DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno .6

Il racconto di questo viaggio si divide in 8 capitoli geografici: 1) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 1. Sezione PERÚ 2) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 2. Sezione BOLIVIA 3) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 3. Sezione PARAGUAY 4) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 4. Sezione BRASILE 5) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 5. Sezione BOLIVIA 6) DA LIMA A IGUAZÚ e...
Scritto da: davovad
da lima a iguazÚ e ritorno .6
Partenza il: 31/12/1998
Ritorno il: 16/04/1999
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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Il racconto di questo viaggio si divide in 8 capitoli geografici: 1) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 1. Sezione PERÚ 2) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 2. Sezione BOLIVIA 3) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 3. Sezione PARAGUAY 4) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 4. Sezione BRASILE 5) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 5. Sezione BOLIVIA 6) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 6. Sezione CILE 7) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 7. Sezione BOLIVIA 8) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 8. Sezione PERÚ Per leggere il racconto completo bisogna seguire quest’ordine

L’altipiano terminò al confine, quasi verticale, e la strada precipitò vertiginosamente. Il Cile ci accolse col deserto più arido del mondo, quello di Atacama. In uno scenario di assoluta desolazione soltanto pochi arbusti spinosi e rachitici davano una vaga apparenza di vita. Qui non piove mai, il solo tipo di precipitazione è dato dalla llovizna, la nebbiolina proveniente dall’oceano. Al posto di frontiera i militari ci fecero smontare dal minibus e disposero una perquisizione generale. Tirammo giù dal tetto tutti gli zaini ed entrammo in uno stanzone spoglio, con un lungo tavolo nel mezzo. Ci intimarono di disporci in riga. Con cipiglio minaccioso ci fecero aprire e svuotare gli zaini. Il silenzio carico di tensione era lacerato dagli ordini secchi ed imperiosi: “Avete armi, cocaina, cibo?” Poi, senza neanche degnarli di uno sguardo, ci dissero che era tutto a posto e che potevamo passare per il controllo dei passaporti. Eravamo capitati in un Paese di burloni. Uno scherzone del genere era veramente divertente, da morire dal ridere. L’autista bestemmiava tra i denti mentre risistemava gli zaini sul tetto. Sbrigate le formalità dei timbri entrammo a San Pedro de Atacama, un villaggio di casette di mattoni crudi situato all’estremità settentrionale del Salar de Atacama. Tutti gli altri volevano fermarsi almeno una notte. L’autista li lasciò davanti ad un hostal. La scelta fu del tutto casuale, è ovvio. Come la commissione che sicuramente si prendeva. Io, Alberto, Eli e Regula eravamo intenzionati a proseguire. Ci salutammo in tutta fretta, cambiammo qualche dollaro in pesos e ci facemmo portare al terminal, dove riuscimmo a prendere al volo l’autobus delle due per Calama. Finalmente potevamo rilassarci.

Le montagne boliviane a nord-est si allontanavano sempre di più, rimanendo comunque una presenza costante. Il panorama era avvincente: fa sempre una certa impressione vedere la neve dal deserto. In quel territorio inospitale l’unica attività possibile è quella estrattiva. La maggior parte dei mezzi che circolavano sulla strada erano i camion delle miniere di rame e di salnitro sparse per la regione. Alberto mi raccontò diversi episodi che aveva vissuto in Colombia: “E’ una terra meravigliosa, vacci se puoi. E poi ci sono delle donne! Non le native però, le ispaniche. E’ la mia debolezza, non posso farci niente. Mi sono accorto che mi piacciono tutte, come potevo stare con una sola?” Era un parlatore straordinario, fonte inesauribile di aneddoti e di storie. Riusciva a saltare con estrema disinvoltura dalle telenovelas alla filosofia esistenzialista. Era geniale, non c’era altro modo per definirlo. Si perse in racconti di gioventù, quando faceva il fotografo per uno studio pubblicitario. Diagnosticò una morte quasi irreparabile per la mia macchina fotografica e mi descrisse la sua piccola compatta: “E’ un gioiellino. Me l’hanno regalata la mia ex moglie e mia figlia in vista del viaggio. Ha lo zoom automatico ed è autofocus, così posso fotografare anche di nascosto. La gente appena si accorge che guardi nel mirino si gira immediatamente dall’altra parte e poi ti insulta. Con questa, invece, posso scattare anche se la tengo al collo, basta orientarla verso il soggetto desiderato.” In lontananza una colonna di fumo e di polvere si levava dal deserto. Indicava la miniera di Chuquicamata, la miniera di rame a cielo aperto più ricca del mondo, che da sola fornisce la metà della produzione cuprifera nazionale e un decimo di quella mondiale. Quindici chilometri più a sud si trova Calama.

