Tunisia d’inverno: una gemma nel Sahara a due passi dall’Italia
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Viaggiare è la mia piu grande passione, una vera ragione di vita. Viaggio appena ne ho l’occasione, non importa se vicino, lontano, lontanissimo, da solo, in coppia, con amici…. Negli anni mi sono creato una mappa su cui mi annoto tutti i luoghi interessanti che scopro in internet, tv, libri o per sentito dire, e il mio sogno è che piano piano riuscirò a vederne, se non tutti, almeno la maggior parte. Se vi interessasse dare un occhiata alla mia mappa (sentitevi liberi di scrivermi per segnalare altri posti che mi sono sfuggiti!) la trovate a questo link: https://www.google.com/maps/d/viewer?mid=1wgdiLntLID1Ik5NEFW8jiRmXAmU&hl=it&ll=-3.81666561775622e-14%2C0&z=1
Può sembrare strano, ma a volte per assaporare paesaggi, culture e usanze estremamente diverse da quelle a cui siamo abituati non serve andare all’altro capo del mondo, ma bastano un paio di ore di volo dalla nostra penisola. Il Nordafrica è stato da sempre un ponte tra culture, e lasciandosi alle spalle il Mediterraneo si ha la sensazione di avere davanti un’intero continente da scoprire, forse il più misterioso e ancestrale tra tutti.
Per queste vacanze di Natale la mia scelta inizialmente era caduta sul Marocco, avevo voglia di “uscire” un po’ dal mondo e godermi un trekking di una settimana sul Jebel Saghro, bellissimo e semisconosciuto gruppo montuoso che divide le verdi oasi delle vallate a est di Marrakech dai vasti erg desertici dell’Algeria. Purtroppo però nessuna delle guide locali che sono riuscito a contattare, indispensabili per affrontare l’itinerario, aveva già in programma escursioni con altri partecipanti, e affrontarne da solo i costi iniziava a diventare proibitivo. Anche i posti liberi sugli aerei iniziavano a scarseggiare man mano che le date si avvicinavano. E’ quasi d’impulso che ho allora optato per una meta alternativa: la Tunisia interna. Anche qui è possibile trovare stupende oasi, deserti di montagna, erg sabbiosi, vivaci città e importanti resti archeologici, e Dicembre è uno dei mesi migliori per assicurarsi cieli sereni, clima mite e… probabilmente i datteri migliori del mondo! In molti mi hanno fatto osservare che poteva essere una scelta “pericolosa”. Premetto subito che questo Paese non sta attraversando il suo momento migliore. Gli ultimi anni sono stati decisamente burrascosi: nel 2011 la Tunisia è stata la prima tra gli stati islamici a rivoltarsi per guadagnare la democrazia dando un importante slancio alla “Primavera Araba”, ma non tutto è andato per il meglio e i gruppi più radicali hanno subito cercato di approfittare del caos per imporre il loro controllo.
Nel 2015, gli attentati armati al Museo del Bardo a Tunisi e sulle spiagge di Susa non hanno certo migliorato la situazione di una nazione che sopravvive soprattutto grazie al turismo europeo. In questo clima confuso, è stato facile per i più disagiati farsi sedurre dagli estremismi, situazione dimostrata dal fatto che alcuni dei recenti attentati in Francia e Germania fossero collegabili, tra gli altri, anche a cittadini tunisini. Vi chiederete allora perché ho deciso di andarci proprio ora. Beh, i motivi sono principalmente due: in primo luogo non credo che in questo contesto una città europea sia né più né meno sicura di una tunisina (specialmente a Natale…). In ogni caso, informandomi, è risultato che le zone più “delicate” sono quelle sulla costa nord, verso il confine algerino, e i passaggi desertici verso la Libia, entrambe zone che non avevo in programma di attraversare. Il secondo motivo è che spesso si fa un gran parlare di immigrazione e di differenze religiose e culturali senza aver mai vissuto sulla propria pelle la realtà che sta dall’altra parte, e volevo approfittare di questa stagione di scarso turismo per entrare veramente in contatto con le persone del posto ed ascoltare le loro storie, capire cosa sta cambiando e cosa ci si puo’ aspettare dai prossimi anni. Passando al lato organizzativo, ho deciso di prenotare soltanto il volo e la prima notte a Tunisi, consentendomi il massimo della flessibilità e dell’improvvisazione seguendo un’itinerario di massima che avrebbe toccato Tunisi, Sfax, Tozeur, Douz, Tataouine e Kairouan per poi tornare a Tunisi. Per tutto il resto mi sono affidato alla mia guida Mondadori (ottima e aggiornata) e, ovviamente, all’aiuto dei locali.
Per l’ingresso in Tunisia, ai cittadini italiani non è richiesto il visto, basta firmare una carta turistica gratuita in aeroporto e farsi fare un timbro sul passaporto (soluzione da preferire) o, per chi ne è sprovvisto, su un modulo che viene rilasciato all’arrivo e che va allegato alla carta d’identità. A livello linguistico, a seconda della zona in cui ci si trova la questione cambia molto: L’arabo è la lingua ufficiale e la più parlata, affiancata dal francese che però non tutti padroneggiano in modo fluente. A Tunisi in molti, soprattutto i venditori in strada, parlano tranquillamente in italiano, mentre l’inglese è la lingua che i ragazzi preferiscono per “allenare” la loro curiosità verso i visitatori. Gli abitanti dei villaggi più isolati, e in generale le persone anziane, parlano soltanto arabo o addirittura berbero, ma ogni volta la barriera linguistica viene superata dalla loro apertura e disponibilità. Per il cambio valuta, come al solito, ho preferito prelevare direttamente in Dinari appena atterrato (cambio circa 1€=2,4 TND). I dinari sono suddivisi in millim (millesimi) ma spesso i prezzi vengono espressi in migliaia o centinaia, e senza virgole, creando a volte un po’ di disorientamento: ad esempio, un biglietto del treno da Tunisi a Sfax del costo di 13,250 dinari viene espresso a voce come treize-mille-deux-cents-et-demi. Un modo tutto francese di complicarsi la vita. Scherzi a parte, le carte di credito non sono per niente diffuse, quindi sono partito con una scorta di qualche centinaio d’euro da usare in caso di emergenza. Costo totale del viaggio circa 950€, di cui: – 280€ per il volo (Torino-Roma-Tunisi con Alitalia, Tunisi-Malpensa con Tunisair); – 220€ per i vari pernottamenti; – 50€ per gli spostamenti con mezzi pubblici; – 200€ per le escursioni in deserti e montagne; – 200€ tra cibo, ingressi, mance, souvenir, varie ed eventuali.
