Vi presento i naviganti teatranti di Meeting the Odyssey

Li ho incontrati in Estonia e in Sardegna, dal Baltico al Mediterraneo
Syusy Blady, 05 Set 2014
vi presento i naviganti teatranti di meeting the odyssey
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Quando per caso vuol dire seguire un filo logico che ti fa incontrare eventi, persone e luoghi… a me è successo con Meeting the Odyssey, un progetto itinerante di teatro sociale che andrà avanti fino al 2017, coinvolgendo 11 paesi lungo le coste dell’Europa, dal Baltico al Mediterraneo. La loro idea è esplorare il concetto di Europa attraverso la riscrittura contemporanea dell’Odissea, partendo dalle tesi del mio amico Felice Vinci che colloca nel Mar Baltico il viaggio di Ulisse. Il viaggio è un dialogo, per individuare le radici comuni tra popoli diversi e il senso di appartenenza alla Comunità Europea.

Succede che nel mio recente viaggio in Estonia all’isola di Saremaa, dove sono andata proprio con Felice Vinci lo scorso giugno, abbiamo visto una barca, un veliero, con la scritta Odyssey. Ci siamo incuriositi e abbiamo chiesto chi fossero. Erano proprio loro, questo gruppo di naviganti teatranti che si sarebbero dati il cambio ad ogni tappa in un’Odissea teatrale tra i mari Baltico e Mediterraneo. Quando poi in agosto sono andata in Sardegna, in Ogliastra ad Ulassai, per partecipare al Festival dei Tacchi con la mia conferenza spettacolo sulla Dea Madre e i misteri per caso, ci siamo rincontrati e riconosciuti! Erano di nuovo loro, il gruppo teatrale Cada Die Teatro, che ha organizzato questo grande evento europeo. Giancarlo Biffi, l’ideatore, che come me ha fatto il DAMS a Bologna, che come me ha fatto teatro e ricerca sul campo “di un certo tipo” ci racconta qui l’esperienza incredibile di un viaggio per l’Europa del nord. Ci dimentichiamo quando pensiamo all’Europa di Londra, Parigi o Berlino che c’è un’Europa fatta di molti altri paesi, che rischiamo di non conoscere bene e che questa iniziativa, invece, cerca di avvicinare.

Syusy

Meeting the Odyssey: San Pietroburgo

Di Giancarlo Biffi

Tutto corre veloce a San Pietroburgo: s’affrettano non curanti le persone lungo la Prospettiva Nevski; scorrazzano rapide le auto, senza alcun divieto che le possano intimorire; sfrecciano i treni, filano le scale mobili che conducono alla metropolitana. Tutto corre veloce, anche lo sguardo nell’afferrare volti, atteggiamenti, consuetudini di una città viva, pulsante, ricca di passato e storia.

Galoppano i pensieri per un viaggio intenso, un viaggio che si muove nello spazio e nel tempo che in tre anni ci porterà da San Pietroburgo ad Itaca. Con “Meeting the Odyssey”, il progetto itinerante che ci vede impegnati come Cada Die Teatro insieme ad altre dieci realtà artistiche di tutta Europa. Un viaggio che ci spingerà dall’assedio di Troia sino ai luoghi dove la guerra ha ridisegnato innaturali confini. Un viaggio per comprendere, per rendersi conto che siamo tutti cittadini del mondo senza frontiere e senza bandiere, che i bisogni, i doveri e la necessità di diritti e uguaglianza è la medesima a qualsiasi latitudine dell’emisfero.

Lasciata Ilio, Odisseo ci ha messo 10 anni per giungere ad Itaca. Noi ne impiegheremo solo tre, ma non saranno meno intensi di quelli del principe Acheo. Forse sulla nostra rotta non incroceremo mostri con un occhio solo e dalla forza smisurata come Polifemo; ma sono certo che di umani che guardano il mondo con uno dei due occhi sempre chiuso, concentrati sul come utilizzare la loro potenza economica per sopraffare e dominare, ne incontreremo parecchi.

Non è un caso che questo viaggio parta proprio da San Pietroburgo, una grande metropoli situata oltre i confini della Unione Europea. Un modo questo per ribadire che l’arte, la cultura non hanno frontiere, che i veri legami tra i popoli non li crea la geografia del territorio ma il continuo fare e agire degli uomini. E non è neppure un caso che alla presentazione alla stampa di San Pietroburgo del “Meeting the Odyssey” ci sia il grande mimo russo Slava Poluin, presente per ricordarci che esattamente 25 anni prima, proprio di questi giorni, si concretizzava quel suo “folle” sogno, conosciuto come “Mir Caravan” (Caravan della Pace): un festival di teatro itinerante che portò più di 130 artisti per sei mesi a viaggiare e a presentare spettacoli da Mosca a Parigi. Un viaggio che mise in crisi frontiere e confini tre mesi prima della caduta del muro di Berlino. Anticipatore di quel desiderio di libertà e speranza che nel 1989 incendiava tutta Europa.

La barca su cui stiamo per salpare e che da San Pietroburgo ci porterà a Hanko, in Finlandia, e nei prossimi anni sino al Mediterraneo, si chiama “Hoppet”. Vuol dire Speranza. Ed è proprio con questo sentimento che inizia il nostro il viaggio, in forte sintonia e continuità con quella straordinaria avventura di 25 anni fa che Slava, con il suo esserci moralmente a fianco, ha voluto suggellare. Una continuità di cui si ha bisogno nell’Europa di oggi, dove si rivela un’illusione l’idea che le frontiere non esistano più o che passare da un Paese all’altro sia più semplice e normale di un tempo. Un’illusione che svanisce nell’incontro con la gente. Con i 15 giovani attori russi insieme ai quali Alessandro Mascia e io presentiamo le nostre Instant Performance nelle strade luminose delle notte bianche. Con i passanti sempre di fretta. Con le loro storie. Capiamo dunque che di frontiere ne esistono ben altre. E che, seppur meno visibili, risultano non meno pericolose e odiose. Sono le frontiere dell’economia, dell’egoismo, di un falso identitarismo. Le bandiere sventolate a coprire violenze e sopraffazione, a fare qualcuno sempre più ricco e tanti altri sempre più poveri.

