Trogloditi nel xx secolo
E’ così presente, la terra, in Tunisia. Noi, qui, figli di questo suolo, così dipendenti dai suoi frutti, dalla poca acqua disponibile, dal freddo e dal caldo, con le nostre casette bianche, basse, dal tetto piatto a terrazza, dove si vive secondo gli ordini della natura – e di chi comanda in quel momento. Per la sua centralissima posizione geografica, la Tunisia s’è trovata a essere zona di passaggio per i popoli asiatici da est e per le genti europee da ovest, e solo la visione e il polso di un uomo le hanno permesso di conquistare l’indipendenza, lentamente attestandosi, nel corso del secolo appena concluso, davanti agli altri paesi del Maghreb. Discutibile quanto possa essere lo stile con cui per trent’anni Habib Bourguiba ha guidato, dal 1956, la nazione che ha creato – lui, intellettuale rivoluzionario perseguitato ma poi dittatore sempre più avulso dalla realtà del suo popolo –, è innegabile che i risultati siano nel complesso positivi. Un viaggio in Tunisia è quindi un ritracciare i percorsi dei suoi tanti invasori rilevandone l’impatto sul territorio, nell’atmosfera rilassata di un paese meno povero dei suoi vicini e i cui abitanti godono di relativa libertà di comportamento grazie all’impronta laica dello stato.
L’ultima volta che ci siamo occupati seriamente della Tunisia è stato nel 146 a.C. Per distruggere Cartagine, il cui potere nel Mediterraneo risorgeva insopprimibile dopo ogni guerra punica. Ce ne vollero tre. Adesso tre sono i motivi per tornarci: l’archeologia, le spiagge e il deserto. Gli antichi marmi – perché anche se fu rasa al suolo, la posizione centralissima nel Mediterraneo e il suo porto riparato indussero i romani a far risorgere la storica rivale come colonia – sono prominenti al nord, con le rovine di Bulla Regia, Cartagine e soprattutto Dougga. Se l’attesa tra un volo e l’altro all’aeroporto di Tunisi lo permette, un taxi impiega giusto un quarto d’ora per arrivare al Museo del Bardo, dove una infinita collezione di straordinari mosaici illustra l’immaginario e la vita quotidiana dei primi secoli della nostra era in quelle terre. La Tunisia gode di una doppia esposizione sul Mediterraneo, e le località balneari rappresentano la sua maggiore attrattiva turistica. Ma questo viaggio sfiora appena le rovine e le spiagge per concentrarsi sul deserto, la sua storia, le genti che lo percorsero, le oasi che lo punteggiano – l’attrazione dunque meno scontata per noi italiani, e a solo un paio d’ore di volo.
JERBA accoglie con la medesima serenità e solarità colle quali gli omerici mangiatori di loto accolsero Ulisse e, come ai nuovi arrivati riusciva impossibile immaginare luogo più ameno, anche adesso il villaggio di HOUMT SOUQ (letteralmente “Quartiere del Mercato”) invita a dimenticare le preoccupazioni, sedersi a un tavolo all’aperto e aspettare che la sera allunghi le ombre nelle piazzette e nel dedalo di viuzze lungo le quali si allineano i negozi di artigianato: tappeti, oreficeria – argento, corallo, ambra e smalto – e poi ceramiche e tessuti. Si direbbe di trovarsi in Grecia, non fosse per il fatto che è una clientela esclusivamente maschile quella, oziosa, dei caffè, e che al centro del piacevolissimo, candido villaggio un antico caravanserraglio è stato restaurato e alberga ora un souq fornito di tutto quel che il turista possa desiderare, da tappeti berberi di ormai rara fattura a braccialetti col nome inciso per 15, no, per 10, no, per soli 5 dinari. La spiaggia di SIDI MAHRES, una delle più belle del paese, affaccia a oriente e ospita tutti gli alberghi di lusso, e nella luce pura della prima mattina invita ad una passeggiata, a piedi o in bicicletta, lungo le acque anticamente solcate dai normanni e poi dai pirati e dai corsari, per fotografare le colonie di cigni, le barche ormeggiate vicino alla riva e, più a ovest, la fortezza dove, nel 1560, gli spagnoli vennero sonoramente sconfitti dai turchi. Peccato che i 5.000 teschi della guarnigione, ammassati per secoli a formare una macabra ma, immagino, sensazionale piramide, siano ormai stati interrati nel cimitero. Le palme, onnipresenti, le basse case bianche e gli ampi spazi tranquilli non possono non far pensare ad altre situazioni, là dove le popolazioni sono costrette a strappare al mare piccole superfici con laboriosi interramenti.