L’autobus si fermò di fronte alla stazione ferroviaria. Mentre aspettavamo che l’autista tirasse fuori gli zaini dal bagagliaio, un turista di fianco a me diede improvvisamente in escandescenza e cominciò a correre attorno all’autobus in preda all’agitazione. Nella fretta aveva appoggiato la macchina fotografica sopra lo zaino e quando si era voltato ce n’erano due! Nessuno si era accorto di niente. Lui men che meno. A volte basta distrarsi un secondo che sei fregato. Andammo al terminal della Chilebus per consultare gli orari: il prossimo autobus per Iquique partiva alle ventitré; Alberto, diretto alla fine del mondo, avrebbe preso quello delle venti per Santiago. Era domenica e la città si presentava tristemente vuota. Andai con Alberto in un bar a pochi isolati da lì. Mi parlò della sua vita, di quando era studente dell’istituto d’arte e portava i capelli lunghi, del movimento politico degli anni settanta, che allora pensava di aver capito e che adesso, a distanza di anni, si rendeva conto di non aver capito per niente, della figlia avuta quasi per sbaglio a vent’anni e della sua decisione di sposarsi. La sua nascita aveva dato una svolta radicale alla sua vita, ma non aveva né rimpianti né rimorsi, anche se cercava di farmelo intendere. In realtà l’adorava. Mi parlò del suo bellissimo rapporto con lei e di come l’aveva educata, considerandola una persona con una vita propria e non come lo specchio di quello che molti genitori solitamente avrebbero voluto essere. La figlia, Ludovica, studiava fisica all’università di Bologna. Con un pizzico d’orgoglio mi confidò che se aveva intrapreso una brillante carriera universitaria il merito era anche un po’ suo.

“Mmm, io bazzico spesso per Bologna, può darsi che la incontri in qualche locale. Dov’è che abita?” “Seeh, non credo che faccia per te.” “Geloso eh?” Ordinai un’altra birra e continuai ad ascoltarlo. Era un oratore instancabile. Sapeva tutto di qualsivoglia argomento. Raramente ho avuto occasione di conoscere persone con un’intelligenza ed una cultura così profonde. Quando mi lasciò l’indirizzo riuscì a stupirmi per l’ultima volta: lo scrisse da destra verso sinistra. Per leggerlo dovevo guardarlo in trasparenza. Rise del mio stupore: “Io fondamentalmente sono mancino. Ma all’epoca non era consentito, così mi hanno imposto di scrivere con la destra. Col risultato che adesso con la destra scrivo male e con la sinistra mi sono abituato a scrivere al contrario, come Leonardo.” Alle otto lo accompagnai sull’autobus. “Ciao, buon viaggio. Ti ha mai detto nessuno che assomigli a Gianni Morandi?” “Con te mille.” Mesi più tardi seppi che era riuscito a compiere l’itinerario che si era prefissato.

Passai il resto della serata giocando a carte sul tavolino di una pizzeria al trancio con Eli, Regula e un altro israeliano che avevano conosciuto nella stazione degli autobus. Poi, finalmente, partimmo anche noi.

