Un paese autentico ricco di atmosfera

In Laos non ci sono monumenti sensazionali ma i paesaggi sono incantevoli e l’atmosfera ti entra nella pelle. Il suo lungo isolamento lo rende veramente interessante da visitare, indenne agli effetti “devastanti” del turismo di massa. La gente è mite e cordiale, sempre disposta ad accogliere lo straniero; i bambini nei villaggi ancora si...
Scritto da: mapko64
un paese autentico ricco di atmosfera
Partenza il: 25/12/2004
Ritorno il: 11/01/2005
Viaggiatori: da solo
Spesa: 2000 €
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In Laos non ci sono monumenti sensazionali ma i paesaggi sono incantevoli e l’atmosfera ti entra nella pelle. Il suo lungo isolamento lo rende veramente interessante da visitare, indenne agli effetti “devastanti” del turismo di massa. La gente è mite e cordiale, sempre disposta ad accogliere lo straniero; i bambini nei villaggi ancora si stupiscono per il passaggio del visitatore. Nel nord le minoranze etniche mantengono vive le tradizioni: il loro modo di vivere è rimasto quello delle generazioni passate, in particolare gli splendidi costumi delle donne. La navigazione lungo i fiumi, il maestoso Mekong ed il meraviglioso Nam Ou, ed i paesaggi tropicali delle isole del Si Pha Don offrono spettacoli naturali incontaminati ed emozionanti. Luang Prabang è una città affascinante ma qui più che altrove si avverte l’effetto dell’avvento del turismo. I visitatori sono in crescita insieme ai prezzi, fervono i lavori di ammodernamento. La maggior parte dei templi non è antica, ma frutto di rifacimenti dovuti alle passate distruzioni; il fascino però è intatto ed il misticismo della città si sente nell’aria. Il Laos va gustato con calma, adeguandosi ai ritmi locali, per cogliere quella atmosfera “primordiale” che è il filo conduttore del viaggio. In due settimane in solitaria penso di esserci riuscito e ne sono soddisfatto. Molto più difficile, invece, è riuscire a comprendere la condizione economica del paese, considerato il più povero della regione. In realtà ho incontrato più arretratezza che miseria e l’arretratezza, purtroppo, è anche la ragione per cui sopravvivono le tradizioni. In questo dannato mondo moderno non sembrano esserci alternative tra il mostruoso modello occidentale e l’arretratezza dei paesi poveri. In Laos non ho visto gli spettacoli di miseria delle metropoli del terzo mondo, ho incrociato pochissimi mendicanti. Non ho visto neppure gli impressionanti mutilati della Cambogia; non ho avvertito la tensione di una dittatura militare come accade in Birmania. Mi è parso che uno degli ultimi regimi comunisti al mondo sia riuscito a mitigare l’effetto della tirannia con la dolcezza laotiana. La bandiera rossa con falce e martello accanto ad un Budda è sintomatica di questa situazione, ma forse sono stato sottilmente ingannato! Per quanto riguarda gli aspetti pratici del viaggio, una volta che ci si è abituati alla mentalità locale, si trovano trasporti “funzionanti” e tante meravigliose possibilità, specie per i viaggiatori zaino in spalla. Sabai dii Laos !!!! Ed ora il diario di viaggio. In Laos ho seguito il seguente itinerario: Vientiane – Luang Prabang – Luang Namtha – Muang Sing – Nong Khiaw – Muang Ngoi – Luang Prabang – Vientiane – Pakse – Champasak – Si Pha Dom – Pakse – Chong Mek (Thailandia) 26 dicembre: Vientiane Raggiungo il Laos volando con la Thai Airways via Bangkok. All’aeroporto di Vientiane è possibile ottenere il visto di 15 giorni come visitatore (30 dollari la spesa). Nel modulo da compilare mi colpisce la voce “razza”, una sorta d’ossessione per un paese ricco di etnie differenti; dichiaro una fantomatica “razza italiana”. Cambio 100 dollari in kip, la valuta locale; un dollaro corrisponde circa a 10.000 kip e mi vengono consegnate due voluminose mazzette di banconote da 5.000 (fino a pochi anni fa si trattava del taglio più grande mentre ora ne esistono fino a 20.000 ma all’aeroporto evidentemente non ne sono forniti). Dall’Italia ho prenotato via e-mail tre voli interni con la Lao Aviation. Nella hall dell’aeroporto mi rivolgo ad uno sportello informazioni per acquistare subito i biglietti; la ragazza si offre di occuparsi lei dell’acquisto ma mi viene caricata una commissione di 10 dollari che avrei potuto tranquillamente evitare visto che l’ufficio della Lao Aviation è proprio di fronte. In compenso sbrigo rapidamente anche questa operazione entrando in possesso di tutti i miei biglietti (la prenotazione per e-mail ha funzionato!). Di fronte all’aeroporto mi aspettavo la solita ressa di procacciatori ma invece tutto è tranquillo e ci sono solo dei taxi. Il governo, infatti, ha deciso di disciplinare l’accesso ed i trasporti per gli aeroporti: l’unica possibilità per andare in città (a meno di uscire dall’area dell’aeroporto) è quella di prendere un taxi ufficiale pagando cinque dollari nell’apposito ufficio. Il prezzo è veramente esorbitante per gli standard locali e almeno in questo caso sono finiti i tempi delle contrattazioni selvagge! Mi sistemo alla “Thawee Guesthouse”, ospitata in una bella casa di legno nei pressi del museo della rivoluzione. La camera è spartana, con il bagno in comune, ma dotata di ventilatore e costa solo sei dollari. Ormai si è fatta l’ora di pranzo e, nonostante il fuso e la notte insonne in aereo, l’entusiasmo per il nuovo paese che mi aspetta mi spinge ad uscire subito all’esplorazione della città. Fa un caldo notevole, specie per me che provengo dall’inverno europeo. Raggiungo Nam Phou Place, circondata da edifici abbastanza insignificanti e al centro una fontana con un giardino ben curato. L’impressione è quella di trovarsi in una piazza di provincia, invece che nella piazza centrale della capitale del paese. Su un lato si trova la “Scandinavian Bakery” che mi tenterà più volte con i suoi dolci e croissant. Proseguo la passeggiata lungo Setthathilat, una delle strade principali di Vientiane, gettando un’occhiata in un vicolo alla moschea di una piccola comunità islamica, fuggita dalla follia omicida dei khmer rossi cambogiani. Proprio di fronte al palazzo presidenziale, attraverso Lane Xang Avenue, gli champs elysees di Vientiane, chiusi in lontananza dalla mole del Patoumxai, versione locale dell’Arco di Trionfo parigino. Il Wat Sisaket è il monastero più antico di Vientiane, l’unico ad essere sopravvissuto al saccheggio operato nell’ottocento dai siamesi. Nel giardino esterno mi soffermo ad ammirare l’affascinante biblioteca, dove un tempo erano conservati i libri sacri. Entrato nel grande chiostro lo spettacolo è di notevole suggestione: le mura delle gallerie, coperte da tetti di tegole, sono piene di nicchie con centinaia di piccole statue di Budda. Il motivo è ripreso all’interno del sim (sala delle ordinazioni) centrale, con le pareti riccamente affrescate. Sull’altro lato della strada, privo del fascino del suo vicino, sorge l’Haw Phaw Kaew; una volta era il tempio reale mentre oggi è stato trasformato in un museo. Il massiccio edificio, ricostruito nel novecento, ospita un’interessante collezione di statue di Budda. All’esterno si trovano quelle più grandi in bronzo, con il Budda rappresentato nelle varie “posizioni” (caratteristica quella dell’invocazione della pioggia, in piedi con le braccia allungate lungo i fianchi). La collezione prosegue all’interno del sim dove colpisce una curiosa rappresentazione con Budda seduto all’europea con le gambe penzoloni! Proseguendo per un bel pezzo lungo Setthathilat, raggiungo Wat Simuang, uno dei monasteri più popolari della città. La sala fumosa è affascinante, con un soffitto di legno pieno di specchietti mentre porte e finestre sono intagliate con teste di elefanti e divinità induiste. Le donne pregano davanti ad un gigantesco altare fallico, coperto da un telo e circondato da una corona di luci al neon. Molte recano un piatto con offerte di frutta, incenso e candele. Una statuetta di Budda, trasformata ormai in una pietra levigata, è poggiata sopra un cuscino. Le ragazze inginocchiate vi pregano davanti, cercando poi di sollevarla tre volte sopra la testa; se ci riescono, il loro desiderio sarà esaudito ma, più che una preghiera, sembra tutto un gioco. Gli uomini pescano da una scatola una bacchetta con un numero al quale corrisponde un foglietto con un auspicio. Vicino al monastero sorge una buffa statua del re Sisavang Vong: un po’ “peppone”, un po’ monarca, un po’ socialista e un po’ orientale, sembra un personaggio uscito dai fumetti. Per fare ritorno in centro percorro il lungofiume. La stagione secca ha fatto indietreggiare le acque di centinaia di metri ed in certi punti il Mekong neppure si scorge. Il terreno liberato è sfruttato per le coltivazioni. Un albergo gigantesco si erge come una cattedrale di cemento nella vasta distesa della banchina sterrata. Un cartello segnala che l’invasione è solo cominciata: un polo turistico con tanto di shopping centre sorgerà in quest’area ma per la verità non si vede ancora il minimo accenno all’inizio dei lavori. In centro completo il giro dei monasteri con altri wat lungo Setthathilat, concludendo la giornata con una cena al “Sabai Dii”. La CNN trasmette le drammatiche notizie dello tsunami che ha colpito tanti paesi affacciati sull’oceano indiano e mi affretto quindi a telefonare a casa in un internet cafè per tranquillizzare tutti, visto che mi trovo in un paese senza sbocchi al mare. 27 dicembre: Vientiane – Luang Prabang Alle tredici ho il volo per Luang Prabang e approfitto quindi della mattina a disposizione per completare l’esplorazione di Vientiane con il mercato del mattino e il That Louang. A poche decine di metri dalla guesthouse sorge la notevole mole della Casa della Cultura, un edificio di recente costruzione che ormai sovrasta per dimensioni il Museo della Rivoluzione subito di fronte. Passeggiando verso il mercato, in una rotonda in mezzo allo scarso traffico della città, mi colpisce uno stupa nero dall’aspetto antico: si tratta del That Dam, secondo una leggenda la tana dove dorme un mitico serpente a sette teste. Superata l’ambasciata americana, finalmente raggiungo Lane Xang Avenue con la mole del Patouxai sullo sfondo. Il Talat Sao, il mercato del mattino, è il più grande della città e mi diverto a girare tra le sue bancarelle. In tuk tuk raggiungo il That Louang, tempio nazionale; è mattina presto ed in giro non c’è quasi nessuno, tranne un paio di monaci desiderosi di fare conversazione. Nell’attesa dell’apertura, m’infilo in un wat moderno dove è in corso la preghiera. Mi siedo anche io per terra all’orientale con le gambe di fianco (posizione scomodissima per le mie articolazioni occidentali). In prima fila ci sono gli uomini, dietro le donne come sempre molto più numerose. Tutti indossano una fascia su una spalla incrociata alla vita: gli uomini quadrettata, le donne fantasia. Recano una ciotola argentata con le offerte, soldi e frutta, insieme a coppette con candeline. Davanti alle statue di Budda siedono i novizi con il monaco adulto al centro, del tutto indifferente a ciò che accade. Terminata la preghiera collettiva, i fedeli si alzano e raggiungono una tavola dove depongono dentro le ciotole le offerte per i monaci. Il tutto molto ordinatamente. Alle otto del mattino sono il solo visitatore del That Louang. All’ingresso mi accoglie una classica bandiera rossa con falce e martello (che contrasto con la religiosità buddista del posto). Il monumento è molto curato con tanto di prato all’inglese. L’oro della selva di stupa affusolate brilla sullo sfondo del cielo azzurro. La pace e serenità del luogo m’inducono ad alcune riflessioni: la capitale del Laos mi è parsa piacevole e dignitosa, senza quelle scene di miseria osservate in altri paesi. Una nuova corsa in tuk tuk mi riporta alle bancarelle del Talat Sao dove mi gusto un riso con pollo e verdure. I cibi sono già pronti ed in bella mostra, così per scegliere mi basta indicare e non ho il problema di farmi capire. Ormai è giunta l’ora di recarmi in aeroporto. Il volo per Luang Prabang è fissato per le tredici ma al mio arrivo mi offrono la possibilità di imbarcarmi su quello precedente. Al check in