Centroamerica Quattrostagioni
Ma percorrere le strade del Messico, viverne le sue città è anche avere continui rimandi a personaggi che in un modo o nell’altro rappresentano “la mexicanidad”. Lo spirito di rivincita di un popolo, figlio misto di una storia passata di civiltà gloriosa e a tratti sanguinaria, nata da un matrimonio forzata con un popolo d’Europa. La Spagna gli è entrata nelle vene, dove, seppur continua a vivere lo spiriti indios, questo si è sublimato con la latinità. Anime indie sono nei riti e nelle cerimonie che ci accolgono nello zocalo (la piazza) di Città del Messico, danzatori aztechi a ritmo di tamburo animano la piazza e accompagnano col frenetico tam tam i riti di purificazione che alcuni curandero officiano ai viandanti.
Mi accodo e pazientemente attendo con emozione la purificazione dell’indios, che con incenso e erbe medicamentali traccia un cerchio attorno alla mia aurea. Indios è il venditore da cui acquistiamo statuette che ritraggono i suoi dei, che si definisce “zapateco non mafioso”, artigiano di quegli oggetti non originali (perché il Messico è anche questo, commercio illegale di reperti delle civiltà mesoamericane). Lungo le strade e nelle piazze manifesti di Marx e di altri leader degli ideali comunisti, come i manifesti del Che per le strade di Oaxaca a rivendicare i diritti dei trabajadores, o il cartellone appeso all’entrata del sito del Monte Alban che inneggia contro la privatizzazione.
Un misto di spirito rivoluzionario e romantico socialismo che aleggia in ogni dove. Spirito di una rivolta compiuta più volte, e nemici sempre diversi, ora gli invasori, ora una dittatura militare, ora ancora una democrazia a metà. Eppure le rivoluzioni sembrano avere tutte la stessa malaugurata sorte; con la loro parabola ascensionale, alla fine involgono sempre su se stesse. Sembra che per la stessa natura umana siano sempre destinate, dopo il punto più alto di scontro e rivincita, alla ricaduta al punto di partenza. Cambiano i leader, cambiano gli oppressori, ma ci sta sempre chi sta peggio. Eppure il Messico resiste, ogni giorno un’esplosione di colori e di musica che animano un sano patriottismo la cui bandiera troneggia nello zocalo, enorme e solenne al grido del “Que viva Mexico!”. Il Messico sembra essere pervaso da un diffuso senso di “solidaridad”, che è lo stesso principio su cui basiamo le nostre democrazie, anche se a volte ce lo dimentichiamo. Questa solidarietà, come quella luce negli occhi dei bambini, fanno del Messico una terra non diversa da tante altre terre del sud del mondo, eppure così unica e autentica.
“Andale, Andale Compagneros! Centroamerica Quattrostagione” Quattro amici a zonzo per un mese nel cuore dell’America Latina: il gusto caldo e inteso della cioccolata di Oaxaca, il colore acceso delle stoffe del Guatemala, il caldo torrido di Puerto Escondido, le fredde notti di San Cristobal, il triste destino di tanti villaggi indios, la monotonia dei paesaggi di periferia, le facce rugose delle vecchie donne maya, e le isole caraibiche del Belize con i segni dei tanti uragani che le sono passati addosso. E per ogni paesaggio un clima, ogni luogo uno stato d’animo, perché ogni viaggio in fondo è intenso e vario come tutte le stagioni della vita.
7 Gennaio 2006: Puerto Escondido- Pizza-spaghetti e mandolino: il sogno messicano dell’Italia… Eccoci finalmente a Puerto Escondido, un luogo pieno di fascino se non altro per le atmosfere riprese dal film con Abatantuono, con cui molti di noi hanno sognato il Messico e le sue spiagge calienti. Nel cortile della pensione, tra palme e pareti colorate cerco di raccogliere le idee dopo una nottata in pullman che da Oaxaca ci ha portato fin qui. Dieci ore di tornanti e salite, per poi ridiscendere verso il mare e la costa del Pacifico. Assonnati scendiamo dal bus, e un po’ per la sbornia del giorno prima, a base di cerveza e mezcal, un po’ per lo stordimento del pullman e l’aria condizionata, ci lasciamo guidare da un tassista nel mezzo della via principale. Tutto chiuso. Sono le sette.Vaghiamo confusi e assonnati. Un po’ irritati, ci incazziamo per decidere dove alloggiare, finché finalmente l’hotel Rocamar diventa la nostra dimora. Colazione sulla spiaggia a base di frutta e siamo pronti per la passeggiata lungo la costa, fino alla spiaggia di Zicatela.
