Tour dell’Umbria

Una settimana nel cuore della regione passando per Assisi, Todi, Orvieto, Spello...
Scritto da: catcarlo
tour dell'umbria
Partenza il: 16/06/2012
Ritorno il: 23/06/2012
Viaggiatori: 4
Spesa: 500 €
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Lasciato il raccordo Perugia-Terni all’uscita di Ripabianca e piegato a destra in direzione di Collepepe, si trova una rotonda accanto a un piccolo centro commerciale (da tenere a mente, si tratta dei negozi più vicini). Qui inizia la Provinciale 415 che risale la Valle del Puglia: imboccatala, dopo neppure mille metri una stradina si inerpica decisa sulla sinistra. Inizia qui un percorso tortuoso che, attraverso gli ulivi e case sempre più rade, sale per quasi cinque chilometri mentre il panorama si apre in scorci via via più affascinanti – peccato solo per quella porcilaia che, un po’ prima di metà percorso, manda zaffate irrespirabili. Che sono solo uno spiacevole ricordo quando si giunge in quota – sui quattrocento metri – e la strada inizia a scendere e a salire mentre gli uliveti ancora più fitti si alternano a macchie boschive verdi e intricate. Fra tante sfumature, l’unica a non cambiare è la sede stradale, stretta e sconnessa. Infine, dopo essere svoltati a sinistra a un ultimo bivio che dall’altra parte conduce a Canalicchio, giungiamo alla nostra meta, dove non saremmo mai arrivati se la nostra ospite, la gentilissima Monia, non ci avesse guidati già da Ripabianca.

Il Salignano

Il nostro appartamento è sito in un vecchio casale di campagna ristrutturato, ombreggiato da robusti lecci e circondato dagli uliveti. Il ristorante più vicino è a un paio di chilometri e i negozi a cinque, ma, se non si hanno problemi per l’isolamento – e noi non ne abbiamo – è l’ideale: intanto, la sera, torniamo abbastanza stanchi dalle nostre escursioni per non sentire il bisogno di muoverci di nuovo. Anche perché, mentre a valle si fa sentire una calura eccessiva per la metà di giugno, sulla cima della collina inizia a soffiare nel tardo pomeriggio una brezza più o meno intensa che – pur se tiepida più che fresca – consente di respirare e, orientando in modo opportuno le finestre per creare correnti d’aria, di dormire la notte. Il venticello è piacevole assai sull’ampia terrazza che, splendido balcone sul panorama circostante, è a nostro uso esclusivo: rivolta a ovest, e perciò capace di regalare splendidi tramonti, consente di spaziare sulla sottostante valle del Tevere e di scorgere, alla nostra destra e più in lontananza, il profilo di Perugia e quello di Assisi distesa ai piedi del monte Subasio. Gli uliveti – i più vicini sono dei padroni di casa che producono l’olio in proprio – il biondo colore dei campi di grano, il verde più scuro delle macchie boschive si alternano creando giochi d’ombra sempre diversi con il muoversi del sole mentre le cascine punteggiano il paesaggio quasi lo presidiassero e a volte non si capisce dove corrano le strette strade che le raggiungono. Quando si fa buio, poi, le luci delineano con maggiore nettezza i luoghi abitati vicini o lontani e il giro delle correnti d’aria porta i suoni da una non ben identificata lontananza: il liscio di una festa di paese deve aver origine da qualche parte là sotto, spostata a sinistra, mentre le chiacchiere e le risate argentine dovrebbero provenire dalla cascina che a occhio è distante un paio di chilometri.

Un po’ più rumorosi sono i vicini di casa che risalgono in serata da Deruta per evitare l’afa e dar da mangiare alle galline, ma sono chiacchiere estive davanti alla porta che rappresentano un tuffo nel passato e si spengono a un orario più che accettabile. In modo analogo, non disturbano più di tanto le zanzare che, come ci ha raccontato Monia, hanno cominciato a frequentare questi luoghi solo da qualche anno: comunque non sono numerosissime, tanto che basta un semplice zampirone a tenerle lontane in modo tale da poter godere della notte che avanza coricati sulle sdraio (le ultime sere, complice un lieve abbassamento di temperatura complessivo, sarà addirittura necessario coprirsi).

Oltre alle suddette sdraio e al tavolo per cenare con vista – solo un po’ difficoltosa la logistica per il trasporto delle vivande – sulla terrazza trova posto una vasca idromassaggio a quattro posti che consente di rinfrescare la pelle surriscaldata e distendere i muscoli affaticati delle gambe, con l’unica preoccupazione che Chiara non la consideri una piscina vera e propria schizzando acqua a destra e a manca.

L’appartamento è grande, su due piani e, con due camere e un divano letto, può ospitare fino a sei persone. A pian terreno, l’ambiente che funge da cucina e sala da pranzo ha al centro un grande (anche se un po’ basso) tavolo di legno, come pure in legno sono la credenza e la madia. In un angolo, troneggia il camino – che, ovviamente, non ci è di nessuna utilità – mentre in quello opposto ecco i fuochi e il lavello – ma nessuna lavastoviglie, ahimè. In compenso, la lavatrice fa compagnia al frigorifero in un piccolo ripostiglio: lì accanto c’è uno dei due bagni della casa, essendo l’altro al piano di sopra, raggiungibile salendo una stretta scala in legno che è causa di un notevole sforzo nel trasferimento delle valigie. Le stanze sono spaziose e quella in cui dormono Giulia e Chiara, come pure il bagno, gode di una splendida vista verso nord mai disturbata dai raggi del sole. La nostra, invece, guarda a ovest e, fino a quando il pomeriggio non sfuma nella sera, è necessario tener serrate le persiane: benché i muri abbastanza spessi, la temperatura tende inevitabilmente a salire.

Todi

La prima meta è Todi, non tanto perché sia uno dei centri dell’Umbria che preferisco, ma perché è il più vicino. Il viaggio non dura neppure mezzora, lungo una E45 Perugia-Terni resa quasi deserta dal dì di festa: con nostra sorpresa, anche la nostra meta è tutto meno che affollata e ce ne accorgiamo subito al momento di parcheggiare.

Una volta risaliti, dopo qualche tornante, ai piedi delle mura, imbocchiamo la Circonvallazione Orvietana e subito sulla sinistra scorgiamo un parcheggio di dimensioni ridotte – e con un accesso e un’uscita ancor più stretti – che ospita solo un paio di auto. Le righe sono blu, ma il parcometro non vale per i giorni festivi, così decidiamo di fermarci. Da una parte abbiamo una splendida vista della vallata sottostante, dall’altro le case della città che sembrano accatastarsi l’una sull’altra seguendo il pendio: mentre cerchiamo di scattare qualche foto e ci cospargiamo di crema contro il sole che brilla nel cielo limpido, parcheggia lì accanto un signore anziano che ci chiede (un po’ pleonasticamente) se intendiamo visitare Todi. Alla nostra risposta affermativa, ci consiglia di proseguire fino a poco oltre la chiesa di Santa Maria della Consolazione, dove potremo trovare posto in abbondanza e ombreggiato: accettiamo di buon grado, ma, prima di poter seguire il suggerimento, ci tocca ascoltare una lamentela sulla cittadina che muore, con i suoi spazi commerciali del centro storico che non riescono più a trovare chi voglia comprarli o affittarli – come accade alla ex macelleria del suo povero fratello, rimasta inutilizzata dalla morte del titolare.

In pochi minuti siamo a destinazione e sistemiamo la macchina sotto una pianta cercando di capire come si sposteranno le ombre (il calcolo si dimostrerà abbastanza corretto, al pomeriggio solo il portellone posteriore sarà al sole). Da lì in avanti si va a piedi, anche perché non è che a quel punto ci sia molta scelta: la strada – Via della Consolazione – che sale fino a Porta Orvietana, è chiusa al traffico. Rimandiamo la visita alla chiesa al pomeriggio dato che c’è messa e iniziamo ad arrampicarci verso il centro lungo una passeggiata sterrata che sale a tornanti – non per niente chiamata Via della Serpentina – attraversando il bosco che ancora copre questo lato della collina. Ignorate un paio di diramazioni e un punto panoramico proteso nel vuoto – c’è il sole contro, altro rinvio al pomeriggio – giungiamo un po’ boccheggianti all’altezza del parco che ha preso il posto della Rocca nel punto più alto del borgo e, se non altro, abbiamo la consolazione che da lì si può solo scendere.

Una breve sosta e ripartiamo in direzione della chiesa di San Fortunato che raggiungiamo provenienti dal lato sinistro proprio mentre un gruppo di anglofoni ne esce e si fa fotografare dalla guida che, per farli sorridere, cita a sorpresi piatti o ingredienti della cucina italiana. Sotto di noi, ecco scendere dolcemente il pendio percorso da gradinate che si intersecano e delimitano gli spazi tenuti a prato e quelli in ghiaia. Sopra le nostre teste, incombe invece la facciata incompiuta nella parte superiore ma decorata con finezza nei portali da fregi e motivi floreali intessuti di piccole figure umane: un annuncio dello stile gotico dell’edificio che, all’interno, presenta tre navate della stessa, rimarchevole altezza affiancate da due serie di cappelle più piccole. I muri sono quasi del tutto spogli e pochi sono gli spezzoni recuperati degli affreschi risalenti al Trecento: l’estrema pulizia di linee è accentuata dalla totale mancanza di elementi scultorei, tanto che il maggior interesse, in quanto a decorazioni, è dato dalle due acquasantiere, una delle quali ricavata da un capitello di epoca romana. In una teca, sta il reliquario di San Fortunato, un braccio in argento che è l’ultimo superstite del ricco tesoro della chiesa rapinato dalla nostra vecchia conoscenza Ludovico il Bavaro, il cui imponente monumento funebre abbiamo potuto ammirare l’anno scorso nel Duomo di Monaco di Baviera. Poco più di una curiosità è invece la visita alla cripta, dove, in un piccolo mausoleo, sarebbero deposte le ossa di alcuni santi: qui dovrebbe riposare in eterno anche Iacopone da Todi, ma le sue spoglie furono poi trasferite – chissà perché – in sacrestia.

