Un lambratese in Indonesia, da Jakarta a Ende
Yogyakarta
La città è circondata da piacevoli campagne e rilievi montuosi, sicuramente di origine vulcanica come suggerisce la loro stessa forma. Nei campi, nei verdi terrazzamenti a perdita d’occhio, la gente fa le stesse cose da millenni; con la schiena curva pianta o raccoglie il riso, rinforza i muretti di fango, scava canaletti di scolo. I bambini corrono spensierati facendo volare i loro aquiloni. I paesaggi agresti lasciano il posto ai primi palazzi della città, che è molto meno sviluppata di quanto pensassi, sembra più un grosso paesone. Fuori dalla Tugu Station ci si trova all’estremità di Jalan Malioboro, una delle strade principali. Il lato orientale è un susseguirsi di grossi hotel, centri commerciali ed edifici anonimi. Dall’altro lato pullulano i calesse (i tradizionali Andong) trainati dai cavalli, i warung che vendono cibo ad ogni ora, bancarelle e negozietti che vendono ciarpame per turisti (magliette, maschere pseudo-tribali, marionette di cuoio del Wayang Kulit, il tradizionale teatro delle ombre giavanese). Anche qui il pedone ha vita dura, i marciapiedi sono stretti ed ingombri, per attraversare bisogna prendere coraggio e fendere motorini, scooter e quant’altro. La via in cui cerco una camera, Jl. Sosrowi Jayan, è la seconda traversa, abbandono le luci di Malioboro e mi infilo in un intricato dedalo di gang, ossia stradine non più larghe di due metri, qualche negozio più particolare, cortili con i panni stesi. Al Lucy Losmen una notte costa 120 Krp, una decina di euro, incluso un bagno essenziale e mediamente pulito. Quando ho sistemato la roba e mi sono lavato, esco e mi faccio un giro per la città a bordo di un becak, un triciclo aperto col ragazzo che pedala ed io davanti a oziare e guardarmi intorno, o a fermare la corsa per piccole commissioni e acquisti. All’equatore il sole tramonta in fretta, per cui si fa presto buio e faccio ritorno alla base, dove nei dintorni ceno con un bel pesce arrosto e vado a nanna.
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Borobudur
Il canto notturno del muezzin stamane ha coinciso con la mia sveglia, per cui per una volta l’ho fregato. Partenza di buon’ora per visitare il complesso di templi di Borobudur, in viaggio con un minibus assieme ad altri otto occidentali assonnati. Per entrare nel tempio bisogna indossare un sarong messo a disposizione all’ingresso, dove è istallato anche un metal detector. Circondato dai giardini, l’edificio è una sorta di piramide di pietra scura, con i muri della parte inferiore ricoperti di statue e bassorilievi, mentre sul tetto si elevano in cerchi concentrici decine di stupa, anch’essi di pietra traforata. Percorro i corridoi esterni, istoriati di saghe ed epopee locali, poi mi affaccio da un cornicione assieme ad un buddha mezzo sgretolato, che osserva la valle circondata da montagne e nuvole asciutte. Ci sono molti meno visitatori di quanti me ne aspettassi, un’oretta e mezza basta per farsi un giro completo del complesso. Due ragazzini mi avvicinano per fare pratica d’inglese, passo un po’ di tempo ad informarmi su piatti e altre usanze del posto. Dopo un pranzo frettoloso, ci rimettiamo in moto verso Mendut, dove c’è un tempio minore. Di notevole il buddha seduto all’occidentale al suo interno, e fuori il maestoso albero di banyan e i fiori di loto blu che spuntano nelle acque immote delle fontane. Al ritorno in hotel mi faccio un pisolino perchè sono cotto. Mi sveglio alle tre del pomeriggio, in tutta fretta prendo un becak per andare a vedere il Pasar Ngasem, il mercato degli uccelli. Sembra esattamente il posto in cui contrarre l’influenza aviaria. Oltre a volatili di ogni tipo (tortore, pappagalli, rapaci, ghost bird) stipati nelle gabbiette, vendono anche lucertole, serpenti, iguane, macachi, gechi, camaleonti, conigli, cani e gatti per i più tradizionalisti. Sui tavoli, esposti in grossi contenitori, brulicano insetti e larve, mentre altre bancarelle vendono sementi e granaglie varie per gli uccelli. Incontro uno studente, con la scusa dell’inglese mi dice che ha perso l’autobus per il suo paese, ma dai modi effemminati capisco che ha altre mire. Lo saluto. In serata, mi faccio tirare in mezzo da un venditore di batik che insiste per mostrarmi la sua bottega. Non avendo altro da fare, ci faccio un salto, è lui è contento di mostrarmi le sue opere e la tecnica per realizzarle. Si passa un colore alla volta sul telo di cotone o seta. lo si protegge con la cera, e si crea il disegno man mano, in una sorta di stampa alla rovescia, per sottrazione. Sottolinea che i colori sono naturali, anche se sospetto che una mano dalla chimica magari anche lui, ogni tanto, se la fa dare. A fine colorazione, si rimuove la cera bollendo il tessuto ( se si tratta di cotone) o coprendo di olio di cocco e facendolo essiccare al sole, rimuovendolo poi con una spazzola, nel caso della seta. Quando, alla fine della dimostrazione, gli riconfermo che non compro niente, rimane comunque deluso, e si gioca l’asso nella manica: mi dice che è il suo compleanno e mi fa un super-sconto. Ma non cambio idea, e lo saluto cordialmente.
Verso il Gunung Bromo
Il pulmino passa a prendermi puntuale alle 8:30. Sono in compagnia di una coppietta di sloveni, una di francesi sulla quarantina, e due ragazze che vivono in Olanda ma sono una polacca (Gosha) e un’indonesiana (Mela). Il viaggio inizialmente è piacevole, sulla sinistra si staglia imponente il Gunung Merapi, un vulcano attivissimo il cui cono ricorda quello del Fuji. Per il resto, la statale corre tra campi e cittadine, centinaia di scooter. La sosta per il pranzo avviene in un grosso ristorante per turisti, mentre le altre tappe son giusto per una pisciatina e via. Quando inizia a farsi buio, inizio a provare disagio: l’autista va veloce per arrivare prima, compie tutte le possibili varianti del sorpasso azzardato, ad ogni buca o avvallamento del terreno sobbalziamo. Finalmente arriviamo a Probolinggo, dove trasbordiamo su un pulmino più piccolo per inerpicarci sulle montagne. L’autista è un ragazzino che tiene la musica alta e spedisce sms lungo tutto il percorso di curve nelle tenebre, finchè non gli faccio notare che forse è il caso di guardare la strada. Finalmente arriviamo all’hotel Sion, dove regna il caos: gente che ha pagato si ritrova senza la camera, senza l’acqua, senza la cena ecc. I gestori, anch’essi tutti troppo giovani, non riescono a riprendere in mano la situazione, si rimbalzano l’un l’altro i turisti spazientiti; sembrano un gruppo di bambini alle prese con la fusione del nocciolo. La mia camera sembra a posto, a parte il tubo dell’acqua calda staccato che sistemo in un attimo, e un rumoroso generatore fuori dalla porta. La struttura è anche bella ma la gestione imbarazzante. Conosco Giorgio, un ragazzo di Rho che è fra gli “sfollati”, con cui abbozzo una cena prima di andare a dormire qualche ora.
Gunung Bromo
Sveglia alle 3 per raggiungere la cima del vulcano all’alba. La jeep si inerpica sui tornanti, fin quando arriviamo ad un primo punto di osservazione, dove la fitta nebbia lascia intravedere ben poco. Prendo a nolo un cavallo, fino ad arrivare allo spiazzo panoramico dove sostano centinaia di turisti. Nauseato dalla massa informe di gente che fotografa la nebbia, mi inerpico a piedi lungo uno scosceso sentiero buio fino a raggiungere un punto molto più elevato, ma anche qui la foschia è densa e lascia intravedere solo le sagome delle cime; in ogni caso la passeggiata, pur se impegnativa, è piacevole e mi permette di godere del silenzio che ammanta le montagne. In uno spiazzo del sentiero, ci sono alcuni ragazzi indonesiani con delle moto che mi offrono (a pagamento, si intende) un passaggio per il ritorno. Ma non ho voglia di spendere soldi inutilmente, e le loro moto non sembrano adatte a sentieri di montagna, sono delle monocilindriche Honda con le gomme lisce come quelle di un Ciao. Ne approfitto comunque per fare quattro chiacchiere con loro ed ammirare il sole che sorge nella vallata lattiginosa. Quando torno, gli altri sono già sulla jeep, oltre a Gosha e Mela ci sono tre ragazzi francesi, Emanuel, Antoine ed Olivier. Ripartiamo per arrivare alla caldera del Bromo: il paesaggio è lunare, distese piatte di cenere scura, che poi si innalzano improvvisamente fino al cratere, un precipizio il cui fondo è anch’esso celato dalla foschia. Il bordo è una sottile lingua di cenere, sembra facilissimo cadere nel burrone e mi chiedo quanti escursionisti abbiano già provato questa emozione (probabilmente l’ultima della loro vita). Il clima è altalenante in modo terribile, il freddo umido delle alture si alterna al caldo provocato dalla scalata, per cui levo e metto capi d’abbigliamento ogni venti minuti. Cavalli coi rispettivi fantini e venditori di bouquet di fiori secchi si muovono come fantasmi sul terreno spoglio, punteggiato solo qua e là da qualche arbusto. Un fiume di lava vuoto e sabbioso, vegetazione bruciata da cui spunta qualche gemma, un tempio diroccato che emerge come una sfida al possente vulcano, e da come è ridotto sembra sia stata una sfida persa. Torniamo al Sion per la colazione, dove ci danno un’altra prova di pressapochismo: il pasto consiste in due fette di pane tipo toast con dentro uno strato millimetrico di marmellata dal colore chimico, nient’altro, fosse anche solo un bicchiere d’acqua. Ora partiamo verso l’ Ijen, speriamo di trovare condizioni più favorevoli.