23 DICEMBRE: TUNISI
Mi sveglio molto presto. Un po’ perchè devo essere in aeroporto in tempo per il mio volo delle 6:50. Un po’ perchè, come al solito, quando so di dover partire per un posto nuovo sono talmente elettrizzato da scattare come una molla al primo suono della sveglia. La mattina è tranquilla e mite, e dopo un breve scalo a Fiumicino mi imbarco sul volo che mi porterà per la prima volta in Africa. Come spesso faccio, ho deciso di leggere il minimo indispensabile su quello che troverò nei vari luoghi che ho in programma di visitare. Preferisco che si lascino scoprire da sé, piano piano, con i loro ritmi. E proprio i ritmi tunisini sono la prima cosa che mi ricordano che sì, ho fatto solo poche centinaia di chilometri dall’Italia, ma questa è Africa: non bisogna avere fretta. Al controllo passaporti i pochi sportelli aperti formano code interminabili, e alcuni militari continuano a spostare le persone da una fila all’altra senza una vera logica. Un gruppetto di ragazze tunisine, in fila con me, mi sorride dandomi il benvenuto nella loro nazione. Mi raccontano che studiano a Parigi e stanno rientrando per le vacanze invernali, come molti altri giovani che sognano un futuro lavoro in Francia e Italia. Dopo quasi un’ora di coda, posso finalmente passare al ritiro bagagli, ma il nastro del mio volo non è più indicato e il mio zaino non c’è da nessuna parte. Probabilmente la mia espressione è visibilmente perplessa, tanto che un uomo del personale mi vede e capisce subito che cerco proprio lo zaino da montagna che poco prima aveva stipato nel suo gabbiotto. Prossimo passo, prelevare i Dinari al bancomat, stavolta senza problemi. Ora non resta che trovare il bus che porta in centro, ma la cosa si fa ardua quando le indicazioni portano ad un’uscita bloccata da lavori in corso, e alcuni mi dicono di uscire dall’altro lato, alcuni di salire al piano delle partenze, alcuni di rientrare e chiedere all’ufficio turistico che però è chiuso… Al piano superiore intravedo comunque dei bus, quindi salgo ma non ci sono né orari né pensiline. Dopo un po’ passa finalmente un autobus, ma l’autista cerca di spiegarmi in un francese stentato che sta andando nella direzione opposta, dovrò aspettare ancora. Decido allora di tagliare la testa al toro e prendere un taxi, e la scelta si rivela la migliore. Do all’autista l’indirizzo del mio ostello in piena Medina, il quartiere antico dove si trovano la moschea e il bazaar. Mi lascia quindi in Piazza della Kasbah, sul margine del centro storico (che è visitabile soltanto a piedi), e telefona al mio ostello in modo da spiegarmi come arrivarci. Nonostante sia molto vicino, la curiosità e la voglia di scoprire sono troppo grandi per muovermi in linea retta. Ad ogni angolo vengo attirato da minareti, bancarelle e gallerie, e mi lascio trasportare nel labirinto di stretti tunnel incassati tra gli edifici intonacati di bianco. Nella frescura dei porticati domina il vociare di gente che cucina in strada, commercia o gioca a carte, finché ad un tratto scorgo oltre le case l’inconfondibile profilo della Grande Moschea. Per entrare nell’ampio cortile porticato mi tolgo le scarpe in segno di rispetto. Dopo qualche minuto di irreale silenzio, dagli altoparlanti esplode il canto del muezzin che a pieni polmoni richiama i fedeli alla preghiera. So che per me significa che è arrivato il momento di uscire; la Moschea vera e propria è proibita ai non musulmani, mentre nel cortile i visitatori sono ammessi ma non durante gli orari di preghiera. Esco dal lato est, sotto un alto portico, e un uomo mi chiede se ho già visto la moschea dall’alto. E’ chiaramente un procacciatore di turisti per conto di qualcuno, ma accetto di farmi accompagnare alla terrazza panoramica. E faccio bene, dato che queste caratteristiche terrazze maiolicate si trovano generalmente sul tetto di empori di tappeti o di antichità, ma non sempre sono ben indicate. Da quassù la vista è veramente piacevole, la Moschea proprio sotto di noi si staglia nel cielo terso, all’orizzonte si vede il mare e alle spalle le alture dove i sobborghi della metropoli continuano a perdita d’occhio. L’uomo mi porta un té alla menta fumante, me lo lascia bere con calma, poi mi dice che mi porta al laboratorio del cugino che distilla essenze. Lo seguo di nuovo tra le gallerie fino al minuscolo negozietto dove si trovano solo un bancone, una mensola con le boccette esposte, un grosso alambicco di rame e un divano per gli ospiti. Il proprietario mi fa accomodare e racconta come esegue la distillazione artigianale, con tempi e modalità diverse per ogni essenza. Come vuole la prassi, ringrazio comprando una piccola boccetta, un estratto di scorze di limone. I profumi di pesce, spezie, té, frutta secca, olive, burro e dolci fritti invadono le stradine. Decido quindi che è ora di trovare l’ostello, lasciare lo zaino e poi mangiare qualcosa con calma. La piccola guesthouse (Medina Hostel, 7€ su hostelworld.com) è molto spartana, con vecchi letti a castello e bagni inguardabili, ma per oggi non mi serve nulla di più. Mi fiondo di nuovo in strada e mi fermo davanti ad una bottega dove un tizio si sta facendo farcire una baguette con marmellata di datteri, burro e formaggio. Sembra invitante e sostanziosa, e me ne prendo subito una anch’io. Riprendo poi ad attraversare la Medina, e più scendo verso la parte nuova della città più le bancarelle diventano “turistiche”, con negozi di piattini di ceramica, magliette, calamite, borse eccetera. La zona del Souk è comunque incredibile, un esempio unico di architettura autoctona spontanea, con case ammassate “strato su strato” fino a creare un vero e proprio labirinto coperto, brulicante di attività. Lo scenario cambia improvvisamente una volta sbucati in Place de la Victoire, al cui centro sopravvive l’antica porta della città. Oggi è simbolicamente il punto di contatto tra il dedalo della zona storica e l’ordinato impianto urbanistico della parte coloniale francese, con ampi viali alberati, eleganti caffè, il Teatro e la cattedrale cattolica. Essendo anche la zona dove sorgono palazzi governativi, banche e consolati, i militari sorvegliano costantemente le strade, e attorno all’ambasciata francese ci sono addirittura recinzioni anticarro e una grossa matassa di filo spinato. Nonostante tutto, l’atmosfera non è per niente tesa, le strade sono pulite e piene di ragazzi che si godono il tempo libero, e si nota la volontà di sentirsi uno dei paesi arabi più moderni e più “europei”. Il sole sta per scendere, e decido di tornare alla terrazza panoramica sopra la moschea per godermi al meglio il mio primo tramonto tunisino. Noto nel frattempo che tutte le botteghe stanno chiudendo e in questa zona non ci sono ristoranti, non vorrei ritrovarmi senza cena… Attraverso una porta socchiusa intravedo un vecchietto senza denti che sta macinando della farina con un mortaio di pietra, sulle mensole una gran quantità di barattoli pieni di cose invitanti. Provo a chiedere se può prepararmi qualcosa, e lui ben felice mi scalda sulla brace uno spesso rettangolo di mlewi, una sorta di piadina di grano e semola, riempiendola di tonno, uova, formaggio, peperoni e l’immancabile harissa, la tradizionale salsa piccante ma dolciastra. Una cenetta semplice ma squisita. Torno all’ostello, sono sveglio dalle 4 di stamattina e ora sento il bisogno di riposare. Nella camerata faccio la conoscenza di un ragazzo algerino che sta tornando verso casa dopo un lungo anello nel deserto tra Algeria e Tunisia di cui mi fa vedere alcune bellissime foto. Ha una visione della sua terra molto particolare, ma che mi fa riflettere. Crede fermamente che non dobbiamo accontentarci dei posti “facili” e “sicuri”; chi ne ha la possibilità deve visitare e sostenere le zone più dimenticate, interagire con le persone che ci vivono, farle sentire parte di qualcosa. Solo così si possono sconfiggere gli estremismi. E io, che solo adesso mi rendo conto di non aver visto un solo altro europeo in giro per la città, come posso dargli torto?