Tornati all’aperto, scendiamo la scalinata tenendoci il più possibile dalla parte in ombra e in neppure cinque minuti giungiamo in Piazza del Popolo, dominata dal Duomo e dalla larga scalinata che permette di accedervi. La facciata è squadrata e dalle linee pulite, con le decorazioni che si limitano ai portali e al rosone. L’interno è romanico a tre navate dalla copertura in legno, separate da colonne e pilastri: accanto a quella alla nostra destra si apre un’ulteriore piccola navata costruita in tempi posteriori e tutta in muratura: lì ci rifugiamo perché, pochi minuti dopo il nostro ingresso, inizia la messa, il che ci pregiudica la visita a transetto e abside. Mentre stiamo nel nostro angolo a leggere la guida tenendo la voce al limite dell’inudibile, altri turisti insistono a percorrere la chiesa avanti e indietro, il che indispettisce non poco l’officiante che interrompe il rito per scacciare gli importuni dal tempio. Pur sicuri di non essere fra i reprobi, usciamo anche noi per fermarci subito ad ammirare la vista della piazza che, dalla posizione rialzata, ha un fascino irresistibile. Di fronte, la facciata gotica in pietra chiara del Palazzo dei Priori occupa l’intero lato opposto al Duomo, innalzandosi per due alti piani sovrastati da una merlatura gotica e affiancati da una torre sul lato sinistro: la sola decorazione è un’aquila bronzea, simbolo comunale.

Proprio dal lato mancino, separato dal passaggio che consente di andare nell’adiacente Piazza Garibaldi, c’è il duecentesco Palazzo del Popolo, unito con il di poco più giovane Palazzo del Capitano da una scalinata esterna. Entrambi dalle linee molto semplici di ispirazione gotica, hanno a piano terra alti e profondi portici che si aggiungono all’arcata posta sotto la scalinata. Purtroppo, possiamo gustarci la bellezza e la tranquillità del luogo per poco tempo, dato che a un bel momento arriva un corteo di auto storiche che, precedute da un’Alfa Romeo dei Carabinieri risalente agli anni Sessanta, si dispongono con ordine proprio al centro della piazza: non che diano un fastidio eccessivo, ma qualche equilibrio viene spezzato. Così, mentre Diva e Chiara, si infilano in un negozio alla ricerca – infruttuosa – di un paio di sandali, io e Giulia ci spostiamo in Piazza Garibaldi che offre, oltre alla facciata più antica del Palazzo del Popolo, uno splendido balcone sulla vallata sottostante. Nel punto panoramico c’è anche qualche albero che offre una sospiratissima ombra, oltre che una brezza discontinua ma rinfrescante: peccato allora che, in uno spazio non molto grande, ci sia un parcheggio con relativo e fastidioso movimento di automobili.

Alla ricerca di un posto dove mangiare, si sta avvicinando l’una, gironzoliamo un po’ nelle stradine ombreggiate che, raggiungibili attraverso uno stretto vicolo, scendono sul lato sinistro della Piazza del Popolo, ma ben presto ci arrendiamo e torniamo lungo Corso Cavour, da sempre arteria principale della città che dal centro scende verso la periferia. Non c’è molto da essere ottimisti: Todi è deserta e i ristoranti, che in questa parte della cittadina sono più numerosi, pure, forse anche perché i prezzi sono tutt’altro che economici. E invece… Sulla destra, si apre una piccola piazza rettangolare che, sul lato lungo, è chiusa dal muro su cui spicca la seicentesca (ma più volte ritoccata) Fonte Cesia, costruita per convogliare acqua potabile in un centro che di certo non ne abbondava. All’angolo con il corso c’è la pizzeria e tavola calda da Italo che, a sorpresa, ci consente di mangiare in abbondanza spendendo una quarantina di euro. Lasciamo stare la pizza e i piatti caldi: la caponata, la panzanella e i panini, che si rivelano essere delle piadine di notevoli dimensioni, sono più che sufficienti, tanto che ci pentiamo di aver ordinato anche i crostini – che, tra l’altro, si rivelano un po’ sotto la media. Benchè il locale offra una saletta climatizzata, scegliamo di fermarci ai tavoli all’esterno che, tra ombrelloni e un filo d’aria arrivato da chissà dove, si rivelano una buona sistemazione.

Oltretutto, così, evitiamo lo sbalzo di temperatura quando ci rimettiamo per strada. Sempre scendendo dolcemente, proseguiamo lungo il corso che, passato il massiccio e alto arco che era la porta della prima cerchia di mura, diventa Via Roma. Poco dopo svoltiamo a sinistra per andare a dare un’occhiata ai nicchioni romani – massicce volte di oltre dieci metri sovrastate da un cornicione la cui origine non è ben chiara, forse il muro portante di una costruzione più grande – la cui vista è però rovinata dalle auto parcheggiate nella piazza antistante. Ci dirigiamo perciò alla volta della Fonte Scarnabecco, dal nome di chi la fece costruire nel Duecento: prima abbeveratoio, poi lavatoio e ora solo due vasche asciutte sotto la copertura sostenuta da colonne. Lì vicino c’è anche la chiesa di Santa Prassede, ma è chiusa e perciò iniziamo a risalire verso Piazza del Popolo, sempre restando dalla parte esterna, per poi tornare alla macchina facendo all’inverso il percorso del mattino. Lungo Via della Serpentina, il calore pare salire a ondate dalla valle e quando giungiamo al punto di osservazione scorto poche ore prima scopriamo che il panorama è bello, ma il parapetto di metallo che lo circonda è bollente.

Resta la visita all’imponente Santa Maria della Consolazione, costruita nel Cinquecento a croce greca e circondata da un vasto prato accudito con cura su cui sono sparsi i ricordi – riso e nastri – di un matrimonio recente. Le forme curve dominano la struttura, sia all’esterno, sia all’interno, grazie alle quattro absidi che ingentiliscono i lati e all’altissima cupola che si scorge da lontano e che, vista da dentro, dà un discreto senso di vertigine. La chiesa è abbastanza spoglia e si fa ricordare soprattutto per l’equilibrio attentamente studiato della struttura architettonica.

Canalicchio

Tornando da Todi, svoltiamo a destra al bivio di cui si è accennato nell’introduzione e, dopo due tornanti seguiti dal periplo dell’altura, eccoci a Canalicchio. Che è meglio visto da sotto, o magari da qualche squarcio tra le piante durante la salita, quando svetta sul panorama circostante e il torrione a base quadrata spicca sul compatto giro delle mura, perché una volta arrivati vicino e, lasciata l’auto, entrati da quello che pare un accesso pedonale, si scopre che l’intero, piccolo borgo è un albergo. Un signor albergo, per carità, e difatti si chiama Relais Il Canalicchio, con la piscina, le camere o le suite lussuose e arredate in stile, la vista panoramica e un ristorante di livello, ma sempre un albergo resta. Ci racconta la storia Monia l’ultimo giorno: il paesino era praticamente in rovina e un imprenditore romano lo acquistò, lo ristrutturò completamente e, per qualche anno, ci fece dei bei soldi visto che non c’era struttura analoga nel circondario. Ora, invece, con il proliferare degli agriturismi più o meno veri, è arrivato il periodo delle vacche magre e Canalicchio non è più gettonato come prima: lo testimonia anche un cartello che preannuncia la realizzazione di alcune villette poco più in là del Relais e che se ne sta lì da alcuni anni senza che nessuno abbia iniziato a costruire alcunché.

Un vero agriturismo, però, a Canalicchio c’è e si tratta della Locanda del Colle dove andiamo a cenare l’ultima sera dopo che, nella nostra prima incursione, abbiamo notato che i prezzi del ristorante sono più che buoni. Ci sediamo a mangiare sulla veranda che guarda le colline – ma in questo caso a est – dove ci vengono serviti dei piatti genuini e gustosi che vanno dagli ottimi crostini misti agli stringozzi al tartufo o al tartufo e zucchine fino alla scelta un po’ fast-food di Chiara che sceglie il pollo fritto servito con un contorno di patate alla brace. Un po’ tutto è fatto in casa compresi l’ottimo pane e la versione alternativa – più morbida – dei cantucci con il vin santo mentre quello che è comprato (come l’ananas di Giulia) è servito con una bella dose di fantasia. Ce ne andiamo soddisfatti avendo speso solo sessanta euro e, se proprio si vuol trovare un difetto, va sottolineato un servizio un po’ lento.

Bevagna

Varie sono state le mie visite in Umbria, ma a Bevagna non ero mai stato e va detto che il piccolo paese accanto a Foligno è stata una piacevole sorpresa. Per arrivarci, imbocchiamo la SP415 che, per una decina di chilometri è una vera noia. Si risale difatti una valle non molto larga, infilata tra due catene di colline di discreta altezza che restringono il paesaggio: neppure una nuova giornata di sole brillante giova più di tanto. A questo, vanno aggiunti un fondo stradale pensoso e una bella centrale termoelettrica appena oltre metà strada. Giunge perciò a puntino la deviazione che, sulla sinistra, passa accanto a Gualdo Cattaneo: sia la salita verso il piccolo capoluogo che la discesa dalla parte opposta si svolgono tra sinuosi tornanti e, specie la seconda, attraversa bei campi coltivati a grano o uliveti che, con il passare dei chilometri, lasciano sempre più spesso spazio ai filari di viti. Qui difatti, oltre all’olio, si produce il Sagrantino e, una volta reimmessi sulla strada principale (la SR316 dei Monti Martani), numerosi cartelli insistono a ricordarcelo, indicando anche di tanto in tanto questa o quella cascina dove si può trovare la vendita diretta.

Il percorso resta in lieve discesa perché Bevagna è – per la gioia di Chiara – in pianura nella valle del Topino. Ci avviciniamo al centro lungo un viale alberato e, dove si giunge al divieto d’accesso davanti alle mura, troviamo un comodo e gratuito parcheggio che ha l’unico difetto di scarseggiare in quanto a piante. Con nostro stupore, le macchine in sosta hanno quasi tutte targhe locali, confermando la tendenza del giorno prima.

Per entrare in paese, attraversiamo il Clitunno su un ponte in pietra alto qualche metro sulla riva. Accanto a questa, alla nostra sinistra, sta un lungo lavatoio che sfrutta una parte della portata del fiume: una signora è intenta a lavare i panni – mentre, lì accanto, un tizio parla agitato al cellulare – ma la pigra corrente crea dei ristagni di acqua non proprio pulita che non è certo un invito a usarla per lavare se stessi o i propri vestiti.

Sul fiume, separate da un piccolo spazio erboso, si affacciano le mura che ancora circondano il centro storico, mantenendo qua ancora l’aspetto originario e là costituendo invece una parte integrante delle abitazioni. L’abitato ci accoglie con una piazza dedicata a Gramsci, ombreggiata su due lati da alcune piante e dominata su quello di fondo dalla parete posteriore della chiesa di San Silvestro – la cui abside esce appena accennata dal muro – e del Palazzo dei Consoli, alla cui struttura si appoggia una gelateria.

