Al-Masr

Una vacanza in Egitto non costituisce certo una novità per il turista italiano: molti di noi passano le ferie sulle spiagge del Mar Rosso o percorrono il corso del Nilo su di una nave da crociera. Io vorrei parlarvi però di un viaggio che ha consentito a me ed ai miei compagni di viaggio di accostarci alla complessa realtà egiziana con altri...
Scritto da: Roberto Esposti
al-masr
Partenza il: 20/03/2004
Ritorno il: 04/04/2004
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
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Una vacanza in Egitto non costituisce certo una novità per il turista italiano: molti di noi passano le ferie sulle spiagge del Mar Rosso o percorrono il corso del Nilo su di una nave da crociera. Io vorrei parlarvi però di un viaggio che ha consentito a me ed ai miei compagni di viaggio di accostarci alla complessa realtà egiziana con altri occhi: quelli di viaggiatori, lasciando a chi voglia per comodità o semplice mancanza di interesse il ruolo di turisti.

Il percorso inizia dal Cairo: ricordo bene di aver pensato a questa città come ad una lezione di antropologia osservandola dall’aereo che pigro la sorvolava. Tale pensiero, forse pomposo, mi viene confermato la sera stessa quando mi tuffo per la prima volta nel grande suq (mercato) di Khan al-Khalili: una babele di razze e di lingue, tutti i prodotti (ed i sottoprodotti) delle culture e delle industrie occidentali ed orientali si incontrano in queste stradine presidiate da imbonitori poliglotti, turisti, asini col carretto, furgoncini Suzuki, Vespe.

Il giorno dopo è già tempo di saltare indietro nel tempo: la visita del complesso di Saqqara introduce allo splendore dell’antica architettura ed è un buon modo per svelare i presunti misteri legati alle tecniche di costruzione delle piramidi. Il vicino complesso di Dashur, privo di perdigiorno e turisti, mi suggestiona molto: alcune tra le più antiche piramidi costruite campeggiano in mezzo al deserto silenti e maestose; le accarezzano il mio sguardo ed il vento caldo del Sahara.

Il treno che ci porta a Luxor, nel sud, ci ospita in prima classe: tranquilli, non vengo meno alla mia dichiarazione di intenti; il paragone tra le rispettive prime classi rende bene l’idea del divario di benessere esistente tra Italia ed Egitto. Le tante ore del viaggio riempiono la notte, la stanchezza del trasferimento riempie invece la mattina. Il pomeriggio è un assurdo bagno di folla nella megalomania del Tempio di Karnak: difficile impressionarsi del bosco mistico della Sala Ipostila quando devi cedere il tuo spazio ad un giapponese fotomane. Per non ripetere l’esperienza ci limitiamo a circumnavigare il Tempio di Luxor, paghi di vederlo illuminato da suggestive luci notturne. Il pomeriggio ci aveva portato anche su di una curiosa isola dove crescono ottime banane: il nome di quest’isola ve lo lascio indovinare, la quiete che vi regna contrastando la fastidiosa Luxor ve la descrivo invece come assoluta. A tratti, dato che non ci vuole molto a scoprire il villaggio turistico che l’assedia.