Provate a dire ad un bambino in una spiaggia dinanzi al mare o più semplicemente davanti ad una pozzanghera di non metterci i piedi dentro, di non oltrepassare la line che separa l’asciutto dal bagnato: occorrerà trattenerlo stringendogli forte la mano, altrimenti è certo che ci ficcherà dentro i piedini con naturalezza. Ecco tutti i teatranti del mondo sono una storia, sono Slava Polunin, sono quel bambino. Di fronte al mare, alla pozzanghera, alla possibilità di fare nuovi incontri, nuove esperienze, l’attore non riesce a scorgere il confine, il limite. Ma esclusivamente una grande opportunità, da non lasciarsi sfuggire. Sa bene che nessuna frontiera ha fermato e mai potrà fermare una storia. E noi, che ben lo sappiamo, ci siamo imbarcati in un lungo viaggio proprio per raccontarla, questa storia.

Sasha, avvolto da un drappo nero, appare all’improvviso sotto le mura della Fortezza di San Pietro e Paolo. È il segnale che qualcosa sta accadendo: la instant performace ha avuto inizio. Ora niente e nessuno la può fermare. Neppure i poliziotti che domandano che cosa stia accadendo. L’azione teatrale senza clamore s’infila fra la gente, irrompe silenziosa occupando lo spazio e determinandone i contenuti; modificando la funzione del luogo e provando a trasformarlo in un unico spazio scenico, popolato da attori e da spettatori che ignari si trovano ad incontrare qualcosa che non avevano previsto. In pochi minuti, a Sasha si aggiungono altri attori, sorti all’improvviso da chissà dove. Quindici solitudini alla ricerca di un posto dove stare, convinte di non aver bisogno di nulla, di nessun legame, di nessun aiuto. La stessa convinzione che albergava in Polifemo, sino all’arrivo di Ulisse.

Sette azioni sceniche rappresentate tra giardini, parchi e strade di San Pietroburgo. Per combinare il teatro con la vita, per accompagnare gli abitanti della città ad assistere a qualcosa d’insolito. L’inconsapevole pubblico, sorpreso, cerca di capire che accade. Ma è sopraffatto. Gli attori, pur inferiori di numero, lo circondano, obbligandolo ad una reazione. C’è chi tira diritto, chi finge di non vedere, chi è obbligato a fermarsi trattenuto dal figlio e chi si arresta curioso ad osservare.

In seguito, le singole storie si compongono e la gente resta a guardare, ad ascoltare nuove vicende che sfuggite dall’antica Odissea, raccontano altre novelle odissee: di ciclopi che incontrano l’amore, di solitudini sconfitte, di solitarie vite rinnovate in cammini collettivi.

Lo sforzo si fa grande: attraversare mari, confini, per riunire un mondo tanto variegato in un’unica grande collettività, diventa una fatica ciclopica. Il pubblico ride, si diverte, comprende che non è semplice aggregarsi, fare comunità. Ma sostiene e incoraggia i nuovi ciclopi in questo immane sforzo. Poi, com’è iniziato tutto termina. Altre avventure chiamano. Lo spettatore, dopo l’applauso, si ritrova solo, con il bisogno di raccontare, allora tentiamo di cogliere l’attimo: dopo le nostre, si prova a raccogliere le loro storie.

Come quella Nastia, che viene da Nowosibirsk, città siberiana che in cento anni è passata da 22 mila agli attuali un milione e mezzo di abitanti. O di Liza, laureata in storia dell’arte: moscovita, che ha conosciuto i comunisti solo quando è venuta in Italia. O di Marija che per quanto avversi il presidente Putin, chiama “nostri fratelli” i russi d’Ucraina.

Intanto i telegiornali sfogano la rabbia di una nazione. Non comprendendo le parole, osservo le immagini che scorrono, istantanee crude che le nostre TV non mostrano: corpi dilaniati, membra lacerate, carni strappate e tanto sangue. Sangue dappertutto.

È propaganda? È realtà? Non so rispondere. Mi chiedo solo cosa possiamo fare noi attori per contrastare questo tragico delirio. E mi rispondo che possiamo solo continuare a fare quel facciamo: costruire ponti di storie, passate e future che aiutino a disegnare, con colori immaginari, un domani ben differente. Forse è poco ma è questo quello che sappiamo fare.

E poi c’è Federico, militare impegnato a sorvegliare la piazza di fronte all’Hermitage. Dopo aver controllato le nostre borse, confida di vivere in Italia, che figlio di cittadini russi si trova in Russia per svolgere il servizio militare. “Ma fra quindici giorni tornerò nella mia Firenze”. E s’illumina.

Ma non indugiamo, la goletta Hoppet sta per salpare, le vele sono tese e il vento è propizio. Commossi, lasciamo San Pietroburgo. Insieme ai colleghi italiani di Scarlattina Teatro e i partner finlandesi, estoni, danesi e cechi. Cinquecento persone sotto la pioggia ci salutano. “Spasiba!”, gridiamo. L’isola di Eolo ci aspetta. Via verso la Finlandia, “Meeting the Odyssey” continua la sua avventura. Altre nazioni ci reclamano, altre storie desiderose di essere ascoltate ci attendono.



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