Dopo un po’ di ore di sole, e distesa sulla spiaggia, mi trovo improvvisamente catapultata in una scena di un altro film di Salvadores. Quel gruppetto di italiani, che tanto avevo detestato perché tutto speravo di trovare tranne che concittadini sotto all’ombrellone accanto alla mia asciugamano, ridanno al luogo tutta la sua dimensione scenografica. Con un campetto di calcio improvvisato sulla sabbia e le sue squadre Roma-Lazio, con i loro commenti alla Verdone, mi fanno sentire spettatrice presente sul set di quel film da Oscar. Il tipo panzuto e tatuato, quello con la maglia grigia, la collana di legno e il capello lungo brizzolato, l’altro riccio e abbronzantissimo, tutti con le loro mosse sul campo, le loro battute crude e sincere, li fanno attori di questa scenetta tutta gustosamente all’italiana, che dopo tutto mi rallegra. Mi ritrovo italiana all’estero, non solo come figlia della stessa madre pizza, ma anche per quella sana allegria. Così una volta tanto, i “soliti italiani all’estero” mi stanno più simpatici, e mi fanno pensare che ogni tanto uno stereotipo non sta male. Anche se è importante non abbondare. “Chiapas e la stagione delle rivoluzioni” “Puoi chiamarmi partigiano, bandito oppure illuso, Soldato di una guerra persa prima del suo inizio… Sono la tua coscienza sporca, sono il vecchio contadino Sono l’indios, il mendicante, sono l’ortica del tuo giardino I miei compagni sono già morti o marciscono giù in prigione. Eppure sono ancora qui a gridare al mondo “Viva la rivoluzione!”. (Modena City Ramblers- Il ballo di Aureliano) 10 Gennaio 2006- San Cristobal de Las Casas L’avevo immaginata per tanto tempo. La terra della rivolta e dell’oppressione, la rivincita degli indios, quella del Che del 2000, evocata da alcune canzoni recenti in un album intitolato “Terra e Libertà”. E finalmente Chiapas. Dopo dodici ore di pullman giungiamo in questa cittadina. San Cristobal, il cuore pulsante del Messico che camuffandosi ha detto no al silenzio, gridando con il muso nero e duro contro gli abusi dell’indifferenza. I diritti negati di un popolo, la rivoluzione di un passato che resiste. Tra le sue strade donne e bambini scesi dai villaggi vicini vendono ai turisti i loro prodotti artigianali, in un mercato in cui il prezzo paga la loro dignità. Cerco di scattare delle foto ai loro volti, ma schivi sembrano voler preservare la loro libertà con la sana volontà di restar anonimi per difendersi da noi occidentali, a cui chiedono solo di mercanteggiare. Visitiamo due villaggi vicini, San Chamula e Zinatacan, in cui scopriamo un insolito sincretismo religioso, frutto del matrimonio finito male tra riti animisti e cristiani. Cacciati i preti, nella chiesa di Chamula gli indios pregano i santi e assolvono ai loro peccati con sacrosanti rutti per cacciare gli spiriti maligni bevendo pepsi, mentre un curandero sgozza galline per curare i mali della comunità. Aghi di pino sul pavimento a simboleggiare la sacralità della terra che li nutre, e candele accese di colore diverso per le diverse preghiere. Ci accoglie un mayordomo, una sorta di sindaco-prete della comunità india, e sua moglie perpetua ci spiega i compiti che svolgono nell’anno del loro mandato, mentre ci fa assaggiare una grappa cerimoniale e ci mostra il vestito del marito sacerdote-sindaco. La nostra guida, che è un latino- come dire che ha antenati spagnoli e non indios-, ci introduce nei due villaggi e nelle case con circospezione. Gli indios che incontriamo lo salutano con senso di fratellanza, come se riconoscessero a lui il diritto di mediare tra il nostro mondo occidentale e il loro stile di vita tradizionale. Giungiamo in una capanna in cui vive stipata tutta una famiglia, che ci offre tortilla appena fatte e ci mostra come tessono le stoffe colorate che poi vendono al mercato. Lungo le strade ci sono edifici di mattoni perché molti indios scelgono la modernità; e alcune auto. Ne freccia una grossa, è dell’indios di Chamula che ha la fabbrica della pepsi. Contraddizioni del nostro tempo. Eppure il Chiapas forte della sua anima indigenas, della sua religiosità e del suo pragmatismo politico resta un luogo autentico e sospeso nel tempo. “La mexicanidad: qui la vita non vale niente, qui scommettiamo la vita e rispettiamo chi resta in piedi. Perché la vita comincia piangendo e piangendo finisce. (tratto da La polvere nel deserto, frase di Jimenez, un cantante esistenzialista).