Per vedere la facciata delle due costruzioni, percorriamo una stradetta sulla sinistra che ci conduce alla piazza principale del borgo, un luogo fuori dal tempo se non fosse per il palco e le tribune in tubi Innocenti allestiti per la festa del Mercato delle Gaite (sorta di rievocazione medioevale in costume che si svolge proprio in quei giorni). La sfortuna economica di Bevagna è stata la fortuna del turista contemporaneo. Al tempo di Roma, nel centro dell’antica Mevania passava la Via Flaminia (che correva dalla capitale a Rimini) e la città era la più popolosa e importante della regione. Poi, però, alla strada romana venne aggiunta una diramazione passante per Spoleto che acquistò via via importanza fino a soppiantare del tutto il vecchio tracciato, con conseguente decadenza degli agglomerati posti lungo quest’ultimo. Bevagna così rimpicciolì e restò poi in una sorta di stasi, con il paese medioevale, costruito a ricalco sul tessuto urbano classico, che, senza possibilità di sviluppo, rimase uguale a se stesso. Perciò la piazza è l’antico foro, con le chiese sovrapposte ai templi, il corso che attraversa il centro è l’esatto tracciato della vecchia Flaminia, le mura e le porte sono rimaste in piedi.

E quindi eccoci di nuovo in piazza, con il potere civile e quello spirituale uno a fianco dell’altro. Il Palazzo dei Consoli mette in mostra una serie di agili bifore e poggia sopra un ampio spazio, sostenuto da volte a crociera, che però non è visitabile perché è allestito a sala conferenze e chiuso da grandi vetrate. Sulla destra, gli è davanti una fontana in pietra con vasca ottagonale mentre sulla sinistra, una bella scalinata sale abbastanza ripida fino al primo piano, dove c’è l’ingresso del teatro ospitato nella struttura. Voltandosi, si può ammirare la bella facciata romanica di San Michele, dalla forma squadrata alleggerita dal grande rosone centrale mentre un campanile a base quadrata si alza sulla sinistra. L’origine della chiesa risale al secolo Dodicesimo, ma l’interno è stato molto rimaneggiato prima di essere riportato alle linee (pressappoco) originarie solo alla metà del Novecento. Molto meglio San Silvestro, proprio di fronte: come San Michele è a tre navate, ma il suo interno ne testimonia l’ancora maggiore antichità, tra mattoni a vista, volte a botte e il presbiterio sollevato rispetto alla parte frontale. La luce filtra fioca dalle poche e piccole finestre, rendendo abbastanza bene quella che doveva essere l’atmosfera nel periodo in cui fu realizzata. I novecento anni passati si possono notare anche nella semplice facciata incompiuta, con il solo portale a far pensare che si tratti di un edificio di culto, mentre una trifora è posta in vece del rosone.

Sulla piazza si affaccia anche il lato sinistro di San Domenico, che però è chiusa. Si può visitare l’adiacente chiostro, che ora ospita un albergo, decorato da affreschi nelle lunette a piano terreno sotto il porticato a tutto sesto mentre al piano superiore lo stesso tipo di arco si ripete ma con dimensioni minori. Basta una breve occhiata, poi ci incamminiamo lungo Corso Matteotti ovvero la Flaminia sopra descritta. Non è una passeggiata semplice: un po’ perché fa caldo e la strada stretta regala solo di quando in quando una sottile corrente d’aria, un po’ perché i negozi si sprecano e le fermate sono inevitabili. Fra i commercianti, spiccano per numero soprattutto quelli che offrono specialità alimentari – vino, olio, stringozzi, sughi vari con o senza tartufo – e il momento viene sfruttato per acquistare qualche regalo: in più, Giulia e Chiara scovano una merceria che vende oggetti ricamati nella vicina Montefalco e riescono a farsi comprare un braccialetto a testa. Così si perde un po’ l’attenzione sulle case che guardano la via alternando aspetti moderni a strutture ancora medioevali che riciclano antichi elementi romani come quelli marmorei che decorano la facciata della peraltro cadente e sconsacrata chiesa di San Vincenzo. A questo punto siamo oramai vicini alla porta che conduce a Foligno, oltrepassata la quale un grande giardino alberato si estende a destra e sinistra, ospitando il monumento ai caduti: una breve occhiata e ritorniamo sui nostri passi che, poco dopo, ci conducono, svoltando a destra, in un curioso quartiere a forma di arco.

Qui era una volta l’anfiteatro romano, che poteva ospitare fino a diecimila persone. Il palco era adiacente alla strada consolare mentre le imponenti gradinate a semicerchio si spingevano all’interno per alcune decine di metri appoggiandosi su robuste strutture murarie che erano percorse da due gallerie – una più grande dell’altra – attraverso le quali avvenivano l’afflusso e il deflusso degli spettatori. Con la decadenza, il palco e le tribune se ne andarono, ma rimasero i muri portanti che nel medioevo furono riutilizzati. Le gallerie furono ‘lottizzate’: con la costruzione di muri divisori, si ricavarono una serie di abitazioni artigiane con le relative botteghe (l’altezza consentì di realizzare un piano terreno per il lavoro e un primo piano come abitazione). Ed ecco che, dal di fuori, si ha la strana impressione della strada curvilinea su cui si affaccia un quartiere medioevale che però sfrutta muri costruiti duemila anni fa.

Recuperiamo tutte queste belle e dettagliate informazioni quasi per caso. Troviamo l’unico tratto della galleria ancora visibile chiuso da una vetrata e, mentre cerchiamo di guardarci dentro facendoci schermo dai riflessi solari, si avvicina il tizio del negozio accanto – per accedervi si scendono un paio di gradini, in vendita una serie di oggetti di artigianato – che ci offre di farci da cicerone per tre euro a testa. Una spesa che non rimpiangeremo di certo perché il tipo si rivela una vera miniera di notizie e sa raccontarle: abbandonata la piccola e ricurva pipa che sta fumando – e che fa pendant con l’aspetto da ‘hippy fighetto’, completo di capello lungo legato a coda, pizzetto, camicia bianca abbondante, collane e braccialetti etnici – ci fa visitare prima ciò che resta dell’anfiteatro e poi, parte ancora più interessante, la ricostruzione dell’appartamento di un ricco mercante dell’Età di Mezzo. Oltre all’inquadramento storico di cui sopra, veniamo così a sapere (o a riscoprire) fra il resto: come si passa dalle macchine sceniche romane al motore a scoppio (mettendo un perno alle grandi ruote in modo che l’energia ne venga distribuita); che nel medioevo si dormiva seduti (perché il diavolo non pensasse di trovarsi davanti un morto e non se lo portasse trascinandolo per i piedi – da cui anche tirapiedi e i salvataggi fatti prendendo per i capelli); perchè un vetro attraverso il quale non si riesce a vedere è appannato e non opacizzato (quando il vetro costava troppo, si usava un panno per chiudere le finestre e, ovviamente, non ci si vedeva attraverso); perché mena sfiga sprecare sale o rompere specchi (costavano un occhio della testa); perché il gioco non vale la candela (anche le candele erano costosissime e una partita a un qualsiasi gioco da tavolo era meglio non ne consumasse più di una); perché si parla di trama del racconto o si perde il filo del discorso (l’iniziazione all’arte della tessitura era, per le bambine, unita alla tradizione orale degli adulti). E altro ancora, in una visita che finisce per durare quasi un’ora e mezza mentre altre persone si uniscono man mano: quando usciamo, un po’ rintronati dal sovraccarico di informazioni, è ora di mettersi alla ricerca di un posto dove mangiare.

I provvisori banchetti in legno del Mercato delle Gaite sono chiusi – si attivano solo in serata – e i pochi ristoranti aperti offrono piatti troppo pesanti per una giornata così assolata e calda. Qualche gastronomia offre invitanti panini con la porchetta ma, alla fine, scegliamo un piccolo bar in ombra accanto alla piazza principale: non è secondaria la presenza di un bel ventilatore che smuove piacevolmente l’aria. Ci accomodiamo a uno dei piccoli tavolini e ordiniamo, anche se le due signore che lo gestiscono paiono evidentemente sorprese dal nostro arrivo: la panzanella è buona ma il pane è ancora troppo duro, la caprese e i panini delle bambine sono nella normalità ma per venti euro non si poteva pretendere di più, anche se con il senno di poi sarebbe stato meglio spostarsi dall’altra parte della piazza, accanto a San Silvestro, dove scopriamo troppo tardi esserci un’offerta simile ma una maggiore organizzazione. Raggiungiamo così la macchina lungo il percorso della mattina e, malgrado la temperatura infuocata, ci fermiamo a dar fondo alla frutta portata da casa prima di ripartire per Montefalco.

Montefalco

Una strada che pare per un lungo tratto disegnata con la riga ci conduce in salita sempre più accentuata sino a un gruppo di case chiamato Montepennino, dove voltiamo a destra e, dopo meno di dieci minuti dalla nostra partenza, giungiamo a Montefalco che sovrasta Bevagna dalla cima della collina, un paio di centinaia di metri più in alto. Anche qui, in fase di avvicinamento, percorriamo una strada affiancata da due file di alberi frondosi: circa a metà, in basso sulla nostra destra scorgiamo un vasto parcheggio dal quale se ne stanno andando le ultime bancarelle del mercato, ma, anche per le proteste di Chiara, decidiamo di avvicinarci di più al centro abitato. Lasciamo così l’auto nelle strisce blu accanto alle mura, sull’ampio piazzale che si apre sulla sinistra di Piazza Sant’Agostino, cercando almeno un po’ d’ombra e infilando nel parcometro un euro che si rivela comodamente bastante perché l’obbligo di pagamento inizia alle tre e noi stiamo per affrontare il sole delle due del pomeriggio.

Passata la porta, che ripara dai raggi e regala un attimo di frescura anche perché sovrastata da una possente torre merlata, ci si presenta davanti una lunga strada – Corso Mameli – che sale con una certa pendenza e non offre alcun riparo. Iniziamo a percorrerla con calma e a zig-zag, dando un’occhiata ai negozietti di artigianato o di tessuti ricamati e alle case che, come in una macchina del tempo, diventano sempre più antiche avvicinandosi al centro, pur senza rivestire un interesse particolare che non sia l’insieme del luogo. A metà rampa, troviamo un attimo di riposo nella chiesa, pure dedicata al vescovo di Ippona, che si trova sulla nostra sinistra. Dietro una facciata semplicissima – portale, rosoncino e basta – si distende un’unica, larga navata dalla copertura in legno che testimonia la fondazione duecentesca. In origine, tutti i muri erano completamente dipinti e vaste porzioni di affreschi più o meno significativi si alternano ancora a tratti di intonaco, una decorazione che si ripete anche nella navatina sulla destra. Qui sono posti alcuni altari, di cui un paio sconfinano nel macabro, mettendo in mostra uno i resti mummificati di due monache morte in odor di santità e l’altro un defunto vestito di saio che riposa definitivamente in posizione seduta (non si sa mai…). Lo sbalzo di temperatura e di luce quando torniamo all’esterno ci convince che dobbiamo integrare un po’ il magro pasto e, allo scopo, soccorre una gelateria poco distante: recuperiamo un po’ di zuccheri seduti su una panchina dal lato opposto della strada, benedetto da una striscia ombreggiata, e poi ripartiamo, raggiungendo la circolare Piazza del Comune, posta nel punto più alto del paese.