24 DICEMBRE: SFAX
Per oggi l’idea originaria sarebbe stata quella di visitare le rovine di Cartagine e il caratteristico paesino di Sidi Bou Said, ma il cielo al mio risveglio è scuro e gonfio di pioggia. Per non rischiare di non godermi la giornata, decido di anticipare il programma e iniziare a spostarmi verso sud. Insacco tutto nello zaino e corro in stazione per provare a prendere il treno della mattina per Sfax. Evito per un soffio di rimanere sotto la pioggia e arrivo in biglietteria una manciata di minuti prima che il treno parta. Sono anche fortunato a trovare uno degli ultimi posti liberi, che purtroppo però è proprio quello davanti alla stufa e devo stare seduto di traverso per non ritrovarmi mezzo arrostito. I treni non sono certamente supermoderni né superveloci, ma sono puliti, puntuali e soprattutto molto economici. Appena lasciata Tunisi, la pioggia cala poco a poco d’intensità per poi lasciare spazio nuovamente ad un cielo limpido e sereno. Il viaggio scorre piacevole, immersi in coltivazioni di ulivi e fichi d’india, e in circa 4 ore sono a Sfax. La città probabilmente non è né la più pittoresca né la più famosa della costa, ma ho scelto di sostare qui in quanto si tratta di un’importante snodo per spostarsi verso il deserto l’indomani, e in ogni caso ospita uno dei souk più grandi ed autentici della Tunisia.
Appena sceso dal treno mi fermo a mangiare qualcosa nel bar della stazione; un ragazzo mi consiglia una gustosa omelette con tonno, cipolle e insalata e mi da qualche dritta sulle zone più interessanti del souk, indicandomi come arrivarci. Bab Diwan, l’ingresso più monumentale alla città fortificata, è come un filtro tra i viali decorati dalle palme e il viavai delle antiche botteghe. Effettivamente, questo souk è molto diverso da quello di Tunisi: qui non ci sono procacciatori né souvenir, solo scene di vita vera in un immenso mercato a cielo aperto dove le macchine per cucire vanno ancora a pedali, la frutta si pesa con il bilancino a piombini e ogni via offre prodotti completamente diversi. C’è il settore dei tessitori, degli orefici, dei vasai, dei fabbri, dei fruttivendoli, dei pasticcieri. E poi ancora piccola elettronica, pesce, carne, biciclette… C’è veramente di tutto, e la cosa che mi colpisce di più è come ad ogni zona corrispondano diversi suoni, diversi odori, addirittura diversi modi di richiamare i clienti. Chiudo il giro visitando il Museo d’Architettura allestito nella Kasbah, scintillante nei suoi colori ocra e bianco, al cui interno si trovano mappe e plastici che ricostruiscono i più importanti edifici della città attraverso i diversi periodi storici. Stasera ho scelto di dormire al Sibn Ina Sfax Hostel (8€ su booking.com), circa 20 minuti a piedi oltre la cittadella, dove trovo una piccola camera pulita e una bella doccia calda. Ceno in una rosticceria di fronte all’ostello con pollo e patatine, accompagnate dall’immancabile contorno di olive, cipolla, peperoni e harissa. E’ ancora presto, ma la sera non resta granché da fare, così resto in ostello a leggere un po’.
25 DICEMBRE: IN VIAGGIO
Mi sveglio pimpante, approfitto della colazione a buffet dell’ostello e rimetto lo zaino in spalla diretto verso la stazione di Sfax per prendere un treno che mi porterà a Tozeur, nota oasi vicina al confine algerino. Il treno dovrebbe partire alle 13.30, quindi spendo la mattinata gironzolando ancora un po’ per le vie della città murata, che a quest’ora è ancora più vivace. Arrivo comunque in stazione con buon anticipo, ma in biglietteria scopro che non ci sono più posti sul treno di oggi e dovrei aspettare domani alla stessa ora. Scopro anche che la cosa non mi sta preoccupando minimamente, in una frazione di secondo mi passano per la testa decine di alternative per spendere la giornata, prime tra tutte una scappatella alle isole Kerkennah o all’arena romana di El Jem. Neanche il tempo di realizzare la cosa, e il bigliettaio mi dice candidamente: prendi un taxi, vai alla stazione dei bus, qualcosa ci sarà. This is Africa! Non tutto funziona come ti aspetteresti, ma ad ogni angolo spunta qualcuno ad offrirti un’idea o un aiuto. E infatti un bus lo trovo davvero, ho giusto il tempo di fare il biglietto, caricare il bagaglio e salire sul bus. A fianco a me sta seduto un ragazzo che mi guarda incuriosito: non sono solo l’unico straniero in città, sono anche l’unico che è arrivato correndo con uno zaino da trekking. E’ uno studente tanto curioso quanto religioso, mi offre metà del suo panino con verdure e salsiccia di montone, mi chiede un sacco di cose sull’Italia, mi racconta dei suoi studi e di come qui la religione qui si faccia sentire in ogni aspetto della vita quotidiana: cibo, legge, vita sociale, lavoro, sogni, speranze… Se per noi può sembrare un modo “antiquato” di vedere le cose, qui è ancora una molla che rende tutti (fanatici esclusi, ovviamente) aperti, cordiali e amichevoli.