Gli ottomani, seguiti dai francesi, non sono che gli ultimi invasori di questa terra di mezzo. Gli abitanti originari del meridione tunisino, i tuareg, appartenevano all’etnia berbera – e il berbero è ancora parlato in alcuni villaggi di Jerba. Quando, nel VII secolo, gli arabi – i beduini, cioè – mossero dalla loro penisola verso occidente nella loro furia colonizzatrice e missionaria, gli “uomini blu” del deserto furono costretti a riparare sulle alture, e sono i loro villaggi, di recente abbandono, l’obiettivo principale di questo viaggio. I francesi, poveretti, sì, ci sono passati, ma non hanno conservato un buon ricordo: nella loro lingua, andare a TATAOUINE ha lo stesso significato che da noi ha essere trasferito alla filiale di Caltanissetta: in altre parole, la punizione più amara: la morte civile. I tempi cambiano, e la specialità di Tataouine adesso sono le dolcissime “corna di gazzella”: un impasto di noci, mandorle e miele avvolto in un involtino oblungo di pasta fritta. Dietro i sacchi traboccanti di variopinte merci, i gestori delle botteghe alimentari sorridono un po’ impacciati: tutto costa poco, basta farsi avanti… mentre il nonnetto seduto sul marciapiede porta il pollice e l’indice al naso in gesto di aspirare: è tabacco da fiuto quello nelle sue misteriose bustine, e per le signore il supermercato ha acqua di rose, di arancio e di geraneo – forse non per i dolci, visto che le bottigliette stanno vicino agli assorbenti. Sotto gli alberi del viale, intenti in due su una scacchiera o in quattro intorno a un mazzo di carte, gli uomini vestono tutti un caffettano che si direbbe di francescana rozzezza, ma che invece è incredibilmente morbido al tatto.
Tataouine sorge nel Daher, una zona di basse colline rocciose. Quando, aizzati dagli egiziani, arrivarono gli apostoli della nuova religione monoteista come un’invasione di cavallette, tutto distruggendo, i berberi si rifugiarono su queste spoglie alture. E per il loro tesoro più prezioso, il raccolto, costruirono sulle loro cime dei granai con la medesima pietra, quasi a voler mimetizzarli, argilla e pietra a formare un alveare compatto. Villaggio dopo villaggio, questi ksour (plurale di ksar) si susseguono, uno uguale all’altro, pareti cieche all’esterno e bocche aperte all’interno, non così grandi da essere porte ma nemmeno piccole da essere finestre, intorno a una piccola piazza, l’equivalente troglodita della piazza centrale di Bruxelles, di Tallinn o di Praga: lo stesso senso di piccola comunità che serra i ranghi. Li compongono i ghorfa (“stanza” in arabo), moduli unitari allineati in orizzontale e in verticale per sfruttare al massimo la componibilità, dimostrando un’efficienza progettuale sorprendentemente moderna. Gli improbabili scalini esterni sono un’aggiunta posteriore: originariamente i vani erano accessibili solo con scale a pioli e le derrate venivano riposte con l’ausilio di ceste e corde. I romani risolsero la medesima necessità con gli horrea, ambienti contigui in luoghi di alta sicurezza, tutto sommato simili come concezione. Ma così aliene ai nostri occhi appaiono oggi queste piazze, che furono scelte per i set di “Guerre Stellari”: un colpo d’occhio contemporaneamente ancestrale e futuribile, ambienti dalle forme insieme organiche e high-tech. A MEDENINE, nel 1962, con l’obiettivo di forzare la stabilizzazione dei berberi nel programma di modernizzazione del paese, la maggiore concentrazione di ksour realizzata dai nomadi per perpetuare il proprio stile di vita – ben 25, con più di 6.000 celle-granaio – venne demolita. Così, in pochi decenni, i ksour superstiti sono diventati monumenti a uno stile di vita in estinzione, vuote crisalidi d’una vita che ha cambiato forma, mera curiosità per turisti. L’alleanza per la sopravvivenza, di cui queste forme architettoniche