La forma della piazza e il convergervi di tutte le strade principali testimoniano il preciso disegno urbanistico con cui Montefalco è stata costruita. Dalla parte da cui giungiamo noi, si affaccia sullo spiazzo il Palazzo Comunale, nato nel Medioevo ma di continuo rimaneggiato, che si fa notare soprattutto per il bel porticato a tutto sesto che ne decora la parte inferiore, mentre il resto delle costruzioni è costituito da palazzi gentilizi in vari stili. Ancora una volta è l’insieme a impressionare più dei singoli edifici e perciò, dopo aver cercato di rendere il colpo d’occhio nelle foto, scendiamo nei vicoli sulla nostra destra, dove le strette stradine – sovente a gradini – sono a volte rallegrate da una macchia di verde o da una piccola fontanella. Giungiamo fino alla Porta di Federico II (sormontata dallo stemma dell’imperatore, è un semplice arco a tutto sesto in un muro che lascia vedere le pietre in cui è costruito, come del resto le case lì accanto) e, data un’occhiata al panorama un po’ disturbato da qualche macchina di passaggio, risaliamo fino alla Piazza del Comune per poi scendere dalla parte opposta.

A quel punto, ci sarebbe da visitare il complesso museale installato nella ex chiesa di San Francesco, ma scopriamo che le energie al lumicino possono avere la meglio sugli affreschi di Benozzo Gozzoli. Così ci limitiamo a un’occhiata alla facciata romanica – una bifora sovrasta il piccolo portale – e poi arriviamo fino alle mura, dove Montefalco terrebbe fede davvero alla sua fama di balcone dell’Umbria, visto che, se qualche albero e qualche casa di troppo non ostacolassero lo sguardo, sarebbe possibile spaziare sull’intera zona circostante spingendosi, almeno in pianura, fino in lontananza. La Torre del Verziere, che poco distante fa angolo nella cinta muraria, potrebbe fornire una migliore prospettiva ma, dopo la sosta su di un’altra panchina, decidiamo di seguire semplicemente l’andamento delle fortificazioni lungo i sentieri del parco pubblico e ci ritroviamo così a Porta Sant’Agostino che attraversiamo con una certa difficoltà: il mondo si è svegliato dalla pennichella pomeridiana e pare che tutti vogliano passare in macchina da lì.

Assisi

Dopo due giorni di quasi irreale tranquillità, ci diciamo che, almeno ad Assisi, qualche turista dovremmo trovarlo e i fatti dimostrano di come non si trattasse di una previsione difficile. Nella cittadina si muovono più o meno compatti stranieri di ogni dove, perlopiù irreggimentati in gite organizzate: tutti giù dal pullman e poi via, dietro la guida armata di ombrello colorato o di qualche altro arnese che possa farla riconoscere. Molto minore è il numero dei piccoli gruppi ma, in ogni caso, tutti quanti sembrano impegnati a visitare i monumenti e a limitare le spese: i negozi e i ristoranti sono quasi vuoti, sarà anche perché sole e caldo non invitano ad accostarsi alla robusta cucina umbra, ma molte volte i prezzi esposti dissuadono anche i più volenterosi.

All’andata, decidiamo di dare retta a viamichelin, ed è un errore. Risaliamo lungo la E45 fino a Perugia e poi imbocchiamo la SS75, anch’essa a doppia carreggiata. Vicino al capoluogo, il traffico è assai intenso, specie in uscita verso la città, e allo svincolo fra le due strade rischiamo di essere spettatori in prima fila di un brutto incidente perché l’autista di un’utilitaria si accorge all’ultimo momento di dover uscire e finisce per tagliare la strada a un camion che, scartando e frenando, riesce miracolosamente a evitare la collisione. L’esperienza complessiva è tanto sgradevole da farci cambiare itinerario al ritorno: la strada secondaria che, seguendo la direzione di Bettona e Torgiano, ci consente di sbucare infine poco prima di Deruta non è granchè spettacolare ma consente di viaggiare con calma e risparmiare anche sui chilometri. Una volta giunti al paese delle ceramiche – nel lento attraversamento della periferia possiamo scorgere decine di fabbriche, fabbrichette e artigiani ognuno con il proprio spaccio o negozio – sarebbe meglio rientrare sulla superstrada, visto che il percorso normale corre noiosamente parallelo, con poche eccezioni, alla Perugia-Terni, ma finiamo per perderci non più di una decina di minuti.

Quando lasciamo l’auto nel parcheggio sotterraneo di Piazza Giovanni Paolo Secondo, saranno circa le nove e mezzo e la situazione è ancora tranquilla. I posti sono ancora più liberi che occupati e solo due autobus sono sistemati nelle numerose piazzole riservate, in superficie, ai torpedoni. Dopo un’abbondante razione di crema sulla pelle perché il sole già picchia, risaliamo l’ampio tornante che conduce verso Porta San Francesco, alla cui altezza una strada secondaria alla nostra sinistra va dritta verso la campagna: si tratta dell’antica via d’accesso alla città che prosegue verso il centro prendendo il nome di via Fontebella – quella dove era situato (e forse c’è ancora) l’omonimo albergo della mia prima visita assisiate, e son passati trentacinque anni! Noi teniamo fede al programma originario – prima la basilica quando c’è ancora calma, poi il resto. In pochi minuti ci troviamo nella Piazza Inferiore dominata su un lato dalla mole delle chiese sovrapposte e circondata su restanti dal porticato costruito con l’intenzione di dare un riparo ai commercianti che volessero offrire qualcosa ai pellegrini (alla faccia dei mercanti nel tempio) e un posto di riposo ai pellegrini stessi. Dei primi non c’è più traccia, per fortuna, mentre a rappresentare i secondi troviamo un irsuto omone che – piedi scalzi e zaino sotto la testa – dorme su una delle panchine senza dare una particolare impressione di pulizia.

Rivestendo qualche spalla scoperta – la misura delle bermuda è invece ok – entriamo nell’oscurità fresca della Basilica Inferiore. Percorriamo con lentezza la navata, dando un’occhiata ai numerosi affreschi delle cappelle laterali, e infine, passato il grande arco che introduce il presbiterio, ci fermiamo a lungo ad ammirare le opere che decorano le pareti e la vasta volta a crociera. Giulia legge paziente dalla guida descrivendo le opere di Cimabue (fra le quali, una delle più famose immagini di Francesco), Giotto (presente con la sua scuola anche nella cappella della Maddalena), Simone Martini, Lorenzetti e numerosi altri: la differenza tra le varie mani è più o meno evidente in una serie di episodi di vita del santo alternati a quella di Gesù e altre storie della Bibbia. Non c’è angolo che non sia illustrato e, volendo stare per ore a naso per aria, ci sarebbero sempre nuovi particolari da scoprire: l’estrema varietà delle illustrazioni, con i loro molteplici personaggi e colori, ravvivano la chiesa, facendo dimenticare la non eccessiva altezza e la poca luce che filtra dall’esterno che, altrimenti, potrebbero dare un senso di oppressione.

Prima di salire alla Basilica Superiore, visitiamo la cripta dove c’è la tomba di San Francesco, fatta di pietre lisce e innalzata su un pilastro per una soluzione molto semplice e per questo in linea con la figura dell’illustre ospite, ricordato anche con le reliquie disposte in una grande sala laterale decorata con pitture moderne: il saio, il calice, una scritta autografa e altri oggetti sono disposti nelle teche di un discreto allestimento.

Una scala che sale di fianco all’altare ci conduce alla balconata che si affaccia, all’altezza del primo piano, sul chiostro grande, occupato sugli altri tre lati da un doppio ordine di agili archi a tutto sesto di dimensione costante. Sui muri ci sono resti di affreschi, ma sfruttiamo l’occasione per riposare e fare qualche fotografia con lo sfondo dell’equilibratissima struttura architettonica prima di salire un’altra rampa e spuntare nella Basilica Superiore all’altezza del transetto. Sicuramente più luminosa della sua gemella sottostante, la chiesa mostra proprio nei pressi dell’altare i segni più evidenti del terremoto degli anni Novanta. Malgrado la slanciata e semplice struttura gotica, è inutile negare che il vero interesse riguardi il ciclo pittorico di Giotto e della sua scuola dedicato alla vita di San Francesco che si snoda sulle pareti dell’unica navata partendo dalla sinistra dell’altare. I grandi quadri non hanno bisogno di presentazioni e alcuni fanno parte del patrimonio iconografico degli Italiani – il sogno di Innocenzo III, la predica agli uccelli – ma incantano ogni volta per la freschezza di molte soluzioni oltre che per la rappresentazione di modi e costumi di un’epoca. Con l’unica seccatura di un cerbero che intima il silenzio anche a sproposito – è vero che le presenze vanno aumentando, ma c’è calma, a parte qualche bambino molto piccolo che, a volte, si agita un po’ – ammiriamo le opere una a una con la necessaria attenzione sorridendo per le piccole ingenuità, come quel San Francesco che, dopo i miracoli mostrati negli ultimi quadri, se ne vola verso il cielo come un Superfrancesco qualsiasi.