La mattina seguente visitiamo la sponda occidentale del Nilo, tradizionalmente sede del regno dei morti, così come l’orientale ospitava i vivi. I Colossi di Memnone non danno infatti grande prova di vitalità, forse perché imbarazzati dal restauro in corso: silenziosi ed inespressivi presidiano la strada che porta alla Valle dei Re incuranti della tragedia che si consuma alla loro spalle, dove un villaggio viene assetato dai folli progetti del governo egiziano tesi a far sloggiare gli abitanti con le buone e (preferibilmente) con le cattive. Ma questa è appunto terra di morti, si sa. Le tombe dei potenti faraoni mi confermano la sensazione che mi aspettavo da anni: violo un’intimità eterna, i magnifici cicli di bassorilievi sulle pareti non avrei dovuto vederli io, non dovevano toccarli l’americano ed il giapponese che si ostinano a ficcare le proprie dita nell’arte passata di un ignoto scalpellino. Ed i flash. Per la prima volta in vita mia penso al rispetto come ad una qualità italiana: non mi era mai capitato. Recandoci nella Valle delle Regine la nostra guida ci accenna all’omicidio dello sceicco Yassin appena avvenuto: penso ad un sacco di cose, la prima è la morte di tante persone. Ma come vi ho già detto questa è terra di morti, si sa. La violazione dell’intimità si ripete con le Regine e con i frutti dei loro seni, esposti anche loro nelle tombe. Fortuna che arriva il Tempio di Hatshepsut: propongo di riaprire la gara per l’assegnazione del titolo di “meraviglia del mondo”. Io voterò per questi meravigliosi tre piani d’arte antica, costruiti in pietra chiara da una grande faraona che amava la pace. La collina retrostante l’abbraccia come un teatro fa con una grande interprete. Se ne accorsero dei promoter locali quando vi fecero rappresentare l’Aida; se ne accorsero gli assassini autori della strage del 1997: anche i terroristi hanno un senso estetico sapete? Come Luxor è ipnotizzata dal culto del turismo e del turista, così Assuan ne è quasi priva. Qualche ora di treno ci porta ancora più a Sud, in questa ex-Siberia romana: la punizione consisteva nel presidiare il nulla. Cento metri lontano dal buon dio Nilo c’è e c’era il deserto: il centurione Drogo avrebbe solo potuto sperare che i feroci nubiani si presentassero un bel giorno per dar battaglia come i tartari di Buzzati. L’albergo ce lo concediamo con vista sul Nilo: il lungo-nilo qui lo chiamano “corniche”. A me piace pensare che sia così perché questo fiume è un’opera d’arte e necessita di un telaio che lo valorizzi… Il suq di Assuan è molto vivo e colorato: mi rendo conto di essere in Africa per la prima volta, per i colori e per i tratti dei nubiani marcatamente africani. Quando il muezzin chiama alla preghiera, anche ad ore impossibili della notte, mi ricordo pure di essere in un paese islamico e noto che l’osservanza religiosa qui è grande, molto maggiore che al nord. Sarà per questo che quando le mie amiche accettano l’invito di ballare al suono dei darbuka con dei musicisti di strada in un attimo tutto il mercato si raduna davanti alla mia reflex? Ma è già tempo di dormire perché la visita di Abu Simbel impone il raduno dei visitatori in una strada alle tre di notte. Il convoglio scortato dalla polizia corre nella notte del deserto: trecento chilometri di sassi, sabbia e basi militari, orrende canzoni sputate fuori dall’autoradio del minivan inneggianti ad Egitto e Nubia. La visita della basilica superiore di San Ramesse II ripaga ogni sonno, stanchezza e fascismo sonoro. 2500 anni prima di Giotto qualcuno inventò l’estasi. 3200 anni dopo dei pazzi tentarono di mandare questa meraviglia a deliziare i pesci. L’Unesco l’ha salvata, come ha salvato il tempio tolemaico-romano sull’isola di Phile: Iside a cui è dedicato ringrazia, noi pure. Io in particolare quando in solitudine mi perdo vagando solo tra gli ambienti del tempio spalancando gli occhi come un bambino. Penso a Nasser ed al suo folle lago che sembra un mare tanto è grande: l’assurdità di invadere il deserto con l’acqua del Nilo, l’assurdità di mandare sott’acqua decine di monumenti, di città. L’intera patria dei nubiani. Ci ripenso quando il giorno dopo ascolto dei nubiani dire del loro villaggio, nel quale siamo, che certo ora hanno l’elettricità e le tv, ma non possono più coltivare la terra perché un ormai tisico Nilo non riesce più a donare la fertilità al deserto. Sanno chi è Roberto Carlos (e mi ci chiamano) ma per vivere sono costretti a farti tatuaggi con l’henné. Vorremmo che il tramonto ci cogliesse sulla feluca che ci ha cullato sino ad allora, ma è tempo di rientrare. Lo aspettiamo sulla corniche, un vecchio vestito con una galabiyya ci nota ed attacca bottone. Lo guardo e penso che non è il solito imbonitore perdigiorno: sorride di un bel sorriso ogniqualvolta parla appoggiato alla sua bici. E’ simpatico e ci invita a prendere un tè a casa sua, che resta vicina. Accettiamo perché in Egitto non si rifiuta mai un tè. Scopriamo che è un ex istruttore di sub, un fattore del deserto, un riflessologo plantare, un astronomo, un praticante yoga. E’ un sufi e colleziona persone, da tutto il mondo. Emerge dalle sue agende in cui Ismail raccoglie quotidianamente i pensieri che gli amici appena conosciuti gli donano. Ci invita ad andarlo a trovare nella sua fattoria nel deserto, ad andare con lui in Giordania e fare mille altre cose. Tenta (e forse ci riesce) di spiegarci il senso della vita. Lo lasciamo molte dopo ore e poche frasi scritte nella pagina del 26 marzo 2004. La giornata mi aveva regalato anche una danza con dei ragazzi egiziani sull’Isola di Kitchener, peraltro osteggiata da un imbecille che per oscure ragioni voleva impedirmi, forte della sua divisa, di parlarci e tenta addirittura di arrestarne uno. Frustrazioni di chi ha l’età per provare invidia di qualcuno che si diverte e che si diverte perché è giovane. Frustrazioni di un regime che se (ri)perde i turisti sprofonda e lo sa bene.