non c’è l’ombra di un computer ma tutto procede in modo rapido ed efficiente grazie ad una serie di liste cartacee. La Lao Aviation ha una cattiva reputazione ma la situazione sta cambiando rapidamente, grazie all’avvento del turismo. Il vettore è un moderno ATR ad elica e fila tutto liscio. Ho solo bagaglio a mano e salito a bordo infilo il mio zaino nel vano libero destinato al carrello. A Luang Prabang sono costretto di nuovo a ricorrere ad un taxi ufficiale, cinque dollari la spesa. Mi sistemo nella centralissima “Heritage Guesthouse”, in una bella camera con bagno. La pensione sorge in una traversa di Xiang Thong, la strada principale che percorre la penisola tra i fiumi Mekong e Nam Khan dove sorge la città. La strada è chiamata scherzosamente falang street (strada degli stranieri) perché è il luogo predestinato allo “struscio” dei turisti. Le case coloniali francesi sono state perfettamente restaurate ed ospitano un gran numero di locali. In un’agenzia turistica m’informo sui mezzi di trasporto per raggiungere il nord del paese. Scopro che esiste un bus notturno diretto fino a Luang Namtha e quindi acquisto il biglietto per domani sera. Inizio l’esplorazione della città dal Wat Pa Phai, il monastero che sorge subito a fianco della mia guesthouse. Il sim è un piccolo gioiello; le tre porte sono splendidamente intagliate, quella di mezzo con una divinità che sembra ballare sopra un leone, quelle laterali con un’altra figura sopra un curioso animale a tre teste. La porta centrale è racchiusa da una cornice che sembra lei stessa un tempietto, con inserzioni di vetri colorati. Completa l’effetto un affresco con scene tipicamente orientali. Percorso il tratto più animato di falang street, raggiungo il palazzo reale. Entrato nel recinto, subito incombe sulla destra la mole dell’Haw Pha Bong, tempio di recente costruzione destinato ad ospitare il Pha Bang, la statua di Budda più venerata del Laos. Il tempio luccica per la sua doratura mentre due naga a sette teste fanno la guardia sulle balaustre della scalinata. All’interno tutto è pronto per ospitare la statua, compreso un suntuoso baldacchino ma questa volta l’oro è eccessivo e l’effetto un po’ kitch. In fondo al giardino sorge l’edificio del palazzo reale, un incrocio di architetture orientali e occidentali, costruito come residenza del re Sisavang Vong all’inizio del novecento. La presenza di un museo dedicato alla passata monarchia è veramente curiosa in un paese comunista. Dopo il primo periodo più oltranzista, nel quale i reali morirono nei carceri “rieducativi” dove furono rinchiusi, il regime ha capito che non si possono tagliare del tutto i ponti con il passato senza perdere l’identità nazionale e questo museo ne è una dimostrazione. Una saletta ospita la statua del Pha Bang, mentre le pareti rosse della sala del trono sono ricoperte da una moltitudine di figurine formate da vetri colorati. Terminata la visita, riprendo falang street in direzione della punta della penisola. Lungo la strada visito un paio di monasteri, il Wat Saen e il Wat Sop, dall’aspetto moderno ma ugualmente affascinanti. Per il tramonto decido di salire sulla collina di Phou Si. Raggiungo la strada che corre lungo il Nam Khan; le acque basse della stagione secca consentono la coltivazione delle sponde. Il sentiero che sale sulla collina supera prima una grotta con un’impronta del Budda e poi una grossa statua distesa in una rientranza della roccia. In cima lo stupa, il That Chomsi, è miserello e lo spazio ristretto, stracolmo di turisti appostati per il tramonto. Si gode una bella vista sulle montagne e i due fiumi ma la penisola della città è nascosta. Il sole calando si riflette nelle acque del Mekong. Scendo sul lato opposto della collina, raggiungendo il teatro nel recinto del palazzo reale per assistere al balletto (sei dollari il biglietto). Prima dell’inizio dello spettacolo, vengono legati ai polsi di tutti gli spettatori dei cordoncini bianchi. Il pezzo forte è tratto dal Ramayana che in Laos si chiama con un altro nome. Il mostruoso re dei giganti rapisce la bella Sita travestendosi prima da cervo con le corna d’oro poi da eremita. Le maschere sono molto belle e la danza affascinante, tutta basata sulla gestualità. Le mani di Sita si torcono flessuose al suono della musica mentre gli uomini, combattendo, battono i piedi e fanno un gran chiasso. Passiamo poi nel giardino per le danze delle minoranze etniche. Un gruppo mong indossa tuniche di velluto nero; i due solisti suonano strani strumenti a fiato soffiando in un lungo bocchino che incrocia canne di bambù a forma di scimitarra. Un’altra minoranza indossa vesti blu con una fascia rossa sulla testa. Due uomini ed una donna sollevano con i denti delle grosse giare piene d’acqua e ballano con esse. Dopo lo spettacolo saggio il loro peso: riesco a malapena a sollevarle! Per cena lascio le forchette di falang street e passo alle bacchette di un locale sul lungo Mekong. Il giardino verso il fiume è pieno e così mi siedo, insieme ai laotiani, sull’altro lato della strada. Si mangia un barbeque: a tavola viene portato il braciere di acciaio e si provvede in prima persona a cucinare la carne e le verdure. Sul braciere è posto un piatto di metallo, tipo quello di uno spremiagrumi: l’acqua nell’anello esterno consente di cuocere i noodles in un momento. Durante la cena, rifletto sui cambiamenti che si stanno verificando nel paese, confrontando ciò che ho visto con quanto riportato nelle mie guide che risalgono ad alcuni anni fa. Tutto è aumentato di prezzo; i taxi all’aeroporto non si contrattano più ma si paga profumatamente la corsa a tariffa fissa. Per raggiungere Luang Namtha esiste un bus notturno diretto. Il turismo sta arrivando anche in Laos, per anni uno dei paesi più isolati al mondo, ma per ora il flusso è abbastanza limitato e, a parte gli aumenti di prezzo, si avvertono soprattutto i benefici effetti di una maggiore organizzazione. 28 dicembre: Luang Prabang Alle quattro del mattino il gong del vicino monastero mi sveglia dal sonno; segue un concerto di canti di gallo. Mi alzo presto, alle cinque, per assistere alla processione mattutina dei monaci per l’elemosina ma calcolo male i tempi: è inverno, il sole sorge solo alle sette ed, infatti, in giro non c’è quasi nessuno. Camminando su falang street m’infilo in uno dei tanti wat, attratto dal suono di una dolce melodia; nel padiglione pensile, a fianco di un grosso tamburo sospeso, due tipi percuotono xilofoni di legno e metallo. Più tardi ritroverò questi strumenti nei bassorilievi dorati del Wat Mai. I musici scendono dal padiglione e si sistemano proprio di fronte a me. Lo xilofono di legno ha un suono tintinnante mentre l’altro è veramente curioso, con i dischi di metallo disposti su una struttura ad anello. Finalmente ecco i monaci: la processione per la questua mattutina è una lunga striscia di tuniche arancione nella nebbia. Acquisto da una donnina degli involtini di foglie che recano all’interno un dolcetto gelatinoso a base di riso, procedendo anche io alla mia piccola offerta. Lo scenario è emozionante ma ormai un po’ turistico. Solo qualche laotiana attende in ginocchio il passaggio dei monaci per versare nelle loro ciotole una manciata di riso. Dopo la colazione in una bakery lungo il corso, proseguo il giro dei templi iniziato ieri. Raggiungo il Wat Mai; la facciata del sim è interamente ricoperta di bassorilievi dorati. Non saranno antichi ma l’effetto della moltitudine di figurine è gradevole. Molte scene sono tratte dalla vita di tutti i giorni: un gruppo di donne a seno nudo si dirige verso il fiume, ciascuna portando due orci all’estremità di un bastone. Su un muro è rappresentata una cerimonia religiosa con i fedeli in preghiera davanti alle divinità con il solito copricapo a punta, il tutto accompagnato da musici che suonano tamburi e xilofoni di vario tipo. Curiosa la rappresentazione di una palude con ninfee, pesci, granchi e addirittura un ippopotamo ed un coccodrillo. Alcune donne siedono su bassi seggiolini davanti a capanne a palafitta, formando un quadretto tipicamente orientale. Poco oltre si trova un mercato; mi diverto a girare per le bancarelle, in un’atmosfera finalmente autentica. Una vecchietta vende cestini per il riso; le chiedo se posso fotografarla e lei accetta ridendo e sistemandosi il cappello. Proseguendo nella direzione opposta al centro, raggiungo un altro monastero, il Wat That. La scalinata è guardata da balaustre con naga e lo stupa grigio ha un aspetto antico, più del solito sim dorato. Il mercato Dala è il principale della città ma è chiuso per lavori di ristrutturazione. Proseguo quindi dirigendomi verso lo stupa del cocomero. In una scuola su una lavagna osservo i chiari segni di una lezione di francese; ne approfitto per scambiare quattro chiacchiere con un bambino. Lezione di francese numero uno: “Ca va ?”, “Très bien”, “Comme tu t’appel ?”, … Per visitare il Wat Aham ed il Wat Visoun, si devono pagare addirittura due biglietti d’ingresso. Davanti al primo troneggiano due giganteschi alberi di baniano; nel recinto del secondo sorge lo stupa del cocomero, così chiamato per la sua curiosa forma. La mia peregrinazione per i templi mi riporta in pieno centro su falang street. Finalmente le nuvole si diradano ed esce il sole; raggiunta la punta della penisola, mi fermo sull’argine ad ammirare la confluenza dei due fiumi. Il Wat Xiang Thong è il tempio più importante di Luang Prabang; mi siedo all’ombra delle palme sulle cui foglie per secoli i monaci hanno tramandato storie e tradizioni. Il sim è una selva di tetti ricurvi che arrivano fin quasi a terra. Quanta originalità in quest’architettura orientale; quanta grazia slanciata di linee hanno questi tetti. Il rosso annerito delle tegole contrasta con l’oro della facciata decorata mentre il nero delle pareti laterali è ingentilito da una miriade di figurine dorate. Nel recinto del tempio sorgono altre interessanti costruzioni. La Cappella Rossa ospita un’antica statua di Budda disteso in uno stile tipicamente laotiano; all’esterno, sulla parete posteriore, un mosaico di figurine fatte di vetri colorati rappresenta scene di vita locale e forma uno splendido scorcio insieme all’Albero della Vita, sulla parete posteriore del sim. Vicino all’ingresso del recinto sorge l’imponente Casa del Carro Funebre. Sulle pareti esterne bassorilievi dorati rappresentano episodi del Ramayana mentre all’interno, insieme al maestoso carro funebre reale, colpisce una selva di statue di Budda poggiate sulla parete di fondo. Completo il giro dei templi con un’occhiata al Wat Khili, dove fervono i lavori di ricostruzione. Luang Prabang è veramente una città di monasteri; molti sono di recente sistemazione, poiché la storia passata di guerre e dominazioni ne ha risparmiati pochissimi. La grazia in ogni caso è quella antica e l’oro, profuso in abbondanza, non risulta quasi mai esagerato. Uno degli ultimi regimi comunisti sembra ormai tutto dedito alla cura del suo patrimonio religioso; potenza del turismo o misticismo laotiano? Questa sera alle cinque ho il bus notturno per Luang Namtha; decido quindi di sfruttare il tempo ancora a disposizione per un’escursione alla tomba di Henry Mouhot, nei dintorni della città. Sul corso noleggio un incrocio tra un side-car ed un tuk tuk: l’unico passeggero siede a fianco del guidatore con una visibilità perfetta. La prima tappa è al villaggio di Ban Phanom, apprezzato per i suoi tessuti. Al punto vendita imperversa l’effetto turismo e dopo una serrata trattativa porto via due sciarpe di seta per undici dollari. Passeggiando per le polverose strade in terra del paese, m’infilo nel cortile di una casa dove le donne sono impegnate nella tessitura. Una vecchia dipana una matassa con un rudimentale arcolaio che utilizza il cerchione di una bicicletta. Una giovane lavora al telaio e mi soffermo a seguire i suoi pazienti movimenti per produrre l’intreccio: passa i fili avanti e indietro nella trama. Con il mio moto-driver ripartiamo alla volta della tomba di Mouhot. La strada attraversa una fitta vegetazione; dopo alcuni chilometri raggiungiamo il Nam Khan. Il