Il nostro Australian Dream

Il nostro viaggio di nozze on the road alla scoperta della terra dei canguri!
Scritto da: Matte & Giobby
il nostro australian dream
Partenza il: 14/09/2012
Ritorno il: 03/10/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
Saremo senza dubbio banali nel dire che l’Australia ha sempre rappresentato il Paese dei sogni ma per noi è proprio così, e l’unica occasione per visitarlo è il viaggio di nozze. Grazie alla collaborazione dell’agenzia di viaggi Propeller di Arenzano, prenotiamo molti mesi prima biglietti aerei, alberghi e autonoleggio. Facciamo la patente internazionale (75 euro a testa) che non abbiamo ancora capito se è necessaria o meno (benchè venga indicata come obbligatoria), rinnoviamo la marca da bollo del passaporto (42 euro a testa) e, tra un’incombenza e l’altra, troviamo anche il tempo di sposarci. Sei giorni dopo si parte e si comincia con il racconto, ma prima qualche pillola in libertà che può essere utile:

– La carta di credito è fondamentale e viene accettata ovunque anche se qualche albergo e ristorante chiede una piccola percentuale in più (in genere tra 1-2%). Noi siamo partiti con 1800 dollari in contanti e abbiamo riportato in patria qualche centinaio di dollari.

– Le prese di corrente sono diverse rispetto all’Italia, quindi è indispensabile un adattatore universale.

– Il fuso orario a settembre è di 8 ore in avanti rispetto all’Italia (a Kangaroo/Adelaide/ Red Centre 7 ore e mezza).

– L’abbigliamento deve essere casual e adatto per tutte le stagioni in quanto si può passare dai 15 ai 40 gradi in un sola giornata.

– Noleggiare una macchina non è più costoso che in altri paesi, le autostrade non si pagano e la benzina ha prezzi che variano molto da zona a zona (dappertutto i prezzi sono esposti in centesimi/litro e la senza piombo è più economica della diesel): siamo passati da 1.3 dollari al litro di Sydney a 2.3 dollari al litro di Kings Canyon.

– Il navigatore non è necessario, gli unici problemi si possono avere nelle città ma una buona cartina può supplire con efficacia alla mancanza. Nelle altre zone le strade sono talmente poche e la segnaletica diffusa e chiara che non si può sbagliare.

– Dimenticarsi di carte telefoniche internazionali e cose simili, con Skype si chiama in Italia con pochi centesimi: bastano un tablet o uno smart phone e una connessione internet che si può trovare gratuita in alcuni alberghi o in grandi catene come Starbucks o fast food.

– Per chi fuma un pacchetto di sigarette costa dai 20 dollari in su.

– Il costo della vita è molto più caro che in Italia (tranne che per la benzina), siamo rimasti impressionati soprattutto dal costo dell’acqua e dei dessert al ristorante. Nel Red Centre i prezzi rasentano il ladrocinio.

– Gli australiani sono un popolo caldo, accogliente e molto disponibile con i turisti ma cenano prestissimo, quasi dappertutto i ristoranti chiudono alle 21.

14/15 SETTEMBRE

La partenza è fissata alle 13.25 da Milano Malpensa, l’Italia ci saluta offrendoci un cielo meraviglioso e impetuose folate di bora che movimentano la nostra prima ora di volo con Cathay, tutto il contrario della giornata uggiosa che ci attende a Hong Kong, dove arriviamo dopo circa dieci ore. Purtroppo siamo solo a metà viaggio visto che ci aspettano altrettante ore per raggiungere Sydney dove atterriamo alle 20.30 di sabato 15 settembre. Dopo aver superato gli estenuanti controlli alla dogana (in Australia ci sono regole severissime sull’introduzione di cibi dall’esterno) siamo finalmente ammessi in questo nuovo continente. Il taxi che ci porta all’albergo ci ricorda che qui, come in Gran Bretagna, si guida a sinistra anche se si supera a piacimento… Alloggiamo al Vibe Hotel in Goulburn Street (City Centre) in una camera spaziosa e accogliente anche se avremmo preferito, essendo in viaggio di nozze, avere un letto matrimoniale e non due lettini divisi. Dopo un giorno intero di viaggio non sentiamo neanche il fuso orario e cadiamo subito in un sonno profondo.

16 SETTEMBRE

La nostra prima giornata australiana comincia con uno splendido sole e una temperatura frizzante, in compagnia delle centinaia di podisti che partecipano all’annuale maratona, non che la cosa ci interessi ma ha il pregio di far chiudere le strade del centro al traffico evitandoci l’investimento (quando si attraversa la strada guardare a destra). Ci imbattiamo per prima cosa nella Sydney Tower che, essendo la costruzione più alta della città, viene monetizzata a dovere: infatti servono 25 dollari per essere ammessi alla piattaforma panoramica (con compreso un filmino in 3D di dieci minuti su Sydney) da dove si gode una vista a lungo raggio per molti chilometri; il problema è che non si è all’aperto, quindi le foto vengono scattate da dietro un vetro che ne compromette la nitidezza. Ci sarebbe il modo di fare le foto all’aperto pagando 65 dollari per un’inquietante Skywalk, ma il prezzo e le nostre vertigini ci fanno desistere. Usciamo dalla torre abbastanza delusi, la vista senz’altro merita ma per il prezzo pagato ci saremmo aspettati qualcosa di più. Come prossima tappa ci aspetta quella che secondo noi è senza dubbio la zona imperdibile di Sydney: il porto, con la famosissima Opera House dall’inconfondibile forma a conchiglia che fa da simbolico faro per i turisti che accorrono a frotte. Il modo migliore per ammirare la zona nel suo insieme, con lo skyline di statunitense memoria e l’Harbour Bridge, è salire su uno dei numerosi traghetti che scorrazzano per la baia; noi optiamo per il Manly Ferry che per 14 dollari porta all’omonimo sobborgo, un tranquillo e ridente porticciolo con spiagge rilassanti dall’acqua cristallina e altre sferzate dall’impetuoso vento dell’oceano per la gioia dei surfisti. Questa volta rimaniamo completamente soddisfatti e al ritorno scattiamo innumerevoli foto della baia (la parte migliore del traghetto da questo punto di vista è la sinistra). Concludiamo il pomeriggio percorrendo in lungo e in largo il porto, prima arriviamo fino all’Harbour Bridge da dove però, a meno che non si voglia spendere una cifra folle per scalarlo, un’alta ringhiera con rete annessa impedisce di scattare le foto che la vista meriterebbe. È molto meglio ammirare il ponte ai piedi dell’Opera House, soprattutto al tramonto ai tavolini dei locali sul mare. Torniamo in albergo per le vie deserte del centro chiedendoci il motivo di tanta tranquillità, ma poi ci sovviene che è domenica. Non ci siamo ancora del tutto ripresi dal fuso orario… Vista la nostra stanchezza ceniamo in una specie di pub proprio davanti all’albergo; per fortuna, visto anche i prezzi che hanno tutti i locali che servono qualsiasi cibo, la mancia non è obbligatoria come negli Stati Uniti.