sono testimoni, si rinnovava di anno in anno in una natura dura, avara; e ad ogni festa la piazza diventava il luogo supremo e, ad ogni attacco del nemico, la roccaforte per la quale combattere o con la quale perire. La forza della necessità che ha creato e ancora permea questi luoghi è vivissima e assale il visitatore ogni volta, a KSAR EZZAHRA, a KSAR OULED SOLTANE, a KSAR JOUMAA. A quest’ultimo si accede attraverso un arco dalla piazza principale del paese, ancora ingombra di mucchi di quel che resta della spremitura delle olive, una pasta nera che verrà data in pasto agli animali. Dal muretto di cinta l’occhio spazia sulle valli dominate dallo sperone di roccia sul quale sorge lo ksar, una roccaforte inespugnabile. Impressionante è il dedalo di KSAR HADDADA, simile, mutatis mutandis, alla concezione e alla funzione degli spazi labirintici dei Mercati di Traiano a Roma. La parte restaurata, prima di diventare uno dei set di “Guerre Stellari”, era adibita ad albergo e, se non fosse per l’accecante contrasto tra le parti in luce e quelle in ombra, sarebbe fotogenicissima – la si direbbe un luogo fiabesco. Strette balconate circondano spazi a tutta altezza, piccoli gradini salgono e scendono come nei rebus grafici di Escher, ambienti chiusi d’improvviso danno all’aperto e viceversa, senza un’apparente necessità, anzi, in capricciose circonvoluzioni… e tutto a dimensione di bambino. Potrebbe essere curioso passare una notte berbera in uno di questi luoghi – è la possibilità offerta da KSAR HALLOUF, una corona di celle restaurate attorno a un cortile carrozzabile, completo di acqua corrente, di servizi in comune e di un cuoco di cui posso testimoniare l’ottimo cous-cous.
La necessità di difendersi che ha dato origine agli ksour è evidentissima anche nei villaggi che occupano le colline color isabella più a sud, dalla vegetazione rada e spinosa, oltre valli pietrose, dove i tentativi di coltivazione di palme, di cereali e di ulivi, in cui ampio ombrello rasenta il suolo, sono marcati da muretti a secco per trattenere il poco humus presente e ostacolare il deflusso delle acque. Non sembra, ma qui può piovere – e in un territorio non attrezzato come questo, le alluvioni possono avere effetti devastanti, come altre località del nostro percorso provano. Visitando i cumuli di macerie nei quali Guermessa, Chenini e Douirat si stanno sgretolando, si penserebbe a un rovinoso terremoto. Qualche anno fa nessuno sapeva, nessuno veniva, ma ora le cose stanno cambiando. Una grande pietra piatta in bilico sulla groppa e una mezza dozzina di baguettes che spuntano da una delle gerle, un asino sale senza indugi una delle erte stradine di CHENINI. Il ragazzo col frustino che lo segue è uno dei tanti addetti al restauro del villaggio berbero del XII secolo, in rovina in cima al ferro di cavallo a valle del quale la calce delle abitazioni recenti biancheggia dalla strada asfaltata. In fila indiana, i turisti muovono dalla candida moschea, dedicata ai Sette Dormienti e appollaiata su una cunetta del crinale, alla sequenza ininterrotta di porte e finestre attraverso le quali si vedono solo il cielo, i graticci di foglie di palma intonacati che fungevano da divisorio e qualche esile tronco che sosteneva il soffitto. Il turismo ha scoperto da poco questi villaggi, abbandonati quando i francesi, a metà del secolo scorso, hanno tutto sconquassato portando novità come l’elettricità e l’acqua corrente e hanno asfaltato le piste. I paesani ora vivono più a valle, e l’antico abitato, in parte scavato in una terrazza di roccia e in parte costruito con pietre e tronchi di acacia, è presto caduto in rovina. Ora le pietre ingombrano i minuscoli cortili per gli animali e le anguste celle che costituivano il rifugio di questa gente. Sotto gli archi e talvolta anche dentro