posto è incantevole con le acque verdissime che scorrono rumoreggiando. Henry Mouhot, lo “scopritore”di Angkor, morì di malaria all’età di 35 anni ed è sepolto qui, in una semplice tomba imbiancata a calce posta in mezzo alla vegetazione. Il pensiero corre a quei tempi di esplorazioni, quando i viaggiatori erano veramente tali e sacrificavano persino la vita alla propria passione, ma corre anche al mitico Tiziano Terzani che visitò questa tomba alcuni anni fa, come racconta in un suo libro. Sull’altra sponda del fiume spuntano due bufali per abbeverarsi. Al ritorno, poco prima della città, ci fermiamo al monastero di Santi Chedi. La costruzione è recente, ma nonostante la notevole massa di cemento ha i suoi meriti: gli interni su più livelli sono ricoperti di affreschi. Si sale fino a raggiungere una stretta sala, dalla volta a cupola, nella guglia centrale. Dalle terrazze intermedie la vista spazia ampia sulle verdi montagne che circondano Luang Prabang in tutte le direzioni. Tornato in città pranzo in un ristorante sul Nam Kham, il “Kheme Khan Food Garden”; la vista sul fiume è bella ma la porzione di salsicce non proprio abbondante mi costringe ad ordinare anche una zuppa di pollo. Alle cinque, con mezzora d’anticipo sull’orario fissato per la partenza, raggiungo in tuk tuk la stazione dei bus. Passano le ore ma del bus notturno per Luang Namtha non c’è traccia. Ammazzo il tempo scambiando quattro chiacchiere con una ragazza laotiana; parla un po’ di inglese e mi insegna qualche parola di laotiano. Le storie sugli orari approssimativi dei trasporti locali si stanno mostrando veritiere. Alle otto finalmente si presenta il pullman ma c’è una sorpresa: proviene da Vientiane ed è pieno. Il bagaglio viene sistemato “senza problemi” sul tetto mentre noi pochi stranieri rimaniamo in piedi nel corridoio. Passa una mezz’oretta ed ecco comparire sedie e sgabelli di plastica destinati a chi è rimasto senza posto. Per la mia povera schiena è una fortuna che mi capiti una sedia e non uno sgabello. Il pullman è affollatissimo: i passeggeri siedono sfruttando ogni angolo disponibile. Fervono gli ultimi preparativi prima della partenza. L’autista solleva uno sportello a fianco della sua postazione e controlla il livello dell’olio: tipica meticolosità laotiana! Mentre ascolto il rombo del motore, penso al mio bagaglio sopra il tetto. Ho legato esternamente il k-way e le scarpe da trekking per i lacci. Ritroverò tutto a Luang Namtha? Alle nove meno un quarto finalmente si parte, con un ritardo di tre ore e un quarto rispetto all’orario ufficiale (ma non c’è fretta, ci attende tutta la notte in bus). Dopo mezzora si sente un rumore sul tetto. La mia mente occidentale subito teme il peggio: staremo perdendo il bagaglio! Un finestrino è aperto ed ecco spuntare un tizio che scende tranquillamente dal tetto e chiede da accendere all’autista! Mi sembra proprio di avere trasferito tutto l’essenziale nel bagaglio a mano (medicine, rollini, macchina fotografica, guida, occhiali scuri e naturalmente il quaderno di questo diario). Alzo gli occhi e dal tettuccio aperto fa capolino la luna piena mentre una canzone stile karaoke rende il viaggio ancora più “piacevole”. 29 dicembre: Luang Namtha Dopo dieci ore di viaggio arriviamo finalmente a Luang Namtha ed il mio zaino è il primo ad essere sbarcato, sano e salvo, dal tetto. Mi sistemo in una bella guesthouse di legno, riprendendomi dalla notte insonne con una sostanziosa colazione. Nelle hall una cartina tracciata a mano illustra le possibilità di trekking nei villaggi dei dintorni. Da qualche anno il governo ha istituito delle guide ufficiali, destinate ad accompagnare i turisti nei villaggi delle minoranze. Chiedo informazioni ed il ragazzo alla reception si offre di prenotarmi direttamente lui il trekking per le nove e mezzo. Luang Namtha è una cittadina priva di attrattive, allungata sulla strada statale. La guesthouse si trova ai suoi limiti meridionali; nell’attesa del trekking raggiungo il “centro” con una passeggiata. Passate le nove e mezzo non si vede nessuno. Chiedo spiegazioni e scopro che c’è stato un clamoroso malinteso: il trekking è stato prenotato per domani! Ormai il gruppo è partito e non posso più raggiungerlo. Non mi resta quindi che cercare di organizzarmi per conto mio. Con un tuk tuk raggiungo il villaggio di Ban Done Khoune, punto di partenza del trekking indicato sulla cartina. Si tratta di un villaggio di pianura con belle case a palafitta di legno, abitato naturalmente dall’etnia dominante. Il mondo delle popolazioni in Laos è estremamente “regolamentato”: il concetto di razza è fortemente radicato tanto è vero che nel modulo da compilare per il visto d’ingresso questa voce compare esplicitamente. L’etnia dominante lao si è presa il pezzo migliore del paese, cioè le pianure, lasciando agli altri colline e montagne. La passeggiata prevede come prima tappa il villaggio mong di Ban Namkoy, situato oltre la pianura coltivata a riso, sulle pendici delle prime montagne. Non riesco però ad individuare nessun sentiero e anche la richiesta di informazioni non sortisce nessun risultato. Ma ecco avvicinarsi un locale: qualcuno gli ha detto che un falang si aggira per il paese e viene ad offrire i suoi servizi. Parla francese ma anche un po’ di inglese e sostiene di essere una guida turistica che lavora a Luang Prabang. Si offre quindi di accompagnarmi nel giro dei villaggi, chiedendomi venti dollari. Mi accordo per la metà, cifra che avrei pagato per il tour ufficiale. Prima di iniziare il trekking la guida vuole assolutamente mostrarmi casa sua, una capanna su palafitta situata in prossimità di una pozza. Una parete è interamente ricoperta di sue foto in compagnia di turisti; anche il biglietto da visita che mi consegna sembra confermare la sua versione. Un bicchierino di lao lao, il whisky di riso locale, ci fornisce le energie per il lungo trekking. Lasciato il villaggio lao, percorriamo diversi chilometri in mezzo ad una pianura coltivata a riso (secco in questa stagione), fino a raggiungere le colline. Saliti appena di qualche decina di metri, ecco il villaggio mong, tutto un altro mondo. Il riso coltivato è quello non irriguo di montagna, la religione non più il buddismo ma l’animismo. Sarà la suggestione, ma anche i volti sembrano diversi, dai tratti mongoli. Queste popolazioni sono arrivate in Laos, provenienti dalla Cina, in tempi recenti. Il villaggio ha un certo fascino, se non altro per il pensiero che a pochi chilometri dalla “civiltà”, una comunità possa ancora vivere in un suo mondo indipendente. I mong sono animisti e quindi devo fare attenzione a non accompagnare i “sabai dii” con il gesto delle mani giunte. Vicino ad un primo gruppo di capanne alcuni ragazzi giocano ad una sorta di pallavolo con i piedi: la palla è di bambù intrecciati e la rete un filo steso tra due pali. Mi accolgono facendomi sedere su un basso sgabello: i bambini, più sbarazzini, non si spaventano ad essere fotografati mentre una femminuccia, più timida, fugge un paio di volte dalla mamma al solo incrocio del mio sguardo. In giro razzolano gli animali d’allevamento, maiali e bufali. Raggiungiamo un secondo gruppo di capanne dove si trovano le donne. La guida vorrebbe farsi fotografare insieme a due giovani ma non c’è modo di convincerle. Proseguiamo la passeggiata tornando in pianura. Camminare in una distesa di risaie è un’esperienza particolare. Il lavoro dell’uomo ha diviso la pianura in tanti rettangoli separati da stretti argini rialzati. Si procede così come sopra una trave d’equilibrio, camminando a zig zag per chilometri. Tutto è sotto il controllo dell’uomo e quando l’acqua di un canaletto scorre un po’ più impetuosa, una trave consente di passare dall’altra parte. Raggiungiamo un villaggio thai dam che in realtà è un paese di case in muratura. La guida mi segnala una targa che ricorda i finanziamenti europei per la sistemazione idrica dell’area. Dietro il villaggio, sopra una collina, sorge un monastero buddista, il That Phum Phuk, testimonianza di una politica americana che non cambia nei tempi: bombardare e poi ricostruire. A fianco delle rovine dello stupa antico distrutto dalla solita bomba a stelle e strisce, si erge il nuovo stupa brillante d’oro, costruito con i finanziamenti americani. Camminiamo ormai da ore e la guida mi propone di terminare in bellezza il giro, unendoci alla festa di matrimonio di un suo amico. Per la verità non ho capito bene cosa si festeggi, dato degli sposi apparentemente non c’è neppure l’ombra! In compenso la musica stile karaoke e l’atmosfera da fiera ci sono tutte. Gli invitati sono seduti intorno a lunghi tavoli in un giardino all’aperto. Il mio anfitrione mi fa accomodare insieme con un gruppo di adolescenti, i suoi figli con i loro amici. Non ho voglia di mangiare ma non posso certo mancare i giri di lao lao, l’alcolico locale. Mi tocca anche un giro di danza con la figlia della guida, una ragazzina decisamente “acerba” (che stia pensando di combinare qualcosa!). Si balla in due cerchi concentrici di uomini e donne e quando dobbiamo invertire le posizioni la ragazzina sembra molto divertita. Durante le danze, mi consolo con la dolce visione delle invitate più grandicelle. Alla fine trovo il modo di uscire dalla trappola: mi dichiaro stanco per la notte insonne in bus e, saldata la guida, saluto la compagnia dicendo che provvederò da solo a procurarmi un tuk tuk per la città. Sono salvo: temevo di dovere trascorrere il resto della giornata alla festa. 30 dicembre: Luang Namtha – Muang Sing La sveglia è puntata alle cinque. Nella guesthouse le camere sono separate da pareti di bambù ed il mio risveglio mattiniero non avrà fatto certo piacere agli altri ospiti. Alla stazione dei bus è ancora notte e non c’è quasi nessuno. Approfitto di un chiosco appena aperto per fare colazione: mi riscaldo con un tè ed una zuppa di noodle, uova e verdure. La Cina è vicina; nei negozietti tutto ciò che è confezionato, prodotto di un processo industriale, proviene da lì. I laotiani parlano con un senso di rispetto di quel grande paese moderno e industrializzato, così progredito rispetto a loro. Sono le sei ed un quarto: la ragazza del chiosco mi ha “detto” che il bus per Muang Sing partirà solo alle otto. Speranzoso nei mitici sawngthaew mi sono mosso con largo anticipo ma la stazione dei bus è ancora un mortorio e mi rassegno ad una lunga attesa. Al nord in questa stagione il clima è freddo la mattina e la sera, molto caldo a mezzogiorno. All’alba il paesaggio è coperto dalla nebbia che si dirada con il sorgere del sole, lasciando un cielo coperto ed un clima uggioso. Solo a mezzogiorno improvvisamente il cielo si apre ed in breve il sole riscalda ogni cosa con i suoi raggi. Alle sei e mezzo compare un sawngthaew: va proprio a Muang Sing ma naturalmente partirà solo quando sarà pieno. Sopraggiungono alla spicciolata i passeggeri: un gruppo di donne porta sulla testa bei fazzoletti neri dai risvolti colorati. Appartengono sicuramente a qualche etnia ma io non ho ancora imparato a riconoscerle. Una donna in paziente attesa indossa una gonna viola con sottili strisce orizzontali e una “camicetta” fantasia sotto una giacca di taglio classico occidentale. Il fazzoletto sulla testa è piegato più volte ad avvolgerle i capelli, con il risvolto colorato che cade di fianco. Alle otto finalmente si parte. Il sawngthaew è il tipico mezzo di trasporto collettivo dei laotiani. Si tratta di un camioncino nel quale sui lati sono collocate due file di panche mentre in mezzo ci si adatta su sedie di plastica da terrazzo, ma c’è anche chi viaggia in piedi sul predellino posteriore. Un telo ripara un minimo dal vento. Nel vano insieme ai passeggeri si carica di tutto, in particolare gli onnipresenti sacchi di riso. Durante il viaggio, i passeggeri sul predellino utilizzano la libertà loro concessa per scatarrare in continuazione; un ragazzo pensa bene anche di vomitare su un sacco di riso. Viaggiamo nella nebbia del mattino attraverso colline coperte da una lussureggiante vegetazione tropicale. Alberi solitari si stagliano come giganti sopra il verde, figure evanescenti