17 SETTEMBRE

Purtroppo oggi ci svegliamo con il cielo nuvoloso ma ci avviamo lo stesso verso i Royal Botanic Gardens, il vasto parco/giardino botanico a ridosso dei grattacieli del centro città. Per fortuna spunta subito il sole per permetterci di godere appieno delle insolite piante e alberi che troviamo lungo il percorso, insieme a strani animali come un pappagallo dalla cresta gialla e l’ibis, una specie di cicogna spazzino dal lungo becco nero che rovista nei cestini della spazzatura. Vorremmo vedere anche i pipistrelli ma troviamo un cartello in cui è scritto che, visto che con gli artigli con cui si appendono rovinano i rami, si sta cercando di allontanarli con metodi non dannosi (almeno si spera…). Ci consoliamo camminando fino all’estremità dei giardini da dove si ha una vista magnifica dell’Opera House e dell’Harbour Bridge (a nostro parere la migliore che si possa avere gratis), cercando di non farci impallare le foto con l’autoscatto dalle persone che corrono. Dopo pranzo è la volta di The Rocks, la zona più caratteristica, con i negozietti di souvenir che scopriamo con immenso piacere non avere articoli made in China, ma solamente merce prodotta in Australia; seguiamo l’itinerario consigliato dalla guida Mondadori (che sostituisce indegnamente la nostra amata Routard, che per una strana ragione non è disponibile per l’Australia), percorrendo la strada che si snoda fino ai piedi dell’Harbour Bridge. Avendo ancora quasi tutto il pomeriggio disponibile, decidiamo di andare a Darling Harbour percorrendo la via dello shopping George Street. Darling Harbour è la zona commerciale del porto, con innumerevoli ristoranti di tutti i tipi, centri commerciali, acquario e, anche qui, il museo delle cere che chi ha visitato quello di Londra sa essere impareggiabile. Senza troppo pensare, sulla via di ritorno verso l’albergo, finiamo nella Chinatown di Sydney che non è altro che una copia di quella di tante altre città occidentali, che per molte cose non brillano di originalità e purtroppo cadono spesso nell’omologazione. Speravamo che almeno la lontana Australia sfuggisse da questa condanna ma, almeno per ora e da questo punto di vista, rimaniamo delusi.

18 SETTEMBRE

Come passare l’ultimo giorno a Sydney? Ci svegliamo con questo dilemma che sciogliamo subito non appena vediamo dalla finestra la meravigliosa giornata che c’è fuori. Se ieri abbiamo dedicato la nostra attenzione alla flora, oggi è il turno della fauna e il posto migliore qui intorno è il Taronga Zoo, a pochi minuti di traghetto da Circular Quay. Paghiamo 51.50 dollari a testa comprensivi di biglietto del traghetto, entrata allo zoo e trasferimento all’ingresso via funivia, senz’altro più divertente e panoramico del banale autobus in alternativa. Non c’è bisogno di dire che siamo venuti qui per scoprire tutti gli animali caratteristici dell’Australia, e non rimaniamo affatto delusi: dai canguri (che inizialmente confondiamo con i più piccoli wallaby) ai koala, dagli ornitorinchi (che immaginavamo molto più grossi) agli echidna (buffi ricci con la proboscide e strane zampe posteriori “montate” al contrario) fino al diavolo di Tasmania, che scopriamo essere in grave pericolo per una forma di tumore al muso (povero Taz!), non manca proprio nessuno. Rimaniamo stupiti dalla bellezza e dall’imponenza dei pellicani e delle cicogne australiani che vengono nutriti con pesci che ingoiano completamente interi, così come la povera Giobby rimane immobile terrorizzata alla vista di innocui ma enormi pitoni e boa. Naturalmente sono presenti gli animali che sono ospiti fissi in tutti gli zoo del mondo (leoni, elefanti, zebre ecc.), con una menzione particolare per una coppia di splendidi leopardi delle nevi. Tutte queste creature vivono in condizioni ottimali, in ambienti puliti e accuditi in maniera amorevole dal personale del parco, con una incantevole vista sul porto di Sydney che non può lasciare indifferente nessun essere vivente. Sbarcati a terra riusciamo nell’epica impresa di chiamare a casa via Skype con la connessione a tempo di Starbucks, non prima però di aver superato l’insormontabile problema del volume delle cuffie che ci fa scadere i trenta minuti concessi; dovremmo consumare un altro cappuccino da 3000 gradi ma ci attacchiamo abusivamente alla connessione di un fast food vicino e risolviamo il problema. Dopo le ultime foto all’Opera House e ai grattacieli illuminati dalle prime luci della sera, rientriamo in albergo attraverso la vivace Pier Street, accompagnati dalla prima pioggia di questi giorni. A cena proviamo l’esperienza estrema di mangiare da Thainatown, un ristorante thailandese senza troppe pretese a due passi dal nostro albergo; quello che ordiniamo non è male ed è anche abbastanza economico, ma la mia insalata di pollo con salsa chili mi manda letteralmente a fuoco la bocca, tanto che rientrati in camera ci vogliono due provvidenziali pacchetti di cracker per spegnere l’incendio. Nel frattempo un violento temporale è arrivato sulla città ma non ce ne curiamo, il nostro tempo qui è finito: domani si parte per Melbourne.

19 SETTEMBRE

Il simpatico compaesano che abbiamo incontrato il primo giorno a Sydney non aveva affatto torto quando ci ha detto che i trasporti pubblici qui sono carissimi e sporchi, ma non immaginavamo si potessero spendere 16 dollari a testa per quattro fermate fino all’aeroporto, se lo avessimo saputo prima per pochi dollari in più avremmo preso il taxi. Per fortuna l’ora di volo con Qantas procede senza intoppi e alle 11.40 atterriamo a Melbourne, dove troviamo un cielo grigio e qualche grado in meno rispetto a Sydney. Alloggiamo nel centralissimo Rendez Vous Hotel in Flinders Street che ci fa la sorpresa di darci una camera di livello superiore oltre a farci trovare frutta e cioccolatini (essere in viaggio di nozze ha i suoi vantaggi…). La camera è molto bella, con soffitti a stucco e arredamento vittoriano, anche se fa un po’ freddo. La prima impressione che abbiamo di Melbourne è di una città giovane, viva ed elettrizzante, con un sacco di gente per strada e nei locali e una vita culturale molto attiva; c’è una miriade di ristoranti di ogni ordine e grado, con una netta prevalenza di quelli di cucina asiatica. Lo skyline, con l’Eureka Tower e le Rialto Towers che svettano su tutti gli altri edifici, ci piace molto anche se il suo contorno è irregolare. Un piacevole e timido sole nel frattempo sta facendo capolino tra le nuvole, così ne approfittiamo subito per andare ai Royal Gardens; dato che il tempo qui è molto variabile sfruttiamo al volo l’occasione per vedere questi meravigliosi giardini sotto la luce migliore. La primavera che sta sbocciando, con i suoi colori e i suoi odori di nuova vita che sta nascendo, dona a questo posto, in cui trovano ospitalità in un insieme perfetto dolci camelie, enormi querce e piangenti eucalipto, un’atmosfera magica. Torniamo verso il centro percorrendo il lungofiume Yarra, sulle cui rive sorge il centro sportivo; non me ne accorgerei nemmeno se non fosse per la mitica Rod Laver Arena, che ha visto trionfare Roger quattro volte agli Australian Open. Ci sediamo su una panchina a contemplare il sole che si addormenta lentamente dietro ai grattacieli, mentre le canoe accarezzano il fiume. A cena andiamo al ristorante RMB a due passi da Flinders Street dove mangiamo, per 48 dollari totali, due piatti giganteschi ma molto buoni di carne, che cerchiamo di smaltire camminando fino a un ponte sul fiume dove ammiriamo lo skyline illuminato a giorno da mille luci colorate.