le stanze sono ancora ben conservati i rilievi con i segni, i disegni e i simboli tradizionali. A GUERMESSA una grotta ospita quel che fu il frantoio: lo spazio tondo per la pressa e per l’asino che la azionava e i pozzi oliari ne raccontano silenziosamente la dismessa attività. Anche a DOUIRAT si sono accorti dell’importanza di questo patrimonio ed è nata un’associazione per la conservazione e il restauro del vecchio paese, che si sviluppa linearmente giusto sotto il crinale di una collina e gode del panorama di una vasta valle arida, punteggiata da palme e arbusti. A tratti l’erosione naturale o altri scavi mettono a nudo uno strato verde nel registro della memoria della Terra, forse la clorofilla di una foresta che qui sorgeva migliaia di anni fa. E queste rocce sono piene di fossili di molluschi, crostacei e altre forme di vita della Tetide che occupava il sud della Tunisia. Tracce di caverne usate come riparo, isolate capanne adibite a ricovero stagionale e piccoli stabbi per gli animali sono abbastanza comuni lungo i rilievi del Daher, che separano il Mediterraneo dalle sabbie. Ai tempi in cui venivano scavati i canali tra i continenti, s’era pensato di far arrivare il mare fino al confine algerino, eludendo in qualche modo lo sbarramento di queste modeste gobbe pelate, ma ci si rese conto che, per quanto bassa, la depressione di Chott el Jerid, una piatta distesa di sale, stagionalmente coperta da un filo d’acqua, era comunque alta rispetto al livello del mare.
Lasciandosi alle spalle le ultime ondulazioni dell’altopiano del Daher, le fuoristrada hanno un bel daffare avvicinandosi a KSAR GHILANE, e rischiano più volte di perdere la pista, sdoppiata dagli automezzi precedenti forse a causa degli spostamenti delle dune. Nulla, nel vuoto della pietraia che si estende a perdita d’occhio, farebbe supporre che queste siano state postazioni strategiche rilevanti per il destino d’Europa, eccetto un monumento della seconda guerra mondiale alla colonna Leclerc. Alla piccola oasi di Ksar Ghilane, un crocevia delle piste del deserto, la masnada di pezzenti del generale francese, male armata e provata dal viaggio dal Chad, riuscì il 10 marzo 1943, aiutata dall’aviazione britannica, a far ripiegare i tedeschi dell’Afrika Korps di Rommel. La storia è narrata da ritagli di giornale, cartoline e foto d’epoca appese ai muri dell’Hotel Sancho a Tataouine, che all’accettazione sfoggia una collezione di gusci di bombe. Ma Ksar Ghilane, nelle convulsioni che il territorio qui presenta da che mondo è mondo, conserva anche la piccola fortezza di TISAVER, recentemente francese ma anticamente romana, una delle postazioni di guardia istituite al confine dell’impero lungo il limes tripolitanus, l’estremo confine del mondo allora conosciuto, che separava i territori annessi dai romani dal deserto delle tribù berbere. Acque termali, focosi cavalli arabi, bizzosi dromedari e più docili quad, un ottimo ristorante e tende complete di bagno e riscaldamento per la notte ne fanno una sosta regale. Sulla sabbia, fine come talco, i dromedari sanno perdere ma anche ritrovare la strada – il verde cupo delle tamerici dell’oasi lontana o l’angolatura del sole in quel momento del giorno, chissà, li guidano. Tu-tunnn, tu-tunnn… Se come sopra così è sotto, come è dentro, così è fuori: il cuore del deserto pulsa al ritmo del loro passo. Altre corrispondenze inaspettate ancora si rivelano in questo mare di sabbia che non sembra poi così ostile e severo come se ne racconta, ma si adagia in morbide curve aspettando la carezza del tramonto. Deserto? Al contrario, qui le leggende e i miti si affollano, qui abita la bellezza, un curioso desiderio struggente… E il sole, che prima di andarsene rovescia tutti i colori: è sempre la notte a pulire il cielo e a mettere le stelle al loro posto.
