Praga cammina cammina

Premessa (sine die) Che senso avrebbe visitare una città come Praga, standosene poi chiusi in albergo (seppure splendido com’era il nostro) a farsi una sauna o a giocare al casinò? Nessuno, sostengo io. La nostra gita sarebbe stata ancora più bella, replicherebbero in coro Maria e Valeria (le mie due compagne di viaggio assieme a Salvo, mio...
Scritto da: mikino
praga cammina cammina
Partenza il: 26/08/2005
Ritorno il: 02/09/2005
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
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Premessa (sine die) Che senso avrebbe visitare una città come Praga, standosene poi chiusi in albergo (seppure splendido com’era il nostro) a farsi una sauna o a giocare al casinò? Nessuno, sostengo io. La nostra gita sarebbe stata ancora più bella, replicherebbero in coro Maria e Valeria (le mie due compagne di viaggio assieme a Salvo, mio fratello).

Dove stia la ragione è ancora oggi oggetto di dibattito tra noi quattro. Io e Salvo sosteniamo che una città incantevole come Praga vada vissuta fino in fondo, per poterne succhiarne il midollo (per dirla alla John Keating) nella sola settima a nostra disposizione; Valeria e Maria ribattono che l’unico midollo che ci siamo succhiati io e Salvo sia stato quello delle loro vite e delle loro gambe, consumate dal tanto famigerato “Cammina, cammina” (e così diamo subito un senso al titolo del mio racconto di viaggio). Ai posteri, come direbbe lo Scrittore, (e a quanti avranno la pazienza di leggersi tutto il mio resoconto) l’ardua sentenza. Io dal canto mio, mi limiterò, come direbbe l’altro Scrittore, a raccontare i fatti (anche se, a dire il vero, un pò di sana faziosità per la mia causa tenterò di mettercela; non tanta, ok?, giusto un pò).

Agli albori (una ormai lontana domenica di giugno).

Può un viaggio per Praga partire dalle Eolie? Si, è la mia risposta. Almeno a noi è capitato così.

Eravamo sei amici al bar (canterebbe Gino Paoli), seduti attorno a un tavolo, intenti a deliziarci la bocca con granita e brioche prima di andare in spiaggia. Facevano compagnia ai quattro sopra citati Guido e Concetta.

Quest’ultima, consapevole della mia passione per i viaggi e desiderosa di spronare il marito a partire (Guido vi direbbe: una poltrona, un paio di pantofole e un buon libro mi sono sufficienti per essere il re del mondo), butta là l’idea di un weekend da trascorrere tutti assieme da qualche parte.

Si inizia soft rispetto al punto di partenza (noi viviamo in un solare paese della Sicilia sud-orientale): le Eolie, appunto.

Poi, una volta gettato il sasso, le onde iniziano ad allargarsi: perché non Taormina, sostiene qualcuno. Allora la Calabria, replica qualcun altro. Io propenderei per la Sardegna, si lancia Concetta, subito fulminata da un’occhiata di Guido che, nel giro di qualche minuto, si ritrova proiettato dalla terrazza di casa propria al bordo di una piscina in un villaggio turistico sulla Costa Smeralda.

Dal canto mio, pur spinto dal mio personale diavoletto del viaggio che fiuta l’occasione e mi incita forsennato, tento di riportare tutti alla realtà. Rilevo come la Sardegna sia una meta estremamente cara e questo mal si concilierebbe con l’idea di non spendere cifre rilevanti (uno dei presupposti da cui siamo partiti). La mia osservazione sposta la destinazione del nostro viaggio a Sharm (in realtà io oooodio i villaggi) ma il Mar Rosso concilierebbe il desiderio di relax di qualcuno (pensate a Guido? Bè, si, lui in primis) col desiderio mio e di Salvo di immergerci in mezzo alla barriera corallina.

Si raggiunge una bozza di accordo tra le parti, e ricevo l’incarico di studiare tariffe e mete (Maria, la mia ragazza, osserva sarcastica che da lì alla granita successiva, la domenica seguente, tutto il gruppo sarà a conoscenza pure di quanti piante di ficus ci sono nel villaggio in cui dovremmo andare. Neanche sotto tortura ammetterei che ha ragione ma, detto tra noi, è proprio così: amo i viaggi e il compito di organizzare questo mi stuzzica non poco).

Col senno di poi, circa quattro mesi dopo, Sharm è rimasta un’idea incompiuta.

La follia di gente che si fa scudo della propria religione per atti ignominiosi ci ha allontanati da quella destinazione. Mi resta solo il ricordo della televisione che mi trasmette immagini di macerie, fumo, gente che piange e salme coperte da lenzuola laddove ci sarebbero dovuti essere solo divertimento, sorrisi, immersioni tra pesci pagliaccio e trigoni, e – perché no? – persone appartenenti a civiltà diverse che convivono fianco a fianco, condividendo le bellezze di quel posto e la sua magica atmosfera. E qua chiudo il discorso per non (s)cadere nella retorica.

La scelta (metà Luglio).

Dopo tanti cataloghi consultati, proposte fatte al resto del gruppo e cassate al termine di estenuanti sedute (là ho capito il significato reale degli emendamenti a una proposta di legge e perché sia tanto arduo e tortuoso il cammino che porta alla sua approvazione) la scelta cade su Praga.

Nel frattempo, per motivi di lavoro che sono insorti all’improvviso a Concetta e che coincidono con la data della partenza, lei e Guido debbono rinunciare.

La cosa ci dispiace (in fondo se un mese prima Concetta non avesse buttato là l’idea, magari non se ne sarebbe fatto nulla), ma decidiamo comunque di partire. Salvo e Valeria mi appaiono molto determinati: non hanno mai fatto una gita, né da soli né in coppia e fiutano la grande occasione. Dal canto nostro, io e Maria non è che opponiamo molta resistenza.

La mia ricerca di un pacchetto volo e hotel (non vi preoccupate del resto, dico agli altri, a farvi da guida ci penso io; al che Maria si fa il segno della croce) porta la mia agente di viaggio a propormi una serie di offerte che alla fine si riducono a un terzetto. La mia scelta cade subito sull’Hilton. Se proprio dovremo camminare parecchio (ce ne sono di cose da vedere a Praga, e sette giorni possono anche essere pochi), allora, mi dico, tanto vale offrire agli altri una struttura che con la sua spettacolarità attenui la stanchezza e (soprattutto) i mugugni per la (tanta) strada che ho in mente di percorrere. Sotto questo profilo l’Hilton è una garanzia e anche gli altri avallano la mia scelta. Mi preoccupa solo l’eccezionale costo dell’offerta, talmente bassa da farmi pensare (temere) che sotto ci sia il trucco. Condivido i miei dubbi con gli altri (almeno così ho un alibi nel caso in cui ci sia davvero la magagna). Chissà, ci scherza su Maria, magari ci faranno dormire nello sgabuzzino. Oppure, chiosa Salvatore, dopo la prima notte ci daranno secchio e scopa e ci spiegheranno come certi lussi si paghino con prestazioni extra, contenute in clausole lillipuziane nel contratto che firmeremo all’atto della prenotazione del viaggio.

Decidiamo di “rischiare”. Parafrasando il titolo di una altro resoconto pubblicato su questo sito “l’Hilton val bene un azzardo”.

La partenza (26/08/05) L’aeroporto di Catania è un gigantesco vespaio, pieno di gente che lo fa sembrare più piccolo di quanto sia in realtà (una guardia, discutendo, ci spiegherà che nel corso dell’ultima settimana c’è stata una media di circa 13.000 partenze al giorno).

Troviamo il punto di raduno, ritiriamo la documentazione dal rappresentante del nostro tour operator e dopo il check in (altra fila, gente accalcata, spinte e coloriti insulti), raggiungiamo la sala d’imbarco e iniziamo un’attesa che durerà a lungo. Il volo della Windjet – inizialmente previsto per le 22.30 – inizia a slittare sino a essere fissato alle 24,00. Tra i passeggeri inizia a serpeggiare un certo nervosismo, figlio della paura. Molti s’interrogano sul perché di questo ritardo. I più possibilisti (tra cui me) sanno che fanno parte del gioco (compagnia low cost; periodo di voli intensi); molti temono problemi tecnici. I recenti incidenti occorsi agli aerei nelle ultime settimane hanno evidentemente lasciato il segno. A bordo sento gente chiedere rassicurazioni alle hostess. Trovo l’idea inutile (cosa potrebbero mai dire a un passeggero se non rassicurarlo?) ma contemporaneamente mi atteggio io stesso da steward rassicurante con Salvo e Valeria. Sono alla loro prima esperienza su unaereo; mi sento un po’ responsabile nei loro confronti.

Il volo scorre via tranquillo (e di questi tempi non è poco, osserva Maria all’atterraggio). All’aeroporto, l’agente in loco del tour operator ci raduna per albergo e ci carica su un autobus. Le strade di Praga ci appaiono belle spaziose e ben curate: il manto stradale è perfetto; i segnali di viabilità indicati con tabelloni luminosi. C’è poco traffico in giro (in fin dei conti sono le due del mattino) e la nostra guida riempie il tragitto, dandoci dritte sulla città e su come viverla. A dire il vero, ci disegna un quadro fosco fatto di borseggiatori abili acquattati sui tram in attesa dei nostri borselli, spacciatori che ti aspettano in centro per avvicinarti e venderti roba, lestofanti pronti a sfruttare la nostra dabbenaggine per fregarci col cambio in nero. Salvo un episodio di poca importanza, nel corso della nostra settimana a Praga a noi quattro non accadrà nulla di particolarmente spiacevole; anzi, la città ci apparirà molto tranquilla (sono stato in città italiane e capitali europee che richiedevano un’attenzione molto maggiore se si voleva evitare di essere raggirati).

Tuttavia, quasi a confermare il tono di Ivana (questo il nome della guida), la prima sosta la facciamo in una zona buia, costellata da edifici fatiscenti e punteggiata da auto simili a rottami abbandonati. I due che hanno prenotato nell’albergo che si trova qui, interpellati, scendono di malavoglia dal pullman, imprecando a denti stretti contro i loro agenti di viaggio. Il resto dei passeggeri li guarda come si farebbe con due che s’avviano al patibolo, invece che a cominciare una settimana di vacanza; qualcuno tira un sospiro di sollievo, della serie “meglio a loro che a me”. Qualcuno ipotizza che non li rivedremo più. In realtà, sette giorni dopo li ritroveremo integri (almeno fisicamente; sotto il profilo psicologico non saprei dire) sull’autobus che ci riporterà tutti all’aeroporto per il ritorno (e Salvo vedrà così smentita la sua teoria secondo cui ce li eravamo ritrovati una sera nell’hot dog consumato in un chioschetto davanti al municipio della Città Vecchia).