20 SETTEMBRE

Oggi dedichiamo la mattinata alla scoperta del centro città: per prima cosa saliamo sul tram gratuito City Circle che tocca tutti i punti più interessanti come l’acquario (che il nostro orgoglio genovese ci impone di non andare a visitare) e le Docklands (una commistione poco invitante di porto commerciale e industriale), finché non scendiamo al Queen Victoria Market, il mercato generale dove si trovano botteghe di ogni tipo, da quelle di souvenir che vendono cianfrusaglie da quattro soldi a quelle che vendono le calzature UGG, che immaginiamo essere tipicamente australiane visto che è da quando siamo arrivati che le vediamo esposte dappertutto. Compriamo un pacchetto di patatine da una simpatica cinese che prima ce ne fa assaggiare di tutti i gusti rischiando di farci vomitare visto che sono le 11 del mattino ed abbiamo appena fatto colazione. Superata la parte della frutta e verdura e del pesce e della carne (vendono anche il salame del povero canguro) pranziamo al Food Court dove assaggiamo per la prima volta il buonissimo pollo al miele. Scendiamo verso il fiume percorrendo Swanston Street, brulicante di gente che cammina frettolosamente in cerca di un posto dove mangiare (pensiamo che Melbourne sia la città con la densità di ristoranti più alta del mondo, oggi abbiamo visto tre ristoranti vietnamiti attaccati uno all’altro nello spazio di dieci metri). Il tempo è meraviglioso quindi torniamo nella zona del parco fino ad arrivare al Shrine of Remembrance, un memoriale per tutte le vittime di guerra dal cui balcone si ha la migliore vista della città e da cui scorgiamo invitanti giardini dove poter riposare solleticati dal caldo sole del pomeriggio. Per cena individuiamo già il nostro posto ideale: Southgate, un insieme di piccoli ristoranti di tutte le cucine del mondo; per fortuna arriviamo appena in tempo alle 20 prima che chiudano (qui cenano prestissimo).

21 SETTEMBRE

Oggi lasciamo Melbourne per intraprendere il nostro primo viaggio in macchina in terra australiana: al noleggio Hertz ritiriamo una Toyota Corolla con cambio automatico e navigatore, anche se quella incompetente dell’impiegata si dimentica di consegnarci il cavo dell’alimentazione e noi ce ne accorgiamo due ore dopo, a cento chilometri di distanza; pazienza, ne faremo a meno… La nostra prima urgenza è imparare a guidare con il volante a destra e la guida a sinistra e ce la caviamo subito benissimo: ci perdiamo solo una volta e ci strombazzano solo in un’occasione per una precedenza non rispettata. Usciamo da Melbourne prendendo l’autostrada e ci fermiamo dopo circa novanta chilometri a Torquay, un piccolo paesino sulla costa che secondo la guida è il paradiso dei surfisti, ma il mare è piatto come uno stagno e non ne vediamo nemmeno uno. Risaliamo in macchina un po’ delusi alla volta di Lorne, incontrando per la strada di quando in quando dei punti panoramici, e poco dopo Anglesea il primo faro che veglia sull’oceano che nel frattempo si è fatto più agitato. Da qui in avanti comincia la Great Ocean Road, la lunga strada panoramica che è la meta di questa parte di viaggio: il paesaggio si fa più interessante, il percorso è intervallato da spazi più aperti in cui la vista spazia per chilometri, a tornanti ripidi e tortuosi che si insinuano rispettosi in mezzo a boschi di eucalipto. Arriviamo a Lorne all’ora di pranzo con una fame da lupi che viene completamente placata dagli hamburger più buoni che abbiamo mai mangiato del piccolo locale sulla spiaggia chiamato “A Bottle of Milk”; a due chilometri verso l’interno troviamo il bellissimo punto panoramico Teddy’s Lookout e molto più avanti le Erskine Falls, piccole cascate per cui non vale la pena fare otto chilometri di macchina e 300 metri di ripidi scalini infangati tra la foresta umida. Andiamo a riscaldarci le ossa sul lungomare di questa piccola cittadina che ci piace molto, a differenza di Apollo Bay dove passeremo la notte: sarà che vi arriviamo sotto un cielo grigio e con un vento freddo, ma ci sono solo pochi negozi che chiudono alle 16 e qualche ristorante dai prezzi proibitivi (per paura di rimanere senza cena andiamo a mangiare alle 19 una pizza abbastanza buona). Dormiamo al Best Western Apollo Bay, tipico motel senza troppe pretese, in una camera piccola ma pulita che per una notte è più che sufficiente.