Ijen
Il viaggio verso il Gunung Ijen è stato turbolento ma suggestivo. Come da copione, il motore del pulmino ha inziato a buttare fumo nel bel mezzo della foresta, dato che il mezzo come al solito era stracarico e affrontavamo le lunghe salite in prima. Siamo riusciti a raggiungere un minuscolo villaggio i cui abitanti ci guardavano atterriti. Attorno a noi campi di canna da zucchero, manioca, cipolle, banani, caffè, e oltre l’immensa giungla a perdita d’occhio. Abbiamo aspettato il pulmino successivo, io ed i due belgi siamo scesi per alleggerire il carico. Purtroppo abbiamo lasciato gli zaini indietro, quindi una volta arrivati a destinazione abbiamo dovuto comunque aspettare gli altri. Dopo una doccia calda (una delle poche) e sei ore di sonno pesante, eccoci di nuovo in marcia. In un’oretta raggiungiamo le pendici del vulcano, da cui parte il sentiero abbastanza impegnativo che conduce al cratere. Durante il cammino, dei macachi si inseguono fra gli alberi, un grosso uccello blu ci osserva curioso. Finalmente giungiamo ai bordi dell’immensa caldera. L’aria è pregna di vapori sulfurei, lo scenario sembra appartenere ad un altro pianeta oppure ad un inferno dantesco. Un ripido sentiero scende fino al cuore del vulcano, dove giace immobile un lago turchese attorno a cui, da fori tra le rocce, esalano violenti getti di vapore acido e denso, rendendo l’aria acre e quasi irrespirabile. Con prudenza ci incamminiamo per scendere. In questo panorama surreale si muovono i portatori di zolfo, curvi sotto bilancieri con ceste di vimini colme di rocce gialle, ognuno dei quali si inerpica lungo l’erta con un carico fra i settanta e gli ottanta chili. Prendono meno di una decina di euro al giorno, preferiscono spaccarsi la schiena per una cifra modesta piuttosto che costruire una carrucola e perdere il lavoro. Dopo una scarpinata impegnativa raggiungo la base del cratere; bagno il bordo della maglietta per respirarvi attraverso, gli zolfaroli invece non sembrano curarsi troppo dell’aria mefitica. Immergo una mano nell’acqua turchese, è tiepida ed invitante ma sarebbe un grosso sbaglio soffermarsi: infatti appena la tiro fuori vedo che i miei anelli di argento si sono ossidati, segnale sicuro che l’acqua è fortemente acida. E l’acido solforico non è consigliato dai dermatologi. Le mura di pietra gialle ci circondano, provo a sollevare un bilanciere pieno ma barcollo e dopo pochi secondi sono costretto ad appoggiarlo. Non vorrei snocciolare un paio di vertebre e desisto. I portatori invece, con gesti abituali, se li caricano di traverso sulle spalle e si arrampicano con piccoli passi sul sentiero sotto al prezioso elemento. Il percorso in salita è molto impegnativo, ma sarebbe vergognoso mostrarsi affaticati mentre questi uomini snelli e minuti salgono con ottanta chili sulla schiena. Torniamo al parcheggio, dove facciamo uno spuntino con un casco di banane comprato da un ambulante. La strada verso Ketapang inizialmente è una mulattiera che si snoda fra le piantagioni di caffè, alberelli dalle lucide e carnose foglie verde scuro, fra cui qua e là fanno capolino grappoli di frutti rossi o fiori bianchi. Poi attraversa piccoli villaggi, con le vie invase da scolaretti in divisa in formazione quasi militare. Finalmente scorgiamo il mare, ed in poco siamo a destinazione. Dopo un pranzo frugale, saliamo su un pullman stipato all’inverosimile e ci imbarchiamo sul traghetto per Bali. La traversata dura una cinquantina di minuti, attracchiamo al porto di Gilimanuk, e qui i pochi diretti a Lovina (me compreso) vengono dirottati sull’ennesimo minibus che in tre ore raggiunge il piccolo centro balneare. Nella solita vietta laterale trovo un alberghetto modesto ma grazioso, le camere sono immerse nella vegetazione, ed al centro del giardino c’è una fontana al cui centro spicca la statua di una qualche divinità indù che zampilla acqua. Riesco a spuntare dieci euro a notte. Nella casa di fianco, la minuscola piscina è colma di ragazze olandesi che si rilassano al sole equatoriale. Alla sera, ceno in un ristorante sulla spiaggia, concedendomi un bel trancio di tonno alla griglia ed una birra gelata, dopo giorni di riso e merda. Per fortuna mi sono cosparso di repellente per zanzare, visto che ce ne sono parecchie. Il tempo è scandito dal cantilnare del muezzin, che non smette mai (abbastanza) di lodare Allah dalla torre della moschea. Ma neanche lui può impedirmi il meritato riposo nel grande letto dalle lenzuola immacolate.
Bali – Lovina
Mi sveglio di buon’ora e decido di noleggiare uno scooter per girare un po’ i dintorni, alla modica cifra di un paio d’euro per tutto il giorno. Il percorso parte da Singaraja, una grossa cittadona inutile e trafficata. Poi imbocco una strada verso Denpasar, intenzionato a dirigermi verso i laghi vulcanici dell’interno, ma sbaglio direzione e la provinciale a due corsie si trasforma in un piccolo sterrato in cattive condizioni, fra campi e villaggi dove le anziane strattonano i nipotini per additarmi. Ritrovo la retta via, e raggiungo le cascate di Git Git. Il sentiero che vi arriva è fiancheggiato da bancarelle di artigianato e warung, ossia chioschetti di alimentari. La cascata in sè non è niente di speciale, mi fermo per godermi un po’ di relax. Il profumo dei chiodi di garofano stesi ad essiccare è talmente forte da stordirmi. Rimonto in sella allo scooter, direzione Munduk. Il percorso è molto gratificante dal punto di vista del panorama e degli scorci di vita locale. Mi fermo per vedere un’altra cascata, qui non c’è praticamente nessuno e il sentiero per arrivarci si perde piacevolmente nella foresta. Una signora ha un banchetto di caffè e altre spezie, ne approfitto per comprare una piccola quantità del prezioso Kopi Luwak ancora in grani, che lei stessa raccoglie, tosta ecc. Io non bevo caffè, ma ne regalerò ai miei amici, visto che il prezzo in occidente di questa varietà oscilla fra i cinquecento e gli ottocento dollari al chilo. Arrivo a Munduk, che consiste in un centinaio di metri di strada fiancheggiato da basse casette graziose. Qui pranzo in un posto spettacolare che si chiama Karang Sari, che ha una veranda affacciata sulle favolose vallate circostanti. Sono da solo, prendo una specie di pollo alla cacciatora delizioso, e degli involtini morbidi di farina di riso, ripieni di cocco e intrisi di zucchero di palma caramellato, una roba che se hai il diabete ti stende solo a guardarlo. Mentre mangio, il padrone innaffia tranquillamente i suoi frangipane ed i suoi fiori rigogliosi, e per un attimo lo invidio intensamente. A fine pasto il mio stomaco gorgoglia di soddisfazione, ed il conto modesto è la ciliegina sulla torta. Ma il cielo inizia a rannuvolarsi, è meglio tornare verso Lovina, in cui passerò solo qualche giorno. Qui, alle undici di sera tutto è spento, e mi spinge alla decisione di lasciare la cittadina per dirigermi a sud.
verso Kuta
Preparo lo zaino e chiedo informazioni per raggiungere Denpasar, e più di uno mi dice che devo passare per forza da Singaraja. Guardando la mappa non posso credere che non passi anche da Lovina, ma salgo comunque in quella direzione. Il bigliettaio ha la sfrontatezza di chiedermi 50 mila rupie, che è praticamente una rapina a mano armata (di obliteratrice). Stringo i denti e glieli dò, sventolandoli bene sotto il naso degli altri passeggeri, sperando che almeno qualcuno di loro si vergogni per lui. Alla stazione dei bus ne prendo quindi uno per Denpasar, alla stessa cifra anche se è dall’altra parte dell’isola. Ovviamente ripassa da Lovina come pensavo; in compenso è vuoto, e mi accaparro tutta la fila dietro per stendermi e godermi il panorama dalla porta dietro lasciata aperta per il caldo. Man mano che si riempie, devo ridurre la mia zona relax, e quando sale una scolaresca siamo uno sopra l’altro. Bambini, scatoloni, vecchi che fumano sigarette enormi fatte a mano. La situazione torna presto normale, il paesaggio è lussureggiante, rilievi di vulcani spenti ricoperti dalla giungla o dalle piantagioni, o piccoli agglomerati urbani. Nel primo pomeriggio arrivo a Denpasar, trovo un piccolo hotel a Legian (si legge Leghian, ed è la parte nord di Kuta) per 100 mila rupie al giorno, popolato da surfisti, universitarie e scappati di casa vari. Dopo le peripezie del viaggio mi vizio con un bello snapper alla griglia in un ristorante thai. Pisolino per recuperare energie, e poi mi tuffo nella folle notte di Kuta. Inizialmente cammino sul lungomare, ma è buio e popolato solo da personaggi equivoci che mi propongono: servizio mototaxi, erba (sotto forma di corti spinelli ripieni di chissà cosa) e young ladies. Questi personaggi non hanno l’aspetto pericoloso, sono solo dei rompipalle che perseguono con infaticabile entusiasmo l’obiettivo di venderti qualcosa, anche quando è palese che non te ne frega niente. La spiaggia è separata dalla strada da un muro, inframezzato da portoncini quasi ornamentali; mi affaccio e nell’oscurità si intravedono gruppetti di persone qua e là, ma non ci sono fuochi, chitarre, birre e tutto l’armamentario degli zingari da spiaggia. Almeno c’è un Mac Donald, che sarà global ma almeno mi garantisce un quasi-pasto ad un prezzo onesto. Mentre faccio il ruttino da passeggio, mi ritrovo nell’epicentro della via della movida, che praticamente è una parallela del lungomare. Per cinquecento metri si alternano locali, discoteche, ristoranti, insomma la macchina del turismo in tutta la sua potenza. Non mi dispiace la sensazione, dopo giorni di meditazione e orari da monaco. La zona è molto affollata, soprattutto occidentali che ciondolano da un locale all’altro preda della frenesia collettiva. In netta maggioranza gli australiani, che si distinguono per l’elevatissimo livello alcolico e per le ragazze peggio vestite dell’emisfero. Ora l’offerta transport-ganja-viagra-girls è diventata molto insistente, ma essendo io a un passo dal nirvana rispondo instancabilmente “no grazie”. Calmo come acqua stagnante (cit.). Dopo una vasca esplorativa entro in un locale che sembra promettente, e non rimango deluso, è un palazzo di cinque piani ad ognuno dei quali ci sono un genere musicale ed una fauna umana diversi. Mi godo la mia Bintang Large sulla terrazza, mentre osservo un gruppo di ragazze aussies del genere un po’ surfista ma intellettuale col cappellino alto di tre quarti e le magliette a righine, che è la tipologia più diffusa. A fine serata vado a guardare il luogo dell’esplosione del 2002, uno spiazzo vuoto tra i palazzi, in fronte al quale una scultura e una lapide ricordano i nomi delle centinaia di vittime, fra cui anche uno sfortunato italiano.