Per evitare che vengano inghiottite dalle sabbie, graticci di palma fiancheggiano le piste, anche quella, ormai asfaltata, per Douz, che costeggia per lungo tratto l’oleodotto che, seguendo il confine libico, penetra a sud in Algeria. DOUZ, la porta del deserto, offre l’eccitazione dell’ultima retroguardia per chi è diretto al Sahara, o del primo avamposto per chi viene dalle desolate pietraie. Una volta si arrivava e si partiva in carovana, adesso si parte e si arriva su quad che scorrazzano a piacere sulle dune, su dromedari bianchi o bruni che offrono una passeggiata che da lontano sembra il passatempo più sereno e piacevole del mondo (ma ti voglio vedere camminare il giorno dopo), su nervosi destrieri neri che portano subito dentro a un racconto delle Mille e una notte o – 99 volte su 100 l’opzione più indolore – su una macchina volante degna del barone di Münchhausen, che s’alza da terra proprio nel momento in cui la pista termina contro il muro del ristorante. Dall’alto si riconoscono, sotto la sabbia, i perimetri dei pochi edifici della città morta, la quadrettatura del palmeto di riforestazione, i piccoli, bianchi parallelepipedi che compongono la città moderna, e al di là il deserto. Se il fatto che il pilota sia italiano non dovesse costituire assicurazione sufficiente, viene comunque fornito un casco. E la sera, a meno di un’ora lungo strade vuote che attraversano il nulla, si va a vedere il tramontar del sole sul tetto del fortino francese di ES SABRIA, anch’esso oggetto di attenzione da parte dei cineasti (Alain Corneau per Fort Saganne, 1983), e anch’esso in lento restauro. Per ora ci vive qualcuno, il camino fuma e la ruspa lavora fino al calar della luce. E’ come se la solitudine qui non contasse, e la distanza, la presenza e l’assenza, la luce abbagliante e le stelle infinite, l’arsura e il freddo fossero tutti momenti dello stesso vivere, volti diversi della medesima terra. E perciò è divertentissimo quando ci si trova tutti insieme e si fa festa. Ognuno dà il meglio di sé, in quelle occasioni. E, sebbene si sia in mezzo alla settimana, dal mercato di DOUZ si odono in lontananza rulli di tamburi. Gli artigiani che fabbricano calzature per il deserto… intere farmacie stese sul marciapiede… cestini di articoli di bellezza per le donne che debbono esistere anche qui, anche se raramente si vedono in giro… e montagne coloratissime di carote e di ravanelli, mentre in un apposito recinto si svolgono le compravendite degli animali: capre, pecore, bestie da cortile, qualche dromedario: Douz ha uno dei mercati settimanali più caratteristici. Ma il tam-tam non cessa. Il traffico è bloccato per il Festival del Sahara. Tre cavalli, che si direbbero comparse per una ripresa, vestiti e agghindati di tutto punto come e più dei loro cavalieri, attendono il loro turno per unirsi alla parata. Sfilano per la via principale i musicisti, i beduini sui dromedari, l’equilibrista con venti terracotte sul capo e gli spadaccini, tutti celebrando i costumi, l’orgoglio e le virtù delle tribù nomadi che si son date appuntamento qui non solo dalla Tunisia ma dall’Algeria, dalla Libia e dall’Egitto. Poco importa che gli strumenti a fiato emettano un perforante lamento, che i tamburini insistano sullo stesso ritmo primordiale e che non paia esserci un clou della manifestazione: i costumi sono bellissimi e forse tra poco farà un’entrata spettacolare Lawrence d’Arabia in persona. Questo è ciò che siamo venuti qui a vedere: non solo l’orientalismo della cultura e l’esotismo dei luoghi, ma l’esultanza di esistere e la gioia di far parte di un gruppo. Che motivi abbiamo, noi, d’essere orgogliosi? Sono altro, le nostre feste, se non incubi da nutrizionista o da contabile? E il nostro tentativo di resuscitare le celebrazioni d’una volta non sa forse di restaurazione, non viene forse troppo tardi, quando i fiori sul selciato, le arance tirate a chi non veste un cappello rosso o le maschere e i carri in sfilata hanno perso per sempre non solo la loro innocenza, ma la loro raison d’être? Adesso non sono che scuse per riempire i caffè, vendere la specialità locale a prezzi iperbolici e alleviare il deficit comunale con una manciata di multe per divieto di sosta. Noi siamo qui per soddisfare una nostra fantasia d’evasione, ma l’esultanza con cui loro sbandierano la propria identità è contagiosa. Quella che vediamo, atavica e attuale insieme, è la forma stessa della vita, è il passato che si reincarna nel presente. E ci sana, ed è un ricordo più importante del tappeto berbero che abbiamo pagato 350 euro quando costava 350, sì, ma dinari. Questo è il vero regalo che la Tunisia ci fa con questo viaggio, ben più importante dell’aver appagato le nostre curiosità da aspiranti antropologi e archeologi.