22 SETTEMBRE

Quando apriamo la porta della nostra camera rimaniamo stupiti dalla meravigliosa giornata, il sole splende indisturbato in un cielo azzurro senza l’ombra di una nuvola, e ci accompagnerà così per tutto il giorno; ci rendiamo subito conto di essere baciati dalla fortuna visto che oggi ci aspetta la parte più emozionante della Great Ocean Road. Lasciamo Apollo Bay alle 8.30 e dopo mezz’ora e una deviazione di circa dieci chilometri arriviamo al Cape Oatway Lighthouse, dove pagando 12 dollari (scontati) a testa siamo ammessi nel piccolo parco adiacente e possiamo salire, scortati da un custode barbuto e ansimante, in cima al faro più antico d’Australia, da dove vediamo le impetuose onde dell’oceano infrangersi contro la costa e un minuscolo museo con gli attrezzi del mestiere. Risalendo verso la strada principale alziamo la testa distrattamente e vediamo tantissimi koala appollaiati sugli alberi di eucalipto: c’è chi dorme, chi mangia la corteccia e chi si gratta; la nostra attenzione è rivolta soprattutto verso un albero in cui ci sono due koala, non finiamo nemmeno di pensare quanto sono dolci che si mettono a litigare furiosamente a suon di unghiate e morsi per il posto su un ramo, dopodiché il “vincitore” lancia un terribile verso simile a un muggito che non si immaginerebbe mai di sentire dalla bocca di un animale dall’aspetto così tenero. Ora ci attendono circa due ore di strada per arrivare al pezzo forte della giornata, quando parcheggiamo la macchina siamo emozionati e impazienti pensando a quello che ci aspetta: finalmente percorsa la breve passerella ecco davanti a noi i Dodici Apostoli, in realtà otto magnifiche “sentinelle” di roccia che combattono una battaglia persa contro l’oceano, che si infrange senza sosta contro la loro base ferita. Questo è uno di quei posti magici da cui non ce ne andremmo mai, prolunghiamo la permanenza autoconvincendoci di non avere ancora scattato le foto da questa e quella prospettiva, ma il tempo stringe, dobbiamo ancora fare tanti chilometri e vedere tante altre cose: Lorch Ard, una stupenda baia scavata dal mare che prende il nome da una nave naufragata qui nell’ottocento, London Bridge, un ponte di pietra bianca che sembra si stia allontanando dalla costa e The Grotto, un “occhio” con una magnifica prospettiva sull’oceano spumeggiante. Da qui in poi la strada abbandona la costa e si inoltra all’interno ed è un lungo e monotono susseguirsi di verdi pascoli di mucche e pecore, ogni tanto attraversiamo qualche paese come Port Fairy e Warrnambool senza nulla di interessante da segnalare, ma anche questa è l’Australia, cioè guidare per chilometri e chilometri in perfetta solitudine senza incontrare niente e nessuno. Così è fino a Mount Gambier, dove arriviamo alle 18.30 (ma in realtà sono le 18 in quanto in South Australia si tirano indietro le lancette di mezz’ora), non prima di vedere di sfuggita sul ciglio della strada un canguro che si avvicina furtivo. Alloggiamo al Best Western Southgate Motel, struttura dello stesso stile di quella del giorno prima ma con la camera e il bagno molto più spaziosi e ceniamo di nuovo con una discreta pizza in un ristorante poco lontano, guardando con orrore una coppia locale che beve il cappuccino prima di mangiare la minestra e la pasta.

23 SETTEMBRE

Quella che ci aspetta oggi è una lunga giornata di trasferimento che ci porterà all’imbarco per Kangaroo Island, ma prima di partire andiamo a dare un’occhiata all’unica attrattiva di Mount Gambier, il Blue Lake che come dice il nome dovrebbe essere un lago blu ma in realtà a noi sembra grigio… Dopo questa memorabile visita partiamo che sono le 8.30 e per molti chilometri non attraversiamo che interminabili pascoli di mucche e pecore (ma quante ce ne sono in Australia?), i segnali stradali indicano continuamente pericolo attraversamento canguri e purtroppo ne abbiamo la conferma vedendone alcuni morti sul ciglio della strada. Facciamo una tirata unica, accompagnati da improvvise piogge e veloci schiarite, fino a Meningie dove ci sarebbe un grazioso giardino sul mare se non fosse che tira un vento fortissimo che ci costringe a mangiare in macchina; stiamo entrando nel Coorong National Park, un insieme di acquitrini battuti dal vento che sono la casa di molte specie di uccelli, che finirà a Langhorne Creek, porta d’accesso della regione dei vini con strane viti molto più basse di quelle a cui siamo abituati. Arrivati a Wellington, per attraversare il fiume Murray, invece che costruire un piccolo ponticello ci fanno arrivare all’altra sponda a bordo di una piattaforma poco rassicurante. Visto che siamo in abbondante anticipo ci fermiamo a Victor Harbour per provare ad avvistare le balene ma un violento acquazzone ci costringe a tornare in macchina, così arriviamo a Cape Jervis (notevole la vista di Kangaroo Island dalla cima della collina) alle 16 con davanti a noi un’attesa per il traghetto di due ore. Il viaggio di 50 minuti è un incubo, il mare mosso fa ballare paurosamente l’imbarcazione e i nostri stomaci ne risentono non poco; per fortuna l’albergo (Seafront Motel) è a 100 metri dal porto di Penneshaw così possiamo subito prendere possesso della nostra camera, un bilocale molto bello con tanto di cucina, divano e bottiglia di vino per il viaggio di nozze. Il ristorante dell’albergo è chiuso, così andiamo a mangiare fish and chips molto buono in un posto vicino, con noi in sala ci sono quattro coppie italiane in viaggio di nozze. Il mondo è proprio piccolo…

24 SETTEMBRE

Finalmente stamattina, per la prima e ultima volta, abbiamo un’ottima colazione compresa nel prezzo che ci fa apprezzare ancora di più questo albergo che consigliamo vivamente. Decidiamo di dedicare la giornata di oggi alla scoperta della parte settentrionale dell’isola cominciando da Emu Bay, una piccola spiaggia dove riposano degli imponenti pellicani che danno l’impressione di essere i padroni incontrastati di questo posto. La seconda tappa è Stokes Bay, un’altra spiaggia dalla sabbia bianchissima raggiungibile per uno stretto sentiero tra le rocce, con il pericolo concreto di mettere le scarpe nell’acqua come è successo a noi, ma ne vale la pena perché il luogo è stupendo e non c’è nessuno, solo noi e il mare; questa parte dell’isola è meno battuta dai turisti e si possono visitare degli spazi incontaminati e solitari facendo solo piccole deviazioni dalla strada principale, sebbene anche il semplice guidare lungo la strada ammirando il paesaggio di laghi, bush e ampie radure sia un’esperienza da non perdere, tanto più se capita di vedere attraversarsi la strada da dei canguri come succede a noi. Lasciato il mare ci fermiamo al Parndana Wildlife Sanctuary, un parco in cui gli animali vivono in semilibertà per cui si paga un ingresso di 12 dollari a testa. La particolarità di questo posto è che, per un dollaro, si può acquistare un sacchettino di crusca e semi ed entrare nel prato per nutrire canguri e wallaby (ne vediamo anche uno albino) che mangiano direttamente dalle nostre mani. I wallaby, più piccoli, mangiano con più calma e diffidenza mentre i canguri sono più voraci e abbiamo quasi paura che ci mordano le dita, visto che devono contendere il nostro cibo con due capre affamate che cercano disperatamente di attirare la nostra attenzione e contro cui non abbiamo niente di personale, ma non abbiamo fatto migliaia di chilometri per dar da mangiare ad animali che possiamo vedere tutti i giorni in Italia. Oltre a questi marsupiali nel parco trovano ospitalità koala, un wombat addormentato, un coccodrillo, emu e centocinquanta specie di pappagalli diverse a cui fanno compagnia pavoni, tacchini e galline che creano un ambiente da fattoria. Sfrecciando con il nostro bolide per queste strade deserte entriamo nella zona del Flinders Chase National Park, che visiteremo domani perché ora vogliamo andare al Kelly Cave Park, ma 15 dollari per un biglietto ci sembrano troppi così ripieghiamo su Hanson Bay, una deliziosa baia alla fine di una stradina sterrata in ottime condizioni in cui vediamo la forza impetuosa dell’oceano abbattersi sugli scogli. Il ruscelletto che sgorga in mare ha un colore molto particolare simile alla ruggine, che pensiamo possa derivare da qualche pianta, il che non impedisce a Giobby, nel tentativo di raggiungere la spiaggia con un salto da record olimpico, di finirvi dentro con i piedi. Siamo vicini al nostro albergo per la notte, il Kangaroo Island Wilderness Retreat, che non è altro che un campeggio con camere spartane al posto dei bungalow in cui tutto, dall’acqua piovana al ciclo dei rifiuti, è ecocompatibile tranne i prezzi di qualsiasi cosa si voglia comprare che sono molto alti (la benzina costa tre centesimi al litro in più che negli altri posti). Il ristorante dell’albergo non si discosta dal trend infatti mangiamo bene ma spendiamo 110 dollari totali per due piatti di carne e due dessert.