Nel frattempo il paesaggio cambia progressivamente; gli ulivi lasciano posto ai fichi d’india, a basse sterpaglie arse dal sole e infine alla nuda terra. Intorno a noi anche le dolci colline medirranee si inaspriscono in frastagliati altipiani color ocra, la propaggine più orientale della lunga catena dell’Atlante, dove signore gobbe dalle vesti colorate pascolano greggi di pecore e capre in spazi infiniti. Le pubblicità in strada usano sempre meno il francese e sempre più l’arabo, e sul bus salgono alcuni anziani signori berberi, con i loro abiti tradizionali e i tatuaggi rituali su mani e volto. L’asfalto sotto di noi non è più da dare per scontato, asini e carretti soppiantano i furgoni, e i pochi che si vedono sono degli sgangherati pick-up Peugeot degli anni ’60. Il giovane vicino a me scende e lascia il posto ad una ragazza con due occhi nerissimi che mi consiglia una sosta alle Kerkennah al ritorno dal deserto. Anche il bigliettaio mi prende in simpatia, mi invita a passare da Nefta e mi lascia il suo biglietto da visita dicendo di chiamarlo per qualsiasi problema. E’ davvero incredibile il loro mix di curiosità (tanti non vedevano un europeo da anni, o perlomeno non in inverno) e di voglia di raccontare della propria terra e cultura. Arrivo infine a Tozeur, e siccome le indicazioni per il mio alloggio non sono molto chiare, anche qui lascio al tassista il compito di contattare il proprietario per non girovagare inutilmente. La Maison d’Hote (37€ a notte, su AirBnB) è una grande e confortevole casa privata con alcune stanze per i turisti, gestita da una sorridente coppia: Taieb, professore di letteratura araba e vera e propria “agenzia viaggi” ambulante, e Fatima, insegnante di francese e ottima cuoca. La cena che mi prepara è infatti squisita: zuppa di verdure, cavoli saltati e un manzo preparato con una ricetta algerina che si scioglie in bocca. E come dessert, arance, frutta secca e -nientepopòdimeno- i leggendari datteri di Tozeur accompagnati da un denso yogurt, una delizia! Mi alzo da tavola a fatica per quanto sono sazio, ma mi sento giustificato, qui è un giorno come tutti gli altri ma in Italia è Natale…
26 DICEMBRE: OASI, MONTAGNE E DESERTO
Per oggi ho organizzato con Taieb un paio di escursioni che da sole secondo me valgono un viaggio in Tunisia. Non avendo altri passeggeri con cui condividere le spese ho dovuto pagare 50€ per ciascuna, ma posso dire che li valgono tutti. Alle 9 in punto, dopo una bella colazione, partiamo con l’auto di Taieb per il tour delle “oasi di montagna”. L’aria è tiepida e piacevole, siamo ben lontani dai quasi 50°C che si raggiungono in piena estate. Qui anche le auto sono attrezzate per sopravvivere al calore: tende su tutti i vetri, una spessa coperta sul cruscotto e una guaina di plastica attaccata sotto il tetto… per non farlo colare! Appena fuori città ci dirigiamo verso nord: prima tappa Chebika, una lussureggiante oasi di palme incastonata in una stretta valle rocciosa al limitare del deserto. Questo incredibile angolino di verde in mezzo al nulla, tra le altre cose, ha fatto da sfondo ad alcune scene de “Il Paziente Inglese”. Una passeggiata di una quarantina di minuti consente di salire sul fianco della montagna per ammirare il panorama, per poi scendere nel canyon fino alle cascate e agli splendidi laghetti turchesi. Proseguiamo in auto lungo una bella strada panoramica tutta curve, fermandoci ad osservare dall’alto un’altra importante oasi, quella di Tamaqzah, di cui oggi però non rimangono che le rovine in seguito all’alluvione del 1969. La terza oasi, Midès, a poche centinaia di metri dalla frontiera algerina, lascia poi a bocca aperta: una piccola cittadella fortificata su uno stretto sperone roccioso, chiuso su tre lati da un profondo canyon e attorniato da palme e aranci.
Ritorniamo a Tozeur per il pranzo; Fatima oggi ha preparato un’altra abbuffata: uno straordinario couscous, carne, fagioli, insalata e altri datteri freschissimi. Se una cosa è certa è che qui di sicuro non morirò di fame! Un po’ di tempo per riposarsi e alle 3 riparto, stavolta con un fuoristrada guidato da un’amico di Taieb. Abbandoniamo quasi subito la strada tagliando invece per il deserto, dove cammelli selvatici brucano indisturbati in un paesaggio dal mix unico di colori, con le montagne violacee sullo sfondo e un cielo blu come ne ho visti pochi altri. Arriviamo al Chott El-Gharsa, lago salato stagionale separatosi dal mare in tempi antichissimi in seguito all’innalzamento del fondale marino. Il piatto forte è il cosiddetto “Ong Jemel” (o “Camel Neck”), roccia isolata che ricorda vagamente un cammello e dalla cui cima si ammira un panorama insuperabile. Sull’orizzonte piatto e caldo circondato dalle dune si stagliano nitidissimi dei miraggi lunghi chilometri, sembrano laghi, treni, caseggiati, navi… Resto quassù incantato per un bel po’, poi ridiscendo al piccolo punto ristoro dove mi godo il fresco con un bel té alla menta fumante.
Un po’ di guida sportiva nella sabbia e giungiamo all’ultima tappa di oggi, ciliegina sulla torta e sogno di un bambino che si avvera: mi trovo sul leggendario set dove sono state girate le scene di Mos Eisley nell’originale fillm di Star Wars! La cosa che forse mi stupisce di più è che non ci sono venditori di gadget del film, ma bancarelle di souvenir più tradizionali come bracciali in legno di palma, turbanti, artigianato locale e le tipiche “rose del deserto”, formazioni calcaree che qui si trovano in abbondanza. Comunque sia, essere qui per godersi il tramonto rende tutto ancora più speciale, un fan della saga come me non desidererebbe altro: solo una manciata di turisti e un silenzio irreale come contorno. Sono super felice, la giornata di oggi è stata addirittura al di sopra delle aspettative, ho occhi e cuore pieni come non mai. Amo il deserto, infinito ma sempre diverso, e le sue oasi verde smeraldo mi hanno fatto pensare ancora una volta al miracolo della vita: come è possibile che dalla sabbia sterile e giallognola, con un po’ d’acqua e la luce del sole crescano interi ecosistemi di verdissime e vivide piante dai frutti così nutrienti e dolci? E cosa manca davvero ad un uomo che possiede un tetto, un cammello, acqua e cibo? Passando per un villaggio beduino ho visto altri bambini sorridenti e mi sono chiesto, da un lato, quali alternative potrebbero mai avere per il loro futuro se non quello di continuare a fare i carovanieri; dall’altro… stanno forse peggio dei bimbi obesi che passano il tempo in casa a vivere su Facebook?
27/28 DICEMBRE: TOZEUR
Inizio la giornata vagliando con Taieb le opzioni per i prossimi giorni: uno degli obiettivi principali è quello di passare almeno una notte nel deserto a Douz, e lui prontamente telefona ad un suo amico che organizza tour del genere in loco. Scopriamo che la prossima carovana utile partirà dopodomani, quindi posso passare ancora un paio di giorni a rilassarmi qui a Tozeur. Avrei volentieri speso una giornata sul Lezard Rouge, famoso treno turistico che attraversa le vicine Selja Gorges (con partenza da Metlaoui), ma nonostante a fine Dicembre dovrebbe effettuare servizio tutti i giorni, la mancanza di turisti ha costretto a limitare le corse alla domenica, troppo tardi per me. Ripiego allora su una tranquilla biciclettata nel Palmeraie, l’ampia distesa di palme da datteri e banani che ha contribuito a sviluppare questa città come avamposto di rifornimento prima delle lunghe traversate desertiche. Lungo la strada ci sono diversi punti d’interesse: le chiuse che regolano l’acqua nei canali d’irrigazione, il Museo dell’Oasi, un bizzaro parco a tema sulla storia della terra e dell’uomo, e infine un piccolo zoo. Nel pomeriggio invece mi porta in auto lungo la strada che taglia in due il Chott el-Jerid, principale lago salato della zona nonché il più grande di tutta la regione Sahariana. Ci fermiamo ad una piazzola all’incirca a metà della strada rialzata, e quello che mi trovo davanti mi lascia letteralmente a bocca aperta: un velo d’acqua copre il fondo salino del lago, che continua a perdita d’occhio, creando uno specchio immobile e perfetto per il cielo senza una nuvola. Nemmeno l’orizzonte si vede più, solo un leggero alone chiaro divide il lago dal cielo. Nessun altro luogo che ho visitato mi ha mai dato una tale sensazione di “infinito”, sembra di galleggiare nella luce. Mi siedo sul sale, perso nei pensieri, aspettando il tramonto. Il sole rosso e il suo gemello perfettamente riflesso si avvicinano lentamente l’uno all’altro; l’orizzonte, prima invisibile, adesso è una netta linea nera tra due cieli bruni e identici. Il blu scuro della notte rivendica velocemente il suo posto, e tutto continua ad essere irreale e magico. Indimenticabile.