Mi svegliai con un dolore lancinante alle orecchie. Ero preoccupatissimo. Temevo seriamente che da un momento all’altro mi sarebbero esplosi i timpani. Anche gli altri accusavano gli stessi sintomi. Magra consolazione. Rimaneva il fatto che eravamo stati degli incoscienti: in diciotto ore ci eravamo abbassati di cinquemila metri e al livello del mare la pressione ci stava stritolando. L’orecchio destro mi rimase chiuso per cinque giorni. Era ancora buio. L’autobus arrivò sul ciglio di una montagna polverosa e lì sotto, seicento metri più in basso, ci apparvero le luci di Iquique, come un cielo stellato allungato sull’oceano tenebroso. Quando arrivammo alla stazione stava partendo la coincidenza per Arica. La bigliettaia fermò l’autobus mentre noi ci consultavamo, indecisi se ripartire subito o se tirare il fiato. Era un giorno che eravamo in movimento, non avevamo più pesos e intanto che c’eravamo volevamo approfittarne per visitare i geoglifi sparsi nella provincia. Pensavo che solamente a Nasca ci fossero i misteriosi disegni tracciati nel deserto. Invece anche nel nord del Cile ce n’erano, forse meno famosi, ma altrettanto affascinanti. Avevamo creato una certa confusione e quando alla fine decidemmo di prenderne uno nel pomeriggio ci toccò cambiare flota, perché lì non eravamo più ben visti. Ci allontanammo rapidamente e ci avviammo in un’altra stazione di autobus. Comprammo i biglietti e depositammo gli zaini.

A quell’ora le banche erano ancora chiuse. Andammo al Mercado Centenario a far colazione. Nella cocinería entrò un musicista che allietò i presenti con la sua fisarmonica, girando poi per i tavoli a raccogliere le offerte. Conosceva un vastissimo repertorio di musiche popolari e dedicò ad ognuno di noi una canzone del proprio Paese. Per me suonò O sole mio. Era davvero bravo e si meritò la mancia.

Nell’architettura Iquique rivive lo sfarzo dei tempi passati. I baroni stranieri dei nitrati costruirono ricchissimi palazzi, molti dei quali esistono ancora. In Plaza Prat, il cuore della città, svetta una torre dell’orologio, un teatro con colonne corinzie e solenni edifici di legno in stile vittoriano. Sugli alberi erano appollaiati centinaia di inquietanti avvoltoi neri. Dopo la crisi del guano, della pesca alle balene e l’impoverimento della miniera d’oro di Huantajaya, la città sprofondò in una crisi dalla quale si riprese solo nel 1975, quando fu dichiarata zona franca esente dai dazi.

Girammo qualche agenzia, ma avevano tutte dei prezzi proibitivi. Preferimmo organizzarci per conto nostro. Fermammo un taxi in mezzo alla strada e ci accordammo sul prezzo. Il taxista ci chiese ventimila pesos per portarci a Cerro Unitas e a Pintados. Gli anticipammo metà della somma pattuita, che finirono direttamente nel serbatoio. Il resto glielo avremmo saldato al ritorno. Valicammo la montagna che sovrasta la città e ci inoltrammo nella Pampa del Tamarugal, quella che secondo Neruda ‘racchiude tutto il silenzio sperduto nel tempo.’ Il tamarugal è una pianta dotata di un apparato radicale che può raggiungere profondità incredibili alla ricerca della più esile traccia d’acqua. Dopo circa quaranta chilometri passammo davanti alla Humberstone, una città mineraria che si era sviluppata attorno agli stabilimenti per la lavorazione dei nitrati. Cominciò ad andare in rovina quando i fertilizzanti sintetici rimpiazzarono i nitrati di origine minerale. Ora si sta tentando di recuperarla per trasformarla in museo. Superata la cittadina di Huara deviammo su una pista che si inoltrava nel deserto e ci fermammo alla base di una collinetta sassosa. Su un fianco era inciso il Gigante de Tarapaca. La figura è stata ottenuta disponendo pietre scure sopra il terreno chiaro. Con un’altezza di ottantasei metri è la figura antropomorfa più grande che esista al mondo. Lasciammo il parcheggio solcato da miriadi di impronte di pneumatico e ci avvicinammo. Il Gigante ci scrutava dall’alto coi suoi occhi senza tempo. Rimanemmo impressionati dalla forza che esprimeva.