Quando, dopo quasi due ore, usciamo sulla Piazza Superiore, il sole ci colpisce facendoci quasi vacillare anche perché lo abbiamo negli occhi. Davanti a noi, l’erba che ingentilisce il sagrato è di un verde brillantissimo mentre il nostro sguardo, riparato da una mano, va dal profilo della rocca sulla nostra sinistra ai tetti del centro fino all’altra piazza e alla campagna circostante sulla destra. Da questa parte, un muretto ci consente di rifiatare qualche minuto prima di avviarci e trovare un attimo di ristoro nell’ombra dalla parte opposta della spianata. Dove ci fermiamo ad ammirare la bianca, gotica facciata della Basilica – il grande rosone che sovrasta il doppio portale – prima di imboccare Via San Francesco presa d’infilata dai raggi del sole che non consentono quasi possibilità di riparo. Ignoriamo i numerosi negozi di materiale turistico e diamo un’occhiata ai palazzi che si affacciano sulla strada – ce n’è uno, bello grande e rinascimentale, in vendita – badando a evitare le macchine che viaggiano nella nostra stessa direzione. Passato l’arco che segnava l’antica cinta muraria, il percorso si fa più stretto e l’aspetto più medievale, così, quando quella che ormai è diventata Via Portica piega leggermente verso sinistra, le zone d’ombra si moltiplicano e troviamo anche una certa brezza. Siamo ormai vicini alla Piazza del Comune, sulla quale sbuchiamo dopo un tratto in pendenza più accentuata che, a sinistra, mette in mostra le grandi finestre che danno sulla sottostante Assisi romana (la visita è possibile a pagamento, ma lo scarso tempo a nostra disposizione ci consiglia di soprassedere).

Risale ai tempi di Roma anche la piazza stessa, che sorge nel luogo dell’antico foro. Quasi a conferma, ecco alla nostra sinistra le sei colonne del Tempio di Minerva (è curioso che in una delle scene della vita di San Francesco di cui sopra, Giotto o chi per lui ne dipinse solo cinque), i cui capitelli corinzi sostengono l’architrave e il basso frontone come già facevano ai tempi in cui fu costruito, nel primo secolo prima dell’Era Volgare. Per visitare l’interno, siamo costretti a dribblare una numerosa compagnia di ragazzi anglofoni che, distribuiti sui gradini della facciata e davanti all’ingresso, prima si riposano e poi danno l’assalto a un paio di loro che portano rifornimenti di frutta. Il bello è che la fatica non ne vale la pena, perché la chiesa in cui è stata trasformata l’aula non ha grandi attrattive, appesantita com’è dal rifacimento barocco caratterizzato dal grande altare e dall’uniforme colore celeste delle pareti.

Il resto della piazza ha aspetto medioevale, con edifici a carattere civile. Alla sinistra del tempio, il merlato Palazzo del Capitano del Popolo con a fianco la bella torre a base quadrata, mentre il lato opposto è occupato dal Palazzo dei Priori la cui facciata, più volte rimaneggiata, mostra una serie di stemmi delle famiglie cittadine. A piano terra ci sono vari esercizi commerciali e, al centro, un grande arco dove un pittore produce in automatico una serie di vedute locali. Chiara è blandamente interessata e così ci fermiamo per qualche minuto, godendoci l’ombra e il refolo d’aria che vi si può percepire. Ricaviamo ulteriore sollievo dall’acqua che zampilla dalla fontana cinquecentesca che si trova dalla parte opposta della piazza rispetto a quella da cui siamo arrivati noi. Passiamo accanto alla vasca ottagonale, tenendola alla nostra destra, mentre saliamo verso il Duomo ostacolati, oltre che dall’implacabile sole di mezzogiorno, da un numerosissimo e rumoroso Grest di giallo vestito e dalle lamentele di Chiara che al caldo comincia ad assommare la fame.

Il Duomo di Assisi è dedicato a San Rufino, e così sono denominati anche la via che è necessario percorrere per raggiungerlo e la piazza antistante. Questa, di forma rettangolare e chiusa sul fondo dalla chiesa, è incantevole, circondata com’è da case medioevali e con, sulla sinistra, l’arco che sovrasta la strada che prosegue – sempre in discreta pendenza – in direzione della Rocca. La facciata è in pietra chiara, come pure chiaro è il selciato, e di semplici forme romaniche ravvivate da tre rosoni, più grande quello sopra al portale e minori quelli in corrispondenza degli ingressi laterali: la decorazione è limitata alla parte inferiore, mentre il culmine della forma a capanna è vivacizzata da un grande arco a sesto acuto. Analoga pulizia e stesso stile si trovano nel campanile a base quadrata, mentre l’interno a tre navate patisce l’ennesimo rifacimento barocco con la trasformazione in un impianto basilicale come tanti. Resti della chiesa originaria si trovano nella cripta, mentre alcune grandi lastre di vetro permettono di vedere le fondamenta sovrapposte illustrate in un pannello che, in colori diversi, racconta l’evoluzione del luogo dall’originario tempio romano alla disposizione attuale.

Per la discesa, ci sarebbero a disposizione numerosi percorsi stretti fra le vecchie case, con gradini che passano vicino a porte e finestre o si infilano sotto buie arcate – uno inizia dal portale laterale del Duomo, dove una scalinata scende nei vicoli – ma Chiara si rifiuta ostinatamente perché vuole andare a mangiare per la via più diritta. Così torniamo in Piazza del Comune seguendo a ritroso il percorso già fatto e dando un’occhiata ai menù esposti davanti a ristoranti che – come già scritto – sono in gran parte deserti, compresa quella Taverna dei Consoli la cui terrazza con vista sulla piazza ha visto me e Diva cenare nel lontano 1993. Per un giorno, però, vogliamo evitare i panini e decidiamo di puntare su un self-service, chiamato Ristorante Foro Romano, che abbiamo adocchiato in Via Portica, un centinaio di metri in direzione di San Francesco. Superato l’effetto-mensa, si rivela una buona soluzione, con una discreta varietà di primi e secondi ben preparati a cui si aggiunge una certa abbondanza di verdure e frutta: con una dozzina di euro si mangia più che a sufficienza e l’unico problema si rivela trovare posto perché, se i tavoli sono parecchi, l’affollamento è notevole (con la conseguenza di un po’ di rumore di fondo e di un certo rimbombo, in special modo finchè si trattiene una rumorosa compagnia di Italiani).

Una volta recuperate le energie, ci portiamo per l’ultima volta in Piazza del Comune e, dopo un caffè in un bar sotto Palazzo dei Priori, imbocchiamo Corso Cavour, tenendo questa volta a sinistra la fontana, in direzione di Santa Chiara. La strada scende leggermente ed è affiancata da numerosi negozi, dove le donne finiscono per perdere un po’ di tempo, mentre ci costringiamo a ignorare due pasticcerie con vetrine da svenimento. Passato un altro arco delle antiche mura, la via si allarga nella piazza dominata dalla facciata bianca e rosa della basilica – unica decorazione il grande rosone che sovrasta il portale – affiancata sulla sinistra da tre grandi contrafforti ad arco rampante che sembrano sostenerla. Sulla destra, invece, alcuni alberi ombreggiano il balcone che regala l’ennesimo scorcio di panorama a partire dai tetti sottostanti e lì facciamo un’ultima sosta prima di entrare.

Ci si presenta una sola navata, in pratica priva di abbellimenti anche se, dagli spezzoni recuperati, si suppone che fosse completamente affrescata prima che qualcuno decidesse di dare una bella mano d’intonaco: più vivace è la zona del transetto, dove sia le pareti, sia, in special modo, la volta a crociera conservano le vivaci e lineari decorazioni che risalgono alle origini dell’edificio tra il Duecento e il Trecento. Ha invece solo centocinquantanni la cripta, dove è posta la tomba della santa e sono conservate reliquie varie riferite a lei e a San Francesco: l’interesse è tra lo storico e il devozionale, almeno non compare la velatissima suora di clausura (niente da invidiare al burqa) che da dietro la pesante grata fa un po’ da cicerone spaventando al contempo i bambini (almeno a me dodicenne, la prima volta che sono stato qui, fece una certa impressione).

Per il ritorno, decidiamo di seguire un percorso alternativo e, imboccando via S.Agnese, ben attenti al semaforo che ne regola l’accesso a senso unico, iniziamo a perdere pian piano quota attraverso quartieri meno turistici e più residenziali. Passiamo accanto a tutta una serie di chiese – Chiesa Nuova, Santa Maria Maggiore (nelle cui vicinanze una fontanella ci offre un po’ di ristoro), Sant’Apollinare – senza però visitarle e infine affrontiamo il lungo e dritto Borgo San Pietro che, con qualche difficoltà dovuta alle macchine qua e là parcheggiate anche sui marciapiedi, ci conduce fino alle omonime chiesa e porta. Della prima, isolata sulla nostra sinistra, ci limitiamo ad ammirare la facciata quadrangolare che, vivacizzata dai tre grandi rosoni, si apre su un vasto sagrato circondato dal verde dei prati mentre alla seconda ritroviamo la confusione di cui ci eravamo liberati durante la nostra passeggiata da Santa Chiara.

Recuperiamo l’auto a seguito del pagamento di poco più di sette euro e ci spostiamo a San Damiano, distante cinque minuti: seguiamo senza difficoltà i cartelli, solo quello della deviazione definitiva rischia di sorprendere il viaggiatore. Il luogo dell’illuminazione di Francesco e del convento di Chiara non ha particolari attrattive architettoniche, ma la posizione immersa fra gli ulivi e l’afflusso molto discreto dei turisti gli regalano una sensazione di pace e tranquillità invidiabile, specie dopo la visita al movimentato centro storico. Peccato solo che, questa volta, giunga poco dopo di noi un gruppo di francesi un po’ troppo rumorosi che quasi riescono a rovinare l’effetto, anche perché non possiamo lasciarceli alle spalle seguendo la camminata attraverso l’uliveto per un misto di stanchezza, pendenza da affrontare e rifiuti preventivi.

Quando arriviamo sul piccolo sagrato, i rompiscatole sono ancora per strada, così possiamo gustarci il caldo color mattone della semplicissima facciata prima di scendere nel portico che ne ombreggia l’accesso. Il percorso di visita, obbligato, inizia in una cappella sulla destra – affreschi del Cinquecento – e poi prosegue nella piccola chiesa a una navata: un ambiente, che il piccolo e semplice rosone non riesce a illuminare a sufficienza, decorato quasi solo nella zona dell’abside e sovrastato da una copia del crocifisso che si racconta parlò a Francesco (l’originale è a Santa Chiara). Ci fermiamo poco e cerchiamo di essere il più silenziosi possibile perché molte sono le persone raccolte in preghiera: scivoliamo verso gli ambienti dell’ex convento, la maggior parte dei quali è rappresentato da stanze di ridotte dimensioni e in nuda pietra. Appena più grande è quella in cui, in un angolo, morì Chiara mentre di maggiore interesse è il refettorio, al piano terra: sotto le basse volte a vela sostenute da massicci pilastri, ci sono ancora gli antichi tavoli e panche in legno mentre una crocifissione domina la sala dalla parete di fondo.