Il mio ultimo giorno a Tozeur invece lo dedico alla scoperta della Ville Vieille, il centro storico. La caratteristica che ha reso famosa la città è il fatto che tutti gli edifici sono costruiti con mattoni di argilla gialla disposti in elaborati disegni geometrici ispirati dalle ritmiche dei versetti del Corano. Dal lato pratico, hanno invece la funzione di aumentare le zone d’ombra sulle pareti, una trovata niente male per combattere il caldo estivo. Il centro è piccolo e forse un po’ trascurato, ma merita sicuramente una visita. Interessante soprattutto il museo ricavato in un’abitazione berbera, che mostra lo stile di vita, gli oggetti quotidiani e il significato delle decorazioni cerimoniali della tradizione locale. Alcune botteghe vendono tappeti, artigianato e souvenir vari, e come da prassi all’ultimo piano si trovano le terrazze panoramiche. Dedico tutto il dopopranzo al relax totale, mi godo il sole e un buon libro sulla sdraio nel cortile della guesthouse, ben conscio che nei prossimi giorni non avrò modo di concedermi nemmeno il lusso di una presa elettrica…
29 DICEMBRE: DOUZ
Tra Tozeur e Douz non ci sono collegamenti diretti né tantomeno bus di linea: Taieb mi consiglia di spostarmi con i louages, una soluzione che si rivelerà ottima anche per tutti gli spostamenti successivi. Sono una sorta di taxi collettivi, spesso ricavati alla bell’e meglio da furgoncini e minivan con l’aggiunta di sedili di vecchi bus saldati al pianale per accogliere circa 8-10 persone, anche se a volte se ne vedono di più carichi. Hanno orari indicativi, partono solo quando sono pieni (ma non ho mai aspettato più di 15-20 minuti), sono frequenti, rapidi e incredibilmente economici. Saluto e ringrazio i miei calorosi ospiti e salgo quindi sul furgoncino. Attraverso di nuovo il Chott el-Jerid, anche se stavolta non c’è in previsione nessuna sosta per ammirare il panorama. A Kebili, capolinea di questa tratta, devo cercare il louage che mi porterà a Douz. Seguo una ragazza che deve fare lo stesso cambio, ma anche così fatichiamo un po’ prima di trovare l’altra stazione, nascosta oltre un labirinto di mercati e cortili. Non oso nemmeno chiedere come mai non ci sia un capolinea unico per tutte le linee, ormai mi sono rassegnato alla cosa. Arrivo a Douz in tarda mattinata, il mio riferimento è l’Hotel XX Mars, gestito dall’amico di Taieb. Da qui alle 3 di pomeriggio partirò per il deserto per soli 50 dinari (circa 20€) compresi cena e notte nel deserto. La piccola cittadina non offre nulla di eccezionale di per sé, ma ho la fortuna di capitarci durante il Festival del Sahara, l’annuale raduno internazionale delle tribù nomadi, e per di più di giovedì, giorno di mercato. Le vie sono animate da un viavai molto caratteristico, ancora più che a Tozeur si sente l’atmosfera di “porta del Sahara”: da qui partivano e partono tutt’oggi molte carovane verso Libia, Mali e Nigeria, come dimostra anche il mix di carnagioni che si vede in strada. Oltre al mercato c’è una piccola fiera permanente dove si possono trovare le cose più disparate: mobili e lampadari, dolci e frutta secca, scarpe e vestiti. Alcuni grandi marchi europei realizzano qui i loro capi, che vengono venduti “sottobanco” senza loghi e a prezzi stracciati. La vera vocazione di Douz però resta il deserto. Non è un caso che sia ormai diventata un punto di riferimento per tutti gli appassionati di fuoristrada e motocross tra le dune, soprattutto italiani. Dopo essere stato per giorni l’unico straniero in giro, fa sorridere vedere dappertutto adesivi di motoclub torinesi e ragazzi tunisini con magliette “Polisportiva Grugliasco” regalate da chissà chi. Alcuni locali hanno addirittura il menù in italiano. E sono proprio dei motociclisti italiani quelli che incontro davanti all’hotel. Mi dicono che da quasi trent’anni tornano qui tutti gli inverni, c’è anche chi si è innamorato di questo angolo di Tunisia a tal punto da aver sposato una donna berbera e costruito casa appena fuori città. Bevo un té alla menta con loro, mi faccio consigliare un buon posto per pranzare e presto si fa l’ora della partenza. Recupero il mio zaino in hotel e faccio la conoscenza della coppia di ragazzi che verranno con me nel deserto, un francese e una greca che da qualche mese si sono trasferiti in Sicilia. Un fuoristrada ci porta al limitare delle dune, attraversando il palmeto e la zona dei resort che ormai sembrano tutti chiusi. Come tanti luoghi che sto visitando, la mancanza di turisti quest’anno si sta facendo sentire in modo molto duro. Incontriamo il nostro cammelliere e ci incamminiamo in una marcia di un paio d’ore tra la sabbia. Convinto dalla filosofia molto “impatto zero” dei due ragazzi, preferisco anch’io camminare a piedi e non affaticare inutilmente i cammelli. Il clima è estremamente piacevole, il sole alto del pomeriggio scalda senza bruciare come farebbe d’estate. Il deserto cambia di continuo: dune dorate modellate dal vento, zone piatte e dure che accolgono le piogge (meno rare di quanto si potrebbe pensare), piccole macchie di arbusti accerchiate da decine e decine di cammelli selvatici. Purtroppo le dune rosse ed altissime che si vedono nelle cartoline necessitano di 3-4 giorni almeno per essere raggiunte, ma noi ci “accontentiamo” di queste. Arriviamo senza fatica alla nostra destinazione, un accampamento nel bel mezzo del nulla, dove si trovano una baracca di lamiera e una grossa tenda berbera. Mentre il beduino lega gli animali per la notte, noi ci appostiamo su una delle dune più alte e attendiamo silenziosamente il calare del sole. La cosa a cui forse mi sono affezionato di più in questo viaggio sono proprio i tramonti. Ovunque ci si trovi è sempre un momento magico, irreale, il silenzio è sempre assoluto, l’aria è come vetro e (anche nelle città) l’unico colore che si vede guardandosi attorno è l’ocra, che il rosso del cielo infiamma ogni volta. Un secondo cammelliere nel frattempo ci ha raggiunto per dare il cambio al primo. Li aiutiamo ad accendere il fuoco su cui cucinare un semplice couscous di verdure. Dopo il tramonto la temperatura inizia a scendere bruscamente. Mangiamo all’interno della baracca, poi i beduini cantano canzoni tradizionali suonando un largo tamburello di pelle di capra e un flauto di metallo. Ma il vero apice della serata è il momento in cui decidiamo che è abbastanza buio per uscire a vedere le stelle. E rimaniamo tutti senza parole. In cielo non c’è una nuvola, la luna non è ancora sorta, nel nero totale della notte la quantità di stelle lascia abbagliati. Ci sono talmente tante stelle che non riesco nemmeno a riconoscere le costellazioni più facili. Orione, l’Orsa Maggiore, Cassiopea, sono letteralmente annegate fra migliaia di altre stelle, formando un manto che sembra avvolgersi fin sotto l’orizzonte. Anche senza Via Lattea, ancora troppo bassa, resta una delle stellate più belle della mia vita. Il primo cammelliere riparte verso la città, mentre il secondo decide di dormire nella tenda come se fosse la cosa più naturale del mondo. Le tende berbere. per inciso, sono semplici teli retti da stecche di legno, chiuse solo da tre lati e pensate più per riparare dal sole che per isolare dal freddo, che ora inizia ad essere parecchio rigido. Noi, invece, preferiamo stare al calduccio nel capanno…