Tornati al Cairo la voglia di vedere una di queste famose oasi ci porta ad Al-Fayoum, la quale seguendo la definizione di oasi ci potrebbe pure rientrare, ma un’area grande quanto la provincia di Roma, abitata da 4 milioni di persone e con un enorme lago centrale non corrisponde esattamente allo stereotipo delle 2 palme ed una pozza nel centro del deserto… Del Fayoum ci restano però molte cose: l’odore intenso dei fiori, l’obeso e taciturno poliziotto che ci si piazza in macchina (e ci resta tutto il giorno), la bella piramide di Meidum (la prima mai costruita). Per quanto mi riguarda mi improvviso Indiana Jones in una mastaba e in mezz’ora divento il miglior amico di un capitano di polizia che nel sito di Karanis ci scorta, ci fa da guida imbracciando placidamente un mitra e mi racconta la storia della sua vita: tutto questo tramite le 17 parole di arabo che conosco io e le 3 parole di inglese che conosce lui. La strada che torna al Cairo da Karanis è molto bella: mi rendo conto di adorare la desert roads. Forse perché adoro il deserto… Di Alessandria ho un brutto ricordo dovuto alle mie pessime condizioni fisiche ed al fatto che ogni città d’Egitto paragonata al Cairo scompare.

Il Cairo appunto… 16 milioni di anime che vivono sotto minareti e campanili, grattaceli e baracche, dentro cimiteri e quartieri residenziali; che si spostano su vecchie Fiat 128 o Peugeot 504, in minivan Toyota o a dorso di asini. Il Cairo in cui spesso non vedi il palazzo che sta a 500 metri per lo smog, complice la sabbia del deserto poco distante: se ne accorge pure la tua tshirt che indossi bianca la mattina e vesti grigia la sera. Il Cairo dei 2 milioni di bambini abbandonati per strada, della popolosa città dei morti (un cimitero abitato) e del recinto della Muqatta dove vivono gli stradini della città.