Dopo una seconda pausa (stavolta davanti a un albergo piazzato in una zona più “umana”), ci dirigiamo all’Hilton. Passiamo davanti a Piazza Venceslao che abbiamo modo appena di captare alla nostra destra, e arriviamo davanti all’albergo.

La struttura è un enorme monolito dalle facciate vetrate al centro di una ragnatela di arterie stradali. La hall – un’enorme spiazzo ricoperto di marmo con alla sommità una vetrata immensa da cui pende un gigantesco lampadario – suscita il nostro entusiasmo, in particolar modo di Valeria che s’era fidata di me e non aveva voluto guardare i cataloghi. Tanto, sosteneva, nessuna foto avrebbe mai reso l’idea della struttura. Mai parole sono state più azzeccate. Leggo felicità nello sguardo dei miei compagni di viaggio e ne sono felice. Se avessi pescato un albergo come il primo, penso che tutti e tre avrebbero valutato seriamente l’idea di appendermi a testa in giù sul Ponte Carlo.

Adempiute alle formalità alla reception, benché la stanchezza ci pesi quanto i nostri bagagli (si sono fatte le 3,30 del mattino) davanti agli ascensori abbiamo la simpatica idea di prendere uno dei due panoramici.

La vista mentre saliamo è talmente mozzafiato da farci ignorare quello che scopriremo dopo pochi secondi: le nostre key cards non ci consentono di usarlo. Passiamo i minuti successivi sospesi sopra la magnifica hall dell’Hilton, armeggiando con le chiavi elettroniche e i pulsanti per cercare di uscire.

Niente da fare: siamo in un incubo da sogno, se mi permettete il gioco di parole. Alla fine, esasperato al punto da fregarmene delle conseguenze, premo l’allarme e mi ritrovo a parlare dal citofono con qualcuno del personale a cui spiego il problema. Mentre quello armeggia (o così almeno sostiene lui) coi meccanismi per liberarci, qualcuno chiama l’ascensore all’ottavo piano. Le porte si aprono e noi sgattaioliamo fuori, indecisi se avvertire o meno il giapponese che sta entrando nell’ascensore dei rischi a cui va incontro. Quello però infila la scheda, le porte si chiudono e lui scompare. Lo osserviamo scendere giù sino alla hall e andarsene via tranquillo. Salvatore bofonchia qualcosa circa la discriminazione; io mi chiedo se l’esperienza appena vissuta non sia l’implicita promessa di quale trattamento toccherà a noi quattro all’Hilton. Comunque, osserva Maria, meglio camerieri qui che ospiti del primo hotel.

Raggiungiamo le camere: belle, spaziose, con tutti i confort che ci si può aspettare in un posto del genere. Accantoniamo le nostre preoccupazioni. Una bella doccia e via, tra le lenzuola di un enorme letto che Maria, prima di spegnere la luce, mi dice essere quello che vorrà nella nostra futura casa. Una promessa o una minaccia? Primo contatto (27/08/05) Nonostante l’ora tarda a cui siamo andati a dormire la notte prima, alle 7,30 sono già sveglio. Maria dorme ancora; l’appuntamento coi ragazzi per colazione è fissato alle 10,30. Mi alzo, scosto le tende e do una sbirciata fuori dalla finestra. C’è poco traffico lungo le strade attorno all’hotel (in fin dei conti è sabato); in compenso, alcuni operai sono impegnati nella costruzione di un edificio. La giornata mi si presenta splendida: il cielo è sgombro di nubi, l’aria è tersa. Considerate le notizie ascoltate in tv prima della partenza circa il maltempo che flagellava l’Europa centrale, temevamo di beccare a Praga nuvole o peggio acquazzoni; in realtà, per tutti i sette giorni della nostra permanenza qui, incontreremo un caldo mediterraneo, con temperature intorno ai 30, 35 gradi e un sole che ci farà sudare parecchio. Mi metto alla scrivania e butto giù qualche riga di questo diario prima che Maria, disturbata dalla luce proveniente dallo spiraglio da me aperto tra le tende, mi minacci e m’induca a tornare a letto.

Mi rigiro tra le lenzuola, provando a sonnecchiare ma l’eccitazione per la giornata che ci aspetta è tanta e di dormire proprio non se ne parla. Quando finalmente arriva l’ora, ci alziamo, ci vestiamo e scendiamo nella hall. Raggiunti da Salvo e Valeria, andiamo a fare colazione. Nel catalogo del tour operator si parlava di “colazione continentale”. L’espressione è solo un eufemismo che non rende l’enorme varietà (e qualità) di cibo che il buffet ci offre. Invito i ragazzi a “fare il pieno”, in modo da poter rinunciare al pranzo e la cosa suscita la preoccupazione di Maria che paventa agli altri due la possibilità sin dal primo giorno di subire “le marce forzate”. Ribatto che esagera ma so già che in realtà cammineremo tanto.

E così siamo costretti a fare giocoforza sin dall’inizio dal momento che, lasciato l’hotel, non riusciamo a trovare nelle strade circostanti il nome di una via che ci permetta di posizionarci sulla nostra cartina di Praga e capire come orientarci per dirigerci verso il centro.

Quando finalmente ci imbattiamo nel nome di una strada (segnato col doppio cartello, in azzurro il nome nuovo della via; in rosso quello che aveva un tempo), scopriamo di essere andati in direzione opposta alla nostra meta.

Salvo prende possesso della cartina e non la mollerà più per tutta la durata della gita, diventando il nostro “cartomante” (il suo motto? “Datemi un incrocio e io vi porterò ovunque”). Com’è ovvio, responsabile di questa inopportuna deviazione divento io: “l’ha fatto per farci fare più strada”, insinua Maria. Per fortuna, la bellezza del paesaggio attorno a noi apre il cuore ai miei compagni di viaggio e fa ben presto scivolare via dalla loro mente questo piccolo inconveniente. Le acque della Moldava che stiamo costeggiando riverberano la luce accecante del sole, solcate da battelli che fanno tanto sfondo da cartolina. Pescatori siedono sulle sue sponde, al riparo degli alberi in attesa delle loro prede. Il traffico è poco intenso e attorno a noi c’è tanto silenzio (“anche quando c’è confusione, non c’è trambusto” osserverà mio fratello a ragione).

Grazie alla cartina, arriviamo sino all’ingresso della Stare Mesto (la Città Vecchia). Ne segnano l’ingresso la Casa municipale col suo splendido mosaico Art Noveau sulla sommità e lì a fianco la Porta delle Polveri, una Torre che costituisce il nostro primo, vero contatto con la storia che pulsa in ogni angolo del centro storico di Praga, sotto forma di chiese, sinagoghe, palazzi storici, edifici bellamente ornati.

Percorriamo la storica Celetna, la via dell’Incoronazione, per un breve tratto; poi ci immergiamo in una serie di vicoli che ci portano sin davanti alla Chiesa di San Giacomo. La troviamo chiusa (come alcune altre chiese, questa viene aperta solo in occasione delle messe). Una rapida sbirciata all’interno ci fa intravedere la bellezza della navata centrale e ci ripromettiamo di tornarci per vedere la reliquia custodita al suo interno (il braccio essiccato di un ladro bloccato secondo la leggenda dalla statua della Madonna mentre quello tentava di rubare nella chiesa). Torniamo tra i vicoli sino a sbucare sulla Piazza della Città Vecchia. Non starò a descrivere qui gli innumerevoli monumenti che si aprono davanti ai nostri occhi, né la loro storia (qualsiasi guida vi fornirà dettagli a iosa al riguardo). La sensazione è quella di essere stati sbalzati indietro di qualche secolo, tra torri campanarie, guglie imponenti, statue che ti osservano severe e palazzi che staresti a guardare per ore, tanto sono belle le loro facciate.

Sono quasi le 12 e ci affrettiamo a raggiungere lo spiazzo antistante l’orologio del Municipio, per assistere alla processione delle figure che avviene allo scoccare di ogni ora.

C’è già una grossa folla accalcata là davanti e dobbiamo lavorare di gomito per ritagliarci una posizione che ci consenta una buona prospettiva. Scafati dalle sagre paesane e dalle resse davanti ai palchi dei cantanti, riusciamo a piazzarci bene. Fa caldo, il vocio dei turisti fa sembrare un remoto ricordo la quiete lungo la Moldava ma lo spettacolo delle figure in azione allo scoccare dell’ora è divertente e ripaga questi disagi. Quando è terminato, raggiungiamo l’ufficio a fianco della torre che funge da biglietteria per l’accesso alla sommità del municipio e dopo aver acquistato i biglietti per salire, c’informiamo circa orari e punto di partenza per una paio d’escursioni che abbiamo in programma: il castello di Karlstein e il campo di concentramento di Terezin.

Saliamo i gradini tra gli sbuffi e il disappunto di Valeria e Maria che trovano l’ascesa faticosa e interminabile (ignorano ancora cosa le aspetterà di lì a qualche giorno). La vista però che ci si spalanca davanti ci ricompensa di tutto. Il panorama che si gode da qui non è neanche lontanamente paragonabile a quello di cui godremo successivamente dalla torre della cattedrale di San Vito o da quella di Petrin ma la vista dei tetti spioventi di Praga, del castello svettante in alto, oltre la Moldava e delle guglie delle chiese che costellano i paraggi ci dà il senso del fascino di questa città, dove le linee e i colori degli edifici sembrano pensati per elaborare un variegato mosaico di cui sei felice di potere fare parte anche solo per qualche giorno.

Scesi giù, visitiamo la Chiesa di San Nicola che troviamo poco interessante e neanche troppo bella. Resterà impressa alla mia memoria per un anziano venditore di souvenir scorbutico che, nel dare il resto a Maria, dimenticherà (o fingerà di farlo) un pugno di corone e che, alle mie rimostranze, dopo aver ricontato i soldi, mi sbatterà quanto dovuto in mano come se avergli fatto notare il suo errore fosse stata una colpa inaccettabile.