L’altopiano, il Reg, che si era frammentato nel Serir, un deserto di lastroni e pietre, prima del deserto di sabbia, l’Erg, ancora onora, intorno a Douz, il significato dell’etimo arabo Sahara, “fulvo”, per stingersi più a ovest. La pista che traversa CHOTT EL JERID è asfaltata, e il sale che lo ricopre è la quintessenza del suo stagionale filo d’acqua sedimentato per innumerevoli stagioni. Fanno da sfondo gli accidentati rilievi che marcano il confine naturale tra Tunisia e Algeria e, finalmente, Tozeur. L’antico centro di TOZEUR, Thusuros berbera e poi romana, centro di commercio di datteri e di schiavi, è un labirinto di passaggi coperti e di piccoli slarghi. Si potrebbe azzardare una parentela con Venezia: forse la medesima filosofia degli spazi ha informato la costruzione delle due città, estremizzata però qui da una organizzazione sociale schiettamente tribale. Uno strato di pallidi mattoni allineati a formare rilievi geometrici riveste i lunghi muri ciechi dando loro grazia e isolamento – un vezzo esclusivo di Tozeur e di Nefta. Dar Charaït è un complesso costruito meno di vent’anni fa con un albergo di lusso, un museo storico, un parco a tema per bambini e un museo d’arte. Quest’ultimo, organizzato come una grande casa multifamiliare tradizionale – ambienti aperti su un impluvium centrale con fontana – mostra tutta la bellezza di cui queste genti sono state capaci: diademi, pettorali, fibbie, caraffe, bacili, narghilè, lanterne, monili a filigrana, tutta un’argenteria di squisita fattura, e ancora pugnali per bibliche faide, spade, oggetti misteriosi… Mobili con intarsi in madreperla, eleganti zanne d’elefante, ingenue ceramiche tipiche, lampadari in vetro colorato arrivati dalle stanze dell’ultimo bey – il governatore delle province ottomane d’oltremare. Oggetti che, affrancati dalle vicende del singolo cui appartenevano, assurgono qui al ruolo di simbolo. Tutto è istoriato colle figure magiche: luna, mano, occhio, pesce, losanga… Gli elementi iconici di questa realtà, ripetuti con l’insistenza dell’ineluttabilità e celebrati per i loro poteri apotropaici. Fossili per noi ma ancora vitali per loro – non è vero che ci separano due ore di volo, è vero che ci separa un volo di secoli di evoluzione culturale. Ma un tempo avevano loro le menti più geniali, quando il matematico Ibn Chabbat, nel XIII secolo, determinava un sistema equo per l’irrigazione degli appezzamenti del palmeto di Tozeur – 200 sorgenti e pozzi artesiani per 10 kmq a oltre 30 °C per tutta l’estate. E mentre, facendo ombra alla sua statua, le palme – le femmine e i pochissimi maschi che servono per impollinarle – stanno coi piedi in paradiso (in acqua) e il capo all’inferno (sotto il sole diretto), sotto di loro prosperano gli alberi da frutto, e più sotto ancora gli ortaggi: l’agricoltura si realizza qui a tre livelli. Il verde panorama dalle Rocce del Belvedere si ripete, in scala ridotta, a NEFTA, il cui palmeto occupa il fondo della Corbeille, una conca larga quasi un chilometro e profonda 30 metri – uno dei rari punti in cui l’acqua fossile, presente sotto le sabbie in falde a varie profondità, affiora permettendo la vita. All’ombra d’un albero secolare, un paio di piccole costruzioni, la zaouia, tomba del santone Sidi Brahim e monastero della sua confraternita, perpetuano la tradizione sufi di Nefta. Le tombe sorte sui ritiri di santi eremiti, i marabutti, sono sparse per tutto il sud tunisino, e si riconoscono dalla cupola semisferica. La loro modestia stride con l’ostentazione dei marmi degli alberghi di Tozeur ma ben si intona con questi villaggi, di cui costituiscono il punto focale, come la chiesa da noi.