La sosta nel delicato chiostro – un pozzo al centro di aiuole verdi delimitate da vialetti inghiaiati – serve anche a far riprendere Chiara, alla quale gli ambienti chiusi hanno un po’ tolto l’aria, poi, dopo che Giulia e Diva sono andate in esplorazione fra gli ulivi mentre io e Chiara restiamo a rinfrescarci alla fontanella posta appena sotto al sagrato, torniamo all’auto proprio poco prima che due ragazzi – sfoderati chitarra e canzoniere – inizino a innalzare lodi in musica al Signore. Accanto a noi nel parcheggio, una coppia di tedeschi scoperchia con fare un po’ ganassa il Bmw cabrio e si avvia lungo la nostra stessa strada, che evita di ripercorrere quanto già fatto e, una volta scesi alla base della collina su cui sorge Assisi, ci offre alcune belle vedute della cittadina sullo sfondo di campi di gramo appena tagliato (con relative balle di fieno – inevitabili le foto, anche da parte dei tedeschi).

Infine, sbarchiamo a Santa Maria degli Angeli accolti da un caldo afoso che ci fa rimpiangere il solleone di Assisi. Lasciamo la macchina nella zona disco al termine della vasta spianata che si estende davanti alla chiesa e, in assoluta solitudine, la attraversiamo tenendoci sotto le piante che la costeggiano sul lato sinistro. Ci sentiamo piccoli di fronte alle dimensioni grandiose dell’edificio, sensazione acuita dal fatto che gli unici esseri umani che incontriamo sono due o tre ragazzi che sonnecchiano sulle panchine e la zingara che chiede la carità sotto all’alto portico che precede l’ingresso. Sempre sul lato sinistro, una fila di chioschi che vendono immagini religiose e oggetti turistici tutti uguali sta in attesa di clienti che non si capisce da dove possano arrivare: per ammazzare il tempo, i gestori fanno la siesta sulle sdraio o giocano a carte tra di loro.

La Basilica, più grande di un campo da calcio e alta in proporzione, è della fine del Seicento e le sue tre navate barocche sono quasi prive di decorazione – i quadri si perdono nel biancore dei muri – così da concentrare l’attenzione sulla Porziuncola, la piccola chiesa nucleo del francescanesimo posta all’incrocio dei due bracci della croce latina e illuminata dalla luce della grande cupola. Fa impressione pensare che, ai tempi del santo, questa fosse una cappella nel bosco, ma l’interesse dell’edificio trecentesco è più storico e devozionale, anche se sia l’interno – poco più di una stanza – che i muri perimetrali sono decorati da affreschi aggiunti nei secoli successivi. Stesse considerazioni si possono fare per la Cappella del Transito, dove Francesco morì, il cui accesso è regolato in modo che il passaggio dei visitatori sia a senso unico: utile in momenti diversi da quello in cui ci arriviamo noi, nel quale i turisti in chiesa si possono contare sulle dita delle mani.

Orvieto

Orvieto è la nostra meta più lontana. All’inizio, non era neppure in nota, poi un cartello – un po’ ingannevole – scorto durante la visita a Todi ci ha fatto cambiare idea. Poco più di trenta chilometri non sembrano tanti, ma, tra percorsi tortuosi e limiti di velocità, impieghiamo ben più di un’ora sia all’andata, sia al ritorno, pur seguendo percorsi diversi.

Al mattino seguiamo con diligenza le indicazioni, imboccando la SS148 che sale dolcemente tra i boschi per poi viaggiare a mezza costa lungo la valle verdeggiante in cui si estende il Parco Fluviale del Tevere. La strada è larga e poco frequentata, tanto che riesco anche a dare un’occhiata al paesaggio; un po’ di movimento in più lo incrociamo durante il periplo del Lago (artificiale) di Corbara, ma la situazione si complica davvero quando arriviamo all’altezza dell’Autosole e dobbiamo risalire la parallela statale per una decina di chilometri. La carreggiata è stretta, in un tratto in cui la parete della collina incombe sulla nostra sinistra due camion sono costretti a transitare uno per volta all’altezza di una complicata doppia curva. Arrivare a Orvieto Scalo è un sospiro di sollievo anche se non si può dire che si tratti di un’amena località: ci abbandoniamo nuovamente alla segnaletica che ci fa salire lentamente la rupe fino a un parcheggio coperto posto circa a metà altezza rispetto alla cima. Il resto del dislivello viene coperto grazie a una serie di tapis roulant che, con calma ma anche con estrema comodità, ci conducono fino in centro in neppure un quarto d’ora: il viaggio sotterraneo non è magari molto illuminato, ma l’ampiezza della galleria evita qualsiasi rischio di claustrofobia.

Sbucati in Via Ranieri, ci vogliono solo pochi minuti di cammino per arrivare in Piazza della Repubblica (che sorge nel luogo del foro romano) passando sotto all’arco con cui si conclude Via Garibaldi. Proprio davanti a noi è il caffè Sant’Andrea, con il suo aspetto da locale di inizio Novecento, ed è irresistibile la tentazione di una tazzina per controbattere un’afa che già schiaccia a terra anche se sono circa le dieci. Cerco di convincere Diva che allo stesso bar ci siamo seduti per un aperitivo sempre nel lontano ’93, ma inutilmente, come è inutile ricordare che siamo poi andati a mangiare in un ristorante all’inizio di Via Garibaldi: rimando l’opera di convincimento alle diapositive sepolte da qualche parte in casa mentre diamo solo un’occhiata alla facciata seicentesca del palazzo comunale. L’elemento che più colpisce sono, nella parte inferiore, i setti archi a tutto sesto in pietra grigia dei quali quello centrale è il passaggio che abbiamo utilizzato per giungere in piazza.

Sulla sinistra, c’è la torre ottagonale della chiesa di Sant’Andrea, la cui lineare facciata risulta rialzata da una breve gradinata. Ne rimandiamo però la visita al pomeriggio e imbocchiamo Corso Cavour con l’intenzione di visitare prima di tutto il Duomo. C’è un discreto movimento di turisti che va aumentando man mano che ci avviciniamo alla nostra meta, sulla cui piazza giungiamo dopo aver svoltato a destra in Via del Duomo. Proprio sull’incrocio, sta il palazzo dei Sette, di origine duecentesca, che, malgrado i susseguenti ritocchi, rimane uno dei più interessanti dell’intero corso: affiancata, c’è la Torre del Moro che, svettando sugli edifici circostanti, offre il panorama dell’intera cittadina a chi abbia voglia di risalirne i gradini.

Per parlare del Duomo di Orvieto ci vorrebbe un trattato a parte. Imponente, domina la piazza rettangolare che gli sta davanti con una facciata gotica ricca di decorazioni a bassorilievo (nella parte inferiore, con storie da Antico e Nuovo testamento che affiancano i possenti portali) e mosaici (in quella superiore, ravvivata dal grande rosone). Per orientarci, ci sediamo sui gradini che alzano il sagrato e ci facciamo trasportare dalla guida: solo dopo decidiamo di entrare – ingresso a pagamento, tre euro a testa – fra le tre navate delimitate da grandi pilastri bicolori e sovrastate dal tetto in legno a capriate. L’insieme è affascinante, ma il meglio lo si gode avvicinandosi alla zona del transetto, dove – in crescendo di interesse – si distinguono gli affreschi della Cappella del Corporale (attorno al bel reliquiario in argento che fa riferimento a un miracolo che si dice accaduto a Bolsena, con il sangue schizzato dall’ostia per convincere un prete miscredente riguardo alla transustanziazione), del Presbiterio e, soprattutto, della Cappella di San Brizio. Quest’ultima, iniziata dal Beato Angelico e terminata da Luca Signorelli, è completamente decorata dalle vele del soffitto alla predella delle pareti: toccano la fantasia in special modo le scene di massa come la Venuta dell’Anticristo, la Resurrezione della carne o il Giudizio universale, in cui le figure singolarmente caratterizzate escono dal dipinto per colpire l’immaginazione di chi guarda. Volendo, si potrebbero passare ore a scoprire particolari, ma lo stomaco inizia a far sentire le sue ragioni e, al termine di una visita comunque abbastanza lunga, ci ritroviamo nella calura esterna alla ricerca di un posto dove mangiare. Diamo perciò solo un’occhiata dal di fuori ai palazzi che ornano la piazza: sulla destra del duomo il più antico vescovile e il merlato Soliano con il caratteristico grande scalone che porta alla terrazza che sovrasta l’alto portico, proprio davanti il più moderno Faina con il Museo Etrusco. La parte forse più bella è però il grande slargo che si apre alla sinistra del Duomo per tutta la sua lunghezza ed è delimitato, dalla parte opposta rispetto alla chiesa, da una serie di basse case il cui aspetto riporta ancora ai secoli passati: dove queste finiscono, all’angolo con Via del Duomo, c’è la Torre di Maurizio che prende il nome dal moro in bronzo che, sulla cima, segna le ore prendendo a mazzate una campana dello stesso materiale, il tutto regolato da un secolare orologio meccanico.

Riprendiamo Corso Cavour facendo scorrere i locali che ci si offrono: poiché questo costa troppo, quest’altro non offre posto a sedere, quest’altro ancora non convince, passiamo il teatro – dopo una sosta a un forno – e ci avviciniamo sempre più all’estremo del borgo, in direzione della Fortezza (o Rocca) d’Albornoz. Quando ormai la speranza inizia ad affievolirsi, ecco sulla destra il Big Bar, che magari non tiene proprio fede al suo nome in quanto a dimensioni, ma ci offre un buon pasto tra piatti pronti (pasta fredda, panzanella) e crostoni abbondantemente guarniti. Attorno ai pochi tavoli in legno (ma non c’è problema di posto, gli unici avventori siamo noi e una coppia che arriva poco dopo) ci sono scaffali carichi di bottiglie perché il posto è anche un’enoteca, ma il clima non invita certo a farsi un bicchiere di vino, magari rosso.

Nell’ora più calda, attraversiamo Via Pusterla e relativo parcheggio, invano protetto da un buon numero di alberi, e raggiungiamo la Rocca, di cui rimangono il muro esterno, un torrione e alcune porte. Terminata la funzione difensiva, difatti, il luogo ha subito una serie di trasformazioni fino a diventare parco pubblico, dotato di un teatro e di un campo da tennis sul quale due fachiri si stanno esibendo mentre noi ci riposiamo su una panchina. In ogni caso, non rinuncio al giro dell’area, che consente un ampio sguardo sulla valle sottostante e permette di capire perché già gli etruschi avessero stabilito qui l’unico accesso fortificato dell’antica Velzna.