Il caldo continua a picchiare e sarebbe un delitto di lesa maestà sedare la sete che ci tormenta la gola con una bevanda che non sia la rinomata birra praghese. Ci sediamo a un bar in pieno centro (tanto la pivo, scopriremo, è economica ovunque) e assaporiamo una Pilsner Urquell. Benché nessuno di noi quattro sia un grande bevitore, i boccali di mezzo litro scorrono giù con facilità. La birra di Praga ha una corposità che puoi solo provare e non commentare ed è (o almeno sembra) assai più leggera delle nostre; ciò nonostante, Salvo c’è poco avvezzo e si vede costretto a mandare giù anche una merendina che s’era portata appresso per evitare indesiderati “effetti alcolici”.

Dopo esserci ristorati, svuotando i bicchieri e osservando la folla di turisti che scorre accanto a noi, incuriositi da imbonitori, mimi o anche solo dalle vetrine, ci rimettiamo in movimento e arriviamo sino al Ponte Carlo.

Lo percorriamo con calma, fermandoci spesso ad ammirare il paesaggio che distrae i miei compagni di viaggio dai miei tentativi di illustrare loro chi rappresentino le statue che lo costellano (o forse, semplicemente, non gliene fregava nulla? Preferisco non indagare). Solo il bassorilievo che rappresenta Giovanni Nepomuceno attira la loro attenzione. Folle di turisti fanno la fila per toccare l’immagine del santo patrono di Praga e gli altri mi chiedono di fare il saccente e spiegare loro il perché di quel gesto. Checché ne sostengano loro, io sono buono e spiego che il rituale ha valenza scaramantica: toccare quell’immagine vuol dire tornare di sicuro a Praga. Non sappiamo ancora quanto ci piacerà questa città, ma a ogni buon conto ci assicuriamo la prenotazione per un altro viaggio nella capitale ceca.

Completato il ponte, io vorrei già addentrarmi a Mala Strana (il Piccolo Quartiere) che si apre dall’altra parte ma uno sguardo ai miei compagni di viaggio mi fa desistere dalla proposta. Costeggiamo la sponda della Moldava e ci addentriamo nell’isola di Kampa. Qui la confusione del Ponte si riduce e le strade si fanno meno affollate. Eppure – e qua credo stia la vera essenza di Praga – anche percorrendo vie che non sono segnate sulle guide, ci s’imbatte in belle facciate, in qualche monumento meno famoso di quello del santo patrono, o anche solo in una finestra aperta oltre la quale s’intravede una coppia di marionette che ti scrutano sghignazzanti.

Raggiungiamo un parco ai piedi del ponte e ce ne stiamo qui a dare una tregua ai nostri piedi doloranti (“che vi avevo detto?”, osserva Maria rivolta a Salvo e Valeria “ed è solo il primo giorno”) e a osservare un tizio che porta in giro una sorta di dinosauro camuffato da cane o un altro – zaino in spalla e taccuino in mano – che avanza col naso all’insù, prendendo appunti.

Al calare del sole, dopo aver appurato quanto caro sia il menù di un ristorate che secondo la Lonely avrebbe dovuto essere economico, dirottiamo i nostri stomaci verso un altro vicino al primo. Scelta azzeccatissima: porzioni abbondanti, cibo buono, prezzi economici (in quattro abbiamo speso 600 corone, circa 20 euro: non è un caso se ci torneremo).

Stanchi, riprendiamo la strada dell’hotel. Sono le 11 di sera ma frotte di turisti seguono un percorso opposto al nostro. Come fanno intuire le numerose insegne su cui, sotto la scritta “Bar” o “Night Club” campeggiano le foto di procaci bionde poco vestite, Praga vive la propria notte con un’intensità pari (se non superiore) a quella del giorno.

Porte aperte; sagrestani chiusi (28/08/05) Prima di iniziare a girare per Josefov – il Quartiere Ebraico – la meta principale di oggi, riproviamo a passare da San Giacomo, nella speranza di poterla vedere dall’interno.

Abbiamo fortuna (o almeno così crediamo quando giungiamo all’ingresso): è in corso la celebrazione di una messa e la chiesa è aperta. Non appena entrati, un tizio in abiti talari ci squadra dalla testa ai piedi, si porta l’indice al naso e c’invita al silenzio. Non è che avessimo intenzione di metterci a ballare sull’altare, a dire il vero. Ci basta starcene lì ad ammirare la bellezza delle navate in stile barocco. Poi, vabbé, è naturale che piano piano – e senza dare nell’occhio o scattare foto – proviamo a spostarci dall’ingresso sino alle navate laterali, per ammirarne le decorazioni e magari vedere dove si trova il famigerato braccio mummificato per cui la chiesa è famosa.

Maria scivola via silenziosa verso la navata destra; le sta subito dietro Valeria. Salvo commette l’errore (tra poco capirete il perché) di guardarsi attorno; io, peggio ancora, di avere, con la macchina fotografica appesa al collo e lo zaino sulle spalle, l’aria turistica.

Ho appena mosso qualche passo per seguire i ragazzi quando mi sento bloccato. Consapevole della mia poca destrezza, temo di aver agganciato qualcosa con lo zaino, magari qualche fondamentale elemento decorativo della chiesa. Per qualche lungo terribile istante vedo la mia foto sbattuta sulla prima pagina di qualche quotidiano ceco, con a fianco un titolo a nove colonne che parla dell’atto vandalico di un turista italiano in una delle più belle chiese di Praga. Mi volto e vedo il tizio in abiti talari che artiglia con le mani il mio zaino e, con aria adirata, inizia a vomitarmi addosso una serie di incomprensibili improperi in ceco. Non capisco la sua lingua ma il senso è lampante: vuole che me ne stia fermo lì, perché spostandomi, secondo lui, disturbo la funzione in corso. E tutta la caciara che sta facendo lui adesso, vorrei ribattergli se solo parlassi la sua lingua. Per evitare lo scoppio di un incidente diplomatico (so dove si trova l’ambasciata italiana a Praga ma vorrei solo andarla a visitare, senza dover ricorrere all’aiuto consolare), mi fermo e annuisco, bofonchiando qualche ok (dovrebbe essere universale, no?). Il tizio pare accontentarsi: mi lascia andare e si precipita come una furia in direzione della navata in cui si sono addentrati Salvo, Maria e Valeria.

Prego perché quella messa non si trasformi in una celebrazione funebre; il poderoso organo della chiesa fa da eco alla mia orazione con la sua musica potente.

Dopo qualche minuto il sagrestano (perché per me da quel momento lui è stato semplicemente il sagrestano) riappare; dietro di lui, con l’aria contrita di un flagellante, mio fratello che immagino abbia subito una sfuriata simile alla mia. Delle ragazze invece nessuna traccia. Salvo si affianca a me; il sagrestano si piazza alle nostre spalle, vicino all’ingresso. Rimaniamo tutti e tre fermi, un bel gruppo marmoreo di cui non troverete traccia nelle vostre guide turistiche, anche quando Maria e Valeria sbucano fuori dalla navata e, serene, si vanno a sedere su una delle ultime panche. Ignare della nostra esperienza, si girano più volte verso di noi, invitandoci con un cenno del capo a raggiungerle. Tuttavia, la minaccia del sagrestano incombe su di noi come una maledizione medievale e ce ne restiamo immobili sino alla fine della messa. Solo allora le raggiungiamo e raccontiamo loro la nostra “divertente” esperienza. Loro – e qua, signori miei, stanno le capacità magiche delle donne – erano riuscite a eludere quel cacciatore di turisti in abiti talari. Cerchiamo di scoprire dove si trova il tanto agognato braccio mummificato ma nessuno dei ragazzi del coro, a cui ci rivolgiamo, sa darci risposta. Sentiamo una voce ormai familiare gridare qualcosa e scorgiamo il nostro amico intento a fare gesti inequivocabili ai pochi (chissà come mai) turisti che s’aggirano dentro la chiesa.

La lasciamo con una considerazione. Alcune chiese di Praga (come questa e Santa Maria di Tyn, ad esempio) sono aperte solo per le messe ma in quel frangente non sono visitabili per non disturbare la celebrazione delle cerimonie. Può anche essere una scelta sensata ma allora perché non scriverlo a chiare lettere all’ingresso della chiesa ed evitare al visitatore situazioni imbarazzanti? Raggiungiamo il quartiere ebraico e dopo aver faticato a scoprire dove comprare i biglietti (le sinagoghe si alternano nella loro emissione, sulla base di fasce orarie non indicate da nessuna parte) iniziamo a perlustrarlo. Del nostro tour tra le attrazioni comprese nel biglietto mi restano ancora oggi negli occhi e nella mente alcuni frammenti significativi.

Le pareti della sinagoga Pinkas, segnate da quelli che da lontano sembrano graffiti ma che sono in realtà i nomi e le date di nascita degli ebrei deportati a Terezin, un interminabile elenco che gela il sangue nelle vene, ti spegne il sorriso e t’ammutolisce, preparandoti all’orrore ancora più grande della fortezza di Terezin.

Il cimitero ebraico con le sue lapidi ammassate l’una sull’altra, punteggiate dall’erba, cinte talvolta dalla corteccia degli alberi, prive di nome e tutte uguali, tranne che in pochi rari casi (quelle eccellenti del mitico creatore del golem, Rabbi Low o del Sindaco del Quartiere Ebraico, Mordechai Maisel).

Alcuni italiani in visita all’adiacente museo dedicato alla Confraternita della Sepoltura, capaci di lasciarsi andare dinanzi ad alcuni piatti antichi a commenti (“almeno ci fosse stato dentro qualcosa da mangiare”) che secondo l’autore avrebbero dovuto essere ironici ma che a noi sono parsi solo sintomo evidente di cafonaggine.