Legian
I giorni balinesi scorrono dolcemente, sfuggendo tra le dita come una nidiata di anguille. Oggi, in sella al mio scooter, ho raggiunto Ubud, una pittoresca (sebbene ormai martellata dal turismo) cittadina dell’interno. Arrivando in città si ha l’impressione che almeno la metà degli abitanti facciano i pittori, tanti sono gli atelier o i giardini che espongono quadri. Sembra che qui Julia Roberts sia venuta a cercare la pace spirituale in qualche suo film, e infatti gruppetti di occidentali vagano alla ricerca vorace di qualcosa da comprare, fotografare o ammirare. Il mercato offre qualche pezzo di artigianato notevole, ma per il resto è la solita roba, sarong, barong, maschere, intagli, cazzi di legno, oggetti di bronzo ecc… Giro un po’ i dintorni, fermandomi talvolta per rilassarmi seduto nell’erba o per gironzolare nei pressi di qualche tempio. Il programma per la serata è il solito: ritorno alla base, spiaggia con tramonto, doccia, cena e poi folle notte fra i locali. In zona ci sono parecchi divertimenti e punti di interesse, ma il mare, a parte le belle onde e la spiaggia gremita, offre poco; ed io ho bisogno di spiagge candide e mari cristallini per fare snorkeling. Domani alle 7 ho il traghetto per Gili Trawangan, forse sarà un piacevole diversivo, e poi proseguirò per Labuan Bajo. Kuta vale la pena di essere vista, con le sue palme di plastica, le attività frenetiche, gli scooter con la barra porta-surf, i Big Mac, il lato moderno della nazione musulmana più popolosa del pianeta. Addio, anzi arrivederci.
Verso Gili
La sveglia ha straziato il mio sonno alle 6, dopo solo tre ore che mi ero coricato visto che son stato in giro fino alle 3 con Ilia, un russo che ho conosciuto al Gunung Bromo e che ho ribeccato ieri sera per caso. Mi sono alzato controvoglia e con un vago torpore alcolico. Il tizio del recupero pieni si è presentato in anticipo, per cui ho dovuto buttare tutto nello zaino alla c. di cane e saltare sul furgone. Dopo aver recuperato un paio di coppie (in viaggio di nozze come minimo, visto la malcelata noia) siamo partiti alla volta di Padangbai per prendere la slow boat. Al porto, la solita massa di sfollati zaino in spalla si appresta a salire sul traghetto. Molti lupi di mare della domenica, ancora bianchi come la crema del cappuccino, si sistemano sul ponte, per godersi il panorama. Io invece, constatato che siamo circondati solo dal mare (che è blu proprio come in Italia), scendo subito in coperta, dove c’è un ampio salone con panche su cui stendere il mio tappeto e buttarmici comodamente sopra. Gli Achab del ponte scendono uno alla volta, dopo dieci minuti di sole equatoriale capiscono perchè gli indonesiani stanno sotto. C’è tanto spazio disponibile, ma per evitare che qualche scassapalle voglia mettersi proprio sulla mia panca, mi metto in uno stato di morte apparente che non prevederà interazioni fino all’arrivo. La traversata fino a Lombok dura qualche ora, al porto ci smistiamo a seconda delle diverse destinazioni; compro del riso piccante avvolto in foglie di banano, e poi furgonata attraverso l’isola. Si capisce subito che Lombok è ben diversa da Bali, le persone vestono da musulmani e parecchi minareti e mezzelune svettano nel cielo placido. Dopo un’oretta di pulmino e una sosta nel ristorante dello “zio” dell’autista (una “trampa” la definisce Tony lo spagnolo, da me ribattezzato El John Lennon per la straordinaria somiglianza, forse più degli occhiali che sua), eccoci all’imbarcadero per le tre Gili. Pochi optano per Meno e Air, il grosso è con me, diretto a Gili Trawangan. Saliamo su una lunga e vecchia imbarcazione di legno con un motore scoppiettante, al centro una montagna di zaini, teli e zingarume vario, seduti ai lati ragazzi e ragazze di tutto il mondo a pigliarsi gli schizzi di mare in faccia e a ridere; il tramonto incombente aggiunge una nota suggestiva alla sensazione di avventura che aleggia. Quando arriviamo suona ancora la sveglia delle 6 di stamane, per cui dall’hotel di Legian alla spiaggia di Gili Trawangan ci ho messo 12 ore esatte, avendo scelto le barche a pedali che costavano meno. Al piccolo porticciolo, uno smilzo indonesiano che dice di chiamarsi Giancarlo (e ho detto tutto), si offre di aiutarmi a trovare un alloggio; l’esperienza mi ha sempre portato fortuna con i procacciatori da spiaggia, per cui lo seguo, anche per scambiare due chiacchiere. Gli faccio capire che il mio budget rasenta la miseria, ma lui non è turbato, abbandoniamo il lungomare dove molti posti sono pieni e ci inoltriamo in una parallela. Trovo un alloggio presso Ilham, una semplice casetta con letto, ventilatore e bagno. Mi chiedono 250, avendo annusato i dintorni ho capito che meno di 200 non riesco a sborsarne, glielo propongo e lui, riluttante e dopo varie contrattazioni, accetta. Giancarlo assiste tranquillamente alla trattativa anche se non era qui che mi stava portando e non ci guadagnerà niente. Mi vuole vendere un po’ di erba (fuffa locale) e appoggia un sacchettino sul letto, con la porta aperta. Faccio per chiudere, e lui dice di non preoccuparmi, che a Gili Trawangan non c’è la polizia. Declino la sua offerta, mi sta simpatico e ci ripromettiamo di rivederci in un vago “dopo”. Dopo la strameritata doccia, esco per esplorare l’isoletta e cenare. Il lungomare è veramente gradevole, popolato da bella gente, ristorantini curati a prezzi quasi abbordabili, un paio di locali all’occidentale con birra a fiumi, qualche negozietto e agenzia di viaggi. Non ci sono auto, per cui ci si sposta solo in bici o con carretti siciliani locali, guidati da ragazzi e tirati da piccoli cavalli bardati con gualdrappe luccicanti e finimenti lisi. Sembra proprio il posto ideale per fare una sosta di riflessione sul senso della vita. Mi sento chiamare, mi giro sorpreso e vedo l’americana e la francese conosciute a Borobudur (ma me ne ricorderò solo dopo) che agitano il braccio nella mia direzione. Sono mollemente adagiate sui divani di un ristorante di pesce, mi unisco volentieri a loro per la cena. La mia grigliata arriva immediatamente, mentre l’americana, che aspetta da parecchio la sua zuppetta, la guarda con occhi famelici. Gli dico di prendere pure, lei non se lo fa ripetere e risponde “thank you, i’m STARVING”; e da come lo dice potrebbe staccarmi un polpaccio a morsi. Poi dovrebbe esserci una festa al Blue Marlin che inizia all’una, ma il viaggio di oggi è stato impegnativo e alle dieci siamo già cotti; controlliamo le mail in un internet-point e via, nelle fresche lenzuola da Ilham.