Quando risalimmo in macchina il taxista ci disse che aveva capito male. In pratica voleva altri diecimila pesos per andare a Pintados, oltre ai ventimila di prima. Protestammo con forza. Eli, in particolare, non voleva proprio sentire ragione. Alla fine accettò di portarci per “soli” ventimila pesos. Sentivamo uno strano cigolio provenire dalla parte destra della macchina, ma pensavamo che fosse normale. All’improvviso udimmo uno scoppio e la ruota posteriore, con un tremendo stridore metallico, cominciò ad emettere fumo e puzza di bruciato. Pensavamo di aver bucato. Invece erano partiti i cuscinetti della ruota. L’auto non poteva più muoversi. Il povero taxista, con tono supplichevole stavolta, ci chiese cinquemila pesos da aggiungere ai diecimila già pagati. Ma da quell’orecchio non ci sentivamo più. Fermammo un micro che marciava nella direzione opposta e ritornammo ad Iquique. Lo lasciammo da solo sulla Panamericana a prendere a calci la ruota.

Il micro ci lasciò sulla Playa Saint-Tropez, una lunga striscia di sabbia frequentata solo da gabbiani e da pellicani. Nessuno più si azzardava a bagnarsi in quelle acque inquinate. Dal mare la muraglia rocciosa che cinge la città appariva ancora più imponente. Tornammo in centro in autostop e ci incamminammo verso il mercato. La mia attenzione fu attratta dall’insegna di un negozio di materiale fotografico, che spuntava con prepotenza su Plaza Condell. Entrai. Il commesso mi disse che lì non effettuavano riparazioni, però mi diede l’indirizzo di un laboratorio che faceva al caso mio. Dissi agli altri di andare pure, che ci saremmo rivisti più tardi alla stazione degli autobus. L’indirizzo corrispondeva, ma apriva curiosamente alle diciotto e trenta. Provai a rintracciarli al mercato, ma non li trovai. Mi raccontarono che erano andati nella stessa cocinería del mattino, ma al piano di sopra stavolta. Ignaro della loro vicinanza mangiai due empanadas e due jugos de fruta in un chioschetto lì vicino, in compagnia di un marinaio ubriaco.

Alle undici di sera arrivammo ad Arica. Ci affidammo ad un taxista, che ci portò davanti ad un hotel dall’aspetto piuttosto danaroso. Alla recepción ci dissero che non avevano più camere singole. Sinceramente non mi andava di fare il terzo incomodo, soprattutto dopo le ultime tre notti campali. Bastò un attimo di titubanza e la velata ipotesi di cercare un’altra sistemazione, che come per incanto il problema si risolse. Mi diedero una camera tripla tutta per me, poi il giorno dopo mi sarei trasferito in una singola. Riassaporai il piacere della doccia, fra l’altro la migliore di tutto il viaggio. Lavai i vestiti poi crollai a letto.

Se mi fossi dovuto alzare per andare a lavorare probabilmente sarei rimasto a letto fino all’una. E invece alle otto ero già sveglio. Mi buttai a capofitto sulla colazione compresa nel prezzo, mi trasferii nell’altra camera a piano terra e finii di lavare il resto dei vestiti. Gli altri si presentarono alle dieci zombizzati, appena in tempo per la colazione. Per quel giorno volevano solamente crogiolarsi al sole sulla spiaggia, e basta. Arica è una località turistica molto frequentata, anche grazie al clima perennemente soleggiato. Le strade ben curate erano affiancate da negozi di lusso, ristoranti e vivaci caffè all’aperto frequentati da gente abbronzata e ben vestita. Portai la macchina fotografica in un laboratorio che eseguiva riparazioni. Il tecnico in camice azzurrino la esaminò e con aria scettica mi disse che vedeva quello che poteva fare. Andai a mangiare al mercato e feci un po’ di spesa per il giorno dopo. Nel pomeriggio comprai un biglietto di sola andata per l’escursione al Parco Lauca – quello che avrei voluto raggiungere già due mesi prima sia da Oruro che da Cochabamba – poi andai a piedi al lontanissimo terminal per comprare un biglietto dal confine a La Paz. Potevo benissimo andarci con un autobus di linea al Parco, solo che non avrei potuto gustare con calma le bellezze che si incontrano lungo il percorso.