Lasciamo il quartiere ebraico nel pomeriggio e, sotto un sole implacabile, ci spostiamo nel vicino museo delle arti decorative. Un cartello accanto all’ingresso spiega che resterà chiuso sino al 02 Settembre. La curiosità di Valeria, che non si capacita dei tipi che ne vengono fuori (“ma quanti funzionari ci dovrebbero lavorare?”), ci fa scoprire che in realtà è aperto. Col senno di poi, sarebbe stato meglio non scoprirlo e dedicarci alla visita di qualcos’altro. La mostra permanente (a parte qualche bel pezzo) è una sequela di oggetti in cui la ridondanza non riesce a nascondere lo scarso interesse che suscitano. A ravvivarla ci pensa la nostra Valeria che, convinta che un orpello affiorante da un mobile lì esposto nasconda un cassettino, ci si aggrappa e lo tira nel tentativo di aprirlo. Mentre Salvo la immobilizza, io mi guardo terrorizzato attorno, pregando perché nessun custode ci abbia visto. Maria dal canto suo fischietta e guarda altrove. Usciti dal museo, scattiamo qualche bella foto davanti alla splendida facciata del Rudolfinum, dall’altro lato della strada. La mia bramosia di posti da vedere mi spingerebbe a consultare la guida, per scoprire cosa ci sia d’interessante nei paraggi. I mugugni di Maria e Valeria mi fanno però desistere dal mio intento (e poi sostengono che sono spietato!) e ci spingono verso una passeggiata lungo i giardini che costeggiano la Moldava. Artisti che esibiscono sotto ombrelloni gialli le loro stampe, turisti distesi sui prati che ammantano di verde i marciapiedi e l’immancabile viavai di pedalò e battelli turistici sul fiume ci fanno da dolce compagnia durante il nostro percorso verso il Ponte Carlo e la zona più battuta.

A sovrastare tutto, in alto, la sagoma ormai familiare del castello, a stento macchiata dagli stormi d’uccelli che volteggiano su un cielo simile a una trapunta azzurra. Siamo in un sogno o dentro una stampa dipinta da un artista particolarmente ispirato. Addolciamo la camminata con dei coni e c’immergiamo nel dedalo di vie affollate tra il Ponte Carlo e la Piazza della Città Vecchia. Ci sono troppi negozietti di souvenir attorno a noi perché le ragazze resistano alla tentazione di immergerci tra boccali, magliette e cristalli. Ne approfitto per studiare la folla che, obbediente a un percorso non scritto, intasa le vie che stiamo percorrendo.

Trovo conferma della bellezza delle ragazze locali: tratti levigati nella ceramica e corpi statuari che neanche il loro abbigliamento demodè riesce a mortificare. Si muovono con passo sicuro tra gruppi di turisti al seguito di bandierine multicolori, indifferenti ai mendicanti inginocchiati a terra, col busto reclinato in avanti e le braccia distese a cingere una ciotola o un cappello con all’interno poche preziose corone.

Rifletterò ancora sulle donne di Praga quella sera. Dopo aver trovato e scartato di nuovo un ristorante indicato dalla Lonely (lì veniva indicato come economico; il menù affisso all’ingresso pareva dire il contrario), ne troviamo un altro più a buon prezzo nella Namesti Republiky. Più che l’ottima carne o l’ancora migliore birra scura, attira la nostra attenzione il tavolo accanto al nostro. Ci siedono attorno due coppie: italiani i ragazzi; ceche le ragazze. Quando si alzano e se ne vanno, i ragazzi cingono con le braccia la vita delle ragazze. Ridono tutti e quattro; una delle ragazze avvicina le labbra all’orecchio del ragazzo accanto a lei e gli sussurra sorridendo qualcosa.

Scene simili ne abbiamo viste parecchie nei nostri sette giorni a Praga: in alcuni casi al fianco di ventitreenni come Valeria stavano tizi che avranno avuto più del doppio della loro età.

Turismo anche questo? Non faccio commenti; lascio a ognuno il compito di rifletterci sopra. La scala a chiocciola (29/08/05) Avevamo raggiunto le attrazioni visitate nei giorni precedenti a piedi, grazie a lunghe passeggiate (“marce forzate” inizia già a ribattere Maria ma quel che è preoccupante è che Valeria inizia a mostrarsi d’accordo con lei) dal nostro albergo, distante dal centro storico una decina di minuti.

Per arrivare al castello decidiamo di ricorrere per la prima volta ai mezzi pubblici.

Ci rechiamo alla stazione Florenc (vicinissima all’Hilton) e, non avendo ancora scoperto i distributori automatici di biglietti, ci mettiamo in fila alla cassa. Facciamo così conoscenza con uno dei personaggi più curiosi in cui ci sia capitato d’imbatterci durante la nostra settimana a Praga.

La cassiera della stazione Florenc è una tizia vestita come una comparsa di un film sovietico, talmente magra da farti chiedere se ce la farà a sollevare il resto che ti deve per i biglietti – non a caso, la ribattezzeremo Firrinsicca (nel dialetto della mia zona indica qualcuno esile come un fil di ferro). Non parla una parola d’inglese: a ogni richiesta si limita, serafica, a sollevare con estrema fatica un cartello (in ceco) che, nelle sue intenzioni, dovrebbe rispondere a qualsiasi domanda le venga posta. Se qualcuno commette l’errore irrimediabile di pagare con le monete, lei – ignorando la fila ammassata dall’altra parte del vetro – inizia, sempre mooolto lentamente, a sistemarle una per volta prima di dedicarsi al cliente successivo. Tra un’operazione e un’altra solleva una merendina nascosta dietro il suo bancone, l’addenta di malavoglia e inizia a masticarla, provocando una bufera di briciole sul ripiano davanti a sé.

Per fortuna, a differenza di questo personaggio, la metro di Praga è molto efficace e ben curata. Sbuchiamo nella parte alta della città; agganciamo il tram indicato dal nostro cartomante e arriviamo al Castello. Manchiamo di una decina di minuti il cambio della guardia di mezzogiorno – grazie, Firrinsicca – ma le ragazze si consolano con un paio di foto che le ritraggono accanto ai soldati che, immobili nei gabbiotti al lato del cancello d’ingresso, attirano l’attenzione dei turisti (e soprattutto delle turiste) più delle statue dei Titani che campeggiano sopra di loro.

Entrati e comprati i biglietti per il tour completo, veniamo subito al cospetto di quella che poi risulterà essere la più spettacolare delle attrazioni cinte dalle mura del Castello: la Cattedrale di San Vito.

L’interno, ancora più dell’inconfondibile silhouette esterna, è un susseguirsi di elementi di grande impatto visivo. Le vetrate riccamente ornate, le cappelle, la sontuosa tomba di Nepomuceno, l’altare principale. Ovunque il visitatore guardi, viene invogliato a dare fondo al rullino della macchina fotografica.

Dopo un lungo giro in senso orario, e una discesa indolore nella cripta, c’imbattiamo nella porta che permette di salire sino al campanile. Mentre ci approssimiamo ad essa, ne sbuca fuori una ragazza che si lamenta in italiano. Vabbé il panorama che si gode da lassù, sbotta, ma arrivarci è un’impresa. Mi giro verso Maria e Valeria e ostento un democratico “se non ve la sentite, possiamo pure rinunciare” (ben sapendo che, detto con quel tono e con quello sguardo da cucciolo randagio, mai e poi mai avrebbero rifiutato).

E così ci ritroviamo a salire lungo una scala che – col senno di poi posso ammetterlo – un po’ difficoltosa da completare lo è. Si tratta di circa 300 scalini (299 sosteneva qualcuno incontrato là: ma dove li ha trovati fiato e pazienza per contarli?) che si susseguono in una stretta spirale priva di sbocchi all’esterno e resa ancora più angusta dal fatto di essere affollata sia da chi scende che da chi sale. Maria e Valeria si fermano più volte a rifiatare e io non oso dire nulla al riguardo. Vero è che non ci sono finestre ma il rischio di essere buttato giù lo leggo evidente sui loro volti imperlati di sudore.

Alla fine vediamo la luce e giungiamo sulla sommità. Lo spettacolo è di quelli che potresti descrivere con centinaia di parole senza però rendere appieno l’idea. La giornata (l’ennesima spettacolare giornata che Praga ci ha regalato durante la nostra gita) ti consente di allungare lo sguardo “verso l’infinito e oltre” (come avrebbe detto un personaggio animato di un film Disney di qualche anno fa).

Non oso chiedere a Maria e Valeria se il gioco sia valso la candela: qua la possibilità di gettarmi giù ce l’avrebbero e il rischio potrebbe essere meno remoto di quanto non possiate pensare. Di sicuro è soddisfatto Salvo, che si aggira sulla balaustra esterna, fotografando ogni angolo della città.

Il resto del tour del Castello (forse anche perché la partenza era stata lanciata) non riesce a eguagliare lo spettacolo offerto dalla Cattedrale. Il Palazzo Reale ha belle sale; il Vicolo d’Oro è caratteristico, anche se un po’ troppo “accalappiaturisti”; la Torre delle Polveri con la sua mostra sulle armi interessante. Scarso interesse suscitano invece in noi il Convento di San Giorgio e la Galleria del Castello. All’uscita, oltrepassata la porta orientale, cerchiamo – e troviamo quasi subito – l’ingresso del Museo del Giocattolo. Prima della partenza, ne avevo parlato agli altri, suscitando in particolar modo l’interesse di Valeria. Le avevo promesso che l’avremmo visitato sicuramente e debbo confessare che il bambinone che alberga in me è stato ben lieto di mantenere la promessa.

Entrare in un museo del genere è come arrivare nel Paese dei Balocchi o come trovarsi catapultati dentro quelle illustrazioni che accompagnavano un tempo i libri delle fiabe. Ci muoviamo in mezzo a teche ricolme di stazioni ferroviarie in miniatura, pupazzi di legno, robottoni dall’aria innocua e riproduzioni dettagliate di castelli, camere da letto e luna park. Ritroviamo il sorriso ingenuo della fanciullezza, assaporiamo una sorta di madelenine proustiana che, attraverso quei giocattoli, riporta a galla in noi sensazioni appartenenti a un’età che spesso, persi nella frenesia di tutti i giorni, riteniamo irrimediabilmente perduta. Le foto si sprecano; le ragazze la fanno da leone, specie quando ci addentriamo nell’ala riservata alle Barbie (ce n’è per tutti i gusti, persino una Barbie incinta con tanto di feto in bella vista! De gustibus…).

Ci attardiamo nel museo sino all’ora di chiusura (mezz’ora prima, in realtà, di quella segnata nella Lonely); poi ci concediamo la pace dei Giardini meridionali del castello. Qualcuno di noi fa merenda (Maria); qualcuno scatta foto (Salvo ai sempre fotogenici tetti di Praga); qualcuno approfitta della pausa per compilare le cartoline da inviare agli amici (il sottoscritto).

Al tramonto ci reimmergiamo tra le strade della città e iniziamo a visitare Mala Strana (il Quartiere Piccolo) senza alcuna pretesa di trovare monumenti aperti a quell’ora. Ci limitiamo a spulciare dentro dei negozietti e appuriamo che questa zona, pur non distandone molto, è assai meno bazzicata dai turisti della Città Vecchia.