Gili Trawangan
Il paesino, alla luce del giorno, è proprio bello, e non mi fa pentire di esserci venuto. L’atmosfera è davvero rilassata, la fauna umana giovane e godereccia, il paesaggio da cartolina, la popolazione locale cordiale ma con una scarsa per non dire nulla conoscenza dell’inglese. Noleggio una bici, ci metto un’ora per fare il giro di tutta l’isola, anche perchè la strada è praticabile su ruote solo per metà, il resto è invasa dalla sabbia e tocca scendere a spingere sotto il sole cocente. Trovo un bel punto per pescare, ma con la bassa marea prendo solo pesci piccoli, dopo un po’ desisto e mi metto maschera e boccaglio. Ringrazio il cielo di aver comprato le scarpette di gomma per nuotare, perchè l’isola è corallina e il primo tratto di mare è un tappeto di aguzzi coralli morti; infatti in pochi, soprattutto nella spiaggia vicino al porto che è più sabbiosa, si avventurano cautamente in acqua, mentre io avanzo come un panzer incurante dello scricchiolare sotto le solette di pvc. Superato il tratto di basse acque infide, il fondo scende bruscamente verso gli abissi, ed è in questa zona di confine che brulica la colorata vita oceanica. Sarebbe bello spingersi più a fondo, ma in apnea oltre i 5 metri sotto non riesco ad arrivare, magari noleggerò bombole e muta più avanti. Passo un’oretta buona a sguazzare tra pesci e tartarughe; dopodichè pranzo in un baretto con musica dal vivo (acustica con volume a livello equatorial lounge, e sono anche bravini). Mi bevo due belle birre spaparanzato su un puf iperavvolgente, leggendo e guardando la gente che mangia o sta sulla spiaggia, ed è subito sera (cit.) . Restituisco la bici e torno verso l’hotel, il sole mi ha rosolato un po’ e voglio fare un pisolino pre-serale. Dopo il pisolino, nottata nei locali sul lungomare, che tra l’altro vendono a cielo aperto funghetti allucinogeni, facendosi concorrenza con cartelli molto fantasiosi da me prontamente documentati (manie da grafico). A proposito, altro che no police, oggi sulla spiaggia per un attimo sembrava lo sbarco in Normandia, un centinaio fra poliziotti e militari vari, ma Giancarlo ha detto che non c’è niente, son qui per altre cose (? Mah, ho preferito non indagare).
Altri due giorni sono scorsi nella piacevole routine dell’isola. Al porto, il solito carico-scarico di viaggiatori, che si aggirano spaesati e carichi come muli, con asciugamani sporchi, tavole da surf e altri ammennicoli appesi ovunque. Qui la vita è relativamente cara per i routard abituati ai paradisi tropicali, per cui pochi si soffermano più di qualche giorno. A me piace particolarmente il lato nordorientale dell’isola, più aspro e selvaggio, la spiaggia è deserta e l’unico rumore è lo sciabordio delle onde. La corrente è abbastanza forte anche vicino a riva, sono acque per nuotatori esperti e cauti; la traversata a nuoto fino a Gili Meno sembra facile, sarà a neanche mezzo miglio, ma basta fare poche bracciate per capire che il mare è più forte. Mi accontento di osservare l’isola di fronte, quasi disabitata, e sullo sfondo Lombok, con i suoi vulcani e le paffute nuvole bianche che perennemente vi stazionano sopra. Sulla spiaggia si trova la Diarum Foundation, un’ente che si occupa della salvaguardia delle tartarughe marine. Qui ci sono tre vasche piene di tartarughine, in attesa che crescano abbastanza per affrontare l’oceano senza pericolo, per ora sono lunghe al massimo 5-6 centimetri. Ieri sera sono stato al Tir Na Nog, con Jeff, Niels, Rebecca e Carrie, che ho conosciuto alle tavolate del porto fra un Nasi Goreng e uno Snapper alla griglia. Beviamo parecchio e ci godiamo la nottata. All’alba, giovani donne del posto preparano offerte votive, mettendo riso e petali di fiori dentro piccoli contenitori squadrati di foglie intrecciate. Li alzano ed abbassano recitando formule misteriose fra sè e sè. Giovani indù con i turbanti, semplici nastri avvolti sul capo, e bambini musulmani con il copricapo tondo che giocano tirandosi dietro con una funicella, un’auto o una barca fatte di cartone. I gatti, per una qualche tara genetica, hanno tutti la coda che a metà si storta bruscamente. Ora è tardo pomeriggio, una piacevole brezza spazza la spiaggia invitando all’ozio, a cui facilmente mi abbandono. Ho acquistato un biglietto per Bali su una fast boat, mi è costato circa il doppio rispetto al viaggio di andata ma in tre ore mi scaraventeranno a Kuta, da cui il giorno dopo ho il volo per Labuan Bajo.
Gli ultimi giorni passano dolcemente a Trawangan, forse un po’ ripetitivi nel molle ozio balneare di giorno e festaiolo la notte, ma ci voleva per rimettersi in forze, dopo le scalate ai vulcani e la chiassosa Kuta. La fast boat che mi ci riporta è veramente veloce, in un paio d’ore siamo a Bali; c’è solo l’inconveniente che la barca decolla sull’acqua e ci si ritrova lo stomaco sottosopra in breve; benedico l’istante in cui tocco terra.
verso Labuan Bajo
Stamattina, puntualissimo alle 7 ero all’aeroporto, al check-in della Triviair. Come sempre, in questi voli interni al controllo di sicurezza passa tutto, bottiglie, accendini, lame, bazooka. L’aereo, un bielica lungo una ventina di metri, dopo un’oretta di volo plana sulla minuscola pista di Labuan Bajo. Per un centinaio di euro mi sono risparmiato giorni di barca, e ne è valsa la pena. Mentre aspetto lo zaino, ne approfitto per studiare (e fotografare) una mappa ad alta risoluzione dell’arcipelago di Flores appesa ad un muro. Fuori dall’aeroporto il sole martella duramente; qualche autoctono con il cartello recupera gli ospiti che hanno prenotato, i tassinari si contendono gli spaesati (me incluso). Mi aggrego ad un biologo tedesco con moglie al seguito, è uno spilorcio nato e infatti otteniamo un passaggio in paese quasi gratis. Qui è molto diverso da Gili Trawangan, l’onda del turismo deve ancora arrivare, e del restola cittadina sembra ancora del tutto impreparata. Un paio di agenzie di diving, qualche ristorante modesto, un negozio di artigianato; per il resto è un piccolo porto che vive di pesca e di trasporti alle isole, che sono decine, colline di terra erbosa che punteggiano la baia a perdita d’occhio. Trovo alloggio al Komodo Indah, la solita camera spartana per 150K Rp. non trattabili. Dopo una doccia tonificante, scendo al molo per curiosare, e sulla strada reincontro Giorgio, un italiano che ho conosciuto al Gunung Bromo. In una bettola ci mangiamo un Nasi Ayam Goreng (riso con pollo, tra l’altro il quarto di pollo più scarno che abbia mai visto). Dice che lui si è accampato a Kanawa, uno degli isolotti della baia, ed è venuto a fare rifornimento di cibo. Mi accompagna in un centro diving che conosce lui, dove concordo uno snorkelling per domani, e due immersioni con bombole più bungalow sull’isolotto di Robinson Crusoe. Il tutto per un milioncino di rupie. Soddisfatto per aver pianificato il futuro prossimo, lo accompagno al porto, dove la sua barca è in partenza. Qui incontro anche Tony, El John Lennon di Sengiggi. Fra viaggiatori della domenica prima o poi ci si ribecca, visto che gli itinerari spesso coincidono. Il resto del pomeriggio lo passo a gironzolare per Labuan Bajo. Il paese è adagiato su colline che abbracciano il mare, si immergono per poi rispuntare in mezzo al mare a formare un disteso arcipelago. Salendo una ripida stradina, si ha una vista onnicomprensiva del paesaggio circostante. Le infrastrutture sono basilari, una via centrale in asfalto (in ampliamento), ma il resto della rete stradale è un disastro, e non ci sono cinque metri consecutivi di marciapiede senza una voragine, uno scolo fognario, un accesso privato che sbarra la strada ecc..In serata, mi reco in uno dei tre ristoranti con aspirazioni turistiche, affacciato sul porto. La clientela è composta da occidentali, la metà dei quali armeggia con qualche ipad, tablet o iphone vari, per cui perdo la già poca voglia di interagire con loro e vado a letto.