30 DICEMBRE: MATMATA
Puntiamo la sveglia presto per poter vedere l’alba tra le dune. In cielo ora ci sono nuvoloni bassi, lunghi e scuri, che diventano incandescenti ai primi raggi radenti del sole. Il cinguettio delle monachelle ci ricorda che anche qui, nonostante le temperature estreme e l’ambiente inospitale, la vita è riuscita a farsi largo. Dopo aver assaportato anche questo momento, riprendiamo la marcia per rientrare a Douz. In città prosegue la Festa del Sahara, con spettacoli e bancarelle, e l’idea sarebbe quella di stare qui ancora un giorno. Ma il tempo sembra mettersi male e sia io che i ragazzi preferiremmo evitare la sfiga di una giornata di pioggia in mezzo al deserto. Loro devono comunque rientrare a Tunisi in giornata, io invece provo a cercare un louage per Matmata, la mia prossima tappa. Come al solito, ce n’è sempre uno pronto a partire. Saluto i miei compagni di avventura e salgo sul pulmino sgangherato in direzione Gabès, da cui partono regolarmente autobus suburbani per il piccolo villaggio montano a cui sono diretto. Ancora una volta la Tunisia mi sa stupire quando meno me lo aspetto. Gli ultimi chilometri prima di raggiungere Matmata si percorrono in ampi tornanti tra le montagne brune e spoglie, e sui fianchi delle rocce si iniziano a scorgere piccole grotte con porte di legno che sono in realtà gli accessi delle fresche abitazioni sotterranee troglodite, tuttora abitate. Qui come in pochi altri posti al mondo sono rimaste intatte le tradizionali case-grotta scavate nella roccia. La funzione è duplice: prima di tutto la temperatura all’interno delle stanze è praticamente costante sui 16-18 gradi tutto l’anno; in secondo luogo, nei periodi di guerre tra tribù rivali, erano più facili da difendere o addirittura nascondere. Come è successo per molti altri villaggi di montagna, il governo tunisino (soprattutto negli anni ’50-’60) ha fatto pressione perché le popolazioni berbere si trasferissero nelle città a valle, in modo da facilitarne l’integrazione con la maggioranza araba. Quello che non si aspettavano era che George Lucas scegliesse proprio Matmata per girare il suo Star Wars, ambientando nelle case troglodite varie scene del film. Dagli anni ’80 quindi il piccolo centro ha attratto appassionati e turisti, e i berberi sono stati felici di ritornare al proprio villaggio per accoglierli. Appena sceso dal bus, un ragazzo si offre di farmi da guida in questo luogo fuori dal tempo. Inerpicandosi sulle collinette argillose si iniziano ad intavedere le abitazioni più grosse: larghi pozzi cilindrici accessibili tramite tunnel o trincee, su cui si affacciano gli ingressi di stanze, magazzini e granai disposti su più livelli. Alcuni cortili sono collegati tra loro, formando piccole cittadelle fortificate e invisibili da fuori. Le principali, tra cui quelle usate come set per il film, sono oggi adibite a museo e ad albergo. Un altro uomo mi chiede se ho bisogno di un hotel per la notte e mi accompagna al Berbèr, poco lontano, dovo trovo una bella camera spaziosa ed economica scavata nella roccia. Poi mi mostra una raccolta di foto dei tour che potrei organizzare domani: uno mi porterebbe all’oasi desertica di Ksar Ghilane, famosa per le sorgenti calde e per le belle dune, l’altro percorrerebbe le montagne esplorando i villaggi e gli Ksour dell’area di Tataouine. Opto per il secondo, accordandoci per 90€. Di nuovo, pago lo scotto di non poter dividere la spesa con nessun altro viaggiatore, ma non mi perdonerei mai se tornassi a casa senza cogliere queste opportunità di scovare piccoli gioiellini nascosti. Per il pomeriggio, l’uomo mi consiglia una camminata sulla montagna che domina la vallata e mi accompagna in motorino fino alla base del sentiero. Da qui inizio a salire fino al punto più alto e per l’ennesima volta mi stupisco per la bellezza del paesaggio che mi sta di fronte. Guardandosi attorno, solo il villaggio e qualche palma mi impediscono di pensare di essere finito su Marte. Alte colline, valli increspate dal tempo e monoliti di roccia fanno da contorno a questo splendido altipiano. Nel tornare verso il mio hotel incontro un altro gruppo di fuoristradisti italiani che mi invitano a cenare insieme a loro all’Hotel Marhala. Passiamo una bella serata a bere birre e scambiarci storie di viaggi; loro ripartiranno domattina per passare il Capodanno a Ksar Ghilane per poi attraversare il deserto fino a Douz, facendo in sostanza il giro “al contrario” rispetto al mio. Io invece devo rientrare al mio albergo per una bella dormita, domani ci si alza di nuovo all’alba.
31 DICEMBRE: KSOUR E VILLAGGI BERBERI
È ancora buio quando incontro il mio autista, un uomo taciturno ma pronto a rispondere a qualsiasi genere di domanda sulla storia di questa regione. Facciamo subito una sosta appena usciti dal paese, parcheggiandoci in un piazzale da cui vediamo il sole alzarsi ad est sull’orizzonte proprio davanti alla penisola dove si trova Djerba. Proseguiamo fino al piccolo villaggio di Kébili, altro angolino dimenticato dal tempo e arroccato sul fianco della montagna illuminata dalla luce tiepida del mattino. Le case di pietra, la piccola moschea tinta di bianco, i pastori che conducono più in quota pecore ed asini, le donne che tessono enormi tappeti… Il senso di tranquillità che ispira questo luogo è assoluto. Ci rimettiamo in auto, prendendo strade secondarie che si insinuano negli spettacolari panorami dei canyon fino ad arrivare alla fortificazione troglodita di Ksar Hallouf. Strutturata ad anello in cima ad una collina che domina la valle, è composta da caratteristici granai e abitazioni che si affacciano sul cortile principale, con strette finestre centrali, volte semicilindriche e ripide scalette. Il contrasto tra l’ocra delle strutture e il blu del cielo è incredibilmente abbagliante e naturale allo stesso tempo. Qui non ci sono negozi né centri per visitatori, solo un ristorante chiuso, io e l’autista. Poco più in alto, alcune pietre sulla sommità della montagna indicano la posizione di un’antica necropoli.