Una cena in un ristorante con cibo meno buono e prezzi più “cari” del solito (si fa per dire: spendiamo l’equivalente di otto euro a testa!) ci traghetta di nuovo sino al Ponte Carlo. Non c’era ancora capitato di andarci di sera. La vista di Praga coi monumenti illuminati che risplendono nella notte (voto il mio favorito: il Teatro Nazionale. Non mi sarei mai stancato di guardarlo) è il coronamento di un’altra bella giornata di visite interessanti e di felici scoperte. E a proposito di queste. Seduti sul Ponte Carlo, scopriamo che anche la balaustra sulla sommità della Torre del Ponte della Città Vecchia è accessibile. Quando faccio l’osservazione, Maria e Valeria mi rivolgono uno sguardo intimorito la seconda, intimidatorio la prima. Per oggi di torri e scale a chiocciola ne hanno avuto abbastanza. Perciò non m’azzardo a proporre loro di salirci stasera stessa. Credetemi: la Moldava, coi battelli che la solcano e le luci a rifrangersi sulle sue acque è incantevole. Esserci gettato dentro però non deve essere proprio una bella esperienza. Per non dimenticare mai (30/08/05) Nella bozza del piano delle attrazioni da vedere che avevo buttato giù prima di partire, oggi avrebbe dovuto essere il giorno dedicato alla prima delle due escursioni in programma.

Saremmo dovuti andare a visitare il castello di Karlstein, riservando il giorno prima della partenza all’altra meta fuori Praga: la fortezza di Terezin. Ieri sera, però, abbiamo scelto di cambiare: oggi Terezin; giovedì il castello. La decisione di invertire l’ordine delle visite è nata dalla considerazione che quella di oggi avremmo potuto farla certamente; quella di giovedì, considerato il gran numero di monumenti di visitare ancora a Praga era invece in forse.

Tra le due mete prestabilite, Terezin era quella a cui io e Maria tenevamo di più; Salvo e Valeria, dal canto loro, non hanno avuto di che ridire.

Col senno di poi, debbo dire che si è trattato di un’intuizione felice. Non so quanto interessante sia Karlstein (come ben immaginavamo, l’escursione del giovedì alla fine non l’abbiamo fatta); Terezin s’è rivelata una tappa importante del nostro viaggio.

Il pullman che prendiamo nei pressi di Florenc ci lascia in prossimità della fortezza. La mattina è ancora una volta assolata; il caldo picchia con insistenza; gli zaini sulle spalle risultano zavorre pesanti nonostante – rispetto ai primi giorni – li abbiamo alleggeriti di tanta roba inutile.

Percorriamo uno spiazzo asfaltato adibito a parcheggio dei mezzi dei visitatori (pullman innanzitutto) e ci avviamo verso la nostra destinazione. Il sentiero che porta a Terezin costeggia il Cimitero Nazionale in cui, leggiamo sulla Lonely, sono sepolte le vittime riesumate dalle fosse comuni all’interno di Terezin.

Sul ciglio della strada, un turista è intento a scattare foto alle lapidi. Qualcun altro farà la stessa cosa all’interno di Terezin. Nei giorni successivi discuteremo a lungo coi ragazzi sull’opportunità o meno di una pratica del genere in un posto come quello. A noi è parsa un’azione inopportuna (questo sarà l’unico giorno in cui non useremo le macchine fotografiche). Forse è vero che una foto può anche servire per rendere l’idea (come sosterrà Guido durante una discussione al nostro rientro) ma chi, come noi quattro, è entrato là dentro e si è immerso nell’atmosfera di Terezin ha avuto l’impressione (Maria, Valeria e Salvo l’hanno condivisa con me) che quello che si è visto rimanga così profondamente impresso nella memoria e sia così difficilmente riducibile a un fotogramma da rendere superflua o inopportuna qualsiasi foto.

Alla biglietteria ci forniscono di una guida in italiano e, seguendo il percorso consigliato su di essa, iniziamo a visitare il campo.

Tutto a Terezin genera una sensazione di profondo disagio, se non di opprimente angoscia.

Entri nella stanza in cui venivano registrati i prigionieri appena arrivati e la vista di un’obsoleta macchina da scrivere ti porta alla mente la terribile perfezione del meccanismo costruito dai nazisti per realizzare il loro folle progetto. Osservi l’archivio e realizzi che tutti quei libretti allineati sugli scaffali non sono solo fogli ingialliti dallo scorrere del tempo ma la prova dell’esistenza di quelle persone che ebbero la sventura di finire qui. Osservi uno spiazzo erboso che in un altro contesto potrebbe richiamarti alla mente un’idea bucolica di vita all’aria aperta ma poi la guida ti rivela che lì venivano condotti e giustiziati tramite fucilazione i condannati a morte (Terezin non disponeva di camere a gas) e allora la luce diurna si crepa, il colore dell’erba perde tutta la sua vivacità, i suoni del tardo mattino si fanno alieni.

Gli orrori più grandi, tuttavia, sono altri.

Una piscina usata dalle famiglie delle SS che operavano qui. Dista solo qualche centinaio di metri in linea d’aria dal luogo dell’esecuzione e dalle celle, e provi un misto di sgomento e incredulità al pensiero che d’estate mogli e figli dei carcerieri venivano a sguazzarci mentre poco più in là qualcuno moriva per tifo petecchiale o veniva giustiziato senza alcun processo.

Un cinema, ad appannaggio degli ufficiali e delle loro compagne, lo specchietto delle allodole con cui i gestori di Terezin ingannarono la Croce Rossa Internazionale, paventando un modello di campo di prigionia all’interno del quale i detenuti erano trattati in maniera umana. E soprattutto le camerate e le celle. Le prime sono stanzoni grigi. Al loro interno in un angolo uno stanzino di un metro quadrato o poco più rivela al proprio interno un wc e nient’altro; su due lati invece letti di legno, scheletri consunti dal tempo, su cui i carcerieri riuscivano ad ammassare, secondo quanto riporta la guida, sino a 180 persone. Ogni commento mi pare superfluo.

Le celle sono uno spettacolo se possibile ancora più terrificante. Porte metalliche, rinforzate da grate di ferro, danno accesso a cubicoli angusti, permeati dell’odore stantio della muffa, dentro cui il caldo opprimente dell’esterno cede il passo a una frescura che, nei rigidi inverni che devono caratterizzare queste zone, si può solo tradurre in un freddo feroce. Al loro interno solo un misero pianale di legno, un pitale in alcuni e la sensazione per il visitatore che qua siano state scritte alcune delle pagine più nefande e vergognose della storia del genere umano.

Terminiamo il tour della fortezza provati dall’esperienza ma consapevoli che bisogna cimentarsi in prove del genere perché, per usare le parole di Maria, nessun libro potrà mai farti capire quello che stamattina noi abbiamo visto coi nostri occhi.

L’edificio che ospitava gli alloggi degli ufficiali è oggi sede di un museo. Appese alle sue pareti, pannelli con foto e testi (in ceco e in inglese) ricostruiscono la storia dell’ormai ex Cecoslovacchia durante la seconda guerra mondiale e, soprattutto, storia e modo di “vivere” (consentitemi il virgolettato, considerato ciò che ho visto) all’interno di Terezin.

Spendo parecchio tempo qua dentro. Perdo di vista i ragazzi (li ritroverò all’uscita) ma non me ne accorgo e non me ne importa. Un museo del genere è la risposta migliore a chi spesso, senza cognizione di causa, sostiene che la storia sia una materia morta, di nessuna utilità per il presente.

Un’ultima annotazione su Terezin: vicino all’ingresso si trovano un negozio con l’insegna “souvenir” (?) e, dirimpetto, in quella che era un tempo la mensa ufficiali, un ristorante. Passi l’idea di ricordi (libri, VHS, ecc) da portarsi a casa per riflettere. Ma chi avrebbe il coraggio di mangiare in un posto come questo, dopo quello che si è visto? Nel biglietto fatto all’ingresso sono comprese le visite ad altri monumenti che completano un ideale percorso della memoria. Si trovano tutti e tre dall’altra parte della cittadina, oltre il corso del fiume Ohre e ci costringono a una faticosa marcia attraverso le strade assolate, sotto un terrificante caldo estivo che sfata clamorosamente le testimonianze di chi era stato di recente in Repubblica Ceca nello stesso periodo oltre che le informazioni della Lonely (dov’era la tanto agognata pioggia? Qui pareva d’essere dalle mie parti, con un termometro attestato sopra i 30 gradi).

La prima tappa ci porta al Museo del Ghetto ma, a parte qualche eccezione, i documenti conservati qua dentro appaiono una replica di quelli osservati dentro il Museo della Fortezza. Ben più interessante appaiono i due siti successivi. Per giungervi tagliamo la cittadina per tutta la sua lunghezza, scoprendo una Repubblica Ceca assai diversa da quella che Praga ci ha mostrato negli ultimi giorni. Le strade sono poco affollate; le saracinesche dei negozi (complice anche l’ora) tutte abbassate. Accanto ai marciapiedi sono parcheggiate modelli d’auto antidiluviane, dalle forme e dai colori improbabili. Ogni tanto una moto sfreccia accanto a noi e il suo rombo lacera il silenzio che ci circonda, per esserne inghiottito dopo una manciata di secondi. Terezin dà l’idea di una città fantasma, insensibile alla presenza dei propri visitatori, raggomitolata in se stessa, come per tenere lontano da sé il ricordo dell’orrore che si è consumato nei suoi paraggi più di mezzo secolo fa. E per fortuna la giornata è soleggiata, commenta qualcuno dei ragazzi – non ricordo chi; con un cielo plumbeo a gravarti sopra avresti proprio l’impressione di stare vistando l’aldilà. La visita alla piccionaia, dove vengono conservate le ceneri delle vittime di Terezin, e una costruzione adibita a mostra sulle usanze funebri degli Ebrei ci conducono fuori dal centro abitato. Dopo aver oltrepassato un piccolo motel appollaiato ai margini della strada come un corvo su un ramo, ci si para davanti, al termine di un lungo viale cinto da enormi cipressi, il Cimitero Ebraico. Un monumento in pietra a effigiare una menorah (il tipico candelabro ebraico) campeggia al centro di un prato costellato di lapidi. Lì vicino, un edificio piccolo e quasi insignificante rappresenta l’ultima tappa del nostro percorso. L’aspetto anonimo della costruzione cela all’interno un altro spettacolo orribile, secondo solo alla Fortezza Minore. Si tratta del Crematoio. A farci da guida attraverso le sue viscere di metallo è uno zelante funzionario dall’aria marziale. Ci chiede quale sia la nostra nazionalità; appurato che siamo italiani, non nasconde una smorfia di disappunto dal momento che non può spiegarci dettagliatamente nella nostra lingua tutto quello che c’è da sapere.