Rinca
Oggi è stata una giornata splendida e movimentata. Sveglia alle 7 con il muezzin che mi ricorda (nel caso non fosse ancora chiaro) che Allah è grande. Dopo aver affidato la roba da lavare alle ragazze dell’albergo, mi dirigo a cercare una barca che vada a Rinca, perchè ho fatto i calcoli ed i draghi di Komodo o li vedo oggi o mai più. Gli ufficetti in paese mi lasciano poche speranze: nonostante siano solo le 8:30, sembra che tutte le barche siano già partite. Non demordo, e corro al porto sperando di trovare qualche ritardatario. Due barche sembrano fare al caso mio. La prima va direttamente a Rinca, ma si è già staccata di due metri dal pontile e il capitano non ha intenzione di riavvicinarsi, nonostante io mi sbracci e sia praticamente sul punto di mettermi a sventolare banconote. L’altra va a Komodo, ma scopro che si ferma a Rinca; penso: è fatta. Dopo un estenuante trattativa con il secondo (anche se avrei dovuto parlare esclusivamente con gli altri viaggiatori: sono loro ad avere noleggiato l’imbarcazione ed a loro eventualmente dovrei dare dei soldi), ottengo un passaggio per 140k rp. Soddisfatto, salto su e partiamo. Lasciamo Labuan Bajo alle nostre spalle e ci inoltriamo nell’arcipelago di minuscole isole nella baia, il cielo è terso e soffia un venticello tiepido. Dopo un paio d’ore alla velocità di un materassino, attracchiamo al pontile di Rinca. Sotto una casupola di legno, i ranger annoiati ci salutano e ci guidano sul sentiero. Camminiamo per una decina di minuti in quella che sembra una grossa palude prosciugata e arida, dove un gruppo di piccoli macachi corre fra le sterpaglie secche. Raggiungiamo l’ingresso del parco. Qui, dopo avere firmato il registro, pago 190k Rp. così suddivise: 100 per i ranger che guidano il trekking e frappongono i bastoni biforcuti fra noi e i canini dei rettili; 20 di ingresso al parco, 50 per la macchina fotografica (non speficificando che fa anche filmati altrimenti bisogna pagare il triplo) e altri 20 in tasse vaghe. Per ora quindi sono a 330, aggiungendone altri 100 credo che un drago potrei comprarlo e portarlo a Milano. Spero ne varrà la pena, il parco inoltre è patrimonio dell’Unesco. Sull’isola, scopro, vivono in modo permanente solo una ventina di persone. Arrivati ad un gruppetto di bungalow, troviamo i primi dragoni, stramazzati al suolo per l’afa. Ci scateniamo con foto e filmini, con i ranger (due adolescenti con il bastone) che ci tengono ad una distanza di sicurezza dalle bestiole. Anche se sembrano inermi, possono attaccare con una velocità insospettabile; ma questi non sembrano curarsi particolarmente di noi. Ci spiegano che quelli con la testa più grossa sono i maschi, che sono il triplo delle femmine. Si accoppiano a luglio-agosto, e le femmine depongono le uova a settembre, nascondendole in grosse buche che poi ricoprono di terra. Dopo averle vegliate per tre mesi, queste si schiudono e i piccoli si rifugiano subito sugli alberi, visto che le madri se ne disinteressano e per i padri sarebbero solo una succulenta merenda. Guardo i dragoni che si muovono pigramente, ci dicono che non vengono nutriti ma dubito che altrimenti starebbero tutti nelle vicinanze, accontentandosi dei pochi rifiuti. Magari danno loro del pesce o qualche quarto di vacca ogni tanto, giusto per garantire ai visitatori la tanto agognata foto ricordo e perpetrare l’unico business di quest’isola arida e spoglia. Ci incamminiamo per un sentiero che si inoltra nella foresta, costellato di innumerevoli merde di bufalo, e scorgiamo altre scimmie e un paio di strani uccelli che se ne svolazzano via al nostro passaggio. Poi attraversiamo una distesa di erba alta fino alla coscia: sembra il posto perfetto in cui un dragone potrebbe nascondersi per azzannarti un polpaccio. Non ci penso e mi accodo ad una grassa francese, sperando che eventualmente sia una preda più appetibile di me, che ho le gambe di un fenicottero. Arriviamo in un punto in cui il fiume in secca ha lasciato delle pozze di acqua fangosa, dentro cui dei bufali bevono e si rinfrescano. Ci spiegano che in questo tratto avvengono spesso attacchi ai bufali; infatti notiamo che uno di essi su una coscia ha una vistosa ferita a forma di morso, di un colore rosso vivido. La tecnica di caccia dei dragoni è semplice: si appostano, mordono la loro vittima e lasciano ai miliardi di batteri che hanno in bocca il compito di finire il lavoro. Dopo 2-3 settimane, la preda stramazza al suolo in agonia per l’infenzione e i rettili, che non l’hanno mai persa di vista, fanno quello che i ranger chiamano dragon-party: la divorano viva. Quindi nei dintorni ci sono sicuramente dei dragoni, anche se a quest’ora calda tendono a stare immobili chissà dove. Continuiamo il nostro cammino su colline coperte da una prateria di erba secca. Qua e là bruca qualche bufalo che non sembra curarsi minimamente di noi. Una ragazza inglese chiede al ranger cosa mangiano i bufali, e lui le risponde erba. L’inglese è stupita: ma come, non mangiano carne? La fisso negli occhi per capire se stia scherzando, ma quella è scema davvero. Incredula, lo chiede più volte, le rispondo di stare tranquilla che nessun bufalo ci azzannerà. Forse crede che facciano colazione con due McBacon come lei. Scendiamo per i pendii trapunti di palme solitarie, la vista sulle isole intorno è mozzafiato, Komodo è di fronte a noi. Dopo un po’ siamo nuovamente all’accampamento. Vado al molo per cercare la barca che avrebbe dovuto riaccompagnarmi a Labuan Bajo, ma è tardi ed è già partita. E’ rimasta la Paradise, quella che non mi aveva caricato perchè era appena partita. Sono sicuro che quella torni in paese, per cui mi metto al molo insieme ai pigri ranger in attesa della famiglia che l’ha noleggiata. Quando arrivano, faccio gli occhioni del gatto di Shrek e dico loro che, se non trovo un passaggio, sarò costretto a dormire sull’isola fra scimmie e varani assassini. Per fortuna è una famiglia di tedeschi molto disponibili e mi fanno salpare con loro: anche stavolta il dio dei viaggiatori è dalla mia parte. Sono molto gentili e dividono con me lo sproporzionato buffet che il piccolo equipaggio ha preparato: riso con pesce, costine di bufalo, frutta a non finire. Sulla via del ritorno, ci fermiamo nei pressi di un’isolotto verdeggiante di mangrovie. Il mozzo ci dice che è l’isola delle flying foxes, a sentir lui degli uccelli che si alzano in volo al crepuscolo. Mi metto comodo su un materassino per aspettare l’evento, mentre la luce si affivolisce attorno a noi e la barca rolla leggermente, il mare incendiato dagli ultimi riflessi del giorno. Appena il sole scompare all’orizzonte, una nube nera oscura il cielo: altro che uccelli, sono pipistrelli grossi come gabbiani e a decine di migliaia si alzano in volo verso Flores per il pasto notturno. E’uno spettacolo impressionante, rimaniamo incantati a guardarli a bocca aperta. Da ragazzino, ai pipistrelli lanciavo piccoli sassi, per vederli fiondarcisi sopra pensando che fossero insetti. Ma questi mangiano frutta, per cui o non hanno il radar oppure non hanno voglia di deviare dal loro percorso, e i pezzetti di buccia di banana che lancio in alto finiscono tutti in mare. Quando anche l’ultimo dei pipistrelli è passato, ci rimettiamo in navigazione, è buio ed io stendo sul tetto uno dei materassini e mi avvolgo nel mio tappeto, a godere della brezza fresca e della volta stellata; presto cado in un placido sonno. Quando sento che il motore rallenta lo scoppiettio mi risveglio, siamo già nel porto di Labuan Bajo. Scendo e saluto la famigliola di tedeschi, ringraziandoli calorosamente per il passaggio. Le attività serali fervono nella cittadina. Le ragazze sorridenti sotto il velo tornano dalla funzione alla moschea, ragazzini giocano per strada e mi guardano curiosi. La località non è turistica, anzi è trasandata e i ratti scorrazzano felici in tratti di fogna a cielo aperto; ma l’atmosfera è vivace e la gente amichevole. Ceno al Mata Hari, una sordida bettola del porto dove sono rimasti solo gamberetti, patate e Fanta alla fragola; ma per 50k Rp va bene così. Dopo un paio di mail, mi ritiro in albergo, dove scopro che la mia roba da lavare è ancora nella cesta insieme ad un pacchetto di Lucky vuoto. In queste strutture di classe economica sono bravi a chiedere prezzi spropositati, ma il servizio spesso è scadente e le camere in cattivo stato. Ma fa parte del gioco, e vado a letto contento per la bella giornata.
Kanawa
Verso mezzogiorno siamo partiti in barca verso l’isola di Kanawa. Dopo circa un’ora la avvistiamo e ci avviciniamo al pontile per attraccare. L’isola avrà un diametro di 3-400 metri, un paio di sottili strisce di sabbia bianca, una ventina di bungalow spartani, un ristorantino e un capanno con le attrezzature per le immersioni; e nient’altro. Proprio quello che ci vuole per un paio di giorni di relax. Mi sistemo nella minuscola abitazione, che per doccia ha una tanica rovesciata, e una bella verandina con amaca. Giusto il tempo di appoggiare lo zaino, prendo la maschera e mi tuffo in acqua. Conto una trentina di pesci diversi, oltre a diverse varietà di coralli e di stelle marine. La profondità rimane di circa un metro e mezzo per una settantina di metri dalla riva, per poi sprofondare rapidamente verso abissi blu scuro. Raccolgo qualche grossa conchiglia, per poi risalire su una spiaggia deserta nella parte disabitata dell’isola. Dopo essermi asciugato ed aver osservato un uccellino azzurro svolazzare tra i rami dei pochi alberi contorti, ritorno verso la base camminando sugli scogli, e per un’altra volta si rivelano provvidenziali le scarpette con la suola di gomma. Dopo una rapida doccia (l’acqua dolce sull’isola è limitata), mi arrampico sul sentiero che sale in cima a una delle due colline che sovrastano l’isola; sullo scosceso versante di fronte, un branco di capre selvatiche si inerpicano fra le rocce brucando cespugli di graminacee. Dalla sommità del colle la vista è magnifica, spazia a 360° sull’arcipelago, si distingue nettamente la fine della barriera corallina intorno alle isole. Un vento fresco soffia dolcemente, asciugandomi il sudore della “scalata”. Dopo questa sosta meditativa, ritorno verso il mare per fare snorkelling. Da una grosso ammasso di anemoni di mare blu mi sbircia una famiglia di pesci pagliaccio, mi rammarico di non avere con me la macchinetta subacquea. Mi consolo facendo diverse foto al tramonto, il disco arancione del sole sparisce lentamente nell’orizzonte tremolante. Il tempo di una cenetta a base di riso, pesce alla griglia e Bintang, ed è già buio; ne approfitto per scattare qualche altra foto alla volta stellata e alla falce di luna, prima di assopirmi in un sonno sereno.
