La mia crazy vacanza in Vietnam

Istantanee di un viaggio solitario in Vietnam
Scritto da: Ricardo Kaka''
la mia crazy vacanza in vietnam
Partenza il: 15/08/2011
Ritorno il: 07/09/2011
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
E’ mezzogiorno.

Sto sorseggiando quello che probabilmente sarà l’ultimo caffè vietnamita di questa vacanza, al riparo in un bar di Hanoi mentre fuori diluvia. Trovo singolare che il mio viaggio termini così come era iniziato, ovvero con la stessa pioggia torrenziale che mi aveva accolto 23 giorni fa al mio arrivo a Bangkok. Quella sera fui costretto a rimanere in albergo per un’ora abbondante prima che spiovesse e lo ritenni un cattivo presagio, sapendo che la nostra estate non è certo la stagione migliore per trascorrere una vacanza in Vietnam dato che in alcune zone può piovere per giorni interi e c’è persino il rischio di trovare qualche tifone.

Ma da quando, anni fa, ho cominciato ad accarezzare l’idea di venire in questo paese, ho sempre letto resoconti di viaggiatori entusiasti anche sulle condizioni climatiche: ho così deciso anch’io di correre il rischio e ora, a conti fatti, non me ne sono certo pentito perché in 23 giorni ha piovuto solo qualche sera a Saigon e mai di giorno, tranne appunto oggi qui ad Hanoi.

Avevo intenzione di girovagare oziosamente per la città trovando persino il tempo di infilarmi in qualche museo, ma la pioggia mi sta sconvolgendo i piani e allora ne approfitto per riordinare un po’ le idee su questo viaggio che ormai volge al termine visto che domattina ho l’aereo per Bangkok e poi farò rientro in Italia.

Osservo il traffico incessante ed incurante della pioggia e mi sorprendo ad apprezzare il rombo dei tuoni e il rumore dell’acqua che cade impetuosa a coprire il frastuono infernale dei motorini, delle auto e soprattutto dei clacson premuti senza sosta. Un fenomeno tipicamente vietnamita dagli effetti difficilmente comprensibili per chi non lo provi personalmente: un frastuono continuo che ti entra nel cervello e non ti dà tregua, così come la puzza di smog e il caldo appiccicoso che soprattutto ad Hanoi e Saigon a fine giornata lasciano il segno sulla pelle e sui vestiti.

Non sono riuscito a comprendere perché in Vietnam chiunque si trovi su un mezzo di locomozione usi perennemente il clacson: a parte la necessità dei guidatori di bus per attirare nuovi passeggeri per la strada e quella di chi segnala la propria presenza per evitare collisioni su strade sempre caotiche dall’alba al tramonto, la maggior parte delle volte l’uso degli strumenti sonori è infatti del tutto gratuito e pare davvero una sorta di competizione su chi produce più rumore.

Questa bizzarra abitudine si somma poi a uno stile di guida che non ho riscontrato in nessun’altra parte del mondo, nemmeno nelle trafficatissime strade turche o indonesiane: in Vietnam il pedone non conta nulla e viene bellamente ignorato, anche quando si trova sulle strisce pedonali o attraversa la strada con il verde. Nessuno rallenta, né si ferma per farlo passare: viene semplicemente scansato da decine di auto e rombanti motorini con manovre più o meno azzardate, nonchè ovviamente subissato a colpi di clacson soprattutto nel caso dia segni di insicurezza nel suo incedere verso il marciapiede opposto.

In questo paese il codice della strada sembra un libro di favole per bambini a cui non si dà il minimo credito: percorrere o invadere la carreggiata nel senso opposto di marcia è ad esempio una pratica diffusa ed accettata da tutti, con conseguente aumento esponenziale dei rischi di sopravvivenza dei pedoni disattenti o non avvezzi al traffico vietnamita.