Si limita a gesti e grugniti che, a conti fatti, finiscono col rendere forse in maniera ancora più chiara (e tremenda) il modo in cui funzionava quel posto. Gli Ebrei morti venivano condotti in un’adiacente sala medica e sottoposti ad autopsia (la stanza adibita a questa funzione è una delle immagini più forti e psicologicamente violente che mi porterò appresso). In caso di rilevamento di malattie infettive (non rare, viste le condizioni igieniche in cui versavano i prigionieri a Terezin) i cadaveri venivano infilati dentro le macchine e arsi.

Mentre il funzionario ci lascia per dedicarsi a un nuovo visitatore (di lingua tedesca, con sua somma gioia) noi esploriamo tutto l’edificio, gettando un’occhiata commossa ai lumini accesi dentro il fondo di alcune lattine e lasciati sopra le macchine per cremare i cadaveri. Una striscia corre lungo le mura, a circa tre metri d’altezza e ci chiediamo se e cosa rappresenti. Chiediamo lumi al guardiano, il quale abbandona di malavoglia la compagnia del nuovo arrivato (e la gratificazione che gli deriva dal potergli spiegare in dettaglio la meccanica dei macchinari) e si limita a blaterare una sola parola.

Vltava. Vltava.

È il nome ceco della Moldava. Ne deduciamo che quella linea indichi il punto in cui arrivò l’acqua durante l’esondazione del fiume, nell’Agosto del 2002. Nella Lonely c’era scritto che alcune zone di Terezin, a causa di quella catastrofe naturale, sarebbero state inaccessibili al pubblico sino al 2006. Non se se ritenerci fortunati o meno per averle potute visitare un anno prima del previsto. La visione del crematoio, rifletto mentre prendiamo la via del ritorno, è stata un autentico pugno nello stomaco. Forse, tuttavia, è meglio che tutti noi ogni tanto riceviamo una botta simile per capire realmente che valore abbia la vita umana e come nessuno abbia il diritto di calpestarla in questo modo, in nome di nessuna ideologia.

Raggiungiamo la fermata del bus che, puntuale come all’andata, ci raccoglie all’orario indicato nei biglietti.

Tralascio il racconto del resto della giornata. La descrizione di qualsiasi monumento, di fronte a quello che abbiamo visto a Terezin, perderebbe di valore e significato. Come ha rilevato Salvo, nel giro di due giorni, tra ieri e oggi, siamo passati dalle vette della bellezza che l’uomo è capace di raggiungere (la Cattedrale di San Vito) agli abissi di una follia che nessuna capolavoro riuscirà mai a compensare.

Up and down through the town (31/08/05) Tra tutti i giorni spesi a girovagare per Praga (cammina cammina, ricordate?), quello odierno verrà probabilmente annotato da Maria e Valeria come il più faticoso. Non che riferendosi agli altri, le sentirete mai dire che siano stati rilassanti; tuttavia, questo mercoledì, sosterranno entrambe, è stato il più sfiancante di tutti, il giorno al termine del quale i loro piedi saranno stati colpiti a morte e le loro scarpe messe a dura prova.

Capirete anche voi dal loro tono iperbolico che si tratta di semplici leggende metropolitane (d’altronde Praga si presta a dicerie del genere; pensate solo al Golem o agli esperimenti degli alchimisti), alimentate da Maria per suggestionare Valeria e convincerla ad avallare la sua tesi secondo cui io, durante le gite, sia un fautore delle marce forzate e che sia contento solo dopo aver segnato un certo numero odierno di chilometri nel mio contachilometri personale.

Il resoconto odierno è la dimostrazione di come un poveruomo (il sottoscritto) possa trovarsi vittima di accuse ignominiose e infondate e al centro di un processo che non avrebbe ragione d’essere (vi ricorda la trama del celebre romanzo omonimo di Kafka? Bè, in fin dei conti a Praga siamo a casa sua). Vi fornirò perciò, per scagionarmi delle accuse che mi sono state mosse, un resoconto oserei dire empirico della giornata incriminata (l’odierna) avallato da una serie di dati che inconfutabilmente renderanno chiaro ai vostro occhi la verità dei fatti.

Dopo ben otto ore filate di sonno (e ditemi voi se sono poche), ci si sveglia ben riposati e si scende in sala ristorante dove si resta per ben un’ora una, comodamente seduti, con in sottofondo una bella musica rilassante a consumare una colazione che definire abbondante potrebbe essere riduttivo oltre che offensivo nei riguardi dell’Hilton. In ordine sparso e con riferimento a tutti e quattro: uova strapazzate e pancetta, prosciutto di Praga, formaggio, salame, salmone, pane, frittelle allo sciroppo di mirtillo, tre o quattro varietà di paste dolci, torta, latte, the, succo d’arancia, di mela e d’ananas, marmellate, yogurt, miele, cereali, frutta fresca e macedonia.

Mi sono giunte voci secondo cui mentre eravamo in giro ci saremmo dovuti fermare per fare pausa pranzo, ma dopo tutto questo ben di Dio ingurgitato alle 10 di mattina, non trovate che ci sarebbe voluto coraggio per cimentarsi due o tre ore dopo con la ricca cucina ceca? Dal nostro albergo alla fermata della metro Florenc ci sono poco meno di centocinquanta metri (se non mi credete, procuratevi una cartina di Praga e verificate). Tra l’altro, la proverbiale lentezza della nostra amica Firrinsicca ti permette di stare comodamente in attesa, fermo a fare la fila per alcuni abbondanti minuti.

Per scendere sino alla piattaforma della metropolitana, esiste un comodo servizio di scale mobili (tanto ripide da fare venire la nausea, potrebbe ribattere Valeria, ma mica le ho progettate io) e grazie alla metro prima e ai tram poi veniamo sbarcati a meno di duecento metri dalla nostra prima meta odierna: la Chiesa del Loreto. Michè, fa caldo mi si potrebbe dire (imitando un famoso spot) ma chi immaginava di pescare a Praga a fine Agosto un clima che ricorda l’Alto Egitto (se avete rimostranze, please, rivolgetevi ai meteorologi e alle industrie che coi loro scarichi inquinanti hanno accentuato l’effetto serra).

Che la visita alla splendida Chiesa del Loreto sia stancante è una tesi che neanche il migliore principe del foro riuscirebbe mai a rendere credibile. Percorriamo con calma il porticato che ci offre ombra e riparo, accompagnati persino – allo scoccare del mezzodì – dal suono festoso delle campane. Ce ne stiamo seduti prima dentro la Santa Casa della Vergine (trasportata qui da Nazareth, secondo una leggenda per sottrarla all’invasione degli infedeli; secondo un’altra per offrire ristoro ai visitatori come noi) ad ammirare l’effigie della Madonna, poi dentro la Chiesa della Natività a studiarne affreschi e decorazioni. Infine, dopo una manciata di gradini che definire scala sarebbe offensivo nei riguardi di tutte le reali appartenenti alla categoria, saliamo al primo piano (si, avete sentito bene, non all’ottavo o al decimo; semplicemente al primo) e ammiriamo le teche corazzate in cui è custodito il tesoro del Loreto, restando altri lunghi minuti fermi ad ammirare a bocca aperta il pezzo più importante della collezione: il Sole di Praga, un ostensorio d’oro massiccio arricchito di oltre seimila diamanti.

Una volta usciti, la strada che ci separa dal vicino Monastero di Strahov, nostra prossima meta, è resa più agevole dalla scoperta di un passaggio che taglia un gruppo di edifici, permettendo di muoversi al riparo dal sole. Non è ancora l’una (orario di riapertura delle attrazioni a Praga dopo la pausa pranzo) e, tanto per mettere i puntini sulle i, non è che spendiamo l’attesa facendo flessioni o una salutare corsettina. No, Valeria e Maria, astute come faine, carpiscono una bella panchina all’ombra a degli improvvidi tedeschi e ci sediamo a riposare (come se finora ci fossimo ammazzati di fatica!).

Non dobbiamo neanche sforzarci di percorrere le navate del monastero di Strahov (è chiuso al pubblico e visibile solo dall’ingresso attraverso una robusta grata metallica). Ci limitiamo alla libreria del monastero e – lasciatemelo dire, da amante dei libri – anche se oggi avessimo visto soltanto questa, la giornata per me sarebbe stata memorabile.

Avete presente la scena de “La Bella e la Bestia”, il film d’animazione Disney, quella in cui, per rendere felice la protagonista femminile il peloso anfitrione la conduce a occhi chiusi dentro la libreria del castello e le mostra pareti intere addobbate di scaffali ricolmi di libri? E ricordate l’entusiasmo di lei di fronte a quello spettacolo? Se si, allora avrete – in minima parte – un quadro di quello che ho provato io giunto di fronte a un uscio, transennato da un cordone, che dava sulla magnifica libreria del monastero. Rimango là imbambolato ad ammirare quello spettacolo, dicendomi che si tratta solo di un sogno. A furia di stare seduto sulla panchina, aiutato dal fresco e dallo stomaco pieno, mi sono appisolato e suggestionato dalla vicinanza della libreria, sto facendo quello splendido sogno. Tuttavia le spinte dei turisti al mio fianco intenti a fotografarla mi fanno capire che si tratta proprio di realtà. Potrei pagare anch’io l’obolo richiesto sui cartelli e scattare delle foto ma, dopo averci riflettuto qualche istante, desisto. Accadrebbe, mi dico, la stessa cosa che capita con quei film visti venti anni prima e che nei ricordi apparivano bellissimi, ma che perdono tutto il loro fascino quando te li ritrovi di fronte da adulto, li guardi con occhi diversi da quelli della memoria e te li trovi spogliati di quella magia che solo le emozioni del momento sanno darti.

