Cipro l’effimera
Il primo impatto forte lo avemmo già dall’aereo, quando durante l’atterraggio sorvolammo vasti territori asciugati ed ingialliti da nove mesi di siccità: eravamo in ottobre, probabilmente uno dei mesi migliori per visitare quell’isola bruciata dal sole, ed iniziavamo così una villeggiatura fuori dalla stagione canonica ma molto avvincente. Una volta tanto non ero sola, c’era con me mio marito Franco, persona estremamente vitale ed estroversa, e la mia gravidanza era arrivata al quinto mese, quindi era quasi come se fossimo già in tre.
Il lungo viaggio in taxi dall’aeroporto di Larnaca fino al nostro albergo a Protaras, una sessantina di chilometri almeno, ci lasciò un po’ perplessi: tutto era estremamente arido, polveroso, rade le case, spelacchiata la campagna. Man mano che ci avvicinavamo alla zona di Capo Greco però l’ambiente si faceva un po’ più verde, e il mare! una perla blu scuro! Il nostro albergo l’avevamo scelto dopo scelta lunga e minuziosa su pile di depliant, e si rivelò estremamente azzeccato. L’Hotel Cavo Maris si trova nelle vicinanze del piccolo e tranquillo borgo turistico di Protaras e, pur essendo piuttosto “basic”, è un tre stelle con servizi da quattro: due piccole piscine, un giardino molto verde e curato, animazione simpatica ma non opprimente, un angolo di mare tra il sabbioso ed il roccioso che è un sogno anche solo a ricordarlo. Lo consiglio a tutti: pensate che il secondo giorno che stavamo lì era il compleanno di Franco, ed in stanza ci trovammo a sorpresa una piccola torta ed un biglietto di auguri personalizzato. E vabbè, sarà stato puro spirito commerciale, però il pensiero grazioso contribuì ancora di più a farci sentire a casa. In fondo tutto il Mediterraneo fa quest’effetto, ogni Paese è un po’ come una casa appena un po’ bizzarra e diversa dal solito.
Giusto un paio di piccole note dolenti, che peraltro non hanno compromesso affatto la nostra permanenza, anzi, entrambi legate al tipo di clientela che frequenta l’hotel fuori stagione. La prima è rappresentata dalla cucina: dei papponi scipiti ed immondi, verdure scotte ed insipide, carni informi, gelati prefabbricati, fatti su misura per una clientela centroeuropea a base di vecchietti e bambini. Se andrete lì non mangiate mai al Cavo Maris, colazione a parte, buttereste letteralmente nel cesso un sacco di soldi: ci sono un sacco di ottimi ristorantini nella strada di fronte, dove si spende meno e si mangia veramente molto meglio. Per un pasto completo è consigliato il mezè (un assaggio di tutte le portate del locale), mentre per uno spuntino o un pasto leggero va benissimo il kebab, che è un gustoso panino arabo farcito con spiedino ed insalata di pomodori, cipolle e cetrioli. La seconda nota dolente è stata, appunto, la clientela dell’hotel: moltissimi tedeschi, qualche inglese ed israeliano, per lo più famiglie numerose, chiassose ed assai poco educate, oppure vegliardi e vecchiette di tutte le taglie dediti a coraggiosissimi quanto incomprensibili topless – tanga – strip…Non è un caso se la maggior parte delle conoscenze – tolto qualche sparuto gruppo di italiani provenienti soprattutto dalla Liguria (chissà perché? Eppure Cipro è cara ammazzata mentre i liguri, si dice, siano abbastanza propensi al risparmio!) – le facemmo proprio tra i ciprioti, camerieri, giardinieri, commercianti, ecc. Gente simpatica, i ciprioti: forti e franchi, lavoratori ma senza eccessi, pronti alla cordialità e generosi nell’ospitalità, facili al riso ed alla battuta. La lunga dominazione inglese ha fatto sì che ancor oggi la maggior parte dei ciprioti parli bene inglese, cosa questa che facilita non poco il turismo. Non avemmo affatto problemi con la lingua, io parlo inglese e ricordo un po’ di greco antico, Franco fa finta di parlare inglese, così ce la siamo cavata più che egregiamente. I negozianti erano molto stupiti di sentirci parlare inglese e ci dicevano: “Ma siete proprio sicuri di essere italiani e non, ad esempio, israeliani? Gli italiani non parlano inglese!”. Il commesso del supermercatino di fronte all’hotel ci raccontò anche del tale che insisteva in italiano di volere l’anguria e di non trovarla, mentre il ragazzo insisteva che c’era: equivoco dovuto al fatto che in vetrina c’erano i cetrioli, che in greco si chiamano, appunto anguri.
Gente solida, i ciprioti: il giardiniere andava pazzo per Franco ed i suoi scherzi bonari, ogni volta che lo incrociava rideva fragorosamente e lo chiamava “Megale!” (grande). Ricordo un bellissimo pomeriggio, uno degli ultimi, lo passammo con lui nel piccolo bar vicino al giardino, affacciato sulla spiaggia, chiacchierando del più e meno, godendoci il tramonto e la brezza marina, ridendo delle stramberie dei tedeschi in spiaggia. Ci offrì della birra freschissima, ci fece assaggiare arrosto un po’ della sua salsiccia personale (pasturmà), che si era portato da casa – gesto questo di grande ospitalità che ci commosse – ci parlò del prossimo matrimonio di sua figlia, del suo vecchio paesino nel Nord. La sua umanità semplice e bonaria ci resterà sempre nel cuore.
Cipro è una strana isola, sospesa tra un passato glorioso ed un futuro incerto, sempre in bilico.