25 SETTEMBRE

Come programmato stamattina ci rechiamo subito al Flinders Chase National Park (ingresso 10 dollari a testa), scelta azzeccata perché il tempo è meraviglioso e la temperatura piacevole. Per prima cosa andiamo ad Admirals Arch dove, oltre all’immancabile faro di Cape du Couedic, una passerella pedonale conduce ai piedi di uno stupefacente arco di roccia al livello del mare, come se non bastasse c’è una colonia di leoni marini in cui alcuni sguazzano giocosi nell’acqua e alcuni dormono posando inconsapevolmente per il nostro obiettivo; a rendere ancora più magica l’atmosfera è il fatto che, vista l’ora del mattino, siamo completamente soli. Dopo una rapida sosta a Weirs Cove (dalla cui terrazza si nota il ripidissimo sentiero da cui salivano le provviste che arrivavano via mare ogni tre mesi per il guardiano del faro) arriviamo all’altro pezzo forte del parco: Remarkable Rocks, un insieme di rocce di granito dalle forme strane in cui è possibile incunearsi per scattare delle simpatiche foto, purtroppo qui non siamo soli e dobbiamo “sgomitare” per ottenere i posti migliori; inutile dire che il tutto è nobilitato da uno sfondo fenomenale di mare e coste frastagliate. Dopo tanta bellezza scappiamo a tutta velocità per le strade di questo paradiso naturale alla volta di Vivonne Bay, un’altra candida spiaggia dall’acqua cristallina spazzata da un vento caldo, e Little Sahara, un angolo di deserto africano a pochi passi dal mare sulle cui dune, se attrezzati a dovere, si può scendere con una specie di snowboard. Mangiamo un veloce spuntino in un negozio sulla strada in cui veniamo serviti da un uomo dall’accento incomprensibile e poi puntiamo la barra in direzione Kingscote, dove riusciamo nel tentativo di anticipare il rientro con il traghetto alle 17.30 invece che alle 19.30 come inizialmente prenotato. Per ingannare l’attesa, prima dell’imbarco, non troviamo di meglio che tamponare la macchina di una coppia di turisti romani, per fortuna senza grossi danni, comunque coperti dall’assicurazione. Lasciamo Kangaroo Island con uno struggente tramonto alle nostre spalle e dopo un’ora e mezza di guida nel buio arriviamo, non senza qualche difficoltà, al Rendezvous Hotel di Adelaide, un albergo cinque stelle con camera gigante e lussuosa: peccato che ci staremo il breve tempo di una notte. Le strade di Adelaide, nonostante siano le 21, sono deserte a parte un gruppo di rumorosi studenti che partecipano a una festa poco distante dall’albergo, ma il problema più grosso è trovare un posto dove mangiare: per fortuna troviamo una pizzeria takeaway che sta per chiudere dove un gentilissimo ragazzo ci concede di rimanere a finire le nostre pizze sui tavolini all’aperto.

26 SETTEMBRE

Alle sette siamo già in aeroporto (vicinissimo al centro città) a riconsegnare la macchina e come previsto non ci sono problemi con il piccolo incidente di ieri in quanto siamo coperti dall’assicurazione, anzi ci rimborsano i soldi del navigatore che non abbiamo potuto usare. Il volo Qantas per Alice Springs parte puntuale alle 9.45 e dopo due ore atterriamo nel piccolo aeroporto di quella che è la più grande e praticamente unica città del Red Centre, con una temperatura di 35 gradi (a inizio primavera) e un cielo nuvoloso. Già dall’aereo vediamo il paesaggio dell’outback: immense pianure arse dal sole con rada vegetazione e la catena montuosa Macdonnell a interrompere questa vastità senza fine. Ritiriamo la seconda macchina da Hertz, una Toyota Rav 4 bianca con quattro ruote motrici e cambio automatico, questa volta senza navigatore che sarebbe inutile dato che non prenderebbe quasi da nessuna parte. Come prima cosa andiamo a lasciare le valigie all’Aurora Hotel situato nel piccolo centro di Alice Springs che ci fornisce una camera gradevole con terrazzo e una doccia un po’ inquietante; successivamente ci rechiamo presso il caratteristico negozio di souvenir Mbantua che vende solo oggetti prodotti dalle popolazioni aborigene (dai quadri ai boomerang ai sottobicchieri) a prezzi onesti. La prima impressione che ricaviamo dalla città è che non sia tanto sicura e che gli abitanti bianchi e la popolazione aborigena vivano in due mondi separati e ben distinti, con quest’ultima ai limiti del vagabondaggio e relegata ai margini della società dalla brama di conquista dell’uomo bianco. Dopo pranzo imbocchiamo Larapinta Drive che ci porterà a Simpsons Gap, una gola tra due pareti di roccia rossa lambita da un piccolo laghetto mezzo prosciugato a cui si arriva tramite un breve sentiero lungo il quale veniamo tormentati da un nugolo di mosche fastidiose che cessano di volarci attorno solo quando comincia a tirare il forte vento caldo del deserto, senza alcun dubbio il male minore. A pochi chilometri si trova un’altra gola, Standley Chasm, dove per entrare si paga un biglietto di dieci dollari ma si deve percorrere un sentiero più lungo con la compagnia costante delle mosche che fanno parte di diritto della fauna locale più di canguri e dingo; rispetto alla precedente qui le pareti sono più ripide e si ha la sensazione di essere in mezzo a un canyon, tanto che la voce rimbomba tra le rocce. Tornati ad Alice Springs facciamo scorta di viveri e acqua al supermercato Woolsworth per affrontare al meglio la traversata nel deserto fino a Kings Canyon che ci aspetta domani. Timorosi di uscire in città per la cena mangiamo al ristorante annesso all’hotel dove, sfruttando un menù promozionale, spendiamo “solo” 67 dollari per due bistecche con bevande. Non ne possiamo più di carne, stiamo seriamente pensando di diventare vegetariani.