E sono tante le emozioni del momento, credetemi. Una parte di me, quella più intellettualmente selvaggia, mi suggerisce addirittura di oltrepassare il cordone sull’uscio (che ci vuole? Un balzo e oplà sarai dentro) e addentare la mela della conoscenza (guarda i custodi. Sono vecchi. Prima che ti raggiungano, sarai riuscito a prendere i libri e a sfogliarli). Ostento questi pensieri a voce alta e Maria e gli altri m’inducono a desistere (se ti arrestano, mi dicono, chi ci farà girare per Praga? Ottima motivazione). Faticano a trascinarmi via da questo posto ma alla fine ci riescono, blandendomi con la promessa che, se li seguirò, mi porteranno a vedere la Torre di Petrin (visto che è stata tutta farina del loro sacco?).

Anche in questo caso non è che ci ammazziamo di fatica: la linea n° 23 del tram ci scarica davanti al Parco; la funicolare, appena oltre l’ingresso, ci porta alla sommità della collina. Pochi passi a piedi, immersi nel verde e raggiungiamo la Torre. È simile alla Torre Eiffel ma, a differenza dell’originale, ha solo 299 gradini che, a rendere agevole la salita: a) sono dislocati su due rampe (una per salire, l’altra per scendere); b) sono arieggiati e dispongono di panche laterali per la sosta. Con queste premesse capirete che arrivare sulla sommità è un gioco da ragazzi (soprattutto per chi si è già cimentato, come noi, con la torre della Cattedrale di San Vito).

Lo spettacolo, una volta giunti in cima, è ancora più emozionante di quello goduto due giorni prima, anche perché da qui puoi contare sulla vista del Castello (e, come vi direbbe Salvo, il panorama di Praga senza quell’edificio non è la stesa cosa), oltre che su ampi scorci di parco delimitato dietro di noi dall’imponente Muro della Fame. Un’altra raffica di foto panoramiche (alla fine io avrò consumato quattro rullini, con somma gioia del mio fotografo) e poi, parafrasando Superman, “giù giù e via, verso nuove avventure”.

A questo punto Valeria e Maria potrebbero ribattere che per lasciare il Parco di Petrin e raggiungere Mala Strana (il Quartiere Piccolo), al posto della comoda funivia e dei tram, noi ci siamo cimentati con la discesa dei sentieri che serpeggiano attraverso il parco.

Considerate tuttavia, prima di dare loro ragione come fanno spesso i malinformati e i faziosi, che ci eravamo goduti un’altra pausa, su una panchina e al fresco e che Salvo cominciava a sospettare che non avessimo fiducia nella sua abilità di cartomante in un posto dove non c’erano incroci (il suo motto a Petrin? “Datemi una quercia e un sentiero e vi porterò ovunque”).

E poi, anche ammesso che la discesa sia stata faticosa (si, vabbè dai, un pochino lo è stata) non è stato il mezzo migliore per smaltire l’abbondante colazione del mattino? E non ci dovremmo vergognare a lamentarci di una semplice discesa, quando ci siamo imbattuti in un gruppo di anziani signori americani che senza fiatare (anche se un po’ trafelati, lo ammetto) stavano facendo il percorso opposto? Grazie a Dio, Mala Strana ripaga i miei compagni della strada percorsa, facendo scordare loro le (presunte) fatiche del nostro excursus in mezzo al verde. Passiamo davanti alle ambasciate (stupendo il palazzo che ospita quella tedesca); visitiamo anche se di fretta la splendida Chiesa di San Nicola (assai più bella dell’omonima a Stare Mesto); ci immergiamo tra le vie del Quartiere Piccolo, con innumerevoli pause dentro i negozi sotto i portici dei palazzi. Infine, ci sediamo ai tavoli di un bar con vista sulla Malostranské Namèsti e ci sorseggiamo un’ottima birra ceca.

Riguardo a questa giornata, sono stato anche accusato di avere fatto pressioni sul gruppo per risalire lungo la vicinissima via Nerudova, per ammirare le facciate decorate dei palazzi che si affacciano su di essa.

A mia discolpa sappiate che io l’ho solo buttata lì la proposta e che, col senno di poi, è stata una scelta felice, visti i prezzi considerevolmente più bassi dei negozi di quella via rispetto a quelli della Città Vecchia. Tuttavia, di questo (e dei loro ottimi acquisti) i miei detrattori non parlano. Si limitano solo a rinfacciarmi l’aver raggiunto la piazzetta sulla sommità della Nerudova, ripetendo come un anatema il nome delle insegne delle case (non ultima quella del Cigno Bianco, alla sua estremità più alta).

A questo punto, stanco delle loro accuse infondate, rinuncio a proporre la visita alle vicine Via degli Italiani e Piazza dei Maltesi. Ci rechiamo a un buon ristorante messicano indicato nella Lonely. I prezzi finalmente sono davvero economici e il cibo e la birra buoni e abbondanti. Alla fine della cena il gruppo si congratula con me per la scelta del locale, la prima azzeccata seguendo la guida da quando siamo qui. Non voglio ribattere loro (sono buono, io) ma quelle parole confermano l’esistenza di una giustizia divina. Tartassato ingiustamente per le presunte fatiche a cui dicono li abbia sottoposti, alla fine della giornata secondo loro più stancante si debbono rassegnare, loro malgrado, a farmi i complimenti almeno per la cena.

Un giorno, magari rileggendo queste righe, capiranno la verità, mi ringrazieranno per la splendida giornata odierna e rimpiangeranno di avermi costretto durante le due successive (le ultime a Praga) a tirare il freno a mano.

Tesori nascosti (01/09/05) Per sedare i focolai di rivolta accesi nel gruppo dall’esperienza di ieri, decido di giocarmi stamattina l’asso della manica che m’ero conservato per l’occasione.

Quando Maria e Valeria, durante la colazione, mi chiedono intimorite cosa voglia portarle a vedere oggi, mi limito a rispondere Piazza Venceslao.

Diffidente (quanto mi ama questa donna!), Maria mette mano alla guida e la spulcia per capire – sono le sue parole – cos’altro ci sia in zona e dove li costringerò ad andare. Dico loro che non puoi essere stato a Praga senza aver visitato Piazza Venceslao. Ci porterà via tanto tempo, aggiungo. Dopo che l’avremo completato, si deciderà cos’altro visitare. Ho la certezza di avere visto giusto quando usciamo dalla metropolitana (alla fermata Mùstek) e il cuore di Praga ci si spalanca davanti. Gli occhi di Maria e Valeria accalappiano frenetici le vetrine degli innumerevoli negozi che si spalancano ammiccanti attorno a noi; i mugugni cessano; la voglia di camminare s’impossessa prepotente di loro.

Tu lo sapevi!, sbotta Maria, indecisa se baciarmi o insultarmi. Certo che lo sapevo: me l’ero riservato per le situazioni d’emergenza come quella odierna. Iniziamo a percorrere la piazza (in realtà si tratta di una sorta di largo e lungo viale che dalla nostra fermata risale fino al Museo Nazionale, all’estremità opposta) dividendoci tra l’osservazione delle attrazioni e i negozi (tanti negozi, troppi negozi).

Qui l’atmosfera che pervade le altre zone della città, quella che ti dà la sensazione di essere stato sbalzato indietro nel tempo cede il posto a una frenesia comune alle vie principali dello shopping di tante capitali europee. Sotto questo profilo, Piazza Venceslao mi appare come la zona meno “praghese” di tutte quelle da noi visitate.

Abbiamo anche il tempo di infilarci in una delle vie che incrociano il viale e giungere sino all’Ufficio Centrale delle Poste. Per chi come noi è abituato in Italia ad anonimi uffici fa invidia, trovarsi di fronte a una sala d’attesa bellamente decorata con stucchi stile liberty. Fa ancora più invidia a chi come me delle file ha conosciuto gli aspetti peggiori (ressa, soprusi, gente che cerca di fare la furba) vedere i praghesi seduti sulle numerose sedie, ad aspettare tranquilli e in silenzio che sul display appaia il loro numero per andare allo sportello corrispondente.

Riprendiamo la visita al Viale. La facciata del Grand Hotel Europa, il monumento commemorativo alle vittime del comunismo e la statua equestre di San Venceslao (ovviamente conditi con una buona dose di negozi) sanciscono le tappe che ci portano sino all’ingresso del Museo Nazionale. Sostiamo un po’ all’interno dello splendido atrio della struttura per riprenderci dalle fatiche del caldo (e dello shopping, aggiungo io) e, dopo un rapido consulto, decidiamo (democraticamente, ci tengo a sottolinearlo) di non entrare nel museo ma di andare a visitare quale altro posto interessante a Nove Mesto, lì intorno.

Arriviamo a Piazza Carlo, dove la guida ci segnala, tra l’altro, due interessanti chiese barocche: Sant’Ignazio e San Cirillo e Metodio. Le troviamo entrambe chiuse, senza alcuna indicazione (almeno in inglese) che ci permetta di comprendere quali siano gli orari di apertura al pubblico.

Attorno a noi, per le strade che s’intersecano con dei tranquilli giardini di turisti nessuna traccia. Abbiamo l’impressione che questa zona sia meno battuta rispetto a quelle da noi visitate e che la cosa si rifletta su una minore “commerciabilità” (se mi passate l’espressione) degli edifici sacri nei riguardi dei visitatori.

Ci consoliamo raggiungendo la vicina birreria “U Fleku” (la più antica di Praga), per appurare se la sua fama è meritata. Il locale a quest’ora (sono circa le 3 del pomeriggio) è deserto. I tavoli in legno appaiono consunti dalle miglia di boccali che ci sono passati sopra. La birra, scura e spumosa, risulterà la migliore che avremo mai bevuto a Praga. Il cameriere ce le serve assieme a dei bicchierini ricolmi di un liquore che lui ci spiega essere tipico di Praga. Il profumo di cannella è in realtà una trappola che cela dentro alcol pure. Posso pure capire che, nelle gelide notti praghesi, questo liquorino possa servire ai locali per combattere il freddo ma riuscire a berlo adesso (con il termometro che, a occhio, supera i 30 gradi) è impresa che neanche un boscaiolo infreddolito della Moravia riuscirebbe a portare a termine. Io e Salvo ci limitiamo perciò a bagnarci le labbra; le ragazze – rese euforiche dallo shopping mattutino – arrischiano un sorsetto più lungo. Morale della favola: all’uscita dalla birreria si presentano due coppie che a un occhio disattento potrebbero sembrare di piccioncini estremamente innamorati. In realtà, il capo delle ragazze “romanticamente appoggiato” sulle spalle dei ragazzi non è (solo e tanto) sintomo di amore, quanto degli effetti dell’alcol sull’equilibrio di Maria e Valeria.