nella nebbia. Lungo la strada ogni tanto incrociamo donne dai colorati costumi e qualche villaggio con capanne di legno e bambù. Arrivati a Muang Sing, considerato un “paradiso” per il trekking, punto direttamente all’ufficio delle guide. Vorrei fare un trekking di due giorni dormendo in un villaggio ma è necessario formare un gruppo di almeno quattro persone e non ci sono altri interessati. La coppia inglese e la ragazza italiana che hanno viaggiato con me sul camion, dopo la notte insonne trascorsa sul famigerato bus Luang Prabang – Luang Namtha, oggi non se la sentono di fare un trekking. Non mi resta quindi che rassegnarmi e puntare ad un trekking giornaliero per domani. Trovata una sistemazione nella “Muang Sing Guesthouse”, passo al “programma di riserva”: noleggio una bicicletta per esplorare i dintorni per conto mio. Otto chilometri a nord, lungo la strada che porta al confine con la Cina, si trova la “Adama Guesthouse”, segnalata come ottimo punto di partenza per visitare i villaggi. Lasciata la bicicletta al ristorante, poche centinaia di metri a piedi mi portano ad un villaggio akha. All’ingresso si trova una “porta degli spiriti”: per me rappresenta una sorta di passaggio tra la civiltà del XXI secolo ed il mondo primitivo di questa etnia. Una vecchierella si avvia verso il villaggio, piegata sotto un pesante fardello. Dagli stracci che le avvolgono la testa spunta una corona di dischi metallici. Passa a fianco della porta, senza attraversarla. Ai pali laterali e a quello orizzontale pendono oggetti di legno, sicuramente densi di un significato arcano che a me sfugge: frecce puntate verso l’alto, catene di vimini intrecciati, reticoli quadrati attaccati obliqui, stelle di legnetti. Davanti alla porta è posta in diagonale una lunga canna di bambù, dalla quale pende un triangolo di legno, con appesi dei cestini ciascuno con un peperoncino. Un richiamo al mondo moderno sono le sagome di mitra di legno inchiodate su uno stipite. Nel centro del villaggio un recinto funge da lavatoio e da doccia. Bambini seminudi si lavano tra loro mentre una bimba fa il bucato come se si trattasse di un gioco. Sotto la veranda di una capanna una donna indossa un copricapo interamente ricoperto di monete e oggetti di metallo, ma la sua t-shirt gialla m’insospettisce, come se fosse appostata lì solo per il passaggio dei turisti. Attraversato tutto il villaggio, raggiungo la seconda porta, simile all’altra anche se più piccola. Tornato alla guesthouse studio la solita cartina tracciata a mano dove sono riportati gli altri villaggi nei paraggi. Un sentiero in discesa, superato un ruscello, mi porta ad un villaggio yao (mien) che è quasi un paese, con molte costruzioni in muratura. Passando davanti alla scuola mi affaccio alla finestra di una classe. Il maestro non c’è e subito tutti i bambini mi vengono vicino. Per rompere il ghiaccio, a parte il solito “sabai dii”, mi esibisco in un paio di giochetti. Unisco le dita delle mani a coppie, indice con medio e anulare con mignolo, formando una “V”. Le bambine cercano di imitarmi ma solo una ci riesce con sua grande soddisfazione. Passiamo poi a mettere le mani una sopra l’altra e tutti si divertono. Nel villaggio le donne si lavano insieme ai bambini sotto le fontane. Alcune indossano un copricapo a turbante, caratteristico di questa popolazione; intorno al collo portano una specie di lungo pellicciotto rosso. Non manca un ospedale in muratura, altro elemento di modernità. In zona ci sono molti altri villaggi ma le indicazioni a mia disposizione non sono molto chiare ed il tempo a disposizione scarso. Provo a seguire una vecchietta che lascia il paese, pensando che si diriga in qualche altro villaggio ma finisco invece in mezzo alle risaie; raggiungo una capanna e al mio arrivo un gruppo di bambini si scatena in una serie di “sabai dii”. Ormai è giunta l’ora di prendere la strada del ritorno. Prima di raggiungere Muang Sing mi fermo nel monastero di un villaggio. Le tonache arancione dei monaci sono stese ad asciugare dopo il bucato. I novizi mi si fanno tutti incontro, seguendo i miei passi attraverso il monastero. Muang Sing è un piccolo paese, niente più che una strada principale e qualche traversa laterale, in mezzo alle risaie. Un edificio coloniale cadente ma affascinante ospiterebbe persino un museo ma pare che sia sempre chiuso. Visito un paio di monasteri, tra i quali quello meridionale, dove si sta preparando la preghiera della sera, è senz’altro il più interessante. 31 dicembre: Muang Sing La mattina mi alzo come sempre molto presto, visitando il mercato dietro lo spiazzo che funge da autostazione. Le donne dei villaggi nei dintorni raggiungono il mercato per vendere le loro merci e spesso indossano i loro costumi tradizionali. Una akha porta il caratteristico cappellino nero coperto di monete antiche; si ferma davanti ad una bancarella ed acquista una di queste monete, bisognosa evidentemente di migliorare il suo aspetto. L’occasione è ghiotta e non me la lascio sfuggire, acquistando anche io allo stesso prezzo una piastra dell’epoca coloniale francese. Finalmente giunge l’ora del trekking, uno dei momenti che maggiormente aspettavo in questo viaggio. Siamo in quattro, accompagnati da una giovane e simpatica guida. In tuk tuk raggiungiamo il paese di Nasai, iniziando una lunga camminata che in oltre due ore di salita, attraverso colline coperte da una fitta foresta, ci porta ad un villaggio akha situato ad oltre mille metri di quota. Le donne indossano il tipico cappello con le monete e il villaggio sembra autentico, non a dimensione di turista. I ragazzi giocano con una palla di bambù, alcune donne friggono nell’olio bollente saporiti dolcetti. Le nuvole avvolgono il paesaggio e le capanne, creando un’atmosfera affascinante. Per il pranzo veniamo ospitati nella capanna del capo villaggio: mangio con gusto salsicce e chilly, accompagnati da riso compatto che funge da pane. Nella stanza a fianco gli uomini siedono in circolo e giocano d’azzardo, pescando tessere tipo domino con dei numeri sopra. L’atmosfera è accesa ed ogni tanto ci scappa qualche animata discussione. Sediamo su un pavimento di bambù, poggiato sulle travi di una palafitta. Nell’oscurità della capanna priva di finestre fa un certo fresco e mi ricopro dopo la sudata della salita. Ci avviciniamo al focolare per scaldarci un po’ e la moglie del capo villaggio non solo si lascia fotografare, ma indossa anche per l’occasione un giubbino colorato. Ralf, il ragazzo inglese, ha una fotocamera digitale e suscita una grande sorpresa mostrando le foto appena scattate alla donna ed al suo figlioletto. Con la sua compagna è in viaggio da mesi attraverso l’Africa e l’Asia; concluderanno il loro giro in Australia dove intendono stabilirsi per un anno e cercare lavoro. Ormai è tempo di iniziare il lungo tragitto di ritorno, per fortuna in discesa. Raggiunta la pianura mi volto a guardare le montagne da cui proveniamo. Sono lontane ed avvolte nelle nuvole; quanto abbiamo camminato! Oggi è l’ultimo dell’anno e con i miei compagni di trekking ci diamo appuntamento per cena. Siamo una compagnia numerosa, visto che si uniscono a noi altri viaggiatori. Verso le nove, la stanchezza comincia a farsi sentire e desisto dall’attendere la mezzanotte; saluto tutti e torno alla guesthouse. Il nuovo anno mi coglierà profondamente addormentato. 1 gennaio: Muang Sing – Luang Namtha – Oudomxai – Pakmong Ieri sera sono venuto a sapere da una coppia di italiani che a Muang Sing c’è un altro mercato, situato a qualche centinaio di metri dalla strada principale. Si tratta del mercato alimentare e quindi è ancora più interessante ed autentico dell’altro. Le attività iniziano molto presto, quando è ancora buio. Con l’avanzare del chiarore del giorno, la macchia di colore spicca sempre più nell’uggiosa giornata invernale. Le donne dei villaggi arrivano per vendere le loro cose, camminando per ore. Indossano vestiti dai colori accesi, a volte i loro costumi tradizionali. Le verdure distese per terr,a sopra dei teli, fanno bella mostra per attrarre gli acquirenti. Ripeto l’esperienza del villaggio di ieri acquistando delle frittelle dolci, cotte nell’olio bollente davanti ai miei occhi. Un chiosco, dedicato alla carne, è il regno degli uomini e del sangue. Lasciato con un certo dispiacere il mercato, raggiungo la “stazione dei bus” per procacciarmi il camion per Luang Namtha. Questa volta il mezzo è meno affollato che all’andata; la visuale quindi è migliore ma il vento ed il freddo si fanno sentire ancora di più. La strada corre lungo il corso di un fiume in un paesaggio montuoso coperto da una fitta foresta tropicale. A volte però i fianchi delle montagne sono privi di vegetazione a causa della tradizione locale di bruciare la foresta per liberare terreno da coltivare. Alla stazione dei bus di Luang Namtha cambio mezzo, prendendo un pulmino per Oudomxai (questa volta si sta al caldo). Un vecchio si siede al mio fianco; il suo fumo ha un odore molto aromatico che riempie tutto il pulmino spingendo i falang a spalancare i finestrini. Cosa starà fumando? Il viaggio è una vera odissea. Usciti dal piazzale della “bus station”, ci fermiamo al posto di polizia per chissà quale controllo. L’autista scompare per un quarto d’ora mentre un gruppetto di ritardatari ne approfitta per prendere posto nel pullman, sulle sedioline di plastica collocate nel corridoio. Attraversando Luang Namtha ci fermiamo a raccattare “casa per casa” altri passeggeri. Finalmente lasciamo la città ma la strada è in pessimo stato: non è asfaltata o meglio lo era. Sono in corso dei lavori ma il processo sembra molto lento. Ad un certo punto dobbiamo fermarci a lungo ad un posto di blocco per i lavori in corso. La strada è tutta un polverone ed anche con i finestrini chiusi la polvere entra da sotto, spargendosi nell’abitacolo. Durante il viaggio, il vecchio si anima e scatarra per terra; poi si addormenta sulla mia spalla. Dopo due ore, superato un paesino al bivio per Boten posto di frontiera con la Cina, la strada torna asfaltata. Altre due ore e mezzo e siamo ad Oudomxai, punto d’incrocio delle strade della regione. La città, dominata da uno stupa sopra una collina, è apprezzata dai cinesi per soggiorni di piacere e non è particolarmente interessante; vorrei proseguire fino a Nang Khiaw ma ormai non ci sono più bus. Insieme con un australiano, Steve, riesco in ogni caso a prendere un pick-up, avvicinandoci altre due ore alla destinazione. Raggiungo Pakmong, un gruppo di case all’incrocio con la strada per Luang Prabang con qualche guesthouse e ristorante, molto spartani. Ceno insieme a Steve e Luca, un ragazzo svizzero. Sono due personaggi interessanti. Steve viene dalla Thailandia dove ha una fidanzata akha; parla sia un po’ di thailandese che di akha. Luca sta girando per il Laos in bicicletta! Oggi si è fatto il tratto Oudomxai – Pakmong mentre domani ha in programma di arrivare a Luang Prabang. 