Da un lato rovine greche e romane di grande fascino, mosaici che possono rivaleggiare in bellezza con molti della Magna Grecia; gli alberi che la devozione popolare ricopre di fazzolettini bianchi, come una sorta di ingenui ex voto; la tomba di Macarios che domina il paesaggio dall’alto di una montagna; il monastero di Kikkos i cui affreschi vengono continuamente ritoccati e rinfrescati dai monaci; le tantissime chiese ortodosse – grandi e piccole – dalle caratteristiche cupole tondeggianti e dagli arredi di grande effetto; i mercatini dove si trovano vegetali insoliti ed i candelotti del sogiucco, uno strambo e ceroso dolce prodotto con il mosto e venduto a misura; la pietra dove la leggenda fa nascere Venere, lambita dalle onde e maestosa nella sua severa nudità.
Dall’altro lato ci sono i vecchi autobus lungo la strada, trasformati in caratteristici bar; la raffineria che proprio sulla spiaggia di Larnaca riempie il cielo di fiamme e fumo nero; le città turistiche come Limassol, cresciute in fretta in una valanga di cubi di cemento gettati sulla sabbia, quasi tutti con impianto solare per l’acqua calda; le oltre trentasemila ditte straniere che, per motivi fiscali, hanno eletto domicilio a Cipro; le montagne squadrate dall’uomo in gradinate ciclopiche per la riforestazione; la pietra di Venere, ricoperta di ogni sorta di immondizie lasciate dai turisti, perfino uno scolorito costume da bagno dimenticato chissà quando e da chi.
Abbiamo visto il Museo Nazionale di Nicosia, dove reperti antichi di rara bellezza vengono conservati senza il minimo sistema di allarme e dove tutto l’impianto elettrico è in vista, con i fili scoperti che formano artistici fascioni sul muro, che i ciprioti amano additare come curiosità locale. In un’isola in mezzo al mare che ha la terza flotta del mondo, siamo stati in molti ristoranti senza quasi riuscire a trovare pesce, che è poco, molto caro e in genere mal cucinato.
Ci siamo arrampicati con una motoretta in cima a Capo Greco, su un promontorio nudo e battuto dal vento, e ci siamo seduti su una romantica panchina piantata proprio sull’orlo di un precipizio, che domina un mare blu oltre ogni dire.
Abbiamo visitato la scuola forestale dei monti Trodos, dove il numero degli allievi che viene ammesso ogni anno al corso biennale è attentamente calibrato sul numero dei forestali che vanno in pensione, in modo che tutti i posti siano coperti e nessuno resti senza lavoro. Abbiamo preso una bibita in un piccolo bar all’aperto nella cittadina di Peristerona, dove gli uomini del posto si riuniscono con calma a bere caffè ed a chiacchierare sotto le fronde rade dei platani, facendo domande curiose ai pochi turisti.
Cipro cela anche una delle più grandi vergogne d’Europa. La sua capitale, Nicosia, è una graziosa città un po’ polverosa, spaccata in due da una sorta di muro di Berlino. Nessuno sembra ricordarselo, ma nel 1974, a seguito di gravi disordini politici, la parte nord di Cipro venne invasa dalla vicina Turchia, scacciando verso il sud circa 200.000 greco-ciprioti e costituendo lo stato di Cipro Nord, che solo la Turchia stessa riconosce. Un terzo dell’isola – il più bello, dicono – venne così separato da una lunga linea di filo spinato presidiata da soldati armati, che attraversa per lungo l’isola e spacca in due la capitale: greco-ciprioti da una parte, turchi e turco-ciprioti dall’altra. Se calcoliamo che su Cipro ci sono anche numerose basi militari (le più grandi quelle di Deceleia e Piscopi) a volte viene da domandarsi quanta terra libera resti veramente ai ciprioti! Ammochusta (Famagosta), città di mare un tempo famosa per la vita fastosa che vi si svolgeva, ora è solo un agglomerato deserto, i cui palazzi abbandonati si possono ammirare dalle terrazze di Paralimni, dove i turisti sono invitati a salire per vedere. Fa davvero impressione. C’è chi non vuole dimenticare: e quindi al centro di Nicosia c’è un’alta torre dove si può salire, visitare una sorta di piccolo museo dell’occupazione e, con il cannocchiale, ammirare la gigantesca bandiera che la Turchia ha costruito di fronte alla città, sulla catena montuosa dei Pentadattili. C’è invece, chi ha già dimenticato o finge di averlo fatto: che l’occupazione sia una faccenda superata, sepolta dagli interessi economici, con i greco-ciprioti che lavorano e circolano in macchine sempre più moderne mentre a pochi metri i turchi li guardano dall’alto, sorbendo un interminabile caffè. Proprio il problema ancora irrisolto dell’occupazione di Cipro è il principale ostacolo che tiene ancora in sospeso l’entrata nell’Unione Europea sia di Cipro che della Turchia. Questo è Cipro, un’isola in un mare di contraddizioni: antico e moderno, luci ed ombre, pietra ed acciaio, ospitalità e mitra. Cipro transitoria ed in continuo divenire: effimera come il lago salato vicino all’aeroporto di Larnaca, salutato in un’alba che tingeva di rosa i cristalli di sale lasciati sul terreno dalla periodica evaporazione delle acque.
Non è nord e non è sud, non è Africa, né Asia, né Europa. Cipro, crocevia del Mediterraneo, isola dal fascino sottile, sospesa tra passato e futuro: arida, fragile, ruderi e cemento. Un cristallo di salgemma nel vento.