La cupola bianca di Sidi Tuati, il marabutto locale, ancora biancheggia tra le rovine di TAMERZA, Ad Turris, un’oasi di montagna che tre settimane di pioggia semidistrussero, assieme a Midès e Chebika, nel 1969. Costruite sulla sponda di un canalone ormai secco – studi effettuati nel corso dell’ultimo secolo rilevano una sempre più marcata diminuzione dell’acqua disponibile – le mura perimetrali, ancora in piedi, marcano minuscoli ambienti che sembrano abbandonati da millenni e arrivati a noi come per miracolo. Questo villaggio di fango, che potrebbe trovarsi sulle Ande, in Indocina o in Africa nera, non occupa uno spazio ma un tempo – un tempo ancestrale, che ogni popolo potrebbe riconoscere come proprio. L’albergo di lusso costruitogli dirimpetto, dall’altra parte del canalone, è, comparato con le esauste membra di terra del villaggio morto, quasi un cyborg, brillante di luci e di piscine. Consola il fatto che ne condividerà il destino: è solo questione di tempo. Alla luce purissima dell’ultima falce di luna, le rovine di Tamerza si stringono assieme, testimoni mute dell’imperativo ineludibile della vita. Nel silenzio terso, nemmeno le stelle osano avvicinarsi, e l’unica risposta possibile è lo struggente rispetto che il passaggio di ogni vita suscita.
A meno d’una decina di chilometri, sospesa non solo su uno sperone tra vertiginosi precipizi, ma nel medesimo tempo immemorabile, si presenta MIDES, l’antica Mades. La stretta e profonda gola fu inclusa dagli escursionisti del Club Alpino Italiano nel percorso di una impegnativa settimana attraverso queste montagne. Altrettanto impervio è il territorio che circonda CHEBIKA (Ad Speculum – i messaggi romani correvano di fortino in fortino sui lampi degli specchi di trasmissione). Una sorgente d’acqua tepida crea un laghetto opaco, e sul fondo del burrone il verde intenso contrasta con il bagliore accecante delle montagne aguzze. Come a Guermessa un dinosauro è stato piazzato in cima a una collina con l’incarico di scansire l’orizzonte, come avrebbe fatto in età cretacica, quando la Tunisia era una foresta, così qui campeggia la figura di un muflone – anch’esso, stando all’evidenza di questo viaggio, animale puramente mitico. Sono i dromedari i veri amici dell’uomo, col quale comunicano con un sordo ronzìo di fusa, oppure con fuoriuscite d’aria che sembrano provenire dall’orifizio opposto. Talvolta la lingua scivola fuori dal muso gonfia come se stessero soffiando un palloncino di gomma da masticare… E sanno protestare e disarcionare il loro cavaliere. Occorre un po’ di pratica. Oppure si può decidere di viaggiare diversamente, come fece il bey, che per raggiungere la propria residenza estiva ordinò la costruzione di una ferrovia. Restaurate di recente, le rosse carrozze d’epoca portano i turisti da METLAOUI ad una cava di fosfati, perché questo è il vero mestiere di questi binari. Ma l’attrazione dell’escursione sul “Lezard rouge”, la lucertola rossa, sono gli impervi paesaggi rocciosi lungo i quali si snoda il tracciato, che segue il corso del magro, cinereo fiume Selja. Gli squarci improvvisi in anfiteatri naturali, le impressionanti gole e le pareti a picco sono le stesse che sconsigliarono ai romani d’un tempo di proseguire nella loro avanzata. Per noi, invece, queste scenografie costituiscono un ulteriore motivo per riprendere a interessarci seriamente alla Tunisia, invitati anche dalla sua storia incalzante, dall’elegante e nobile folclore, dalla natura selvaggia e dai trogloditi che ha conservato fino al XX secolo. Numidi, fenici, romani, vandali, normanni, bizantini, arabi, spagnoli, pirati, corsari, turchi… tutti hanno desiderato questo mondo che ci appare lontanissimo, e che si trova ad appena un paio d’ore di volo. A quante ore dovrebbe invece trovarsi, per stimolare la nostra immaginazione e la nostra voglia di partire?