Komodo
Mi sono alzato all’alba prima della sveglia, forse già pregustando le immersioni di oggi. Ma pur essendo andato più volte con le bombole non ho il brevetto, e l’istruttore non se la sente di mandarmi sotto. Ed, questo è il suo nome, è uno stempiato ex ragazzo inglese dalla voce alta e la risata fragorosa; è uno dei tanti occidentali capitati per caso nel sudest asiatico, per poi innamorarsene e rimanerci a vivere. Mi spiega che le correnti attorno a Komodo sono troppo impegnative, ed io francamente non me la sento di entrare nel club dei dilettanti allo sbaraglio che ci lasciano le penne. Concordiamo che posso aggregarmi a loro per fare snorkelling, visto che il mio obiettivo è avvistare una manta e lui mi dice che ci sono buone possibilità di avvistarne anche solo con maschera e boccaglio. Assieme a noi ci sono altri due sub, un tedesco e uno svizzero. Facciamo una prima sosta nei pressi di un isolotto circondato da acque inquiete, e mentre loro si immergono in profondità, io circumnavigo a nuoto gli scogli che affiorano. Avvisto banchi di grossi pelagici, innumerovoli pesci colorati che nuotano vicino al pelo dell’acqua, e una cernia enorme. Tento di scendere più sotto ma senza bombole è dura, inoltre se mi allontano troppo dalla scogliera sento la corrente che tira con prepotenza. Dopo un paio di giri dell’isola a nuoto, torno in barca, presto raggiunto dagli altri. Dopo una sostanziosa colazione con biscotti, banane e tè caldo, ci dirigiamo verso le coste di Komodo. Qui il fondale è di sabbia chiara e non scende sotto la decina di metri, ma vedo solo una pigra tartaruga e uno squalo pinna nera, e poco altro. Risalgo in barca, sconsolato perchè di mante non se ne vede neanche l’ombra. La barca gira lentamente attorno a komodo, tenendosi a un mezzo miglio dalla costa rocciosa e spoglia. Dopo un po’ il mozzo mi scuote dal torpore, indica le acque e dice “manta, manta!”. Dal parapetto scorgo una sagoma marrone, mi tuffo e faccio appena in tempo a scorgerla prima che si inabissi. Risalgono anche i sub, pure loro l’hanno vista di sfuggita. Rimaniamo sottocosta, finchè il capitano ci chiama e punta il dito ad una decina di metri da noi. Ce ne sono una decina, grossi rombi beige che quasi affiorano, guizzando fra le increspature della superficie marina; mi tuffo immediatamente per non perderle di vista. Quando entro in acqua la scena è stupefacente, e credo che di quell’attimo cristallizzato di gioia pura me ne ricorderò per tutta la vita. L’acqua è piena di pagliuzze dorate e brillantini colorati, milioni di microscopiche lucciole pulsanti che fluttuano trasportate dalla corrente. E’ il plancton di cui le mante si nutrono. In mezzo, diverse di esse volteggiano con grazia, sembra che volino. Hanno quasi tutte una “apertura alare” che supera i due metri, e tengono la bocca (grossa più dell’oblò di una lavatrice) spalancata per cibarsi. Sembrano blandamente incuriosite dalla mia presenza, nuoto fra di loro fino quasi a toccarle. Ma è meglio non avvicinarsi troppo, movimenti bruschi potrebbero farle reagire in modo aggressivo. Ogni tanto ne perdo una di vista, mi giro e me la ritrovo che mi passa a pochi centimetri dal viso, è un po’ inquietante ma è un’emozione indescrivibile. Spero che avvertano il rispetto che ho e che non voglio far loro del male; anche se il rispetto servirebbe a poco se mi vedessero come una minaccia e mi piantassero la coda velenosa in gola. Ma ci limitiamo a nuotare assieme e a guardarci, loro con piccoli e vivaci occhi neri, io dietro alla maschera; starei ore a volteggiare con loro, ma dopo un po’ si disperdono inabissandosi nel blu cupo, e risalgo in barca. Ed, sorridendo, mi chiede se ho visto le mante. Scoppiamo a ridere, mentre un’altra tazza di tè bollente ci riscalda le ossa. Tornati a Kanawa, ho un’altra piacevole sorpresa, seppure più prosaica. Visto che non ho usato l’attrezzatura da sub, invece di 800k Rp ne pago 250, e in fondo ho visto infinitamente di più di quanto potessi sperare. Per capirci il tutto, più la cena di ieri, il trasporto da e per Labuan Bajo e il bungalow, mi viene a costare una quarantina di euro. Ora sono a Labuan, passo ancora una notte al Komodo Indah, domani mattina alle 7:30 si riparte con le sgobbate: 16 ore di tornanti in pulmino per raggiungere Ende, cittadina in mezzo alla (finora) meravigliosa isola di Flores.
verso Ende
Oggi è stato il giorno del viaggio della speranza. Il pulmino della Perama per Ende (240K Rp) è pieno ma abbastanza nuovo e spazioso. La strada è tutta curve, e si snoda tra vulcani spenti ricoperti da una fitta vegetazione, terrazzamenti di riso, alberi secolari e fiumiciattoli che scorrono in profonde vallate verdi. Sono in corso parecchi lavori per allargare la strada, per cui spesso incontriamo operai che spaccano pietre e sollevano polvere, lavorando in condizioni che dire pericolose è poco; ad esempio che picconano la parete quasi verticale rocciosa ad una decina di metri da terra, senza neanche una corda. Rimanendo in tema di sicurezza, mi accorgo che nelle curve che si affacciano sui precipizi non c’è ombra di guardrail, inconsciamente controllo se ci siano grossi alberi che potrebbero eventualmente fermarci prima dell’abisso. Inoltre, tanto per essere rassicurato, l’autista dice di essere stanco e continuiamo a fermarci per fare pausa-caffè. Dopo 5 ore raggiungiamo Ruteng, nel cuore della regione manggarai. La città in sè non sembra offrire grandi attrattive, placido centro di scambi commerciali nella provincia agricola. All’autorimessa della Perama, cambio pulmino, sono l’ultimo occidentale rimasto; accanto a me c’è un giovane di Ende, scambiamo qualche frase in inglese, mi informo su quanto manca e altri aspetti del viaggio. Tento di dormire un po’ ma l’impresa non è facile; sebbene abbia parecchio spazio, ogni volta che sto per appisolarmi prendiamo un dosso o una buca e mi risveglio. Facciamo una sosta per mangiare qualcosa ad Aimere, una grossa cittadina sul mare. La locanda sembra un negozio di alimentari che tenta di cucinare qualcosa, ma andando al cesso vedo la “cucina” e mi passa la fame, o meglio prendo un pacchetto di manioca e sgranocchio quella. Vicino c’è uno spelacchiato campo di calcio senza righe, in cui si sta svolgendo una partita seguita da una folla urlante. Divento presto l’attrazione di quelli che ho intorno, che mi apostrofano con infiniti “Hey mister” e “Where you from”, dopo un po’ mi stanco di rispondere alle due domande e rivolgo loro soltanto sorrisi bonari, facendo l’indiano. Ripartiamo, ed il paesaggio rimane immutato: montagne, vallate, foreste, e il mare che ogni tanto appare. Passiamo di fianco ad una casa il cui giardino è gremito, e si capisce perchè: dal cassone di un furgoncino stanno scaricando un porco con le zampe legate, che grugnisce e si dibatte forse intuendo la sua triste sorte. O forse maledicendo di non esser nato in una delle tante isole islamiche dell’Indonesia. Infatti credo che il rituale collettivo dell’uccisione del maiale abbia a che fare anche con il rimarcare l’identità cristiana dell’isola. Lungo tutto il percorso ci sono bambini che salutano, sorridono, in seguono il pulman finchè hanno fiato e gambe. Tre di loro dall’aria quasi truce sono appostati con una fionda, sento dei sassolini colpire la fiancata; non posso fare a meno di pensare che alla loro età facevamo la stessa cosa coi gavettoni o i petardi. Presto si fa buio, ed inizio ad essere esausto di curve e scossoni; per fortuna sono in fondo e posso reclinare parecchio il sedile, per cui anche se non dormo, non sono neanche così scomodo. Verso le 21:30 raggiungiamo finalmente Ende, mi faccio lasciare all’ Ikhlas hotel, dove per 70k Rp reccupero la solita camera spartana ma decente. Ceno in una specie di mensa davanti, solito riso con pollo, verdure e costine di qualche mammifero imprecisato. Il tempo di sistemare il sacco lenzuolo, e piombo in un sonno profondo.