2 gennaio: Pakmong – Nang Khiaw – Muang Ngoi Risvegliato da un concerto di canti di gallo, mi alzo presto e m’infilo in un locale per la colazione (fried rice e lao coffee). Incontro Luca che mi racconta il suo lungo viaggio: ha il visto di un mese e intende attraversare tutto il paese con la sua bicicletta, arrivando fino in Cambogia dove trascorrerà un altro mese. Il tempo non gli manca visto che pensa di tornare in Svizzera solo la prossima estate per il matrimonio della sorella o forse andrà in Giappone. Salgo su un tuk tuk per l’ultima ora di viaggio fino a Nang Khiaw. Le segnalazioni della Lonely Planet si rivelano esatte: il paese è conosciuto con il nome di Muang Ngoi. Ad una fermata il tuk tuk non riparte ed insieme all’altro passeggero dobbiamo spingerlo. Nuovo problema ed intervento del guidatore che aspira con la bocca la benzina che non vuole arrivare al motore. Nang Khiaw è un posto da favola: il fiume Nam Ou è circondato da alte ed appuntite montagne, coperte di vegetazione. La visuale migliore si ha dal ponte ed il paesaggio, completato dalle capanne del paesino, sembra veramente rispondere all’immaginario dei tropici. La barca per Muang Ngoi partirà solo tra due ore e quindi ho tutto il tempo per godermi il posto. La giornata purtroppo è coperta e qualche montagna è nascosta dalle nuvole. Quale splendore deve essere questo paesaggio irrorato dai raggi del sole! Quale varietà hanno i monti della vallata: uno ricorda lo zuccotto di Rio de Janeiro, un altro tutto seghettato si staglia in lontananza, un altro ancora incombe sul fiume con una rocciosa parete verticale. Non ho voglia di raggiungere le grotte fuori del paese; scendo invece al fiume sotto il brutto ponte di cemento. Due ragazze sono intente al bucato e al lavaggio dei capelli. Una parla inglese: è una guida turistica e facciamo un po’ di conversazione. Poco più in là una mamma con tre bambini trasporta un fascio di lunghi e pesanti bambù. Per raggiungere Muang Ngoi risalgo il Nam Ou su una lancia, in compagnia di una trentina di laotiani ed una coppia francese. La barca di legno corre scivolando sulle acque del fiume. Cerco di scattare qualche foto e le donne guardano la mia vecchia macchinetta per cercare il display delle camere digitali. Il ragazzo che siede davanti a me è molto ammirato dal mio orologio, la classica patacca acquistata a Roma su una bancarella. Le acque sono verdi per il riflesso della vegetazione ma le montagne più lontane sono nascoste dalle nuvole. Navighiamo da una sponda all’altra per evitare le rocce che spuntano insidiose in questa stagione asciutta. Il tragitto dovrebbe essere breve ma nel classico stile laotiano le “perdite di tempo” non mancano. Attracchiamo su un isolotto e facciamo un tratto a piedi mentre la barca attraversa delle rapide. Nuova sosta presso un villaggio e il barcaiolo scompare a lungo misteriosamente, mentre donne e bambini ci guardano dalla sponda; una donna sorride con la bocca “insanguinata” dalla masticazione del betel. Partenza e altra sosta per sbarcare un passeggero. Il barcaiolo scende e comincia a contare e ricontare biglietti e passeggeri. Buon segno, significa che stiamo per arrivare. Salgono donne dalle gonne colorate, con borse voluminose. La barca finalmente giunge in vista di Muang Ngoi. Una lunga striscia di capanne di bambù si staglia, come trampolieri in fila. Le acque del fiume si sono ritirate e sulla riva scoscesa i pali delle palafitte innalzano ulteriormente le capanne. Il posto è incantevole: montagne da tutte le parti ma più dolci ed ampie rispetto a Nang Khiaw. Il paese si estende lungo una sterrata che corre parallela al fiume; la vista è chiusa dalla mole incombente di un monte a zuccotto. I capanni che ho visto arrivando dal fiume, non sono le idilliache abitazioni dei pescatori locali ma i bungalow delle guesthouse: una sequenza ininterrotta accompagna la strada. Il fascino del luogo non è sfuggito al turismo! Mi sistemo in una delle ultime guesthouse per avere una visuale migliore. Ora ho anche io il mio bungalow con vista sul fiume. Assolvo i “doveri” del turista con una passeggiata, in mezzo ad una bella vegetazione, fino ad un paio di grotte: nella prima, più ampia, scorrono le acque di un fiume sotterraneo, nella seconda è ospitata una statua malmessa di Budda. Tornato in paese, mi accoglie il sole che ormai si è fatto strada tra le nuvole del mattino. Nella veranda del mio bungalow è collocata un’amaca e mi sdraio per godermi il tramonto. Il sole è alle mie spalle, ormai basso sulle montagne dell’altra riva. I suoi raggi, a lungo sospirati negli ultimi giorni, illuminano la vallata e la sponda con il paese. Quando ormai solo le cime dei monti ricevono la luce diretta del sole, mi soffermo ad ascoltare l’acqua scorrere sotto di me e i rumori del paese in lontananza. Che pace e che serenità! Per fortuna Muang Ngoi ancora può essere raggiunta solo in barca e non è dotata di corrente elettrica. Mentre mi dondolo sull’amaca considero quale posto romantico è un bungalow sul fiume in un paesaggio tropicale. Il pensiero corre alla compagna assente. E’ veramente lontana; anche la moderna tecnologia dei cellulari fallisce in questo sperduto paesino. Non posso neppure sentire il suono della sua voce, per condividere con lei questo momento. Come doveva essere dura per i viaggiatori del tempo andato, lontani dai loro cari e senza possibilità di sentirli. La passione o il mestiere del viaggiatore è anche questo. Tornando verso il punto d’imbarco cambia un po’ la visuale e mi accorgo che le montagne che chiudono la vista sull’altra sponda sono più di una, “schierate” una dietro l’altra come soldati “allineati e coperti”. Per cena scelgo un locale lungo la strada principale, rinunciando alla vista fiume. Siedo davanti ad una delle tovaglie più sporche mai viste. Per fortuna la luce è fioca e non distinguo tutto chiaramente. Speriamo che il fried fish ordinato sia fresco; dalla cucina sopraggiunge un invitante odorino. Sono le sei e mezzo e siedo unico avventore nel ristorante. Davanti a me la carcassa di una bomba, uno dei tanti regali americani di questo genere al Laos, è utilizzata come “addobbo decorativo”. Il pesce è buono, molto saporito. Il riso d’accompagnamento è alla laotiana, cioè cotto da tempo e raggrumatosi: viene portato in un cestino di vimini e bisogna prenderlo con le mani, utilizzandolo come pane. Il proprietario siede al tavolo di fronte e vedendomi solo si sente in dovere di fare conversazione. Mi annuncia che in Thailandia sono morti molti turisti nel drammatico maremoto (notizia che avevo già appreso dalla televisione nei giorni scorsi). Non sono ancora le sette e la mia serata sembra volgere al termine ma tornato al bungalow non resisto ad un’altra “sessione” nell’amaca. Davanti a me il nulla, buio pesto; solo lo scorrere dell’acqua ed il gracchiare delle rane. Sono a metà del viaggio. Il Laos è un paese molto interessante; ho visto tante cose belle. Questa è la mia prima esperienza in solitaria nel terzo mondo. La sensazione è bellissima: mi sono immerso completamente nella realtà locale. Temevo di soffrire la solitudine ed invece provo un gran senso di libertà. Vado avanti con i miei tempi, senza la schiavitù del gruppo con le sue attese ed i suoi orari. Un fedele compagno in realtà è questo diario che mi sta facendo una gran compagnia. I laotiani sono un popolo simpatico e cordiale; anche le minoranze dei villaggi che ho visitato mi hanno accolto sempre con il sorriso. Certo la lingua è uno scoglio insormontabile per capire i loro problemi e le loro sensazioni, ma a volte un sorriso può significare molto più di tante parole. 3 gennaio: Muang Ngoi – Nang Khiaw – Luang Prabang Questa mattina la vallata è avvolta nella nebbia e le montagne sono scomparse dietro le nuvole basse. Muang Ngoi è veramente lontana dalla civiltà moderna: manca l’elettricità e i locali si affidano ai generatori, ricorrendo al fuoco per cucinare. E’ una fortuna essere da solo poiché viene preparata una cosa alla volta: mi chiedo quanto possa essere lunga l’attesa se si è una compagnia numerosa e si ordinano cose diverse, visto il tempo che hanno impiegato per prepararmi scramble eggs e banana pancake. Certo anche io, ordinare due portate! Lungo il tragitto di ritorno in barca incontro una coppia israeliana di mezza età. Lei non abbandona mai i suoi due zaini. Alle rapide scendiamo per un buon tratto a piedi e naturalmente l’israeliana porta con se i due pesanti zaini, guardata con aria interrogativa dal barcaiolo. Forse teme che in giro ci sia qualche palestinese! Quanto è brutto non fidarsi di nessuno; quanto è orrendo il prodotto di una logica di sospetto e terrore! A Muang Khiaw riesco nel miracolo: prendere una barca per Luang Prabang, raggiungendo la capitale storica come si faceva una volta, non prosaicamente con un bus “moderno”. Il servizio di navigazione sul Nam Ou non esiste più da quando la strada è stata migliorata ed i viaggiatori devono arrangiarsi. Le mie speranze sono limitate poiché sono solo e devo formare un gruppo per noleggiare una barca. Gli israeliani però quando vedono cosa li aspetta, un sawngthaew stracolmo di locali, decidono anche loro di tentare la via fluviale. Veniamo a sapere che ci sono altre cinque persone, da qualche parte, che vogliono raggiungere Luang Prabang in barca. La trattativa sul prezzo si fa serrata e ci accordiamo per dieci dollari a testa. Partiamo su una piccola lancia che viaggia a tutta birra. Finalmente ecco svelato il mistero: la slow boat con i cinque passeggeri era già partita e ci aspetta più avanti. Nella lancia sono collocate delle sedioline e si viaggia abbastanza comodi. Le rive del fiume sono scarsamente popolate e s’incontrano solo pochi villaggi. Qualche pescatore getta le reti da vecchie barche di legno. Le acque, piatte come una tavola, riflettono il verde della vegetazione, ma ogni tanto si fanno impetuose per la presenza di rapide. Il barcaiolo allora rallenta la marcia mentre gli spruzzi avvolgono l’imbarcazione. Una curiosa montagna si alza solitaria, alta e affusolata. Gli alberi e qualche banano ricoprono le rive mentre sugli isolotti rocciosi spuntano bassi cespugli. Dopo due ore di navigazione compare il sole ed il paesaggio cambia. Attraversiamo un tratto dove si avverte la presenza dell’uomo: la linea elettrica ed una strada corrono lungo la riva destra mentre alcune colline sono state disboscate per le coltivazioni. I villaggi sono più numerosi e la vallata si fa più ampia e dolce. Ancora l’uomo in un ponte che scavalca il fiume. Le montagne del Laos sembrano il disegno di un bambino: una solitaria, dalla forma triangolare, in controluce appare come una porta nel cielo verso un’altra dimensione. La parete verticale di un’altra sembra il frutto di un taglio che ne ha lasciato solo metà. Finalmente ecco il Mekong: maestoso, immenso. La valle è ampia molto diversa da quella appena lasciata. Subito si scorgono le bianche murature che proteggono la grotta dei mille Budda. Le acque scorrono limacciose ed imponenti tra le sponde lontane. Dopo quattro ore e mezzo di navigazione siamo a Luang Prabang. Dopo il tour del nord, la città mi sembra troppo perfetta: troppo pulite le sue strade, troppo colorate le sue bancarelle, troppo linde le sue case coloniali. Soprattutto mi stupisce la quantità di turisti! Sembra di essere in un altro paese. Mi sistemo nella guesthouse del precedente soggiorno; il ritorno alla “civiltà” è segnato dalla possibilità di collegarmi ad Internet e telefonare in Italia. Mi dedico poi ad un po’ di shopping: raggiungo il “Thithpeng Maniphone”, un laboratorio artigianale di argenteria utilizzato in passato dalla famiglia reale ed oggi preferito dalle principesse thailandesi. Il negozietto è molto piccolo e viene aperto apposta per me; scelgo un braccialetto lavorato con l’elefante a tre teste, simbolo della monarchia laotiana. Ceno all’“Indocina Spirit”, seduto per terra su una stuoia davanti ad un tavolo basso. La sala è interamente rivestita di legno; lampade di carta diffondono una luce soffusa mentre bianchi teli pendono dal soffitto, attorno ai tavoli, completando l’arredo. Il sottofondo musicale contribuisce all’atmosfera. Il ristorante è ospitato in un’antica casa coloniale e mi “riconcilia” con la città: quanta grazia in questi edifici e quanta voglia di rivedere i suoi templi. La cena è all’altezza del posto: ottimo il bambù ripieno di carne speziata. 