(Ri)comincio a visitarla questa città e parto dalla cittadella che la sovrasta con le sue goffe moschee ed i suoi inutili musei: la moschea di Mohammed Ali è la prima della mia vita e sono un po’ emozionato di essere al cospetto di Allah… Comunque né Dio né il suo Profeta si adirano per la mia scettica presenza e posso continuare il mio giro del Cairo islamico: ho un appuntamento infatti! Sorte ha voluto che l’albergo dove alloggiamo sia lo storico albergo degli archeologi e di tutti coloro che ruotano intorno alle cooperazioni internazionali: qui conosciamo alcuni restauratori, tra cui uno di Marino ed un altro di Frascati (il mondo è piccolo no?) che ci parlano del lavoro che conducono da anni per il Centro Italo-Egiziano per il Restauro e l’Archeologia: da quasi vent’anni molti di loro lavorano in un grande complesso, il Mausoleo di Hassan Sadaqa; il loro racconto ci solletica la curiosità e decidiamo di andarli a trovare. Vicino alla Moschea di Ibn Tulum troviamo il complesso e ci facciamo condurre da Antonio, uno di loro. Quando ci porta nella sama’khana che hanno finito di restaurare nel 1998 non credo ai miei occhi: un meraviglioso teatro dove si esibiscono i Dervisci Danzanti mi si para davanti in tutta la sua bellezza fatta di caldo e lucido legno e di luminosi affreschi che ornano la cupola che lo sovrasta. Diresti che hanno finito di costruirlo il giorno prima per quanto lo hanno restaurato bene: arrivano David e gli altri ragazzi e ci illustrano il lavoro che hanno condotto in questi anni, le difficoltà incontrate, i (pochi) riconoscimenti ottenuti, le gioie del formare le maestranze locali… Visitiamo la madrasa (scuola coranica) che stanno recuperando sotto il teatro e ci illustrano i piani di recupero del Palazzo di Yashbak: sono rapito da tutto questo, li invidio per il lavoro che fanno e… posso dirlo? Mi sento orgoglioso di essere italiano nel vedere miei connazionali che restituiscono la bellezza ad architetture perdute. Lasciati a malincuore i nostri amici visitiamo le splendide moschee di Ibn Tulum e Qaitbey e ci perdiamo un po’ per Khan al-Khalili: ossia la tempesta dopo la quiete.

In questi giorni tanto per non smentire la sua fama, il mio albergo ospita un giovane archeologo di Bracciano, con cui faccio amicizia proprio il giorno che sto peggio: ma è risaputo che quando si parla di archeologia, di Ebla e amenità simili recupero forze non so dove: nonostante il mio stato pietoso mi invita ad andare con lui ed un’altra archeologa al loro campo nell’Oasi di Kharga a scavare un sito preistorico. E’ il sogno della mia vita, ma dove le trovo altre due settimane tra le mie stramaledette ferie? Dovevo fare l’archeologo, lo capisco solo ora e mi pento della mia ottusità passata.

Arriva il momento dell’addio alle mie due grandi amiche: per un paio di giorni sarò solo: solo si fa per dire dato che potrei essere adottato dai restauratori e da Michel, il nostro amico e referente egiziano. Ai primi però non voglio rompere, quanto al secondo è così oppressivo nella sua gentilezza che circoscrivo le sue attenzioni alla sera del giorno che spendo al Museo Egizio del Cairo. A proposito: voglio dirti una cosa, mia cara guida del Museo, che per rimbrottarmi del mio rifiuto a prenderti come Cicerone, mi butti in faccia che quello è il più importante Museo del mondo e non si può visitarlo da soli! Ebbene mio caro, il tuo Museo non è il più importante del mondo proprio perché un visitatore come me ha effettivamente bisogno di un figuro come te per capirci qualcosa, dato che (e questo sì che è un record) è il Museo organizzato peggio al mondo! E’ vergognoso che una galleria che possieda tali tesori li esponga senza il minimo criterio, senza la benché minima spiegazione, con reperti illuminati malissimo e disposizioni che vengono variate a piacimento di qualche pazzo chiamato a gestire tutto questo. E solo per far guadagnare soldi ad approfittatori, procacciatori di guide elettroniche incomplete ed altri perdigiorno. Finito lo sfogo? Si, andiamo avanti.