Di sera salii sul Morro, il promontorio roccioso alto cento metri a strapiombo sul mare. Sulla cima sventolava una gigantesca bandiera cilena. Arrivai su completamente impolverato e dolorante per via delle infradito paraguayane, ma fui ripagato dall’incomparabile panorama sulla città e sull’oceano sconfinato. Per strada incontrai Eli e Regula in tenuta da spiaggia, insabbiati e rossi come due gamberi. Ci risistemammo un attimo in hotel, poi io e Eli tornammo in centro. Lui doveva cambiare un travellers’ cheque, ma non trovò nessuna casa de cambio aperta. Io dovevo ritirare la macchina fotografica, ma non avevano fatto in tempo ad aggiustarmela. Fummo entrambi soddisfatti della proficua uscita. Comunque ormai nutrivo seri dubbi sulla possibilità di ripararla. Per sicurezza ne comprai una essenzialissima per dodicimila pesos.

Dopo cena andammo tutti e tre al cinema. Quando arrivammo in Plaza Colón era in pieno svolgimento una manifestazione politica. Sui gradini della Iglesia de San Marcos, progettata da Eiffel, erano schierati i partigiani di Pinochet con bandiere cilene, striscioni e gigantografie del dittatore, autore del sanguinoso golpe del 1973. Dall’altra parte, invece, gli oppositori con le fotografie dei parenti desaparecidos chiedevano a gran voce che l’Inghilterra concedesse l’estradizione alla Spagna per processarlo. Nel mezzo un cordone di polizia in tenuta antisommossa teneva separate le due fazioni. Passammo tra due fuochi. Quella notte ci salutammo. Io tornavo in Bolivia, loro andavano a Lima per prendere l’aereo. Eli era già in viaggio da undici mesi. Doveva per forza tornare in Israele per il mese annuale di richiamo sotto le armi. E sarebbe andata avanti così sino all’età di quarantacinque anni.

Mi svegliai alle sei e mezza, incredulo per il troppo sonno. Una mazzata tremenda. Il micro dell’agenzia mi passò a prendere alle sette. I miei compagni di viaggio erano due anziani coniugi di Santiago, un olandese, una svedese e un’uruguayana. Abbandonammo presto la Panamericana e svoltammo nella valle del Río Lluta, una sottile oasi nel deserto costiero. L’autista si fermò per mostrarci una serie di geoglifi che ricoprono le colline simili a dune dall’altra parte del fiume. Tra le figure si potevano distinguere alcuni llamas, importanti mezzi di trasporto in epoca precolombiana. A Poconchile facemmo una sosta per visitare l’Iglesia de San Gerónimo, una delle più antiche del Cile, e per l’attesissima colazione. Ci servirono uova fritte, riso, patate e chachacoma, un infuso di erbe eccitanti simili alla coca. E pensare che ad Arequipa ero rimasto inorridito quando avevo visto le due inglesi mangiare praticamente le stesse cose. Spazzolai il piatto.

La strada si inerpicava su stretti tornanti incisi sul fianco di montagne spoglie. Fecero la loro comparsa i cactus a forma di candelabro. Riescono a sopravvivere in quell’ambiente ostile assorbendo l’umidità proveniente dall’oceano. Infatti vivono solo nella ristretta fascia climatica compresa tra i 1300 e i 1800 metri nella quale si condensa la llovizna. Crescono di appena cinque millimetri all’anno e fioriscono solo per un giorno. Nei pressi di Copaquilla scendemmo per ammirare alcuni superbi terrazzamenti precolombiani, vigilati all’epoca da una fortezza appollaiata al margine di uno strapiombo, i cui ruderi erano ancora ben visibili. Il tratto superiore della vallata è famoso per la produzione di origano, coltivato in particolar modo attorno al villaggio di Socoroma. La strada seguitava a rampare sulla Cordigliera e di pari passo il clima cambiava. L’aria diventava sempre più rarefatta, fredda ed umida. Comparvero le prime nuvole. Superata Las Cruces, a 4300 metri di altezza, entrammo nel Parco Nazionale Lauca. Su queste montagne cresce la foresta a più alta quota del mondo, composta da queñuas, una specie endemica di alberi nani che sopravvivono fino a 5300 metri di quota. Nei bofedales, le piane acquitrinose tipiche dell’altipiano, pascolavano branchi di llamas e di alpacas. Vicino all’abitato di Chucuyo avvistammo le prime vicuñas, parenti selvatiche di quest’ultimi. Alla fine del XIX secolo erano arrivate sull’orlo dell’estinzione a causa della loro pregiatissima lana. A differenza dei cugini, infatti, questa specie non è addomesticabile. I programmi di protezione intrapresi qui e altrove hanno permesso alla loro popolazione di crescere, con benefici economici per le comunità indigene. Tra i cespugli e le rocce facevano capolino le timide vizcachas. Lasciammo la strada principale e sobbalzammo sulle buche fino a Parinacota, un villaggio di pastori aymara che sorge lungo l’antica pista dell’argento che collegava le miniere di Potosí al porto di Arica. E’ circondato da un vasto bofedal popolato da pariguanas, palmipedi bianchi e rossi, da guallatas, le oche delle Ande, e da taguas, le folaghe giganti. Tra le povere casette spicca una chiesetta coloniale del XVII secolo, quattro muri di pietra intonacata sostenuti da contrafforti, coperti da un tetto di paglia a due spioventi. Il tozzo campanile è situato in un angolo del muro che delimita un cortile polveroso. Entrammo dal portone color turchese e ammirammo gli affreschi surreali che decorano l’interno, opera di anonimi artisti della scuola cusqueña.