Di nuovo sulla strada, ritorniamo fino all’incrocio con Via Del Duomo e, svoltando dalla parte opposta, diamo un’occhiata a Piazza del Popolo, dominata dalla struttura severa del palazzo del capitano del medesimo – ancora una grande scala di fianco e grandi archi – e circondata da altre costruzioni più recenti e non sempre in condizioni smaglianti; questo, oltre al fatto che un parcheggio contribuisce ancor di più a diminuire l’attrattiva del luogo, ci fa sostare solo per pochi minuti. Ritorniamo verso Piazza della Repubblica e, adesso, siamo quasi soli, essendo tutti gli altri impegnati a cercare un po’ di fresco. Noi lo troviamo nel buio interno a tre navate di Sant’Andrea – colonne in pietra a separarle e capriate in legno come tetto – e poi torniamo al parcheggio dove, a sorpresa, ci tocca pagare in contanti alla cassa, piazzata in un angolo assolato e senz’aria, perché tutte le macchinette sono fuori uso.

Dopo aver sbagliato strada ed essere finiti praticamente in centro, riusciamo a imbroccare la giusta direzione per la necropoli di Crocifisso di Tufo. Ci siamo solo noi: nel parcheggio a lato strada ci sono, oltre a un baracchino che funge da bar, una quindicina di stalli tutti vuoti. Una breve salitina ci conduce all’ingresso, dove sborsiamo sei euro e scopriamo che – incredibilmente – sono terminati i depliant che servono come guida. Ci arrangiamo come possiamo nel vicino, microscopico museo che, almeno, spiega a grandi linee la sepoltura etrusca e la storia del ritrovamento della necropoli. Un paio di minuti su una stradina sterrata e giungiamo – sudati, perché ormai l’afa ha reso lattiginoso il cielo – a quella che è davvero una città dei morti: le tombe si affacciano su vie che si incrociano perpendicolarmente e ognuna porta inciso nella pietra il nominativo dell’occupante. I sepolcri sono, com’è ovvio, vuoti perché, dove non sono arrivati i tombaroli, gli archeologi hanno provveduto a spostare gli arredi al museo: per entrarvi è necessario scendere un gradino (Chiara chiede sempre scusa prima di farlo) ma ci si trova davanti solo un ambiente buio e umido, magari imbrattato da qualche rifiuto. Un po’ di sporcizia, assieme a qualche erbaccia qua e là, comunicano un leggero senso di abbandono e, come conseguenza, una sensazione di fastidio che però non riesce a dissipare il fascino sottopelle del luogo – probabilmente dovuto al fatto che stiamo camminando in un cimitero di tanti secoli fa.

Una volta ripartiti, proviamo a seguire il consiglio telefonico di Monia e ci dirigiamo verso Civita di Bagnoregio, ma ben presto realizziamo che ci stiamo allontanando troppo in direzione sud, anche perché ormai siamo a metà pomeriggio. Decidiamo di tornare alla base cambiando però strada e scegliendo la 79 bis che sale verso Prodo per poi attraversare un vasto altopiano che alterna campi coltivati a macchie boschive prima di ridiscendere in direzione di Todi. Viaggiamo per lunghi chilometri senza incontrare anima viva, passando per piccolissimi centri lontani fra loro e addormentati nel pomeriggio estivo. La strada è tortuosa il giusto e il fondo è spesso discutibile, ma gli aspetti positivi non sono pochi: possiamo ammirare dall’alto sia Orvieto (peccato solo per il controsole) sia Todi, il castello di Prodo che sta come il paese sospeso sopra valloni che scendono precipitosamente, i grandi casali in pietra in mezzo al nulla che evocano un mondo contadino ormai passato, l’alternarsi di colori e paesaggi che evitano qualsiasi accenno di noia.

Spello

Spello sta appoggiata su un pendio tra Assisi e Foligno, con alle spalle i verdi pendii del Subasio e delle montagne che lo circondano e di fronte la valle del Topino percorsa dalle due carreggiate della SS75. Perciò, per arrivarvi, seguiamo lo stesso percorso che due giorni prima ci hanno condotto a Bevagna – eccetto la deviazione verso Gualdo Cattaneo – per poi dirigerci verso Foligno da dove, con un breve tratto di superstrada, giungiamo alla nostra meta. Con ogni probabilità, si poteva accorciare il tragitto tagliando per le campagne, ma il traffico richiede concentrazione e la segnaletica non illustra un’alternativa immediata.

Lasciamo l’auto nel parcheggio gratuito poco distante dalla Porta Consolare sotto un sole splendente che brilla in un cielo assai più azzurro rispetto al giorno precedente. Fa caldo, ma con il passare delle ore inizia a soffiare una brezza che, specie in certi angoli strategicamente orientati, regala momenti di inattesa frescura. Non è così, però, quando ci troviamo sullo slargo antistante la porta suddetta che ancora mantiene l’imponente struttura in calcare dell’epoca augustea, quando costituiva l’ingresso principale alla cittadina. In essa si aprono tre archi, quello centrale più grande, sopra i quali stanno altrettante statue, coeve della struttura ma aggiunte nel medioevo: alcune passerelle consentono il transito pedonale con vista sulla pavimentazione originale e su qualche resto degli edifici che nella classicità si ergevano lì accanto. A sinistra della porta, inizia un bel tratto di mura ancora perfettamente conservate che, costeggiando Via Roma, giungono fino alla successiva Porta Urbica. Le seguiamo per alcune decine di metri, giusto il tempo per qualche foto, poi torniamo sui nostri passi e iniziamo la salita verso il centro del paese: siamo infatti nel punto più basso e subito dopo la porta medievale che affianca quella Consolare, ci attende un tornante abbastanza ripido.

Sono le dieci di mattina e ci fa compagnia solo una coppia con un cagnone che, ovviamente, attira l’interesse di Chiara. La povera bestia ha tutte le ragioni di soffrire il caldo e cerca di deviare verso le due o tre fontanelle che incrociamo ai lati della strada: del resto, anche noi scopriamo presto che è meglio restare sul marciapiede perché la via è un senso unico (in salita) che viene percorso da più macchine di quante vorremmo. Una breve occhiata – dal di fuori, visto che è chiusa – agli affreschi della volta della Cappella Tega e arriviamo in Piazza Matteotti, all’inizio della quale si affaccia la principale chiesa di Spello, Santa Maria Maggiore. La piazza è disposta per il lungo e non è altro che l’allargamento verso destra della via che stiamo percorrendo: oltre il sagrato e il palazzo che ospita la pinacoteca, sono disposti sotto le piante i tavoli di un paio di ristoranti e, quasi alla fine, ecco il portico che conduce a quel che resta del foro romano. La gran parte dell’area di quest’ultimo è ora occupata dalle abitazioni e, a ricordo dell’antico spazio, resta un prato circondato da spezzoni di antichi muri: dà un po’ fastidio il piccolo parcheggio e non è facile intuire l’aspetto originale, frutto di un lavoro di sbancamento che rese pianeggiante questa parte di pendio.

Ma torniamo a Santa Maria Maggiore. Facciata quadrata affiancata da un campanile tozzo che cerca di slanciarsi con un’alta punta, ha l’interno vittima di un rifacimento barocco che ne cancellò l’antico aspetto (i lavori originari terminarono prima della fine del Duecento) ma contiene anche la delicata e scintillante Cappella Baglioni, opera del Pinturicchio a inizio Cinquecento. Per goderne è necessario inserire un euro che accenda le lampade temporizzate, una spesa che non viene certo rimpianta: più che il soggetto (si tratta di storie tratte dalla prima parte dei vangeli) ovviamente a colpire sono il gusto descrittivo e i colori brillanti che sottolineano le numerose figure stagliate su sfondi in cui i paesaggi appena fuori dalla porta vengono trasportati di peso in Palestina. Del pittore perugino, c’è anche una Madonna col bambino di fianco a un altar maggiore sovrastato da una copertura a baldacchino sostenuta da quattro scure colonne.

La tappa successiva è Piazza della Repubblica, su una delle panchine poste nello striminzito giardino che si trova proprio al centro, ingentilito da una piccola fontana. Purtroppo, la confusione che c’è tutt’attorno non lascia gustare fino in fondo il sollievo che ci regalano le bottiglie d’acqua che scoliamo: il traffico è abbastanza intenso e, a un certo momento, spunta anche un pullman di linea che ha la fermata proprio lì accanto, ma che prima di arrivarci deve aspettare che un’auto parcheggiata in qualche modo venga spostata. Insomma, tra sole, lamiere e motori accesi, la temperatura resta alta e perciò decidiamo di spostarci, dando prima di tutto un’occhiata al profondo portico introdotto da due archi acuti che è quel che rimane dell’originale, trecentesco, Palazzo Comunale, più volte oggetto di rivisitazioni architettoniche, in special modo nella seconda metà del Cinquecento. A questo periodo risale anche la fonte sull’angolo con Via Garibaldi, una piccola vasca con due cannelle sovrastate da uno stemma inquadrato in due semicolonne.

La nostra è, comunque, una falsa partenza perché dopo pochi passi le donne si infilano in un negozio di tessuti e ricami, non uscendone che dopo un bel po’. Inganno l’attesa andando a guardare prima la collezione di memorabilia romane disposte nell’atrio del Palazzo Comunale, poi, attraversata la strada, scatto un paio di foto al ligneo loggiato coperto di Palazzo Urbani. Per farlo, entro in una laterale ombreggiata e assai fresca, anche grazie a una sorprendente circolazione d’aria. Ovviamente, tutto questo non basta e sono costretto a sedermi su un gradino a guardare il passaggio – tanti sono i bambini delle elementari che hanno appena ritirata la pagella – prima di poterci riavviare: troviamo chiusa per lavori San Lorenzo e allora svoltiamo subito a destra in Via Giulia, una bella strada racchiusa tra vecchie case che ha l’unico difetto di essere percorsa, malgrado le ridotte dimensioni, da qualche auto di troppo (e non è che ci siano tutte queste vie di fuga…).

Dopo pochi minuti, ecco l’incrocio con Via Arco d’Augusto che, in discreta pendenza, risale dall’esterno del borgo verso il centro. In pietra e con bassi gradini nel mezzo, ricalca uno degli accessi di epoca classica e nei muri delle case sul crocicchio si scorgono ancora i resti della porta che si apriva nelle mura romane. Proseguiamo senza incontrare anima viva (a parte i tizi nelle macchine) e, considerato che ormai è tempo di pranzo, ficcanasiamo in un paio di posti che potrebbero fare al caso nostro, ma che si rivelano di dimensioni troppo piccole. Quando la strada termina, allargandosi prima in una piazza e poi finendo davanti al Monastero di Vallegloria, non possiamo visitare quest’ultimo perché, data l’ora, è chiuso. Immortaliamo la semplice facciata e poi proseguiamo salendo verso il punto più alto del paese lungo la dritta Via Cappuccini. Al culmine di questa c’è la Porta dell’Arco, risalente all’epoca repubblicana e della quale rimane, per l’appunto, la doppia struttura ad arco con ancora gli incavi del sistema di chiusura. Passatala, ci si trova su un ampio belvedere nel luogo dove nel Cinquecento fu costruita la Rocca dal solito cardinale Albornoz: ne rimane un torrione e un tratto di muro a cui si appoggia la chiesa di San Severino che, introdotta da un portico, non ha altre attrattive oltre alla posizione sommitale.