4 gennaio: Luang Prabang (grotte di Pak Ou e cascate di Kouang Si) Luang Prabang è l’ombelico del Laos. Passeggiando sul corso principale ho rivisto tanti viaggiatori incontrati al nord. Luca, il ciclista svizzero, sedeva a cena in un locale, il giapponese con cui ho viaggiato da Muang Sing a Oudomxai mi ha salutato con un inchino, l’insegnante di musica americana, mia vicina di bungalow a Muang Ngoi, è rimasta stupita di essere arrivata solo mezzora prima di me con il camion. La giornata è dedicata a due gite organizzate: la mattina alle grotte di Pak Ou, il pomeriggio alle cascate di Kouang Si. Navigando sul Mekong, gli alberi sulle sponde sembrano piovre avvinghiate al terreno. Le acque si sono ritirate lasciando in vista le radici tentacolari che si allungano in un fitto intreccio. Facciamo due soste: prima ad un villaggio apprezzato per i suoi tessuti, poi ad un secondo soprannominato whisky village per la sua produzione di lao lao. L’alcolico è conservato in grosse giare dall’aspetto antico. Dal fiume la grotta di Pak Ou appare come una grossa apertura nella roccia, protetta da una bianca muratura merlata, qualche metro sopra il livello delle acque. Una lunga scala sale serpeggiando alla grotta superiore. La vegetazione la avvolge tutta: splendidi alberi formano una galleria naturale di rami e di liane. In cima la grotta, chiusa da una facciata scolpita di legno, è stata lasciata suggestivamente al buio. Alla luce della torcia, sui banchi laterali, scopro una moltitudine di piccole statue di Budda, molte sono mutilate. Un serpente di legno è utilizzato per il loro lavaggio purificatore. La grotta inferiore è altrettanto affascinante. Una grande rientranza della roccia riceve la luce del sole; in alto, sul fondo, uno stupa ed un Budda con le mani protese in avanti, entrambi dorati, dominano la moltitudine di statue. L’impressione tuttavia non è quella di un rigattiere di articoli religiosi ma piuttosto di un luogo estremamente mistico. Budda di tutte le dimensioni ed in tutte le pose guardano da ogni lato. Molti sono rovinati: a chi manca un braccio, a chi la testa. Mi siedo ad ammirare l’effetto. Sui piedistalli imbiancati in muratura file di piccoli Budda sembrano vegliare sulle acque del Mekong, mentre un leone ed un demone del Ramayana fanno la guardia all’ingresso. Proseguendo nella giornata del turista medio, visito le cascate di Kouang Si con una gita organizzata in pulmino (in realtà si tratta solo del trasferimento). Procediamo con l’aria condizionata ed i finestrini chiusi, sollevando un gran polverone sulla sterrata. I poveri laotiani di passaggio si coprono la bocca per ripararsi; com’era diverso viaggiare sui camion insieme con loro, dividendo polvere e freddo! La cascata è molto bella, anche se in ombra; le acque scendono in vari salti, divise in più rami. Una lussureggiante vegetazione la avvolge; alberi dai lunghi tronchi si aggrappano direttamente sulla roccia verdeggiante per i cespugli ed il muschio. Affronto la salita sul sentiero di destra ma dato che evito coscienziosamente di scavalcare staccionate manco entrambe le piscine che separano i salti. Dall’alto scorgo giovani in costume che fanno il bagno nella piscina superiore. Scendo sull’altro lato ma anche questa volta filo dritto, raggiungendo la base. Mentre siedo davanti alla maestosità della cascata, continuo a vedere la gente che si affaccia dall’alto in corrispondenza dei due salti. Alla fine non resisto e decido di risalire. La deviazione per il primo livello in realtà non è sbarrata: ho scambiato la palizzata alla quale appoggiarsi per un fantomatico divieto. Immergendo le gambe nell’acqua fino alle caviglie, arrivo davanti al salto, godendomi lo spettacolo della sua visione ravvicinata. Ripresa la salita, non riesco invece ad individuare il passaggio per la pozza superiore dove avevo visto i giovani fare il bagno. Probabilmente hanno violato qualche divieto. Completo così anche il secondo “giro”, soddisfatto ugualmente. Tornato a Luang Prabang raggiungo il Mekong per godermi gli ultimi scampoli di un fiammeggiante tramonto. Mi dedico poi ad un po’ di shopping: il corso davanti al palazzo reale ospita un mercatino serale d’impronta molto turistica. Le merci, soprattutto i tessuti, si presentano perfette ed attraggono una vera folla di turisti. Per cena scelgo di nuovo un locale romantico; certo non si addice molto al mio personaggio di viaggiatore solitario. Siedo in una terrazza affacciata proprio sopra il Mekong. Il fiume è invisibile, avvolto nell’oscurità, e le sue acque scorrono silenziose. Sull’altra sponda non s’intravede che qualche luce isolata; ogni tanto il gracchiare di un motore ricorda la presenza del fiume. Ordino senza saperlo una zuppa di pesce e verdure, dal sapore delicato e delizioso, accompagnandola come un vero laotiano con il solito sticky rice, il riso colloso utilizzato come pane. I locali formano palline con le mani intingendolo nelle varie salsette; io lo ammorbidisco nel brodo, reso così più sostanzioso. 5 gennaio: Luang Prabang – Vientiane Questa mattina mi sono alzato più tardi ed i monaci sono già passati su falang street, ma li ritrovo in processione sul lungo Mekong. La scena è molto più suggestiva, con pochissimi turisti. Le donne, inginocchiate o sedute con le gambe di fianco, porgono palline di riso nelle ciotole dei monaci, mentre i pochi uomini presenti compiono la stessa operazione in piedi. Affascinato dal silenzio, dalla nebbia, dalle acque maestose del Mekong, seguo la lunga striscia colorata dei monaci. Terminato il giro, rientrano nei monasteri; un novizio devotamente pone alcune palline di riso davanti ad un altarino con un’immagine di Budda. Alle tredici ho il volo per Vientiane e decido di utilizzare la mattinata a disposizione per andare a zonzo per i templi. Rivedo i suggestivi bassorilievi dorati del Wat Mai e la profusione d’oro del Pha Bang nel recinto del palazzo reale. La ricreazione scolastica sembra fatta apposta per il viaggiatore solitario desideroso di giocare. Nello spiazzo di una scuola i bambini fanno un gran baccano; mi fermo fuori del basso muretto di recinzione e subito un terzetto si avvicina. Porgo il palmo della mano e li invito al classico “batti il cinque”. Si divertono un mondo e, presi dalla foga, cominciano a colpirmi sempre più forte con le loro manine. Fingo allora di farmi male, agitando le mani e soffiandoci sopra; i bambini scoppiano a ridere divertiti e si scatenano ancora di più. Lungo falang street i templi si succedono uno dopo l’altro; sembrano moderni ma contribuiscono al fascino della città. Un gigantesco Budda, in piedi nella posizione dell’invocazione della pioggia, guarda un orizzonte lontano; le tonache stese ad asciugare nelle bianche casette di un monastero con i tetti di tegole annerite, formano una bella macchia di colore. Al Wat Khili fervono i lavori di ricostruzione. In un paese dove tutto procede lentamente mi stupisce ritrovare questo tempio, una settimana fa senza tetto, con la travatura di legno ormai quasi completata. Fervore religioso o più prosaicamente boom del turismo? La stradina d’accesso al Wat Xiang Thong è stata asfaltata e presto lo sarà anche quella della mia guesthouse. C’è da augurarsi che il desiderio di fare bella figura non induca i laotiani a strafare, trasformando la città in un mondo finto e troppo perfetto. All’ingresso del Wat Xiang Thong mi soffermo ad ammirare il sim. Quanta originalità in questa architettura nella quale un edificio è formato quasi solo dal tetto! Concludo il giro al Wat Pha Pai a fianco della mia guesthouse, ammirando di nuovo il piccolo sim. Vicino allo stupa del cocomero, faccio una capatina alla “Pathama Boupha Antique House”, ospitata in una magnifica residenza francese. Vende oggetti d’antiquariato e curiosità antiche ma io mi limito ad acquistare un anello di argento. Ormai è giunta l’ora di raggiungere l’aeroporto. Alle bancarelle davanti all’ingresso gusto un ottimo foe, la zuppa con gli spaghetti di riso e le verdure, tipicamente laotiana. Squisito il brodo. Il volo della Lao Aviation è puntualissimo; a Vientiane ritorno alla “Thawee Guesthouse”, prenotata il primo giorno. La mia permanenza in Laos si protrarrà un giorno oltre la scadenza del visto. Per evitare brutte sorprese decido quindi di recarmi all’ufficio dell’immigrazione per fare l’estensione. In realtà uscendo con un giorno di ritardo, dovrei solo pagare una multa di dieci dollari alla frontiera. Alle tre e mezzo raggiungo l’ufficio ma chiude fra un’ora; sono un po’ incerto perché domani mattina alle sei e mezzo ho l’aereo per Pakse e quindi ho bisogno subito dell’estensione. I poliziotti laotiani si rivelano efficientissimi e tutta l’operazione dura una decina di minuti (pago due dollari). Naturalmente non c’è traccia di computer e vengono compilati una serie di moduli e ricevute cartacei con tanto di carta carbone, ma chi può dire che con l’informatica il processo sarebbe stato più efficiente? Percorsa Lane Xang Avenue, raggiungo il Patoumxai, una sorta di versione orientale dell’Arco di Trionfo parigino. Costruito negli anni sessanta, si presenta come una massa notevole di cemento e già esternamente lascia qualche dubbio. Salendo le scale fino alla terrazza, attraverso una serie di spazi interni impressionanti per il loro squallore: sembra di essere in un condominio cadente di case popolari. Dalla cima tuttavia si gode una bella vista su Vientiane che sembra una città giardino per le vaste macchie verdi delle palme. Nel frattempo su Lane Xang Avenue, gli champs elysees locali, il traffico impazza intenso. Che differenza con il nord rurale! Per cena mi affido alle bancarelle sul lungo Mekong. Seduto davanti al disco solare che scende dietro l’altra sponda, laggiù in Thailandia, ripenso a questa seconda giornata a Vientiane. La città mi è sembrata molto diversa, piena di traffico ed animazione. La volta scorsa era domenica, venivo dal nostro frenetico mondo occidentale e quindi tutto mi era parso calmo. Nelle strade oggi ho incrociato un numero impressionante di pick-up nuovi di zecca, imperversa la Toyota, segnale di una classe borghese che si sta arricchendo. Lascio ad economisti e sociologi stabilire se sia un segnale positivo. Il menù della bancarella recava nella sezione “grilled” la voce “fish” ed un pesce è arrivato, tutto intero e della dimensione giusta per il mio appetito, oggi più intenso. 6 gennaio: Vientiane – Pakse – Champasak Ieri sera nella piazza della fontana ho prenotato per le cinque del mattino un tuk tuk per l’aeroporto. Sono proprio efficienti e zelanti questi laotiani: alle quattro e mezzo lo sento arrivare davanti alla guesthouse ed alle cinque il guidatore è ad attendermi alla porta. Il volo per Pakse come il solito è puntualissimo. Raggiunta la stazione dei bus, inizio la ricerca di un mezzo per Champasak. Sono le otto del mattino ed il prossimo bus parte solo tra due ore. Il guidatore di un tuk tuk si offre di portarmi a destinazione ma dovrei pagare dieci dollari. Mi unisco allora ad una coppia slovena ed una ragazza italiana per dividere la spesa. Viaggiamo lungo la statale 13 fino a Ban Lak 30 dove pieghiamo verso il fiume; raggiunto il camion che ci aveva preceduto, cambiamo mezzo. Durante il tragitto, chiacchiero con Patrizia, una ragazza della provincia di Modena in viaggio con un’amica. Da Vientiane a Pakse hanno preso il bus VIP notturno ma l’aria condizionata ha sortito un brutto effetto: si è ammalata ed è rimasta bloccata quattro giorni a Pakse. Temeva di avere la malaria ed è andata in un ospedale, rimanendo sorpresa dalla loro efficienza: le hanno fatto il prelievo del sangue dalla punta di un dito, dandole subito la risposta negativa. La dottoressa parlava francese e i macchinari erano moderni. Ora Patrizia sta raggiungendo la sua amica che la ha preceduta a Champasak. A Ban Muang per traghettare sull’altra sponda del Mekong, verso Champasak, si prende un’enorme chiatta sulla quale sale di tutto, compreso il nostro camioncino stracolmo di locali. Il fiume scorre maestoso, ricordandomi i paesaggi della vicina Cambogia. Alla guesthouse, insieme alla coppia slovena, affitto una bicicletta per raggiungere il Wat Pou. Champasak si allunga sulla sponda del Mekong, con belle case di legno a palafitta. Attraversiamo alcuni villaggi, dotati addirittura di chioschi per il rifornimento di carburante. Naturalmente il sistema è manuale: il carburante è tenuto in un bidone e passa poi in un recipiente trasparente come in una flebo. Gli scolari stanno tornando a casa: ne incrociamo una colonna e mi diverto a farmi “battere il cinque”. Un bambino più intraprendente si sistema sul seggiolino sopra la ruota posteriore, facendosi dare un passaggio. Il Wat Pou è il più importante sito archeologico del Laos, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Nel santuario centrale ritrovo una manifestazione della religiosità popolare già incontrata a Vientiane: una donna inginocchiata cerca di sollevare sopra la testa cinque pietre di dimensioni crescenti, ma deve arrendersi