Ende
Verso le 5:30 vengo svegliato da una persona che urla al cellulare proprio davanti alla porta della mia camera. Inferocito, grido come un unno alla carica, lo sento che si allontana e si chiude da qualche parte, senza peraltro abbassare la voce di un decibel. Ma ormai il danno è fatto e mi alzo. Con una passeggiata di un chilometro circa arrivo al porto, dove le barche dei pescatori stanno attraccando per vendere ciò che hanno preso. Sulla spiaggia grigia, capannelli di persone si affollano intorno ai teli di plastica su cui è esposta la mercanzia. Il pesce più diffuso sembra un cd, piatto ed argenteo, ce ne sono grosse piramidi su ogni telo; e poi sgombri, qualche barracuda, e piccoli tonni, le cui dimensioni spesso non superano quelle di un avambraccio. I mercanti al dettaglio trattano il prezzo e ne portano via secchi ricolmi. Adiacente al porto c’è il mercato, dove oltre al pesce vendono verdure, riso, tabacco, spezie di ogni genere. In due viette si commerciano gli ikat, l’abito tradizionale di questi luoghi, una specie di lunga gonna che indossano sia uomini che donne. Tentano di vendermene uno, ma pur amando l’artigianato etnico non saprei davvero cosa farmene e in che occasioni indossarlo a Milano. Se non fosse cucito in forma tubolare potrei usarlo come telo, ma così.. I colori ed i materiali sono comunque molto particolari e raffinati. Dopo avere bighellonato fra le bancarelle, mi reco a piedi all’aeroporto (costituito solo da una piccola sala d’aspetto, un radar e una pista). Per un milione di rupie, circa 80 euro, compro un posto per Denpasar; l’alternativa sarebbero autobus e barca, ma sarebbe un lungo calvario e in ogni caso non ho abbastanza tempo. Poi, fermo un motorino e mi faccio portare al terminal degli autobus, cercandone uno che mi porti al Kelimutu National Park. Ne trovo uno vuoto, chiedo quando parte e mi rispondono “quando è pieno”. Vedendo che non ho molta voglia di aspettare mi propongono di andarci in mototaxi: riesco a strappare 100k Rp per andata e ritorno, un prezzo che a posteriori ritengo ottimo, visto che è un bel pezzo di strada. Esigo il casco, per cui il ragazzo della moto mi dice di aspettare che va a casa a prenderlo e torna. Intanto faccio due chiacchiere con degli indonesiani, e si finisce a parlare del Milan; qui infatti sono molto interessati al calcio europeo, sfoggiando spesso una competenza maggiore della mia. E non è raro vedere bambini macilenti con magliette di prestigiosi club, spesso l’Inter, il Barcellona, il Manchester o il Milan. La strada, il solito susseguirsi di curve, è molto affascinante. I villaggi che attraversiamo sono molto più caratteristici di quelli sulla TransFlores, gli abitanti hanno un aspetto sempre più rurale e primitivo. Tutti indossano l’ikat a parte i bambini. Molte donne soprattutto anziane, hanno la bocca digrignata impastata di rosso; questo perchè masticano betel, una specie di noce moscata che contiene molecole eccitanti. La strada continua a salire di quota, e il paesaggio cambia: le piante di caffè e i terrazzamenti di riso lasciano il posto a felci e conifere, creando un bizzarro ambiente alpino all’equatore. Anche la temperatura scende parecchio, mi pento di essere in pantaloncini e ciabatte anche se il freddo non è irresistibile. Dopo aver pagato l’ingresso al parco (73K Rp) ci fermiamo nel posteggio del parco, dove alcune donne vendono gli immancabili ikat. Con una passeggiata di un quarto d’ora raggiungiamo i crateri del Kelimutu, e senza dubbio meritano la fama che hanno. Si vedono i primi due, le sponde rocciose si gettano a precipizio nei laghi in fondo alle caldere. Essi periodicamente cambiano colore, per via di sostanze chimiche che si sprigionano dal fondo. Quest’anno, uno è turchese vivido, l’altro è verde smeraldo con gialle chiazze sulfuree ai bordi. Il silenzio è rotto solo dalla lieve brezza che fende la scarsa vegetazione. Per vedere il terzo lago è necessario inerpicarsi su un picco, da cui si dominano le vallate circostanti. Il panorama è notevole, e a parte due puntini che si muovono sul sentiero sembro essere l’unico abitante nel raggio di miglia. Il colore dell’ultimo lago è verde petrolio, quasi nero, ed ha un aspetto vagamente sinistro; non a caso, i locali credono che sia abitato dagli spiriti delle persone malvagie. Dopo una sigaretta e le foto di rito, torniamo ad Ende, dove mi concedo il meritato pisolino. In serata, dopo un piattone unico nella solita mensa (inizia a piacermi, e i prezzi sono popolari) cerco un qualche segno di vita notturna; dovrebbe esserci almeno un bar aperto, faccio una lunga camminata ma c’è solo buio e desolazione. Per cui torno in camera a finire l’ultimo libro che ho.
Wolotopo
Stamattina, per 10k Rp, mi sono fatto accompagnare da uno scooterista fino a Wolotopo, un villaggio a una decina di km da Ende. L’ultimo tratto di strada passa sulla costa e si sporge su spiagge deserte di sabbia vulcanica nera. Arrivato in paese mi sento un po’ fuori luogo, divento immediatamente l’oggetto della curiosità collettiva. Anziane impegnate nelle faccende domestiche che si danno di gomito indicandoli, bambini che mi nugolano intorno seguendomi passo passo. Cammino per le vie del paese, un intrico di saliscendi in pietra costruito sul promontorio; le case hanno un aspetto tradizionale, fatte di legno, a parte i tetti di lamiera ondulata e gli allacciamenti elettrici. Mi siedo su un muretto per fumarmi una sigaretta, de vengo attorniato da ragazzini curiosi, “mister mister”. Sono felici di farsi fotografare, si mettono in posa e ridono come pazzi vedendo le foto sul display. Dopo un po’ arriva un uomo sulla quarantina che cerca di parlarmi, per fortuna una ragazzina (che scopro essere una delle sue figlie) parla un po’ d’inglese e ci fa da interprete. Gli dico che sono italiano, tento anche qualche frase in bahasa sbirciandola dal mio quadernetto. L’uomo si chiama Andreas, mi invita a bere il kopi a casa sua, e accetto di buon grado, anche per sfuggire l’accerchiamento di curiosi. Ci avviamo quindi verso la sua abitazione, i suoi figli sono eccitatissimi di avere un ospite straniero, chiamano i vicini per mostrarmi a loro. Appena fuori della casa, nel giardinetto, c’è una parallelepipedo ricoperto di delicate piastrelle lilla; Andreas mi dice che è la tomba in cui riposano i resti dei suoi genitori. Ma per loro è un elemento di arredo, lo usano infatti come tavolo all’aperto ed infatti lì sopra ci sediamo a sorseggiare tranquillamente il caffè e a chiacchierare. Qualcuno recupera un dizionario bahasa-inglese, così riusciamo a scambiare anche qualche frase, loro apprezzano molto lo sforzo prodigandosi in spiegazioni e sorrisi, e intanto imparano qualcosa in italiano. Dopo un po’ Andreas mi invita ad unirmi a loro per il pranzo, offerta che accetto volentieri sia perchè lo stomaco brontola, sia perchè sono curioso di entrare in una di queste abitazioni. L’interno della casa è spoglio, sembra una casa di agricoltori ed è questo infatti il lavoro di Andreas; ma non mancano i segni del progresso, il televisore lo stereo e il frigorifero. E’una famiglia allegra e dignitosa, povera ma che non si fa mancare qualche comodità. Delle sgualcite icone cristiane sono appese alle pareti, un Gesù biondo con gli occhi azzurri mi guarda spaesato. Andreas mi informa con fierezza che in paese sono tutti cattolici, ed infatti il centro è costituito dal piazzale della chiesa di cemento e mattoni, l’unico edificio moderno. Mangio con voracità il riso, le verdure e l’ikan (pesce) piccante che mi vengono offerti, ma rifiuto la sigaretta ai chiodi di garofano che Andreas mi offre a fine pasto. Intanto i bambini si spidocchiano fra di loro, uno tormenta una gallina che ha una zampa legata con una corda. Una vecchia raggrinzita coi pochi denti rimasti rossi di betel, ci guarda perplessa mentre mi scambio la mail con la figlia maggiore, quella più tecnologica. Andreas si inforca gli occhiali per leggere il mio biglietto da visita, insiste per darmi il suo indirizzo e numero di telefono, anche se non credo che ci chiameremo per fare lunghe conversazioni in bahasa. Quando mi chiedono quanto costi il biglietto aereo dall’Italia, rimangono sbalorditi, dicono che sono miliardario (si, ma in rupie). Andreas mi chiede se voglio che, più tardi, suo figlio mi riaccompagni ad Ende con l’ojek (lo scooter). Accetto di buon grado, anche perchè non avevo organizzato il rientro, offrendomi naturalmente di pagare il passaggio. Intanto, nel cortiletto adiacente, un gruppo di donne sta ripulendo il riso, facendolo saltare in grossi setacci, mi sorridono con le bocche purpuree di betel. Saluto tutti e ci incamminiamo, il ragazzino spinge lo scooter in un sentiero del bosco per raggiungere la strada asfaltata. Scopro così come avviene lo smaltimento dei rifiuti in paese: vengono scaricati nella foresta appena dopo le ultime case. E’ triste vedere il lato marcio del progresso, questa gente non è in grado di gestire le montagne di plastica e fuffa che, seppur lentamente, produce. Sulla strada per Ende, un gruppo di ragazzi ci ferma, mi chiedono se voglio comprare una specie di piccolo rapace che hanno catturato. Il ragazzo me lo mostra fiero e vuole che almeno lo fotografi con la sua preda, ma mentre si mette in posa il pennuto gli becca una mano e la scena diventa comica, il pennuto tenta di scappare in un confuso stormire di penne e di mani che cercano di riacciuffarla, ma ha una corda legata ad una zampa e non fugge lontano. Considero di comprare l’uccello per liberarlo, ma alimenterei il circuito e preferisco lasciarlo al suo destino sperando che il turpe commercio si estingua. Mentre torniamo ad Ende, penso con piacere ad Andreas ed alla sua famiglia, spero di aver lasciato loro lo stesso bel ricordo che loro hanno lasciato a me. Nel pomeriggio, per passare il tempo faccio un altro giro al porto. Il mercato si sta svuotando, capre brucano nella spazzatura, il pesce avanzato marcisce per terra, brulicante di larve bianche. A fianco del piazzale, un torbido canaletto di scolo butta tutto a mare. Mi chiamano talmente tante volte “Hey mister” che dopo un po’, sebbene i loro intenti amichevoli, ho le palle che strisciano per terra. E’ il tramonto, cammino sul pontile dove attraccano i cargo, mi immagino per qualche secondo imbarcato per destinazioni lontane. Non c’è nessuno, a parte qualche pescatore e qualcuno in lontananza. A poppa di una nave due marinai stanno guardando la tv, mentre a prua un altro accovacciato sulla polena lancia una lenza a mare, la silhouette nera stagliata contro il sole che si immerge nell’orizzonte. Torno in hotel dove ceno e finisco una intera settimana enigmistica, visto che qui la sera non c’è assolutamente nulla da fare.