La tappa successiva è un’altro “must” per gli appassionati di Star Wars ma non solo: Ksar Hadada è forse il più noto, grande e meglio conservato villaggio troglodita della zona. Una parte è stata restaurata e ridipinta alla fine degli anni ’90 e ha fatto da sfondo a varie scene dell’Episodio I della celebre saga, e ora ospita un albergo. Qui è possibile aggirarsi liberamente in un dedalo di cortili, ponticelli, terrazze, portici e camere su più livelli per poi gustarsi un té all’ombra di un porticato. L’altra metà resta invece praticamente allo stato originario, con le strutture più alte che raggiungono anche i 4 piani, i mattoni di fango ancora a vista e qualche asino a riposare al fresco. Scendiamo a fondovalle per puntare infine alla meravigliosa Chennini, posta sulla sella tra due cime montuose all’imboccatura di un maestoso canyon. La rovine della città berbera e il panorama attorno la fanno assomigliare ad una sorta di piccola “Macchu Picchu del Sahara”. Una mulattiera si inerpica sul fianco della collina fino ad arrivare alla bianca moschea, al centro della sella. Salendo ancora, si può esplorare l’agglomerato di case e stradine e godere di un impareggiabile panorama. Anche qui, se si eccettua un bus di scolaretti in gita, non c’è assolutamente nessuno a turbare la quiete del posto. È giunto il momento di rientrare a Matmata, percorrendo a ritroso la strada fatta all’andata e fermandoci a mangiare in un piccolo ristorante sulla strada. Stanotte dormirò al Marhala, che allo stesso prezzo del Berbér offre stanze più piccole ma ha docce calde e prese elettriche, entrambe cose di cui inizio a sentire il bisogno. Ma soprattutto oggi è Capodanno, e l’hotel ha organizzato una festa nel cortile interno dove abitualmente si riversa mezzo villaggio. Posso dire con certezza che è il capodanno più bizzarro che abbia mai trascorso, in quanto i ragazzi del paese, normalmente molto moderati nel consumare alcolici, si danno alla pazza gioia fin dal pomeriggio, e alle 9 di sera sono tutti già completamente sbronzi a cantare e ballare coinvolgendo anche i pochi ospiti stranieri. L’unica nota amara è il fatto che non ci sono donne a festeggiare: secondo gli uomini, devono stare a casa con bambini e anziani, e comunque non è appropriato che bevano. Purtroppo il maschilismo imperante della Tunisia arriva anche a questi estremi. Comunque sia, birra e liquori scorrono a fiumi, e solo uno sparuto gruppo di superstiti (soprattutto gli esilaranti e snodatissimi vecchietti) riesce ad arrivare alla mezzanotte ancora in piedi…
1/2 GENNAIO: KAIROUAN
Il gioviale gestore dell’hotel ieri mi ha assicurato che, nonostante oggi sia giornata festiva, il bus del mattino per Gabés è comunque garantito. E infatti parto puntuale, non senza una punta di nostalgia sapendo che devo lasciare questo luogo davvero piacevole. Sul bus conosco Trevor, un ragazzo di Singapore che è stato praticamente in ogni angolo del mondo, e una ragazza tunisina curiosa del fatto che entrambi siamo così affascinati dalla sua terra. Arrivati a Gabés ci accompagna vicino alla stazione dei bus a mangiare un buon couscous con pollo e una fricassée, una sorta di panino fritto farcito con pesce e verdure. Dopo il pasto saluto entrambi e cerco un louage diretto a Kairouan, che praticamente aspettava solo me per riempirsi e partire. Il viaggio scorre tranquillo, ritornando al familiare ambiente mediterraneo di olivi, aranci e fichi d’india. Arrivato a destinazione, mi lascio consigliare dalla guida e prendo un taxi per l’Hotel Sabra, alberghetto senza fronzoli situato proprio di fronte alla porta meridionale del souk. Questa importante città, la più tranquilla, curata e pulita tra tutte quelle che ho visitato in Tunisia, è nota soprattutto per essere la quarta città sacra per i musulmani, dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme. Ogni persona qui ci tiene a ricordare il fatto che sette pellegrinaggi a Kairouan equivalgono ad un pellegrinaggio alla Mecca, rituale che ogni credente è tenuto a compiere almeno una volta nella vita. All’interno delle solide mura che delimitano il perimetro dell’antica città si trova infatti la Grande Moschea. Purtroppo oggi non arrivo in tempo per visitarla, ma in compenso ho tutto il pomeriggio a disposizione per vagare fra le strette viuzze dipinte di bianco e blu, visitare gli immancabili e celeberrimi empori di tessitori e comprare un po’ di frutta fresca al vivace mercato. Vicino all’Avenue Bourguiba, l’arteria commerciale del souk, si trova Bir Barrouta, un edificio a più piani che ospita un’antica pompa per estrarre acqua dal sottosuolo azionata da un cammello che fa girare un argano. Nonostante i locali la pubblicizzino come una delle principali attrazioni della città, mi mette tristezza vedere il povero animale bendato e frustato tutto il giorno, costretto a girare in tondo a vita… Oltre alla Grande Moschea, comunque, in questa città si trovano un numero incredibile di moschee minori, dalla caratteristica Moschea delle Tre Porte ad altre più piccole e seminascoste, riconoscibili dagli infissi dipinti di verde, mentre per le vie attorno alla zona delle botteghe non è raro imbattersi in colorati murales. Dopo il tramonto comunque non resta più granché da fare, quindi ceno vicino all’hotel e vado a dormire presto. Per un motivo o per l’altro sono ormai giorni che mi tocca svegliarmi presto la mattina e inizio a sentirne il peso. Oltretutto, penso di aver mangiato veramente troppi datteri negli ultimi giorni, purtroppo sono talmente buoni che non mi so dare un limite, e inizio ad avere un po’ di dolori di pancia. Sto al calduccio sotto quattro coperte, in Tunisia i termosifoni praticamente non esistono, e cerco di riposarmi. Domani posso svegliarmi senza fretta e ritornare alla Grande Moschea per visitarla con calma. La mattina a Kairouan l’aria è fresca e per le strade si assiste al viavai dei negozianti che trasportano sacchi di spezie e frutta secca al mercato, mentre i venditori di tappeti srotolano i loro preziosi lavori dai davanzali dei negozi. Svoltando tra i tortuosi vicoli intonacati si intravede la sagoma della Grande Moschea, massiccia e severa fuori quanto ariosa e raffinata dentro. L’ampio cortile quadrangolare è deserto a quest’ora, rendendo il tutto ancora più spirituale. Sui quattro lati si trovano dei portici e al centro un ingegnoso intreccio di piastrelle di marmo consente all’acqua piovana di scorrere verso il centro e depurarsi dalla sabbia. Come ho imparato, non posso entrare nella sala della preghiera, ma posso apprezzarne dalla soglia la struttura ad archi di pietra, i sontuosi tappeti e gli enormi lampadari. Fuori dalla moschea, i negozi di souvenir consentono di salire sulle terrazze panoramiche gratuitamente. Da qui si può ammirare il profilo della città, con le sue cupole bianche, color sabbia o maiolicate, talvolta lisce, talvolta intricate. È ormai ora di mangiare qualcosa di veloce al mercato e dirigermi alla stazione dei bus per trovare un modo di arrivare a Tunisi. Mi affido nuovamente ai louage, e stavolta l’autista sembra avere fretta di arrivare il prima possibile, guidando come se fosse in pista. Risultato: almeno due ragazzi si sentono male, costringendoci a fermarci più e più volte… A Tunisi vengo lasciato dalle parti della Stazione, che raggiungo con un paio di fermate di tram. Anche qui seguo la mia guida e mi dirigo verso l’Hotel de l’Agriculture, poco lontano. Il fatto di prendere un tram dopo essermi abituato a strade con vecchi automezzi, asini e carretti mi fa sembrare tutto così strano… La differenza tra la capitale e i villaggi del sud è impressionante: fino a qualche giorno fa era normale che i benzinai spillassero a mano il carburante da barili arrugginiti, con una brocca o una bottiglia di plastica tagliata; qui, almeno nella parte moderna della città, sembra di trovarsi in una città europea con profumerie, banche, cinema, negozi di elettronica e ragazzi che suonano le chitarre in strada. Quando ero stato qui, solo una decina di giorni fa, avevo forse dato per scontato certi aspetti, e solo ora mi rendo conto del cambiamento che i tunisini stanno vivendo e di quanto desiderino un futuro di apertura e comunicazione con l’Europa.
