aperta verso l’alto e quella sinistra girata verso il basso a significare: da Dio riceviamo, all’uomo offriamo; non teniamo niente per noi stessi. I semazeni danzano e si risiedono per quattro cicli, ad ognuno essi girano sempre più veloci, le loro gonne disegnano nel vuoto cerchi perfetti, sono morbide mentre salgono e scendono e più il movimento si fa rapido e svelto, più sembra che da un momento all’altro essi debbano spiccare il volo. Leggermente inclinati nel movimento rotatorio, i semazeni sembrano bamboline di porcellana che girano su se stesse legate al soffitto da un filo invisibile che dall’alto passa al centro del loro cappello e le percorre per tutto il corpo fino all’estremità dei piedi. Questi scivolano veloci sul pavimento, emettendo solo un breve fruscio che si confonde con il sibilo che il loro movimento crea con l’aria.
Girano soavi i dervisci come se non avessero peso corporeo, si fondono nel movimento ed il movimento con l’aria, con la sala e con i miei sensi. Smettono d’essere uomini e diventano bellezza, preghiera che trascina lo spettatore in un viaggio o in quella che sembra la preparazione ad un volo. Anche la musica si è fusa col volteggiare del candore delle ampie gonne e tutto crea un’atmosfera di misticità che, se ci si abbandona, porta lontano dal contatto con il tempo.
Alla conclusione del quarto ciclo, i semazeni si congedano con un inchino e la cerimonia termina con il suono del flauto ed una lettura del korano. Quando anche la musica cessa e i dervisci salutano e ringraziano mi sento quasi stordita come se fossi rimasta seduta non per un’ora ma per un tempo interminabile, al quale non saprei dare una posizione.
L’ ho trovata un’esperienza meravigliosa e la consiglio a tutti quelli che vorranno regalarsi uno spettacolo diverso in Turchia.