Un traffico che produce ovviamente un altissimo grado di inquinamento acustico e soprattutto ambientale, tanto che soprattutto le donne indossano mascherine protettive che ormai fanno parte integrante dell’abbigliamento e che vengono vendute con colori sgargianti e alla moda.

Una cura della propria salute che colpisce, essendo in totale contraddizione con stili di vita che vanno in senso totalmente opposto: è ad esempio tipicamente vietnamita consumare pasti o bersi una birra sui marciapiedi ad ogni ora del giorno, a stretto contatto con i tubi di scarico dei motorini che sfrecciano a pochi centimetri e sputano fumo in faccia ai commensali imperturbabili.

In Vietnam, del resto, sono assai pochi i ristoranti veri e propri: un po’ tutti mangiano all’aperto su tavolini apparecchiati con stoviglie di fortuna che vengono lavate (ma sarebbe più corretto dire “sciacquate”) in bacinelle con un’acqua che in poco tempo risulta più sporca di ciò che si vorrebbe pulire. L’occhio occidentale ne rimane spesso inorridito, ma non è nulla al confronto di ciò che si può vedere sul delta del Mekong: un lunghissimo fiume marrone utilizzato come latrina e al tempo stesso come lavastoviglie e lavatrice da chi abita nelle baracche di lamiera lungo i suoi argini o sulle imbarcazioni galleggianti adibite a dimore fisse. E allora il turista non sa più se sorridere o sconcertarsi nel vedersi offrire con la massima cortesia e naturalezza un’ananas tagliata con un coltello sciacquato pochi secondi prima in quell’acqua putrida.

Mi ha molto stupito non aver mai avuto il benché minimo disturbo intestinale dopo 3 settimane di permanenza in terra vietnamita, anche perché per precisa scelta ho sempre mangiato in posti tipici dove quasi mai si vede un turista occidentale. Mai come quest’anno, infatti, ho deciso di sperimentare la cucina locale tenendomi alla larga dai ristoranti turistici: ho quindi quasi sempre mangiato in posti dove la lista del menù era incomprensibile e per ordinare dovevo indicare le pietanze dei commensali vicini o farmi aiutare da qualcuno che parlasse un po’ l’inglese e mi facesse da intermediario con le cameriere, sempre assai divertite e incuriosite dalla presenza così inusuale di un turista occidentale.

Ho così provato ogni tipo di pietanza o intruglio: bevande ghiacciate ricavate dal succo di canna da zucchero macinata in una pressa o bibite analcoliche dall’aspetto inquietante e dal sapore indefinito vendute in sacchettini di plastica alle bancarelle dei mercati; zuppe di pollo o di carne (“pho”), magari arricchite con noodles e cotiche di maiale fritto (“caolai”) cucinate in baracchini ai bordi delle strade.

Per non parlare di un disgustoso panetto di riso avvolto in foglie di banana, proposto da venditori ambulanti in sella a biciclette o motorini dotati di altoparlante per richiamare i clienti. Una “prelibatezza” offertaci una sera da 2 fratelli vietnamiti, il più giovane dei quali fungeva da traduttore per il più anziano che non parlava una parola di inglese ma era ansioso di conoscerci e di illustrarci le magnificenze del suo paese. Si sono così uniti alla nostra estemporanea ed eterogenea compagnia (uno spagnolo residente in Italia e contattato via internet prima di partire; un tedesco che beveva Red Label come io trangugio the freddo; una russa e un russo-tedesco accompagnato dalla neo fidanzata filippina conosciuta due giorni prima all’aeroporto di Danang) e hanno voluto a tutti i costi offrirci birra e prodotti locali, visibilmente offesi di fronte ai nostri iniziali rifiuti. Ne è scaturita una delle serate più “crazy” del mio viaggio, contraddistinta da monologhi sulla grandezza di Ho Chi Minh, sfide a braccio di ferro e reiterati brindisi a “Lenin number one”.