27 SETTEMBRE

Equipaggiati di tutto punto con quattro litri d’acqua, panini con salame e serbatoio della macchina pieno partiamo alle 8.30 sempre lungo Larrapinta Drive, inizialmente percorrendo una parte della strada di ieri e rischiando di schiacciare un grosso lucertolone che ci sembra un ramo. Giunti al primo bivio svoltiamo per Hermanssburg, ultimo avamposto di società civile dove è obbligatorio sostare per acquistare il pass (5.50 dollari a vettura) per la Mereenie Loop in una scalcagnata stazione di servizio. Qui finisce la strada asfaltata e cominciano i circa 150 km di strada sterrata che porteranno a Kings Canyon; una volta presa confidenza con i primi sobbalzi procediamo spediti in mezzo a un paesaggio da film western, circondati dal giallo intenso dell’erba e dal rosso della terra, rischiarati da un sole capriccioso nascosto di quando in quando da sottili nuvole bianche, incrociando lungo il percorso altre macchine che alzano tormente di polvere che ci accecano per qualche secondo e i cui conducenti ci salutano con spirito partecipe. Le condizioni della strada sono variabili, per certi tratti sono buone consentendo un’andatura vicina ai100 km/h, per altri sono peggiori con parecchi chilometri di fondo sconnesso che costringono a proseguire quasi a passo d’uomo; ogni tanto si trovano brevi tratti d’asfalto che danno parecchio sollievo alle ruote e alla nostra testa. Incontriamo molti segnali che avvisano di pericolo d’inondazione con tanto di sbarra che segnala il livello massimo raggiunto dall’acqua (a volte due metri), il che ci sembra surreale visto il clima arido che c’è, con la temperatura che tocca i 35 gradi. In ogni caso è un’esperienza da compiere a tutti i costi per vivere veramente lo spirito dell’outback australiano in maniera autentica. Arriviamo a destinazione alle 14 (da Hermannsburg si impiegano circa quattro ore) e lasciamo subito le valigie nell’unico posto disponibile, il Kings Canyon Resort, che ci ospita in una camera fotocopia di quella di Alice Springs ma con un bagno più bello. Dello stesso complesso fanno parte un mini spaccio, una stazione di servizio (la benzina costa 2.3 dollari al litro!) e due ristoranti, tutti con prezzi folli giustificati, oltre che da speculazione turistica, sicuramente dal fatto che queste sono zone difficili da raggiungere. Ci riposiamo mezz’ora e poi andiamo a perlustrare Kings Canyon: sono disponibili due percorsi e noi, vista l’ora e la temperatura, scegliamo quello più corto e molto facile (c’è gente con i sandali) che dopo 40 minuti tra andata e ritorno lungo un fiume completamente secco conduce a una piattaforma dalla quale si ha una vista dal basso dell’ingresso del canyon, e chi ci troviamo? Naturalmente una coppia italiana in viaggio di nozze… Dopo una doccia rinfrescante ceniamo al Desert Oaks Cafè a petto di pollo con sopra di tutto e hamburger (59.50 dollari con birra e coca cola), dentro al ristorante, senza aria condizionata, c’è una temperatura infernale e nulla può il gigantesco ventilatore che ci spara addosso aria rovente.

28 SETTEMBRE

Alle 8.00, dopo una colazione da 12 dollari per un solo toast con marmellata e caffè, siamo già a Kings Canyon per affrontare il percorso circolare lungo 6 chilometri: vista l’ora e il cielo coperto da nubi la temperatura non è proibitiva, come lo è al contrario la salita che incontriamo all’inizio, una lunga “arrampicata” che ci porta sul crinale del canyon. Il sentiero in seguito si dipana pianeggiante attraverso le rocce rosse, che nel frattempo vengono accese dal sole mattutino che inizia a farsi vedere; facciamo molte foto stando attenti a non finire di sotto visto che il burrone non è protetto da parapetti o altro. Il panorama è mozzafiato, prendendo qualche deviazione si riesce ad andare su torrioni che dominano il canyon e su ponti sospesi nel vuoto del qui chiamato Giardino dell’Eden, un insieme di piante rare che crescono solo in questo luogo. I cartelli indicano che per completare il giro occorrono tre ore e mezza ma noi, ad andatura normale e facendo qualche breve sosta e deviazione, impieghiamo poco più di due ore. Essendo già stati al più famoso Grand Canyon americano eravamo un po’ scettici su questa gita temendo di vedere qualcosa di cui avevamo già esperienza, ma arrivati al parcheggio questa idea era già svanita dalle nostre menti in quanto ogni luogo ha storia a sé e immagini che lo rendono unico al mondo. Dopo tre ore di strada scorrevole, con in mezzo una sosta per pranzo a Curtin Springs, metà della quale sotto una pioggia battente (in 200 chilometri siamo passati da 30 a 14 gradi) arriviamo ad Ayers Rock, la cui inconfondibile sagoma si scorge già a cento chilometri di distanza. Lasciamo le valigie all’Outback Pioneer Hotel, complesso molto vivace e gradevole (anche qui troviamo una bottiglia di vino in camera), e andiamo verso i due must della zona pagando l’ingresso di 25 dollari a testa valido per tre giorni. Il primo e forse meno conosciuto è Kata Tjuta (o monti Olgas per i non aborigeni) a cui diamo la preferenza perché il cielo lì sembra più chiaro. Dai due punti panoramici che si trovano nei 40 chilometri di distanza dal complesso cogliamo la stranezza di questi monti: sono rotondi come teste giganti, a me danno l’impressione di tante palline di gelato una sopra l’altra; purtroppo la luce non è delle migliori anche se qualche raggio di sole buca le nuvole e li accende di un rosso intenso meraviglioso. Arrivati alle loro pendici scegliamo il percorso meno impegnativo che si incastra tra due monti, da cui notiamo come abbiano dei grossi buchi come una gruviera; scorgiamo anche un canguro che bruca la poca erba in mezzo a una pietraia che ci verrà in mente stasera quando vedremo sulla piastra del barbecue il filetto di suoi esemplari meno fortunati. Il secondo è l’icona dell’Australia, per anni abbiamo fantasticato sui cataloghi e sulle foto sognando di vederlo prima o poi e ora eccoci qui, lo abbiamo di fronte a pochi chilometri dritto davanti a noi; il tempo non gli rende giustizia ma è comunque affascinante, un enorme monolito sdraiato in mezzo al nulla che trasmette prima di tutto rispetto verso la sua imponenza e il significato sacro che ha per i veri padroni di queste terre: insomma, Ayers Rock o Uluru per gli aborigeni. Prendiamo confidenza scattando qualche foto dal bordo della strada e poi torniamo in albergo visto che le condizioni meteorologiche rovinano il tramonto. Mangiamo una rapida cena e poi in camera: domani la sveglia suonerà presto.