Centroamerica Quattrostagione “L’immensa pianura sembrava arrivare, fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare e tutto d’intorno non c’era nessuno, solo il tetro contorno di torri di fumo… I due camminavano, il giorno cadeva, il vecchio parlava, e piano piangeva: con l’anima assente, con gli occhi bagnati, seguiva il ricordo di miti passati…
E il vecchio diceva, guardando lontano, immagina questo coperto di grano, immagina i frutti e immagina i fiori, e pensa alle voci e pensa ai colori. E il questa pianura, fin dove si perde, crescevano gli alberi e tutto era verde; cadeva la pioggia, segnavano i soli il ritmo dell’uomo e delle stagioni.” (Guccini-Il vecchio e il bambino) 14 Gennaio 2006-Guatemala Siamo giunti qui dopo un viaggio iniziato nel cuore del Chiapas. Da San Cristobal pullman fino al confine con il Guatemala. Come descritto dai viaggiatori precedenti: cambiavalute abusivi all’assalto, confusione di bancarelle e gente per la strada. Mercanteggiamo sulla tangente all’ufficio immigrazione, che il doganiere come d’uso chiede per uscire dal Messico. Superiamo la frontiera. Superare ogni confine in terre lontane, varcarlo zaino in spalla dopo un lungo percorso e con una meta ancora lontana dà una sensazione adrenalinica, un po’ di eccitazione e una vena di paura. Saltiamo su un furgoncino anni ’50 coloratissimo e scassatissimo. Il bus-boy, una specie di garzone trapezista si arrampica sul tetto del pulmino e lancia i nostri zaini. Temiamo per tutto il percorso di non ritrovarli mai più a destinazione per la guida da montagne russe del conducente. E troviamo decisamente profetica la scritta “Que Dios te benedicas”. Contrattiamo per il prezzo del biglietto, ma scopriremo ben presto di aver pagato quasi 30 volte di più dei locali.
Qui è un po’ tutto così. Anche se non sei gringo, cioè americano, ti vedono a forma di dollaro. Sei il pollo da spennare. Segue prezzi esagerati rispetto al paese. Così il mercanteggiare è d’obbligo, su tutto. Guatemala, strano paese. Meno autentico del Messico. Poi qui la gente non vive in modo rurale, tradizionale, qui è semplicemente povera. I paesini attorno al lago Atitlan son desolanti, baraccopoli sui pendii, zoo per americani in cerca di paesaggi pseudo-idilliaci, ridotti a un dedalo sconnesso e sporco di bancarelle per turisti. Schiere di bambini e donne all’assalto a venderti i loro drappi, collane, braccialetti, penne e banane, a offrirsi per una foto per pochi quezales. Tutto poco autentico e tanto povero. Il Chiapas è diverso, lì vivono ancora in modo tradizionale, i villaggi intorno a San Cristobal sono fatti di capanne e se li vai a visitare ci vai con una guida locale, una forma di rispetto a tutela della loro integrità. Certo, anche qui è arrivata la modernità, alcune case sono in mattone, qualcuno ha la macchina, ma è l’impatto turistico che è diverso. In Chiapas l’europeo cerca il passato, la tradizione. Si fa accompagnare dai ladinos (i messicani non indios) presso i villaggi, viene accolto nelle abitazioni dei locali. Ma dopo una certa ora, tutti fuori. Le colline sono degli indios. Indios del 2000, con tutte le contraddizioni che questo comporta, ma autentici.
In Guatemala invece visitare i “villaggi” maya è visitare un luogo ricreato per il turista, una gardaland per gli americani. A ciò si aggiunge che i guatemaltechi non hanno alcuna cultura ecologista, non parlo di smaltimento di rifiuti o altro, questo stenta ad arrivare anche da noi bravi occidentali, parlo di cose elementari, come non gettare tutto dalla finestra. Risultato: bottiglie e plastica dovunque in una terra che ha perso da tempo la sua verginità. Prostituta di un finto turismo hippy, deturpata di tutto, è ruvida come la pelle delle vecchie indios appollaiate sotto il portone di una baracca sotto la scritta “Dios es la unica esperancia”. 19 Gennaio Caraibi! Eccoci finalmente in Belize. Arriviamo all’altra frontiera su di un autobus scassato e: piove! All’ufficio immigrazione solita tassa illegale d’uscita, ma usciamo felici perché almeno una rivincita ce la siamo presa. Dopo tante fregature per turisti, con prezzi gonfiati fino al 300 %, abbiamo concluso la serata di ieri col nostro ultimo giro in collettivo per l’ultimo giorno in Guatemala, e i soldi risparmiati per un carissimo taxi “privato” che avrebbe dovuto scarrozzarci il giro, ma ci ha lasciato a piedi (e il giorno dopo ci ha cercato per i soldi!) li abbiamo spesi a suon di “Gallo”, birra locale, concedendoci anche alcune leccornie internazionali (mars, e snackers vari), e una mancia al baracchino dove