Così è del resto il popolo viet: spesso curioso e affabile, nonché desideroso di conversare con gli occidentali pur non parlando quasi mai una parola di inglese. Eppure ti sorride e ti si rivolge imperterrito nella sua lingua, convinto che in qualche modo tu possa capirlo. E allora ti può capitare di giocare a calcio in un cortile con un gruppo di ragazzini o di essere invitato dall’autista del bus a giocare a carte prima che parta, oppure che una ragazza si avvicini incuriosita mentre stai scrivendo al pc e ti chieda a gesti l’indirizzo mail e il numero di telefono per poi scriverti un sms con le sole 3 parole di inglese che probabilmente conosce: “I love you”.

Come non spendere del resto due parole sulle deliziose ragazze vietnamite, che ti incantano con i loro lunghi abiti eleganti scoperti sui fianchi, oppure con minigonne mozzafiato abbinate a scarpe dai tacchi vertiginosi? Peccato che quelle più attraenti siano spesso giovanissime e che la lingua rappresenti quasi sempre anche nelle metropoli una barriera insormontabile per intrecciare qualsiasi tipo di relazione.

Mentre ha finalmente smesso di piovere, cerco nella memoria altre istantanee che porterò a casa con me come cartoline di questa vacanza e non posso fare a meno di pensare al motociclista che viaggiava per le strade di Hanoi portando a cavalcioni sulla sella un maiale intero e già macellato!

A parte queste bizzarrie, sono tante le immagini da ricordare con nostalgia: le meravigliose spiagge di Phu Quoc che, aldilà di un mare non propriamente caraibico, possono senz’altro accontentare anche i palati dei viaggiatori più navigati ed esigenti; l’atmosfera magica di Hoi An, un’autentica perla il cui romantico centro storico si illumina ogni sera di tante lanterne colorate e offre ristoranti e locali di incomparabile suggestione; la lunga e deserta spiaggia di Danang (“China Beach”, nota ai turisti perché è quella dove si recavano i soldati americani in licenza durante la guerra in Vietnam) dove si può fare il bagno completamente nudi perché nessuno potrà mai vederti, oppure la stessa spiaggia di Hoi An che si raggiunge in bicicletta percorrendo una strada che costeggia fiumi e risaie; la pagoda di Tam Coc, che dalla cima di una collina regala ai suoi visitatori una fantastica vista sul fiume percorso ogni giorno da decine di barchette guidate da donne che remano con i piedi invece che con le mani; le pagode e i mausolei sul fiume dei profumi che lambisce Huè, la cui cittadella imperiale è strabiliante per la sua vastità.

Ma chi viene in Vietnam non può ovviamente chiudere gli occhi e dimenticare che questa terra è stata dilaniata per decenni da guerre terribili contro il colonialismo francese e l’occupazione americana: i musei di Saigon e Hanoi testimoniano con impressionante crudezza questi tragici eventi, che impongono amare riflessioni anche a chi non si lascia facilmente incantare dall’ovvia e prevedibile propaganda comunista e anti-imperialista che permea le spiegazioni offerte a supporto dei contributi audio e video.

Per chi poi voglia assaporare più da vicino l’esperienza dei vietcong, c’è la possibilità di scendere nei cunicoli scavati decine di metri sotto terra per sfuggire ai pattugliamenti nemici: i tunnel di Vinmoch, a circa 90 km. da Huè, sono assai meno turistici di quelli di Cu Chi e non è raro riuscire a percorrerli in totale solitudine, godendo così di un’atmosfera ancora più carica di pathos.

Mi fa un po’ impressione pensare che ogni adulto della mia età incrociato per strada potrebbe portare testimonianze dirette di quegli orrori. Ma osservando i volti sorridenti di chi cerca di venderti ogni tipo di cianfrusaglia o di portarti ovunque in sella ai propri mototaxi senza minimamente curarsi che tu possa essere tedesco, italiano, francese o americano, mi piace pensare che faccia tutto parte di un passato ormai sepolto e, forse, persino in buona parte dimenticato.



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