Fortuna che il giorno prima avevo preso messa in una chiesa copta: sarà stato questo a farmi restar calmo… Le meravigliose piccole chiese copte del Cairo chiuse nel loro quartierino fortificato, con dei nomi bellissimi: Mar Girgis, Abu Serga, La Sospesa… C’è perfino il Rifugio della Sacra Famiglia in fuga in Egitto: ammetto che accuso un certo misticismo perdendomi tra queste stradine che la Lonely Planet assicura ricordare Gerusalemme, dove chiese condividono il cortile con moschee e dove assisto per mezz’ora alla messa in Santa Barbara. L’incenso, la devozione e la funzione celebrata nell’antichissima lingua copta da pope che non riesco a vedere mi colpiscono molto. Sono ancora rintronato quando esco dal quartiere ed un venditore che tento di scacciare con il mio peggiore vocabolario arabo mi si para davanti e mi annuncia che sarebbe convolato a giuste nozze il giorno seguente. Resto di sasso ed accetto di tradurre per lui in italiano alcune frasi per attrarre i turisti italiani nella sua “factory”. Tra una frase e l’altra George fa in tempo a farmi vedere la foto di fidanzata e suoceri (tutti russi?!?!), raccontarmi la storia del loro incontro, invitarmi (ovvio, no?) alle nozze, offrimi un tè e tentare di vendermi qualche papiro. Dopo un po’ mi spedisce il suo dipendente musulmano che si offre anch’egli di illustrarmi la sua famiglia: al che io dall’alto della mia esperienza lo precedo chiedendogli quante mogli abbia. La risposta non me la scorderò finche campo: “one is enough”. E non aggiungo altro… Lasciato il paradiso (o quasi) raggiungo l’infermo incaponendomi a cercare l’antica città di Fustat: la trovo sepolta sotto una discarica su cui i ragazzi giocano a pallone. Triste e pensoso l’abbandono dopo aver scacciato cenciosi bambini che tra una molestia e l’altra riescono pure ad attaccarmi qualche pulce. Ne ho abbastanza e la sera, dopo 10 giorni di fuul e ta’amiyya (piatti egiziani che adoro ma che non riesco tutt’ora a distinguere) mi rifugio da KFC dove mi servono un panino con pollo con contorno di patatine e ghinee (nel senso che le ghinee del resto sono appoggiate sulle patatine… forse dovrei mangiarle). Mia madre (che ha fatto la guerra) dice sempre che la fame è brutta: capisco cosa voglia dire e le patatine con retrogusto di filigrana non sono poi così male… La mattina del venerdì nel quale alcuni miei amici tornano dal sud la spendo a Khan al-Khalili: ho un sacco di cose da compare ed i giorni utili diminuiscono. Vorrei entrare nella Moschea di al-Azhar, ma il durante la celebrazione non mi pare una buona idea infilarmi nel tempio-faro dell’Islam attuale. Mi butto quindi in serrate contrattazioni su tabacco e cinture per la danza del ventre: passo davanti alla Moschea sciita di Sayydna al-Hussein dove riposa la testa del martire Hussein: mi colpisce lo schieramento di celerini fuori dal tempio e la voce incavolata dell’imam che predica ai fedeli. Giro al largo, torno in albergo e svengo sul letto. Penso alla sera prima, in cui prima di incontrare Michel, me ne stavo su Tahrir Bridge a far foto e a bearmi del Nilo del Cairo (è il più bello, non c’è niente da fare) quando, prima vengo attorniato da ragazzine velate apparentemente infatuate di me (ma chi l’ha detto che sono timide?) e poi faccio amicizia con Latif, un ragazzo cairota, che è molto curioso di sapere com’è fatto il mondo fuori dal suo paese, in particolare l’Occidente. L’Egitto lo castra: uccide i suoi sogni e le sue libertà. Io gli consiglio di andare a trovare sua zia a Parigi: se segue il mio consiglio non so se torna… Medita Mubarak, medita… La sera con i miei amici faccio la mia prima spesa egiziana e passo una bellissima serata con loro, pur cotti dal lungo trasferimento. Propongo di andare tutti a vedere le Grandi Piramidi il giorno seguente. Sono incerti, sono davvero stanchi. La mia gioia è incontenibile quando vinta stanchezza e fatta sega all’università me li ritrovo davanti al museo egizio: è il mio ultimo giorno in Egitto, cosa c’è di meglio un cocktail fatto di Grandi Amici e Grandi Piramidi? Prendiamo l’autobus e raggiunti il sito vaghiamo tra queste meraviglie che la troppa confidenza ha reso incapaci di meravigliare. Sono belle però e l’interno di Cheope, in cui riesco a entrare ultimo della giornata, mi colpisce davvero molto con il suo corridoio colossale ed obliquo. La sera ceno da loro dopo una chiacchierata di mezz’ora con un tassista che non parla una parola di inglese: il mio arabo migliora a vista d’occhio evidentemente… La mattina della partenza dilato ad arte tutte le pratiche: mi presento puntuale e perfetto all’aeroporto ed il volo è magnifico. L’Italia vista dall’alto, dopo 2 settimane di deserto sembra il Walhalla tanto è verde: amo intensamente il mio paese, ma da qualche giorno anche l’Egitto.



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