Per risvegliarle c’è una sola terapia: i negozi di Piazza Venceslao. Nel tornarci, tagliamo in modo da passare davanti a un’altra chiesa segnalata dalla guida, quella della Vergine Maria delle Nevi. Con sommo stupore, la troviamo aperta e perciò entriamo. La navata centrale e l’altare maggiore, con la loro imponenza, stridono con il resto della chiesa, piccolo e anonimo (la guida ce ne rivela la ragione: nelle intenzioni di Carlo IV, per ordine del quale fu costruita, doveva rivaleggiare con San Vito. Tuttavia, dopo la costruzione della navata e dell’altare maggiore, il progetto fu abbandonato e il resto della chiesa fu completato senza le ambizioni iniziali).

Oltre a noi, seduti sulle panche, ci sono solo un anziano signore e una donna. Questa all’inizio mi pare raccolta in profonda meditazione; in realtà, osservandola meglio, scopro che sta sonnecchiando. C’è silenzio nella Chiesa e un senso di raccoglimento e intimità che, ad esempio, a San Vito non potresti mai percepire. Valeria, seduta al mio fianco, mi bisbiglia di non avere visto alcun cartello che proibisca le foto e io glielo confermo. Così immortala l’altare con la sua digitale. Sarà una foto pirata, dal momento che il cartello c’era, come ci farà notare Maria all’uscita.

Dopo un ultimo rapido giro post sbornia in un paio di negozi di multinazionali sportive (le ragazze sono alla ricerca di prodotti “tipici” da acquistare), ci dirigiamo verso la Città Vecchia.

Salvo ha la barba lunga di un paio di giorni e gli occhi arrossati dal raffreddore (“la maledetta aria condizionata della stanza! Ma ci ho pensato io a renderla innocua” spiega e noi preferiamo non indagare sulle misure da lui adottate). Forse a causa del suo aspetto viene affiancato, durante il tragitto, da un paio di tipi loschi che non gli offrono di certo cristalli o articoli in legno. Decliniamo con decisione le loro offerte e quelli si allontanano. Saranno questi gli unici inconvenienti (!) della nostra gita: ad avercene di città così! Giungiamo al cospetto dell’orologio del Municipio che mancano un paio di minuti allo scoccare dell’ora. Ci uniamo alla folla accalcata là davanti e rimaniamo in attesa della processione delle statuine. Scocca l’ora, rintoccano le campane ma non succede nulla. La statua della Morte non rovescia la clessidra, le finestrelle non si aprono, gli apostoli non compiono il loro giro abituale. La folla borbotta, delusa. Io consulto la guida per vedere se c’è qualcosa che mi è sfuggita. Non scopro nulla: quello a cui abbiamo assistito è inspiegabile. Ad attenuare la nostra delusione, abbiamo la fortuna di trovare aperta la Chiesa di Santa Maria di Tyn. Benché centralissima (a ridosso della Piazza della Città Vecchia), è un’altra Chiesa che non si concede facilmente ai turisti. Prova ne è che entrati, dobbiamo sostare vicino all’ingresso in uno spazio angusto, separati dalla navata da una griglia metallica sorvegliata da un giovane prelato (il cugino più giovane del sagrestano di San Giacomo) che, se appena respiri più forte del dovuto, ti fulmina con lo sguardo. Tuttavia la cerimonia in ceco all’interno di una struttura dall’architettura così imponente ha il suo innegabile fascino. Così ce ne restiamo lì, in silenzio, a seguire la cerimonia. La giornata volge al termine. Stasera rinunciamo alla ricerca di ristorante. I ragazzi non vogliono andarsene da Praga senza aver provato l’ebbrezza culinaria di un hot dog comprato a uno degli innumerevoli chioschetti che li vendono per strada. La scelta non si rivelerà propriamente felice: la klobàsy (la salsiccia messa in mezzo al panino) non è male come sapore ma è rivestita da una pelle (cotenna la definirà Maria, rendendo bene l’idea) tanto spessa che a morderla fa sensazione. I crauti che l’accompagnano e la coca con cui la annaffiamo non bastano a renderla digeribile. Io e Salvo finiamo i nostri per fame; Maria e Valeria desistono a metà. Noi (chissà come mai) non ci offriamo di finirli e così il nostro ultimo contatto con un alimento tipico praghese termina in un cestino della spazzatura vicino alla panchina su cui siamo seduti.

Tuttavia le klobàsy mangiate non si arrendono e continuano a fare su e giù lungo i nostri stomaci. Per dare loro il colpo di grazia, decidiamo di fare un po’ di moto. Tra le torri su cui siamo saliti manca ancora all’appello la vicina Torre del Ponte della Città Vecchia. È assai mal tenuta, scopriamo una volta all’interno. Ragnatele ovunque, coi loro grossi inquilini quasi infastiditi dalla presenza di turisti che probabilmente ai loro occhi nemmeno pagando il biglietto avrebbero il diritto di violare la loro proprietà. La vista dai merli della torre poi non ha niente di più di quella godibile standosene sul Ponte e, in ogni caso, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella offerta dalla torre della Cattedrale o da quella di Petrin.

Perciò non ci attardiamo lì sopra. Torniamo sul ponte, a osservare il viavai della gente e le luci della città per l’ultima volta. Un velo di malinconia ammanta ogni cosa. Domani sera si parte.

Frammenti di un arrivederci (02/09/05) L’ultimo giorno è una serie di diapositive sui posti visti o sulle cose fatte nel corso dei sei precedenti. Perciò rinuncio a riordinarli secondo una sequenza cronologica e lascio che riaffiorino alla rinfusa, a formare una sorta di paradigma della nostra settimana a Praga.

L’ultimo giorno a Praga è la lunga passeggiata che ci porta dalla Torre delle Polveri sino all’estremità del Ponte Carlo, trasformando in certezza quello che ieri era stato solo un dubbio. L’orologio è guasto: le statue simboleggianti la Morte e l’Infedele sono state smontate; le finestrelle rimosse; gli apostoli immobili. Guardi la gente, magari arrivata oggi per la prima volta qui, desiderosa di ammirare lo spettacolo offerto dall’orologio. Osservi la loro aria delusa quando lo scoccare dell’ora non viene sancito dalla processione delle statuine e capisci che niente è immutabile o dura in eterno e che ogni istante va assaporato fino in fondo.

L’ultimo giorno a Praga è l’arazzo delle luci dei monumenti osservati dal nostro punto preferito: il Ponte Carlo. È la musica che risuona sui battelli mentre solcano la Moldava. Sotto di noi il fiume, quello stesso fiume che 4 anni fa rischiò di divorare la città, scorre placido.

L’ultimo giorno a Praga è una colazione consumata senza alcuna fretta, senza alcuna idea di cosa vedremo oggi (finalmente, sbotterebbero in coro Maria e Valeria), assaporando i sapori di cibi sfarzosi come gli altri giorni, ma con un retrogusto amaro: è la nostra ultima colazione all’Hilton. Da domani si torna a cappuccino e cornetto, a latte e biscotti.

L’ultimo giorno a Praga è la spasmodica ricerca degli ultimi souvenir. Elaborati giocattoli in legno, sfarzosi animaletti in cristallo, poster raffiguranti le più belle vedute della città. Li porteremo a casa con noi, li regaleremo alle persone care o li terremo in bella mostra sulla scrivania o appesi alle pareti nell’illusoria convinzione di poter fare percepire agli altri la magia di questo posto o di poter restituire a noi stessi tra una settimana, un mese, un anno le sensazioni provate durante il nostro soggiorno.

L’ultimo giorno a Praga è un sole basso al tramonto avvolto dalla lanugine delle nubi (le uniche da noi viste qui in sette giorni) e circondato dai tetti degli edifici di Stare Mesto, a cui – mentre raggiungiamo la Porta delle Polveri per dirigerci in albergo – rivolgiamo un’ultima, malinconica occhiata.

L’ultimo giorno a Praga è mio fratello Salvo che, dopo aver inseguito per sette giorni una stampa del castello e averne sempre rinviato l’acquisto, si decide ad affrontare l’inevitabile. Seduti su una panchina tra il Ponte Carlo e il Ponte Mànesùv, lo vediamo dirigersi verso le bancarelle degli artisti di strada allineate al fianco del fiume.

Lo osserviamo fermarsi accanto a una di esse e discutere a lungo con la ragazza che la gestisce. Io, Maria e Valeria ci guardiamo sbigottiti. Salvo non parla l’inglese (la sola lingua con cui potrebbe sperare di farsi capire). Cosa diavolo le starà raccontando? E in che modo? Gli rivolgiamo la domanda quando ci raggiunge, soddisfatto e con la stampa sottobraccio.

Sliema, ci spiega lui, le ho detto sliema. Sliema significa “sconto” e l’abbiamo visto campeggiare sulle vetrine di molti negozi davanti a cui siamo passati.

L’ultimo giorno a Praga è l’autista del pullman che ci deve trasportare dall’albergo all’aeroporto, un omaccione brizzolato stile guardia carceraria film anni ’50, che – a dispetto del proprio mestiere – non spiccica una parola che non sia in ceco.

Mentre carica (scarica, forse sarebbe più opportuno dire) i nostri borsoni e le valigie pieni di oggetti delicati nel vano bagagli del suo mezzo con la stessa delicatezza con cui un minatore picconerebbe un pezzo di roccia coriacea, impartisce precise disposizioni in ceco a noi passeggeri, dando per scontato che le capiamo.

Quando arriva il mio turno, mi suggerisce cosa fare ma io, chissà come mai, non seguo i suoi consigli. Con la sua imperturbabile flemma, mi strappa di mano la valigia, la batte ripetutamente a terra (dai, non ti preoccupare: in fin dei conti il cristallo di Boemia è resistente e poi è ben avvolto) e, guardandomi in cagnesco, mi rivolge contro il suo anatema.

Unu stuparè.

Non ho voluto indagare sul significato dell’espressione. Non so neanche, a dire il vero, se si scriva così o se l’abbia sentito bene (non ho chiesto all’autista di ripetermela, capite, no?).

Unu stuparè resta la mia frase di commiato da Praga, il modo più originale che questa città potesse mai scegliere per dirmi addio (o arrivederci, chissà).

Arrivederci, Praga. E dekuji. Grazie. Grazie di tutto.



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