3 GENNAIO: CARTHAGE E SIDI BOU SAID
Nel mio ultimo giorno in questo Paese ho un solo obiettivo: recuperare la tappa che ho saltato all’andata, ovvero le rovine di Cartagine e il pittoresco villaggio di Sidi Bou Said. Entrambe le tappe sono facilmente raggiungibili in treno dal terminal di Tunis Marine, con un servizio frequente e a prezzi irrisori. Parto di buon’ora e inizio la visita delle rovine scendendo alla fermata di Carthage-Hannibal. Questo è uno dei quartieri più ricchi e tranquilli della capitale, con viali bordati da palme, costose ville e la maggior parte delle ambasciate straniere. Tutti i principali siti archeologici si trovano qui attorno e sono visitabili con un unico biglietto, dal costo di 11TND. Inizio così la mia passeggiata indietro nel tempo, passando dal Teatro (ancora oggi usato per concerti e spettacoli) ai resti delle Ville Romane, per poi scendere verso la costa e addentrarmi nelle colossali Terme di Antonino. Per quanto la vastità e la ricchezza dei ritrovamenti non possa competere con siti come Roma, Ostia o Pompei, la maestosità dell’edificio termale è degna di nota. Ad oggi rimangono le tracce di portici ottagonali, palestre, piscine e vestiboli, mentre sopra l’atrio centrale sono state ricostruite, con blocchi di pietra in buona parte originali, le altissime colonne che danno un’idea di quanto poteva essere gigantesco il complesso. Sulla sinistra si nota il Palazzo Presidenziale, la residenza costruita dal primo presidente tunisino Habib Bourghiba, e una guardia armata mi avvicina e mi intima di cancellare tutte le foto in cui ne compare anche solo una parte. Non potevate dirmelo prima? Lasciate le Terme mi dirigo ora verso l’Acropoli, che ospita scavi di epoca sia romana che fenicia, la cattedrale francese di St. Louis, e un piccolo museo che espone reperti di oggetti di uso comune e degli interessantissimi plastici che ricostruiscono l’aspetto originario della città nelle varie epoche. Anche dall’approccio urbanistico si capisce molto della mentalità dei popoli: i Fenici avevano fondato la città sulla collina, in modo molto naturale, adattandosi alla morfologia del terreno risalendola con terrazzamenti e labirintici vicoli; i Romani invece la ricostruirono suddividendola perfettamente a scacchiera, “incuranti” dei saliscendi, in modo che i visitatori fossero impressionati dalla monumentalità delle strade e nel contempo fosse più facile e razionale gestire i flussi di persone e di servizi.
Dopo la tappa archeologica riprendo il treno e in pochi minuti raggiungo Sidi Bou Said, villaggio posto su un’altura a picco sul Mediterraneo. Celebre per l’atmosfera bohemienne, le gallerie d’arte e il té con i pinoli, il piccolo centro è inoltre caratterizzato dalle tipiche inferriate dipinte di blu e dalle gabbie per uccelli in ferro lavorato appese alle pareti delle case. Dalle terrazze affacciate sul mare ci si può rilassare mentre lo sguardo spazia su tutto il Golfo di Tunisi. Soddisfo un certo languorino con ottime ciambelle fritte al momento e continuo la piacevole passeggiata scendendo tra la macchia fino ad arrivare al porticciolo. Mi siedo sugli scogli e ad occhi chiusi mi godo il tepore del mio ultimo pomeriggio tunisino, il sale, il vento e lo sciabordio delle onde. È arrivato il momento di rientrare in città, ma è ancora presto per cenare, quindi ripasso per le stradine porticate del bazaar che ormai mi sono così familiari e compro un po’ di mandorle tostate da mangiare come spuntino e un altro po’ da portare in Italia. Ceno con riso e agnello in un ristorante sulla centralissima Avenue Bourguiba e saluto Tunisi, i suoi tramonti, i suoi colori, i suoi profumi e i suoi contrasti.
4 GENNAIO: RIENTRO
Alle 5 del mattino la città è immobile e silenziosa. Alla vicina stazione non faccio fatica a trovare un taxi per l’aeroporto, e mentre percorro il breve tregitto rifletto su quello che ho visto e imparato in questo viaggio. Le prime considerazioni sono ovviamente sulla bellezza dei luoghi visitati, ma soprattutto sulla purezza dei colori che li compongono: l’oro della sabbia, il bianco dell’intonaco, il blu del cielo, il verde smeraldo delle palme. Nulla di più, in un perfetto equilibrio. Pensando invece alla situazione attuale di questo Paese, mi rattrista vedere come l’Occidente lo dipinga troppo spesso come un covo di terroristi e criminali, quando invece la stragrande maggioranza della gente qui vorrebbe solo una vita tranquilla e un lavoro dignitoso. Come in ogni altro Stato che ho visitato in passato, tutti sono orgogliosi delle proprie origini, ma a differenza soprattutto dei popoli asiatici i tunisini sono curiosi di conoscere cosa succede fuori dai propri confini e sperano soprattutto ad una migliore integrazione con l’Europa. Il che è abbastanza naturale, visto che la Tunisia è praticamente un’isola tranquilla (anche se ancora fragile) posizionata tra le ben più problematiche Libia e Algeria. Se devo essere onesto, c’è però un aspetto che mi ha deluso: la disparità della condizione femminile, soprattutto fuori dalla capitale. Le donne tunisine, in particolare le più giovani, sono molto più colte e intraprendenti degli uomini, ma sono ancora ben distanti dall’emancipazione. Confido che in un futuro non lontano siano loro a dare nuova linfa ad una seconda Primavera Araba, perché mai come ora mi rendo conto di quanto il sentirsi parte di qualcosa di più grande, sapere di essere tutti dalla stessa parte e poter dialogare liberamente, sia fondamentale per il benessere di un Paese. Comunque vada, non abbiate paura di scoprire in prima persona la Tunisia, anzi, sostenetela visitandola con la mente aperta proprio ora che ne ha più bisogno. Vi saprà ricambiare in modo estremamente intimo e genuino.