Alle due arrivammo al Lago Chungará, il capolinea dell’escursione. Si trova a 4500 metri sopra il livello del mare ed è uno dei più alti del mondo. Davanti al rifugio del CONAF alcuni venditori esponevano prodotti artigianali confezionati con lana d’alpaca. Entrai per chiedere al guardaparco se era possibile pernottare nel rifugio. Nessun problema, c’erano sei letti tutti per me. Salutai il resto della comitiva, che ripartì per fare ritorno ad Arica. Cominciò a piovere. I venditori impacchettarono i loro tessuti e se ne andarono. Rimasi solo. Faceva un freddo polare e l’altitudine mi stava debilitando. Il Volcán Parinacota incappucciato di neve dominava il lago a più di 6300 metri di altezza. Il cielo era un’unica, minacciosa cappa color del piombo. Il paesaggio sembrava compresso dal peso delle nuvole. Sulle rive melmose del lago e nei bofedales circostanti pascolavano indisturbati le eleganti vicuñas. Nelle acque immobili nuotavano le folaghe. Probabilmente le orecchie mi si erano chiuse a causa dell’altitudine e le nuvole attutivano i suoni, ma in quel momento mi sembrò che quel luogo fosse sospeso in un’altra dimensione, come se lo vedessi dal di fuori. Non so quanto tempo rimasi a contemplarlo, sotto il tetto del rifugio. Tornai dentro, mi infilai sotto una montagna di coperte e persi serenamente coscienza. Piovve a sprazzi per tutto il giorno, una pioggia fastidiosa mista a nevischio e a grandine.

Era già buio quando sentii rumori e voci confuse provenire dall’ingresso. Doveva essere arrivato qualche altro ospite. Non riuscii ad alzarmi subito e nel dormiveglia sognai una classe di colegialas in gita scolastica. Lasciai il caldo letto alle otto di sera, completamente rincitrullito. Nella saletta due tizi fosforescenti vestiti Invicta dalla testa ai piedi stavano cucinando una quantità di cibo sufficiente per un reggimento. Erano fotografi di Torino e stavano facendo un servizio per quella nota marca di attrezzature ed abiti sportivi. Per tre settimane avevano percorso il Cile in tutta la sua lunghezza, dalla regione magellanica al Norte Grande, a bordo di una jeep carica di milioni in apparecchiature fotografiche, tende, cucina da campo e viveri. E’ incredibile come certi incontri avvengano nei posti più impensati. Mi invitarono a mangiare con loro e così, un po’ a malincuore, rinunciai alla mia bella cena a base di scatolette. Mi sforzai di mangiare quei due etti di spaghetti, una succulenta bistecca, vino, frutta e, proprio per non offenderli, anche il caffè fatto con la moka. Coinvolgemmo nella serata anche la loro guida e i due guardaparco, impreparati a fronteggiare tre italiani casinisti.