Wologai
Anche oggi mi sono dedicato alla visita dei villaggi tradizionali nei dintorni. Ho chiesto un po’ e studiato bene la mappa, e ho individuato Wologai, a 35 km da Ende. Ho cercato di noleggiare un motorino per avere la massima libertà di movimento, ma non è stato possibile, ho solo perso tempo con gente che chiamava l’amico del cugino ecc. Mi sono quindi rassegnato a fermare un ojek, e ho quindi contrattato con il ragazzino (Fred) 50 KRp. perchè mi facesse da guida ed interprete. Buona parte della strada è la stessa che va verso il Kelimutu, ma ad un certo punto taglia a destra verso le montagne. Facciamo una sosta a metà strada, per rilassare il gluteo provato e per dare un’ occhiata ai dintorni. Intanto Fred mi racconta un po’ di sè, per migliorare il suo inglese; vorrebbe andare a studiare in qualche grande città, è ovvio che la piccola realtà portuale di Ende gli sta stretta. Il viaggio riprende, ed arriviamo quindi a Wologai. All’ingresso del villaggio, c’è un albero talmente grande che posso passare comodamente nei varchi tra le radici. La parte tradizionale consiste in una dozzina di case in legno intagliato, con il tetto di paglia, disposte a cerchio attorno a quello che mi dicono essere il tempio. Dopo le foto di rito, ci mettiamo a chiacchierare con della gente che sta oziando nella piazza, ovviamente con l’intermediazione di Fred. Le donne non fanno altro che masticare betel e sputare rosso. Dopo un po’, un uomo e sua moglie mi invitano ad entrare in casa loro, ed accetto volentieri. Le pareti della casa, in basso, hanno pannelli di legno intarsiato con motivi floreali, frutti di cacao, animali ecc. L’unico indizio che ci troviamo nel terzo millennio è un neon che pende dal soffitto illuminando fiocamente l’intera casa, un ambiente unico suddiviso dai pannelli nelle varie stanze. Al centro sono appesi dei cestini di vimini, che fungono da portaoggetti o vengono usati per imprecisati rituali. Ci sono anche delle statue lignee di aspetto molto antico, raffiguranti idoli intagliati grezzamente. In un angolo c’è il falò, ora spento; non essendoci un camino nè altri buchi di sorta, chiedo loro come facciano con il fumo. La veneranda signora dai denti di porpora mi risponde che quella è la tradizione, e non se ne sono mai preoccupati. Sediamo in terra, mentre ogni tanto qualcuno si affaccia alla porta per dare un’occhiata curiosa. Mi spiegano che nel villaggio esiste una specie di mutuo soccorso, che consiste nella collaborazione per i lavori agricoli e per la risoluzione dei problemi comuni. Mi domandano se voglio pranzare con loro, e ovviamente ne sono onorato. Sono molto orgogliosi, soprattutto del loro kopi, ne sorseggiamo una tazza fumante di quello che coltivano loro stessi. E’ delizioso anche se non bevo mai caffè, loro lo bevono molto dolce e lungo; discutiamo del caffè all’italiana, e loro approvano con solenni cenni del capo la soluzione dell’espresso. Mangiamo riso condito con verdure e pesce arrosto, preparato dalla loro figlia (nipote? cugina? mah..) ventenne. A fine pranzo mi impongono amichevolmente di pulirmi i denti alla loro maniera. Ricoprono di una polvere bianca (Kapur) una specie di fagiolino verde (Sirih), e poi lo masticano insieme all’immancabile noce di betel (Pinang). Come risultato ho la bocca di un colore sanguinolento e sputo rosso come loro, cosa che sembra divertirli molto. Mi lasciano un po’ degli ingredienti, nel caso voglia provvedere anche più tardi alla mia igiene orale. Salutiamo i simpatici abitanti di Wologai e ci dirigiamo verso Moni, una cittadina francamente inutile, non prima di avere fatto una tappa alle cascate di Murundao. A Moni ci intratteniamo a casa dei cugini di Fred, che mi mostrano orgogliosi le loro piante di cacao. Tornati ad Ende, scambio la mia mail con quella di Fred, e ci proponiamo vanamente di scriverci.
– Gula-Gula: caramelle (il raddoppio della parola è il plurale). – Nei film, anche i baci sono tagliati, per le recenti leggi sulla “moralità”. Il risultato è grottesco, con i protagonisti delle pellicole che avvicinano le labbra con il tramonto sullo sfondo, e la scena che cambia all’improvviso. – In tutta l’Indonesia, esistono 20 metri consecutivi di marciapiede integro?
Bali
Penultimo giorno. Ieri il volo, con un ritardo di un’ora, è atterrato a Bali dopo una sosta a Tambulaka. Ritrovo Kuta come l’ho lasciata, in balia dei surfisti e del bordello sempre e ovunque. Oggi ho fatto un giro in scooter nella penisola a sud di Kuta, una sorta di territorio pensato esplicitamente per i ricchi. All’ingresso di Nusa Dua c’è un controllo di sicurezza, mi passano il metal detector e non mi trovano neanche l’Opinel lungo 5 dita, mah.. La baia, essendoci bassa marea, è una distesa di pietre ed alghe, fra le quali piccole piscine di acqua calda brulicano di vita. Stelle marine nere che si spostano muovendo i tentacoli, delle specie di bruconi giganti marini, gamberetti, pesciolini; ed un solitario airone bianco che tuffa il becco in acqua per cibarsene. Dei pescatori con dei curiosi copricapi lanciano le reti nella basse acque, tirando su dei piccoli pesci da zuppa. In serata, dopo qualche cocktail con un gruppo di russi miei vicini di camera, ho chiuso la nottata in un baretto qui vicino gestito da un italiano.
Di buon’ora, riprendo il motorino e torno verso sud, questa volta con direzione Uluwatu. La strada attraversa un imponente ingresso, le solite guardie mi chiedono il motivo della visita; sono in costume e ciabatte, vedete voi… L’ambientazione è simile a Nusa Dua: campi da golf, giardini curati, larghi viali ben asfaltati ai lati dei quali muratori e giardinieri son sempre intenti a sistemare qualcosa. Dalla strada in discesa lo sguardo abbraccia l’intera baia, una placida mezzaluna turchese. L’accesso alla spiaggia si chiama “Dreamland”, anche se a dire il vero sporgendosi in un crepaccio si vede un cumulo di spazzatura lasciato lì da operai e commercianti. Il sentiero giunge finalmente al mare, e lo scenario è senz’altro degno di nota. La sabbia è bianca, zebrata qua e là di strisce di polvere nera vulcanica; nel primo tratto è affollata (se così si può dire) di ombrelloni, ma dopo un breve tratto di passeggiata sul lungomare diventa praticamente deserta, riparata alle spalla da una muraglia naturale di roccia alta 5-6 metri. E’ tutta per me, scelgo un posto sotto le rocce per poter alternare ombra e sole, che inizia a picchiare ricordandomi che sono all’equatore. L’acqua è veramente pulita, con onde alte anche un paio di metri che arrivano ad infrangersi quasi sul bagnasciuga. Dei surfisti, ad un centinaio di metri dalla riva, cavalcano quelle più alte, mentre io mi accontento di fare human surf e di socializzare nelle acque tiepide. Entro ed esco diverse volte, giusto il tempo di leggere un capitolo del libro e poi mi rituffo, l’acqua è troppo bella per starla solo a guardare. A pomeriggio inoltrato torno verso Kuta, per comprare le ultime buddhanate e mangiare qualcosa. Essendo la mia ultima cena indonesiana, ed avendo speso sapientemente le mie rupie nel corso nel viaggio, mi sbizzarrisco: snapper, gamberi, una seppia grigliata e un po’ di capesante per digerire. Il tutto innaffiato da una cascata di Bintang gelata, alla faccia dei precetti del profeta. Pago e mi dirigo barcollante nella bolgia dei locali notturni, che fanno a gara a chi offre più decibel e carne sudata.
Oggi parto, ultimo giro in motorello per Kuta, ultime foto. Non è stato amore a prima vista, ma ora mi ci sono affezionato e mi spiace andarmene.
Considerazioni finali
L’Indonesia è sicuramente un Paese particolare per chi conosce le meraviglie del sudest asiatico. Le sue origini tribali, mischiate con le correnti musulmane prima e occidentali dopo, hanno creato un crogiuolo etnico e culturale unico al mondo, in cui convivono islamici, indù, buddhisti, cattolici e chi più ne ha più ne metta. Templi e rovine non possono competere con quelli, ad esempio, della Thailandia, ma meritano di essere visti. Gli indonesiani sono un popolo gentile ed orgoglioso, geloso delle proprie radici ma aperto ad una modernizzazione che arriverà nonostante le ritrosie dei reazionari locali. Il meglio di sè, però, l’Indonesia lo dà a livello paesaggistico: vulcani, parchi marini, giungle, la scelta è imbarazzante e di sicuro si mancherà di vedere qualcosa; io ad esempio avrei voluto vedere anche il Borneo e Papua, ma sono destinazioni che necessitano almeno un mese di tempo ciascuna. La tempistica degli indonesiani è quella di un calabrese dopo un pranzo di nozze, per cui per ogni spostamento va calcolato almeno il doppio del tempo previsto. In tema di divertimenti, intesi alla maniera occidentale, solo Bali è degna di nota, anche tenendo conto che nelle altre isole il consumo di alcol è scoraggiato o proibito del tutto. Indispensabile una crema (potente) contro le zanzare, e una bella zanzariera da appendere sopra al letto per sonni tranquilli.