29 SETTEMBRE

Presto significa le 5.15, esco dalla camera in tenuta da notte nonostante la temperatura molto fresca per controllare il cielo, riesco a scorgere qualche stella quindi può partire l’operazione alba a Uluru. Fatto il checkout arriviamo alla piattaforma dedicata per l’alba (diversa da quella per il tramonto) alle 6.20, c’è già una ressa da concerto ma lo spettacolo riuscirà solo a metà: un banco di sottili nuvole all’orizzonte oscura il sole che però riesce ad accendere per qualche minuto il monolite, regalandoci la visione di tutte le tonalità di rosso che madre natura può contemplare. Non potevamo perdere un avvenimento che richiama gente da tutto il mondo e ci riteniamo comunque fortunati ad assistervi visto le pessime premesse di ieri. Per ora abbiamo visto Uluru solo da lontano, ma adesso vogliamo conoscerlo da vicino, nel frattempo la giornata si è fatta stupenda, facciamo una breve passeggiata lungo la sua base e ammiriamo le ferite che il tempo e le intemperie hanno portato alle sue pareti, le grotte scavate all’interno dove gli aborigeni si scaldavano e preparavano da mangiare e i segni neri simili a cascate causati dall’acqua nel suo scorrere verso il basso. Alcune persone, contro il volere degli aborigeni che lo considerano irrispettoso, intraprendono la scalata verso la cima e ci chiediamo perché non venga proibita d’imperio visto che è anche pericolosa. Circumnavigato il pietrone anche in macchina, andiamo a dare l’ultima sbirciata sotto la luce del sole ai Monti Olgas che rispetto a ieri hanno tutto un altro aspetto e troviamo un rubizzo motociclista del Victoria che ci dice che qui non piove quasi mai (e quella di ieri cos’era?). Facciamo un rapido giro al negozio di souvenir e al supermercato di Yulara e poi dobbiamo scappare in aeroporto perché entro le 12 dobbiamo riconsegnare la macchina, solo che al bancone di Hertz non c’è nessuno e mettiamo le chiavi in una cassetta, ad averlo saputo saremmo arrivati molto dopo; peccato che ora dobbiamo aspettare tre ore e mezza in un aeroporto minuscolo con un negozio di souvenir già visti e rivisti e un bar che vende panini congelati. Il nostro ultimo volo Qantas per Cairns parte alle 15.30, siamo dalla parte giusta dell’aereo per dare un’ultima occhiata a Uluru dall’alto, notando come sia proprio un puntino nell’immensità della prateria. Arrivati dopo due ore e mezza a destinazione spostiamo avanti le lancette di mezz’ora per il cambio di fuso orario e per una volta sfruttiamo il trasferimento già prenotato al Novotel Oasisi Resort, un grosso albergo con piscina che, insieme all’immancabile bottiglia di vino in camera, ci offre un buono da 30 dollari che sperperiamo subito in una cena mediocre.

30 SETTEMBRE

Il nostro sonno stanotte è stato disturbato dal canto ininterrotto e frenetico di uccelli insonni, appena svegli andiamo sul terrazzo della camera per individuare i colpevoli e vediamo centinaia di pipistrelli appesi a testa in giù sugli alberi proprio davanti alla nostra finestra, la loro presenza non è rassicurante ma hanno il grande merito di mangiare le zanzare per cui ci tranquilliziamo subito. Noi non amiamo le escursioni organizzate, preferiamo essere autonomi e muoverci liberamente senza essere intruppati in comitive con orari rigidi da rispettare a tutti i costi, ma ci sono posti in cui è obbligatorio prendervi parte e Cairns è uno di questi. La nostra prima esperienza in questo senso è l’escursione odierna alle Frankland Islands, l’unica che abbina la crociera fluviale alla visita della barriera corallina. Il pullman dell’organizzazione ci viene a prendere alle 7.20 e dopo aver fatto il giro di tutti gli alberghi della zona per raccogliere gli altri partecipanti arriviamo dopo venti minuti all’imbarco; durante il viaggio siamo intrattenuti dall’illustrazione di come si svolgerà la giornata in doppia lingua inglese e giapponese. La prima mezz’ora trascorre nella navigazione del fiume Mulgrave che si insinua in mezzo a una umida ed estesa foresta pluviale, il tempo grigio rende ancora più salmastra l’acqua che si mischia alla foce con quella dell’oceano creando un colore mai visto prima. La seconda mezz’ora passa nel raggiungere l’isola, all’orizzonte si profilano intanto cupi nuvoloni che non fanno ben sperare ma gli accompagnatori continuano a dire che il tempo sarà spettacolare e noi facciamo finta di credergli.

Sbarcati a Frankland Islands scopriamo con piacere che non c’è traccia di chioschi di pacchiani souvenir o puzzolenti fast food ma solo sabbia e vegetazione, sulla spiaggia troviamo distese di coralli bianchi e grosse conchiglie trascinate dal mare. Come prima cosa facciamo la visita di mezz’ora a bordo di una barca con il fondo di vetro che ci permette di dare una sommaria occhiata alla barriera corallina, questo giardino sottomarino tanto meraviglioso quanto fragile, popolato tra le altre cose da bizzarri funghi marini, spugne simili al cervello umano e abitato da pesci dai colori sgargianti che si infilano in ogni anfratto spaventati dal nostro passaggio; purtroppo l’acqua è un po’ torbida e non riusciamo a vedere chiaramente tutta la varietà di specie e colori che sta a pochi centimetri sotto di noi. Appena finito ritorniamo sott’acqua ma stavolta con tanto di maschera, boccaglio e pinne per l’immersione guidata di snorkeling, cerchiamo di nuotare accanto ai tanti pesci che incontriamo (alcuni davvero grossi) ma sono poco amichevoli e scappano a tutta velocità. È già arrivato mezzogiorno e ci serviamo al buffet freddo e molto buono che viene allestito sulla spiaggia, per fortuna il cielo si sta rasserenando e veniamo ustionati dai primi raggi della giornata nonostante abbiamo messo la protezione 30, in quanto qui le radiazioni solari, a causa della rarefazione dell’atmosfera e della vicinanza con il buco dell’ozono, sono molto più forti e pericolose. Da qui in avanti siamo padroni di impiegare liberamente il tempo fino alla partenza, io non sono soddisfatto della vista della barriera di questa mattina, quindi faccio snorkeling in solitaria in una spiaggia vicina dove l’acqua è molto più limpida. L’uscita del sole migliora senza dubbio il quadro ma ora i colori dei pesci, dei coralli e della sabbia mi stordiscono con la loro vivida bellezza, ho anche il privilegio di vedere nuotare a pochi centimetri da me due gigantesche tartarughe che sono tanto lente e impacciate sulla terraferma quanto veloci in acqua. Alle 15 la gita finisce, si torna indietro per lo stesso percorso, con la differenza che dalla foce del fiume in avanti la barca va molto più piano perché per la bassa marea sono emerse in mezzo al fiume delle dune di sabbia su cui i gabbiani banchettano felici. Nonostante le nostre perplessità iniziali siamo molto contenti della giornata appena trascorsa, il tempo ci ha dato ancora una volta una mano e gli animatori sono stati gentili, disponibili e cosa ancor più importante non invadenti. Neanche il tempo di lasciare lo zaino in camera e siamo già in giro per Cairns, tra le sue lunghe e dritte strade ricche di negozi, alberghi e ristoranti, in cui la vita notturna comincia ad animarsi. Al Night Markets troviamo una bottega che vende thè tipico australiano tra cui quello all’eucalipto che incuriositi compriamo per assaggiare al ritorno in Italia, e mangiamo a un self service cinese che offre pesce di tutti i gusti. Mentre torniamo in albergo e per noi la giornata sta per finire, inizia quella dei pipistrelli che volano veloci sopra di noi in cerca del primo cibo.