alla più pesante. Il sito è affascinante: gli alberi di frangipani, il fiore nazionale, avvolgono la scalinata d’accesso al santuario, formando insieme alle rovine un quadro molto suggestivo. Nel tempio mi soffermo ad ammirare gli architravi scolpiti con le varie divinità indù. La mente corre alle architetture khmer di Angkor. Una roccia dietro il tempio reca un bel bassorilievo raffigurante la Trimurti mentre poco lontano un macigno è stato scolpito per raffigurare un elefante. Un gruppo di archeologi italiani è al lavoro per risistemare la via sacra. Speriamo che i restauri non diminuiscano il fascino del sito, quel suo aspetto cadente con le rovine piegate dalla forza delle radici. Dall’alto la vista spazia sui due palazzi cerimoniali del livello inferiore, dalle tipiche architetture khmer, e più oltre sui due vasti barray e la pianura fino al Mekong. Le “folle” dei turisti sono ormai lontane e mi soffermo a godermi la quiete del luogo. La coppia slovena mi precede invece sulla via del ritorno. Scendo a malincuore, ripassando nella galleria di alberi: i tronchi nodosi e pendenti terminano in bianchi rami protesi verso il cielo, privi di foglie ma con delicati fiori bianchi e gialli. Evitando il ristorante del sito archeologico pieno di turisti, mi fermo in un locale appena dopo l’uscita. Il caldo del sud si fa sentire ed ho bisogno di riacquistare un po’ di energie (e di liquidi). Gusto quindi con piacere una noodle soup, accompagnata da una Pepsi. Raggiunta di nuovo la strada che corre lungo il Mekong, prendo una sterrata che si dirige verso sud allontanandosi dalla città. Attraverso un villaggio con una chiesa cristiana, costeggiando poi il fiume fino ad un monastero, il Wat Muang Kang. Tornato a Champasak, faccio un giro per il paese. Una volta era la città più importante del sud, capitale di un regno autonomo, ma oggi il primato le è stato sottratto da Pakse. Champasak è solo un piccolo paese di provincia e mi lascia un’impressione di miseria che al nord non avevo avvertito. Incontro i primi storpi, visito templi cadenti in rovina, pieni di spazzatura; due segnali inconfondibili, purtroppo, di povertà. Nella guesthouse ancora una volta approfitto di un’amaca, godendo la vista del Mekong. Il fiume è diventato immenso, l’altra sponda lontanissima. Le poche piroghe dei laotiani sembrano dei microbi in quest’immensità. Ceno alla guesthouse insieme alla coppia slovena. Sono in viaggio per sette settimane attraverso Thailandia, Laos e Cambogia. Lui è un tipo simpatico, parla un ottimo inglese e gli piace raccontare questo viaggio ed altri; lei parla poco ma ha la faccia simpatica. Il padrone della guesthouse gli chiede di dove sono, ma confonde la Slovenia con la Slovacchia come il presidente Bush! 7 gennaio: Champasak – Muang Khong (isola Don Khong) Alle sei e mezzo il sole è già sorto sopra l’altra sponda del Mekong; siamo al sud ed ho calcolato male i tempi. La palla infuocata si riflette nelle placide acque del fiume formando una striscia dorata. Le barchette dei pescatori sostano sparse qua e là, miseri gusci di legno nella maestosità della natura. Il gestore della guesthouse è un gran furbacchione: passa un tuk tuk ma ci dice, con una gran risata, che è costoso ed è meglio aspettare il prossimo. Probabilmente è di un suo amico! Non ero preparato a questi trucchi da parte dei docili e cordiali laotiani. Traghettiamo di nuovo il Mekong su una chiatta, raggiungendo l’altra sponda dove ci aspetta il bus per Ban Hat Xai Khoun. Il mezzo è uno dei più confortevoli del viaggio: una televisione con cornice a fiorellini allieta i passeggeri con il karaoke. Arrivati a destinazione, ci troviamo nella regione del Si Pha Don, dove il Mekong si allarga formando un gran numero di isole (dicono 4000). Per raggiungere l’isola di Don Khong ci affidiamo ad una piccola barca di legno. Lascio alla coppia slovena la scelta della guesthouse: ci sistemiamo proprio davanti al molo d’imbarco. Per esplorare l’isola anche questa volta affittiamo delle biciclette. Lasciato il paese verso sud, imbocchiamo la stradina sterrata che corre lungo in fiume, invece di quella asfaltata più interna, attraversando deliziosi villaggetti, ombreggiati da una lussureggiante vegetazione. Sotto di noi i bufali si rinfrescano nelle acque del Mekong. Proseguendo nel nostro giro raggiungiamo il Wat Silananthalangsy, grazioso monastero di villaggio. Per pranzo ci fermiamo in una casa, con un “giardino attrezzato” per gli ospiti di passaggio. Il capofamiglia, Kamphamay, ci presenta parte dei suoi sette figli e se la ride divertito durante quel poco di conversazione che riusciamo a scambiare. Mi offre il lao lao ma io gli faccio capire che poi cadrei ubriaco nel fiume, suscitando la sua ilarità. Cerca di convincermi a strapparmi con le mani i peli della barba sotto il mento, come ha fatto il suo amico, ma gli spiego che i miei sono troppo corti e preferisco usare una lametta. Mentre aspettiamo che le donne ci preparino la solita gustosa zuppa di vermicelli e verdure, Kamphamay ci mostra orgoglioso un quaderno con i nomi di due falang passati per la sua casa. Contribuiamo anche noi alla sua collezione, apponendo i nostri nomi. Arrivati al paesino di Muang Saeng, decido di proseguire da solo per un tratto verso nord, fino ad un monastero su uno sperone di rocce nere, il Wat Phou Khao Kaew. Lo stupa più antico è ridotto ad un cumulo di macerie ma il sim ha il suo fascino, circondato da nodosi alberi di frangipani. Il latrato minaccioso di un cane, apparentemente unico abitante del posto, mi spinge verso il Mekong. La strada che taglia l’isola da Muang Saen a Muang Khong, corre piatta e fa capire cosa sarebbero i tropici senza i monsoni, con le vaste risaie ridotte a tristi sterpaglie. Alcuni bianchi e slanciati uccelli dal becco giallo cercano di sfruttare la poca acqua a disposizione. Tornato a Muang Khong, visito i suoi due monasteri. Nel primo una grossa statua di Budda seduto, avvolto dalle sette teste del naga, sembra vegliare sulle acque del Mekong. Il secondo più antico, a nord del paese, si affaccia direttamente sul fiume. Tre bambine vengono a porgermi il loro “sabai dii”. Il fiume è una distesa immobile; un gruppo di bufali fa il bagno immergendosi totalmente mentre alcuni monaci cercano pazientemente di liberare una barca invasa dall’acqua. Un pescatore lancia la rete dalla sua barca ferma al largo. Per il tramonto mi sistemo nella terrazza della guesthouse. Il sole scende alle mie spalle, dietro il grande Budda. Le acque immobili e l’altra sponda lontana fanno pensare ad un lago più che ad un fiume. Tutto è fermo anche le barche dei pescatori al largo, inducendo pensieri di grande serenità. L’appuntamento serale con la cena sul Mekong è giunto alla quarta replica. Siedo affacciato sul fiume al “Mister Pon”. La specialità del posto è il pesce cotto a vapore nelle foglie di banano ma avrei dovuto ordinarlo con due ore d’anticipo. Ripiego quindi sulla cottura nel latte di cocco; la porzione, per la verità non troppo abbondante, mi costringe ad un adeguato accompagnamento di sticky rice. L’isola è famosa in Laos per produrre il lao lao migliore del paese. Non resisto quindi alla tentazione: ne vorrei assaggiare un bicchierino ma ne arriva un bicchiere normale. Spero di non ubriacarmi! Mentre sorseggio il superalcolico alzo gli occhi e sull’altra sponda scorgo alto in cielo Orione che mi guarda. 8 gennaio: Muang Khong – Ban Khon (isole di Don Khon e Don Det) All’aurora il cielo sull’altra sponda del fiume si tinge di rosso, anticipando l’ascesa del disco infuocato. Qualche raro pescatore è già all’opera e getta la rete dal proprio guscio di legno. Anche i galli questa mattina tacciono, rispettando la quiete del paesaggio. La luna è una falce sottilissima alta in cielo. Quanta differenza rispetto alle nebbiose e fredde mattine del nord! Ma ecco che gong lontani rompono il silenzio mentre qualche gallo fa sentire il suo canto. La macchia infuocata nel cielo si è ormai concentrata in un piccolo spazio, anticipazione del sole che finalmente si leva dalla sponda lontana. La luna in cielo si fa pallidissima, annichilita dal fuoco solare. Una fila di monaci passa proprio sotto la terrazza per la questua mattutina mentre una barchetta con due pescatori si ferma nella striscia dorata riflessa nell’acqua dal sole, salito con la velocità dei tropici. Oggi voglio raggiungere le isole di Don Khon e Don Det, all’estremo sud del Laos. Il barcaiolo che ci ha traghettato, ieri ha continuato per tutta la giornata a proporci una gita di un giorno alle isole, con ritorno a Muang Khong. Io però preferisco pernottare a Don Khon e quindi mi accordo per il solo trasferimento mentre gli sloveni accettano la sua offerta, attratti dalla presenza delle corrente elettrica a Muang Khong. Le nostre strade quindi si dividono e ci salutiamo calorosamente. Su una lancia per turisti navigo tre le mille isole del Si Pha Dhon. In certi momenti le sponde appaiono lontane, in altri attraversiamo rami più stretti. Le isole sono lussureggianti di vegetazione tropicale: le palme incorniciano i pochi villaggi di case di legno su palafitta. Qualche tempio ravviva con i suoi colori la macchia verde del paesaggio. Nella barca scambio quattro chiacchiere in italiano con un ragazzo spagnolo; è in viaggio per un anno con la ragazza di colore. Le isole di Don Khon e Don Det sono un sogno tropicale. Avvolte nelle palme, capanne di bambù se ne stanno affacciate sulle acque dall’alto delle loro palafitte. Nella veranda del mio bungalow a Ban Khon ritrovo la dolce amaca e già pregusto i momenti di relax alla fine della giornata. Il Mekong è ormai diventato un dedalo di canali e le due isole si fronteggiano a poca distanza, unite dal ponte che i francesi costruirono per la ferrovia. Per esplorare le isole anche oggi noleggio una bicicletta. Inizio con i ricordi del passato coloniale francese: la piccola locomotiva arrugginita della ferrovia a scartamento ridotto, un minuscolo cimitero cristiano avvolto dalle erbacce in mezzo alle risaie. Ormai sono giunto alla fine del lungo percorso attraverso il Laos e come me il Mekong si appresta a lasciare il paese. Non sembra contento però di passare in Cambogia e si scatena in una serie di furiose rapide, le cascate Somphamit, sorta di sbarramento naturale tra due paesi e civiltà differenti. Proseguo per un tratto ed ecco una sorpresa: una spiaggia di sabbia chiara in mezzo a queste rocce scure. Dall’alto del crinale sbuca la coppia slovena che avevo salutato questa mattina. Il caldo si fa sentire e mi rinfresco alle bancarelle con una noce di cocco. Raggiungo la punta sud dell’isola a Ban Hang Khong; davanti a me le colline della Cambogia. Il pensiero vola ad un altro confine, ai monti della Cina a Muang Sing nel nord. Non è l’ora adatta per avvistare i delfini dell’Irrawaddy e le barche di legno sono tutte ormeggiate nella caletta chiusa da isolotti rocciosi. Attraversato il ponte francese passo a Don Det. Nell’isola la massicciata della ferrovia a scartamento ridotto dei francesi è diventata una strada rialzata in terra. Non ci sono macchine ma solo “trenini con rimorchio”, pieni di turisti giapponesi che si riparano dalla polvere con buste di plastica sulla testa e mascherine davanti alla bocca. All’imboccatura del ponte una vacca allatta il suo vitellino. Decadenti visioni di un impero latino in Oriente che non è più. Nella parte settentrionale di Don Det, in mezzo ad una lussureggiante vegetazione tropicale, i bungalow di bambù per i turisti si succedono uno dopo l’altro. I bambini non rispondono più al mio “sabai dii”. Non manca neppure una spiaggetta dove un’americana vitaminizzata fa il bagno in costume. Sdraiato sull’amaca del mio bungalow bifamiliare, guardo ancora una volta il Mekong; quanta strada abbiamo fatto io e queste acque. Le palme dell’isola di fronte si stagliano sul cielo azzurro. Una barca con due pescatori si ferma proprio di fronte; uno rema, l’altro getta la rete. Sembrano un po’ indolenti nella loro attività: il tipo della rete ne approfitta per fare il bagno dove si tocca, nei pressi di un cespuglietto che spunta in mezzo