Mi svegliai presto, ma restai volentieri sotto le coperte. Quel 25 marzo mi ricordava una persona, un periodo passato che non sarebbe più tornato. Ma a distanza di tempo la sensazione che provavo era più di dolcezza che di gelo. Il vetro della finestra, piuttosto, pieno di adesivi di associazioni di viaggi-avventura, quello sì che era ricoperto da una patina di ghiaccio. All’interno! Un fastidioso spiffero entrava da un cardine rotto. Mi alzai.

I fotografi erano usciti per cercare di rubare qualche inquadratura alla foschia che ci avvolgeva. La guida, invece, era rimasta per sistemare le casse di viveri e per raccogliere tutta la roba.

“Ti trovi bene con loro?” gli domandai.

“Mmm, i fotografi sono un po’ difficili: ferma di qua, ferma di là… Però, tutto sommato, lavoro poco e guadagno bene. E poi non conoscono il castellano, così non devo per forza parlarci.” Capii l’antifona. Non lo si poteva certo definire un chiacchierone. Era un meticcio di Santiago con sangue mapuche nelle vene e come i suoi avi aveva l’indole nomade. Dopo un’oretta i fotografi rientrarono demoralizzati dalle condizioni atmosferiche, caricarono tutto sul pick-up e se ne andarono. Il loro lavoro era finito. Fra due giorni avrebbero preso l’aereo per tornare in Italia.

A mezzogiorno un guardaparco lasciò la postazione radio per avvertirmi che era appena passata la corriera della Chilebus. Era molto strano, ad Arica mi avevano assicurato che sarebbe transitata dal lago verso l’una e mezza. Spazzolai la scatoletta di tonno, rifeci in fretta e in furia lo zaino e chiesi ad un venditore di artesanía se mi poteva portare in frontiera. Sfrecciammo all’inseguimento dell’autobus a bordo della sua lunghissima Chevrolet ultradatata. La frontiera distava circa dieci chilometri. Quando arrivammo l’autobus era ancora lì, incolonnato dietro altri mezzi. Gli lasciai cinquecento pesos di mancia e mi avvicinai. Il cartello della destinazione indicava CBBA, abbreviazione di Cochabamba. Non era il mio. Andai nella casermetta della migración e mi feci timbrare il passaporto. Lasciai lo zaino dentro e uscii a sgranchirmi le gambe. Tra i ciuffi d’erba cresceva la llareta, una specie di muschio che forma curiosi cuscini legnosi verde smeraldo. A vederla sembrava una spugna morbidosa, ma in realtà era dura come la pietra. Gli abitanti dell’altipiano la spaccano a picconate e utilizzano la resina interna come combustibile. Cresce molto lentamente, occorrono due secoli per formarne una di un metro di diametro. Per questo in Cile è stata dichiarata specie protetta. Sul bordo della strada un cartello in quattro lingue su cui risaltava in rosso la scritta ¡COLERA! avvertiva i viaggiatori diretti in Bolivia di: Non mangiare prodotti del mare crudi, lavare la frutta e la verdura, bere solo acqua potabile o bollita, lavarsi le mani prima di mangiare, usare solo bagni o latrine. Nei bofedales che si estendevano a perdita d’occhio le vicuñas continuavano a pascolare incuranti degli avvertimenti e dell’aria pungente. Tornai indietro. Un giovane militare mi raccontò di essere stato in Europa su una nave da guerra e di aver passato qualche giorno a Livorno. Ma non era potuto sbarcare e così l’Italia l’aveva vista solo da lontano. Però adesso aveva chiuso con la marina. Solitudine per solitudine preferiva di gran lunga la montagna, anche se faceva freddo.

“Mi piace il tuo giubbotto, me lo vendi?” mi chiese alla fine.

“Veramente ho solo questo. E sto anche gelando.” “Facciamo cambio. Io ti do il mio e tu mi dai il tuo.” “Non credo proprio che i tuoi superiori approverebbero.” “Mmm, forse hai ragione. Costa molto?” “Abbastanza.” “Sempre ricchi voi gringos, eh?” mi diede una pacca sulla spalla e scomparve in un ufficio.

Superata la migración boliviana di Tambo Quemado la strada asfaltata di recente puntò verso nord.



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