1 OTTOBRE

Siamo pronti per la nostra seconda escursione organizzata, alle 8 facciamo la conoscenza di Sergio (italiano di Nettuno da quindici anni in Australia), la nostra guida e autista che ci accompagnerà, insieme a due coppie francesi e giapponesi con rispettive guide in lingua madre, alla scoperta del Wooroonooran National Park, un parco a sud di Cairns che è la casa della foresta pluviale più estesa d’Australia. Il programma prevede come prima cosa la visita alle Josephine Falls, raggiungibili attraverso un breve sentiero tra la foresta con il sottobosco intricato e misterioso, in cui vediamo una pianta con le foglie a forma di cuore che in realtà sono urticanti e se toccate provocano dolori lancinanti alla pelle che durano per una settimana. L’ambiente è popolato principalmente da insetti, ci sono varie specie di formiche molto grandi tra cui una varietà dal colore verde, molto aggressiva e dal sapore di limone come scopriamo strofinandone una tra le dita. Arrivati alle cascate, che non sono nella loro migliore forma visto che ci troviamo nella stagione secca, ci sarebbe la possibilità di fare il bagno nelle piscine naturali con tanto di roccia che forma uno scivolo, ma è appena scoppiato un violento acquazzone (alla faccia della stagione secca) che ci fa tornare di corsa al pulmino. Aspettiamo la coppia giapponese che si è cimentata con il bagno e ripartiamo alla volta di un’azienda, non accessibile ai turisti che non sono accompagnati da enti autorizzati, dove vivono coccodrilli allevati per il commercio della pelle insieme ad altri esemplari catturati e mantenuti qui fino alla morte, che può avvenire anche dopo cento anni. Gli esemplari più grossi stanno da soli in piccoli bacini artificiali dall’acqua torbida, non li vedremmo neanche se Sergio non li stuzzicasse con una foglia di palma facendoli uscire a una velocità spaventosa a fauci spalancate. Quelli più piccoli, che saranno uccisi a circa tre anni di età per la vendita della loro pelle pregiata, sono invece tutti insieme in un’area più grande a crogiolarsi al sole, inconsapevoli del triste destino che li aspetta. Oltre a questi rettili vediamo la bellissima scena di una mamma canguro con il suo piccino che si infila nel marsupio, un gruppo di agili e affamati dingo e il casuario, un uccello simile all’emu che rappresenta l’anello intermedio di sviluppo con i rettili e che è in grave pericolo d’estinzione. Per pranzo ci fermiamo al Roscoe’s Plaza di Innisfail dove mangeremo al buffet finalmente italiano che, considerando di essere all’estero, non è per niente male anche se gli australiani non conoscono il concetto di pasta al dente. Per digerire non c’è di niente di meglio che una bella passeggiata al Mamu Canopy Walk, dove si percorre una struttura che permette di camminare tra le cime di alberi che possono raggiungere anche i mille anni di età e altezze considerevoli finché non si arriva a una torre alta 37 metri, dalla quale si ha una vista mozzafiato della foresta pluviale e del fiume sottostanti. L’aria è molto umida anche se non piove, l’ultimo appuntamento della giornata è ai Babinda Boulders, posti tra i due monti più alti del Queensland (il Bartle Frere e il Bellenden Ker) di cui però non vediamo la cima perché per la maggior parte dell’anno è coperta da nubi. Prima di arrivare a destinazione merita una menzione il piccolo paese di Babinda la cui unica attrattiva è la pioggia: appena entrati è riprodotto un pluviometro che riporta gli anni in cui è piovuto di più (solo che nel 2010 sono caduti quasi otto metri di pioggia), gli abitanti vivono per vincere il torneo della pioggia che disputano insieme ad altre quattro cittadine della regione e che negli ultimi quindici anni è sfuggito loro solo una volta di misura; il trofeo, uno stivale in similoro, è esposto con orgoglio nell’ufficio postale ed è ben visibile dalla strada. E sono soddisfazioni… Eravamo rimasti ai Babinda Boulders, un’area in cui i torrenti della zona formano cascate e piscine naturali, in una di queste facciamo il bagno, sebbene sia uscito il sole l’acqua è ghiacciata ma ci tuffiamo volentieri per sfuggire alle fastidiossime mosche che scopriamo essere in grado anche di pungere. La caratteristica di questo posto sono le rocce dalle forme rotonde perfettamente levigate dall’acqua che durante la stagione delle piogge ricopre tutto. Alle 17.30 ritorniamo in albergo, salutiamo il nostro accompagnatore Sergio che ringraziamo per la simpatica compagnia e per la competenza e facciamo l’ultimo giro per Cairns; per strada c’è un sacco di gente perché è il compleanno della Regina Elisabetta d’Inghilterra che in Australia è festa nazionale. Non potevamo concludere le cene australiane se non con l’ennesimo hamburger con patatine fritte che mangiamo in un locale sulla passeggiata a mare chiamata Esplanade, dopodiché torniamo in camera per l’operazione più triste di ogni vacanza: fare le valigie per il ritorno.

2 OTTOBRE

Siamo all’aeroporto di Cairns in attesa del nostro volo Cathay che, dopo 30 ore compresa l’attesa a Hong Kong e un non previsto passaggio a Brisbane che scopriamo solo al momento dell’imbarco, ci riporterà in Italia. Pensiamo a tutti i posti meravigliosi che abbiamo visto, per cui abbiamo preso aerei, treni, traghetti, abbiamo guidato per migliaia di chilometri senza avere nessun tipo di rimpianto; anzi, ne è valsa sicuramente la pena. Siamo in preda alla nostalgia che la fine di ogni viaggio porta con sé, accentuata dall’amara consapevolezza che sarà quasi impossibile tornare in un paese così lontano e con ancora tanto da scoprire, anche se ci piace pensare che non sarà così e che un giorno potremo tornare.

Chi volesse saperne di più può scrivere a matteogiusto@yahoo.it.



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