all’acqua, mentre l’altro si stanca di remare e si aggrappa alla vegetazione. Il posto non è molto proficuo per la pesca e, dopo un paio di lanci, si allontano per altri lidi. Il sole scende verso l’orizzonte, lontano dietro il ponte della ferrovia. E’ l’ora della pulizia personale e i laotiani scendono al fiume per lavarsi. Le donne in particolare lo fanno avvolte in un manto che le copre pudicamente. Tutti s’immergono completamente, testa compresa. Come li invidio dopo una giornata passata in bicicletta sulle polverose sterrate, ma il mio senso occidentale m’impedisce di lavarmi in assenza di un bagno. Dopo il tramonto, i pescatori continuano il loro lavoro, sfruttando gli ultimi scampoli di luce. L’appetito mi spinge al ristorante molto presto. Rinuncio questa volta alla vista fiume e mi siedo, unico avventore, in un ristorante sul lato interno della strada, il “Chanthone’s Family Restaurant”. Naturalmente scelgo il pesce, ordinandolo cucinato nel latte di cocco con le foglie di banano. Dovrebbe essere la stessa ricetta a cui ieri avevo dovuto rinunciare perché richiedeva due ore di preparazione. Ormai è passata quasi un’ora e ancora non si vede nulla, forse è proprio la ricetta di ieri (continuo ad essere solo nel locale). Ecco finalmente arrivare il mio pesce. Un involtino di foglie di banano è chiuso con uno stecchino. Lo apro curioso e dentro trovo una specie di pasticcio di pesce con pomodorini, cotto nel latte di cocco. Il sapore è molto delicato e lo apprezzo pienamente. Non sono più solo ma ho tre compagni: due cani ed un gatto, con i quali divido il mio sticky rice. I cani pazientemente aspettano la loro razione che subito ingurgitano affamati, mentre il gatto protesta miagolando appena rimane a secco. Come sono diversi questi amici dell’uomo: il gatto quando è sazio se ne va per i fatti suoi mentre uno dei due cani, il primo a comparire, rimane accucciato a farmi compagnia (o forse è la fame residua unita alla speranza di ottenere ancora qualcosa). Consumata la cena, dietro di me tocca alla famiglia del gestore: mamma, papà e figlia. Quando si dice un ristorante a conduzione familiare! 9 gennaio: Ban Khon – Ban Nakasang – Pakse Mi apposto sul ponte francese per godermi l’alba. Il sole sorge dietro le palme di Don Khon; le nuvole in cielo sono rosate, preannuncio del suo prossimo arrivo. Sono solo sul ponte ma nel fiume i pescatori sono già all’opera. Una barca con bambino al remo e papà alla rete passa sotto il ponte. La tecnica di pesca è molto semplice: si lancia la rete e la si ritira, sperando di cogliere qualche pesce. Da quante centinaia di anni i pescatori di queste isole usciranno la mattina per lanciare le loro reti? Tutti avranno ammirato lo stesso spettacolo con il sole che sorge dalle palme e le acque che scorrono placide. Questo mondo e questa civiltà immutabili nel tempo mi colpiscono. Penso agli antichi egizi, al loro mondo “fermo” per millenni e penso alla nostra civiltà occidentale, dove per guadagnare da vivere ci chiudiamo prima in scatole di metallo e poi di vetro e cemento. Come è cambiata la vecchia Europa dai tempi passati e quanta frenesia abbiamo per il cambiamento. Siamo sempre alla ricerca di qualcosa ed anche i viaggi nascono da questo anelito. Non sarà forse più sensato il destino del bambino, oggi al remo e domani alla rete al posto del padre, come è accaduto per generazioni e generazioni? Quale cataclisma mondiale riusciremo a produrre con la nostra modernità? Ma bando a questi pensieri, torno alla guesthouse e mi concentro sulla colazione a base di banana pancake: la torta alla banana del nord qui al sud si è trasformata in una crepe. Mi accorgo che dietro di me un uomo dorme nella sua amaca. La proprietaria della guesthouse, sicuramente sua moglie, cerca di svegliarlo in tutti i modi, visto che deve portarci in barca a Ban Nakasang ma lui continua pigramente a voltarsi dall’altra parte. Alla fine deve cedere alle insistenze della donna e si alza, procedendo alla scaccolata mattutina. A Ban Nakasang la stazione dei bus, anzi dei camion, è al mercato. Entrando nei negozietti, per la prima volta mi sento preso in giro mentre una donna, forse ubriaca, importuna i turisti chiedendo soldi e toccandoli. E’ la prima laotiana aggressiva che ho incontrato; allunga persino le mani sulle tette di una giovane turista. Questo camion è proprio ben frequentato: oltre alla francese tettona che ha suscitato l’invidia della laotiana, al mio fianco siede un’eterea americana alla Guinette Palthrow e di fronte due ragazze svedesi, una con i capelli rasati a zero. Gli occhi azzurri della sua amica sembrano avere incantato un giovane laotiano che si lancia in un tentativo di conversazione. Dopo un’ora d’attesa il camion si appresta a partire. Fervono gli ultimi preparativi: gruppi di galline legate per le zampe vengono lanciati sul tetto; l’anatra che credeva di viaggiare in prima classe dentro una cesta sul predellino posteriore viene ricoperta da una tinozza piena d’acqua dove sguazzano dei pesci. Finalmente si parte! Lungo la strada raccattiamo due giovani backpacker; non c’è posto e quindi si sistemano direttamente sul tetto. Sale un papà con la figlioletta che viene passata a “Guinette” che la terrà sulle sue gambe per tutto il viaggio. Il “bigliettaio” viene a riscuotere il dovuto compiendo incredibili acrobazie all’esterno del “vano passeggeri”. Nelle soste subiamo l’assalto delle venditrici prima di spiedini poi di strani tuberi (!?) dall’aspetto di rape bianche: si mangiano togliendo la scorza esterna e vanno a ruba. A Pakse mi sistemo al “Lan Kham Hotel”. La città è brutta, fatta di grossi viali privi di personalità e pieni di sporcizia. Passeggiando, in un caldo notevole, lungo la statale 13 non può sfuggirmi la mole del “Champsak Palace Hotel”, una volta residenza di Chao Bounome, ultimo principe di Champasak, che lo fece costruire negli anni sessanta si dice per ospitare le sue numerose amanti. Nel museo provinciale, a parte qualche architrave pre-angkoriano finemente scolpito, domina la retorica del regime comunista che celebra la sua vittoria ed i traguardi conseguiti!? Raggiungo il Mekong alla confluenza con lo Xa Dom; il fiume è larghissimo, scavalcato da uno dei rari ponti presenti in Laos. In centro il mercato è andato distrutto in un incendio ed il nuovo edificio è stato appena completato. All’interno sono in mostra le foto dell’inaugurazione ma solo pochi esercizi sono già aperti. L’edificio a più piani ricorda, purtroppo, i nostri freddi centri commerciali. Poco lontano sorge la sede dell’Associazione Cinese, ospitata in uno dei pochi palazzi presenti in città dal piacevole aspetto coloniale. Mentre siedo al “Sedone Restaurant” per cena, due bambini mi chiedono l’elemosina. Questo sud sembra più “avanzato” del nord, con vaste coltivazioni, ma è anche più densamente popolato e presenta quelle fasce di miseria che al nord non avevo trovato. E’ l’ultima sera in Laos ma la necessità di fare economia dei pochi kip rimasti (ho anche esaurito i tagli piccoli dei dollari) mi spinge al risparmio. Del resto dopo tante sere di pesce avevo voglia di noodles e così, facendo di necessità virtù, ho scelto un locale segnalato come economico. Il menù in inglese si sposa comunque con la sua frequentazione unicamente di turisti. I noodles sono abbastanza collosi ma visto il notevole appetito li divoro rapidamente. Il Mekong non è proprio dietro l’angolo ma non posso mancare di salutarlo, visto che mi ha dato il suo benvenuto già il primo giorno a Vientiane e poi è stato il mio fedele compagno in tutte queste ultime giornate. 10 gennaio: Pakse – Chong Mek – Ubon Ratchatani – Bangkok Per la mia ultima colazione in Laos ordino naturalmente banana pancake e lao coffee. Ormai ne vado matto! Al mercato orientale partono i sawngthaew per Vang Tao, posto di frontiera con la città di Chong Mek in Thailandia. Sono contento di lasciare il paese con un camion, il mezzo di trasporto con il quale mi sono spostato prevalentemente. Alle sette e un quarto sono l’unico passeggero e già mi rassegno ad una lunga attesa. Dopo qualche minuto invece partiamo; attraversato il Mekong sul lungo ponte, procediamo spediti, salvo le frequenti soste per raccogliere passeggeri. Sale un gruppo di donne di campagna tra cui un’incantevole ragazza. Ancora una fermata e viene caricato un televisore. Una signora cicciona fa un gran chiacchierare e alla fine si occupa di raccogliere i soldi dei biglietti. Le consegno i miei 10.000 kip e tutti si mettono a ridere, compresa la bella campagnola dal dolce sorriso. Siamo alla frontiera; le formalità di uscita sono rapidissime. Sabai dii Laos !! Superata l’immigrazione, sono in Thailandia; un motociclista si propone per portarmi alla stazione dei bus ma non ho bath. Mi accompagna quindi al duty free dove cambio vendi dollari al tasso di 36 bath. Sicuramente mi avranno fregato! Alla stazione dei bus il camion per Pibun Mangrahan è in partenza; rispetto ai mezzi laotiani è più grande ma ugualmente scassone. Durante il tragitto, salgono due monaci e naturalmente il vecchio che si era accomodato nella cabina di guida deve sloggiare per fare posto ai privilegiati. A Phibun, dopo un’ora di viaggio, vengo intercettato dalla bigliettaia del camion per Ubon Ratchathani e cambio mezzo al volo. Questo è veramente una versione thailandese di lusso: il vano passeggeri è chiuso sui lati, con tanto di finestrini e pulsante per prenotare la fermata. Percorriamo una strada a quattro corsie di stampo occidentale. Passeggiando per Ubon, avverto forte la differenza con il Laos. Le strade della città hanno un sapore più occidentale e nel mercato all’aperto la merce è esposta in chioschi fissi, non più per terra sopra dei teli. Nel parco centrale un gigantesco monumento, tinto di giallo, rappresenta una nave con mostri e divinità orientali ed in mezzo una colonna scolpita. Mentre mi rilasso sdraiato sull’erba, mi raggiunge una venditrice ambulante e finisco per acquistare un saporito dolcetto gelatinoso. Nel frattempo il mercato, in fase di smantellamento, è diventato un porcile. La libreria in tek del Wat Thung Si Muang è senza dubbio il monumento più interessante della città. Al suo interno ci sono ancora gli armadi dove venivano conservati i manoscritti su foglie di palma. In un ristorante cinese, il “Luang Hud Hong”, mi sparo un pranzo abbondante: ordino pollo agrodolce e noodles con manzo e verdure, entrambi molto saporiti. I noodles qui sono diventati piatti e larghi, tipo le nostre tagliatelle. Esaurite le attrattive di Ubon, raggiungo in tuk tuk l’aeroporto. Sono in anticipo di cinque ore e mezzo sull’orario di partenza! Il mio volo è l’unico rimasto della giornata e per questo l’aeroporto è deserto; i pochi negozi sono quasi tutti chiusi e riapriranno tra ore. Per passare il tempo mi siedo davanti ad un televisore ma trasmette soap opera locali e gli unici momenti “divertenti” sono le pubblicità. Alle sei l’aeroporto si “accende”: suona l’inno nazionale, tutti i thailandesi si alzano in piedi e poi iniziano a lavorare. All’uscita dalla Thailandia si devono pagare 500 bath di tassa. I soldi cambiati non sono sufficienti e quindi cambio altri cinque euro (i tassi sono 38 bath per un dollaro e 51 per un euro). All’aeroporto di Bangkok un tunnel pedonale di mezzo chilometro mi porta dal terminal dei voli nazionali a quello degli internazionali. In giro si vedono dei banchetti con le bandiere di varie nazioni: forniscono notizie sulle vittime dello tsunami. L’aeroporto è incredibilmente affollato, credo di non avere mai visto una simile concentrazione di passeggeri. Nell’area duty free cerco disperatamente un libro di foto dedicato al Laos, ma non ne trovo; sono rappresentati tutti i paesi del sud-est asiatico ma non il Laos. Evidentemente il flusso di turisti nel “regno del milione d’elefanti” non è ancora tale da rappresentare un business per una pubblicazione di questo genere. Il volo di ritorno è più lungo che all’andata, anche perché devo arrivare più a nord, fino a Francoforte. Un ultimo volo mi porta da Francoforte fino a casa, a Roma.


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