ci siamo rimpinzati, proprio a pochi passi dal bungalow del villaggetto sperduto in cui abbiamo alloggiato per visitare Tikal. Il maestoso e selvaggio sito maya, immerso nella giungla. Tom Rider e Indiana Jones di turno, abbiamo camminato per più di quattro ore tra le rovine con una guida di un simpatico guatemalteco di nome Domenico con cui abbiamo setacciato sentieri inesplorati (ci piace pensarli così), tra i vari templi, alla scoperta di animali tropicali, e piante medicamentali. Abbiamo scalato i templi, mirato la foresta circostante che ha inghiottito in 1500 anni gli edifici, molti dei quali ancora sommersi dalla terra e dalle piante. Un’esplorazione decisamente interessante che ha ridato brio alla nostra gita in Guatemala, e gli ha fatto guadagnare dei punti in positivo. A questo si aggiunge un sostanzioso “rimpinzamento” in un locale a gestione familiare, l’alloggio in una posada immersa nella natura, e un chioschetto a pochi passi per i rifornimenti. Tutto sommato il Guatemala merita una visita, anche se tra Tikal e Atitlan uno a zero. Ne vale la pena se ci si impegna (e non è facile) a non battere solo i circuiti per i turisti, se ci si sforza a mangiare nei locali dove vanno i guatemaltechi, a prendere i loro mezzi di trasporto (affollatissimi e che corrono come matti). Solo così si vedono le cose del paese, ma anche le persone che fanno l’anima di quel paese. Solo così si apprezza veramente il Guatemala e la sua gente.
Finalmente Carabi! Belize. Belize…Belize…E piove! E’ come se al paradiso avessero spento la luce. Dico, sono ai Caraibi e fa freddo? Non è possibile! Arriviamo con un motoscafo direttamente da Belize City, superiamo la barriera corallina, e piove a palla! Inzuppati fino alle mutande veniamo trascinati da uno del posto in una palafitta-appartamento di fronte al mare. Accettiamo, nonostante la diffidenza iniziale per l’eccessiva premura. Ci assicura che l’indomani ci sarà il sole. E’ l’indomani, ma il sole è lontano un milione di raggi luce! Sindrome fantozziana demotivante spinge i miei compagni di viaggio ad un frenetico zapping tra i canali anglofoni, cogliendo espressioni e figure in movimento con divertimento e ingenuo disincanto. Lasciandoli a loro stessi, mi siedo sulla sdraio fuori la palafitta a scrutare ogni parziale movimento di nuvole, e eventuale spiraglio di sole, mentre le palme al vento mi salutano e le onde in lontananza si infrangono sulla barriera corallina. Valuto la possibilità di improvvisare una danza del sole tipicamente maya al suono del tamburo e alle grida tribali di: “oh sole mio!”.
Caraibi ultimo round: E finalmente il sole fu! Almeno due giorni di sole ce li siamo presi in questa isoletta sperduta a largo della barriera corallina. Caye Coker (chi cocher) vive in una dimensione tutta sua. Il “go slow”, motto dell’isola, sintetizza la filosofia dei sui abitanti. Afro-americani, rasta e fanatici di reggae, te lo ripetono di continuo per le due strade di sabbia dell’isola, tra le palafitte di legno in stile british- coloniale. Con il loro inglese slangato ti invitano al loro andamento lento, tra il relax e la rassegnazione, tutta tipica del luogo idilliaco e in balia delle forze naturali. Glielo si legge nei resti distrutti lasciati dagli uragani che gli passano addosso di continuo. Molto non viene ricostruito, qualcosa solo rattoppato. “Tanto poi ricade”, vien da pensare. E in questo mondo al di là e ai confini del mondo, ci facciamo condurre da Junis, vecchio marinaio dalla pelle consumata dal sole, in un’escursione in barca a vela a largo della barriera corallina. E nonostante mio fratello mi continui a rassicurare che sono vegetariani, i 40 minuti passati tra gli squaletti amici di Junis sono un misto di angoscia e palpitazione. Juni ci racconta di aver salvato mamma squalo in fin di vita, e da allora sono “la sua famiglia” (?). A parte tutto, dopo lo shock per una fifona come me in immersione tra i pesci enormi, ammiro la “sacralità” di Junis per il mare, e il fatto strano che, con tante imbarcazioni nei dintorni, sia stato lui, appena tuffatosi in acqua, ad essere circondato dai suoi squali, e di aver nuotato con loro per più di mezz’ora, accarezzandoli e coccolandoli come fossero dei gattini…
Finisce con questo ricordo il mio viaggio. Ritornando a casa, nel pieno del freddo inverno, già mi manca il calore del Centro-America. Ma più di tutto mi mancano i colori, e come per magia non posso far altro che giocare con le tinte dei miei vestiti per rendere tutto più acceso e vivo…Mentre sogno già il prossimo viaggio. Magari in Africa, chissà.