Il succitato belvedere consente invece una splendida vista sulla valle sottostante, colpo d’occhio un po’ rovinato dalla superstrada e da qualche sgraziato capannone, ma comunque affascinante anche grazie al limpido sole che fa brillare i colori. La pulizia del cielo è dovuta al vento che ha preso a soffiare di buona lena e rinfresca in particolar modo il lato occidentale del paese. La sosta sulle panchine è doverosa prima della discesa attraverso una serie di strette vie che passano tra case con mattoni a vista in una delle parti meglio conservate del borgo. Giungiamo così all’esterno del medesimo, lungo una strada che si affaccia sulla pianura e posta proprio sopra Porta Venere. Quest’ultima, caratterizzata da due torri dodecagonali probabilmente posteriori, presenta tre archi come la Consolare, ma è in corso di restauro e il cantiere ne copre una buona parte: così, malgrado la temperatura sia ottimale, risaliamo verso il centro per infilarci nel Bar Bonci, dotato di una vasta terrazza inghiaiata e protetta da numerosi alberi. Notandolo in mattinata, ci siamo ricordati che qui venivamo a far colazione nella nostra precedente visita a Spello e peccato solo che sia orientato verso il Subasio, così che la frescura non riesce ad arrivare. Torta al testo (una specie di piadina) farcita, panini e insalate hanno prezzi normali – magari le porzioni potrebbero essere un po’ più generose… – e il panorama è molto bello, tanto che neppure l’eco dei lavori nella vicina San Lorenzo sembra disturbare: non siamo però in molti, solo cinque o sei tavoli sono occupati e quasi tutti da stranieri.

Fonti del Clitunno

Oh che bello, le Fonti del Clitunno sono sul navigatore, anche se nascoste fra i punti d’interesse vicino a Trevi. Perciò, non appena la temperatura della macchina diventa appena vivibile, lo impostiamo e via. Riprendiamo la SS75 che a Foligno si immette nella SS3 (la Flaminia) sempre a due carreggiate. Dopo una decina di chilometri, la voce computerizzata ci dice di uscire e la perplessità, non poca visto che ci dirigiamo verso una zona industriale, diventa stupore quando siamo condotti a rientrare e tornare indietro: come già capitato a Geltendorf la macchinetta è andata in loop…

Non resta che fare da soli. Da Trevi – appollaiata su una collina alla nostra sinistra – in avanti si torna su una sola carreggiata, seppure larga, sulla quale procediamo con estrema prudenza perché non abbondano i cartelli che indicano la nostra meta. Lasciata alle spalle Passignano, la cui parte vecchia svetta con le mura e la torre del castello a controllare la valle, finalmente arriviamo a destinazione parcheggiando nell’ampio spazio sulla destra della strada. Lasciamo tre euro a testa alla cassa (più cinquanta centesimi per il mangime che Chiara vuole distribuire ai cigni e alle anatre che vivono nel piccolo parco) e ci avviamo sotto i salici piangenti che circondano le polle d’acqua. E’ proprio la presenza di questa pianta a datare l’attuale sistemazione del luogo, risalente a quella seconda metà dell’Ottocento in cui si seguì la moda di derivazione francese dovuta alla presenza di alcuni esemplari accanto alla tomba di Napoleone. A testimonianza del lavoro di recupero delle fonti stanno una serie di fotografie poste accanto all’ingresso, con le giovani pianticelle delle più vecchie immagini in bianco e nero che mutano nei tronchi sempre più grandi e adorni di rami frondosi dei primi scatti a colori. Non ci sono solo i salici ad ombreggiare la zona, e anche il sottobosco è ricco e variegato, ma la vera attrazione sono le grandi pozze limpide da cui inizia il breve corso del Clitunno (una sessantina di chilometri): l’acqua filtra gorgogliante dalle rocce nella parte chiusa dalla strada ma anche da fenditure che si aprono sul fondo del piccolo lago. Curiosamente, nello specchio pulitissimo non si vedono pesci, mentre i palmipedi lo percorrono avanti e indietro tenendo d’occhio i pochi turisti per vedere se si riesce a scroccare qualcosa.

Mentre Chiara dà loro da mangiare e Giulia si riposa su una radice accanto all’acqua, ci accomodiamo su una panchina accanto al piccolo monumento a Carducci (l’ode barbara ‘Alle Fonti del Clitunno’ nasce qui e, detto fra noi, mostra impietosamente i segni dell’età) godendoci il fresco e la tranquillità visto che i visitatori latitano. Anche il vicinissimo – pure troppo – bar-ristorante è deserto e solo un altro paio di coppie passeggiano attorno al lago: dopo un po’ decidiamo di seguirne l’esempio e, evitate con cura un paio di oche che presidiano il sentiero, arriviamo fino al punto dove inizia il fiume vero e proprio. Ci accompagna per un breve tratto un brutto anatroccolo ancora molto piccolo che, impegnato in una coraggiosa esplorazione terrestre in cerca di cibo, si va svelto a infilare tra la vegetazione della sponda e poi in acqua quando ci azzardiamo ad avvicinarci un po’ troppo. Il Clitunno si avvia dritto fra due sponde alberate, mentre alla nostra sinistra una chiusa mantiene asciutto il canale che costeggia un campo di grano a ricordare che, appena fuori dall’oasi, il sole limpido continua a riscaldare la pianura.

Il recupero ottocentesco, durante il quale fu necessario anche riscavare le fonti ormai interrate, non ha comunque potuto riportare il luogo alla bellezza dell’epoca classica cantata da Virgilio e, soprattutto, da Plinio. Un terremoto a metà del Quinto secolo ha infatti modificato irreparabilmente il profilo della zona, cancellando il bacino originario che era assai più vasto di quello attuale oltre che più ricco d’acqua, tanto che il fiume, su cui si affacciavano numerose ville, era navigabile. L’incuria dei secoli bui ha poi dato il colpo di grazia, fino al punto che, a forza di trascuratezza, la piana circostante si trasformò in un lago paludoso che fu bonificato solo parecchio tempo dopo. Di tanta gloria, dovuta anche al fatto che il posto fosse considerato sacro già in epoca preromana, resta solo il Tempietto del Clitunno, una piccola struttura con facciata a quattro colonne peraltro risalente ai primi anni dell’Era Cristiana – e difatti è una chiesa, dedicata a San Salvatore.

Si trova a un chilometro circa a valle e per raggiungerlo è necessario imboccare una stretta strada, parallela alla principale, che scorre all’altezza del tetto: si deve perciò scendere un po’ per visitarlo, passando accanto alla cassa dove si paga un biglietto non integrato con quello delle Fonti.

Spoleto

Spoleto vince lo spareggio con Perugia per essere la nostra ultima meta e, malgrado qualche dubbio, non fa neanche una gran fatica. Ci sorride poco l’idea di andarci a infilare in città con le temperature di cui abbiamo fatto esperienza durante la settimana e poi il ricordo complessivo è migliore. E così, risaliamo per l’ennesima volta la valle del Paglia, ma questa volta svoltiamo a destra invece che a sinistra quando incrociamo la SR316 vicino a Bastardo. Nella piccola frazione dal nome curioso (pare che nei tempi andati ci fosse qui una stazione di posta detta Osteria del Bastardo) la segnaletica va un po’ a spanne e dobbiamo sbagliare strada per imboccare quella giusta: siamo costretti a tornare indietro per un breve tratto e scopriamo che l’indicazione corretta si vede bene solo provenendo dalla direzione opposta a quella da cui siamo arrivati noi.

La strada, che per la cronaca è la SP451, è molto piacevole in special modo nel primo tratto, in cui una lenta perdita di quota è a volte interrotta da brevi risalite che attraversano il consueto paesaggio affascinante. Abbiamo del resto tutto il tempo per ammirarlo perché la velocità, che già non può essere eccessiva per le continue curve, viene ulteriormente rallentata da due camion che ci troviamo davanti e che, per chilometri, non c’è alcun verso di sorpassare. L’impresa riesce quando ormai la discesa è quasi terminata e il traffico aumenta in modo sensibile mentre percorriamo un lungo viale alberato affiancato da robusti platani. Tra le auto che movimentano la periferia della cittadina, seguiamo i cartelli che conducono al parcheggio coperto Spoletosfera (che, di per sé, è una struttura tubolare a forma di geoide donata da uno stravagante statunitense a nome Fuller): tre piani interrati e un sistema di nastri trasportatori che, come a Orvieto, ci conducono in centro.

Torniamo all’aperto circa a metà di Viale Matteotti, una lunga strada in leggera pendenza che sale dalla periferia verso il centro. Quando questa si allarga, ci troviamo in una piazza il cui lato corto, alle nostre spalle, è occupato da un palazzo settecentesco mentre a sinistra alcune arcate permettono di fare un’occhiata al teatro romano. In un periodo normale, sarebbe possibile visitarlo acquistando il biglietto comprensivo del Museo Archeologico, ma al momento della nostra visita si stanno preparando le strutture per l’imminente Festival dei Due Mondi e quindi ci limitiamo a osservare dall’alto la bella cavea che porta ancora una parte della pavimentazione originale: per farlo, dobbiamo aggirare cavi e altro materiale elettrico pronto per la sistemazione dell’antico spazio per i nuovi usi.

Una strada sulla nostra destra ci fa salire lentamente e, passati sotto una casa che fa da ponte sopra alla via, giungiamo al bivio dove a destra c’è l’Arco di Monterone – ventidue secoli di storia e principale accesso della città per chi veniva da Roma – e a sinistra la chiesa di Sant’Ansano, un altro dei mille esempi di riutilizzo architettonico: prima tempio romano, poi chiesa di Sant’Isacco del Settimo secolo, infine con la denominazione attuale dal Dodicesimo ma con una lunga serie di modifiche successive. Il risultato non è nulla di eccezionale e la cosa più interessante è la cripta, dove, dopo esservi acceduti con una ripida scaletta, si può ammirare come il primo edificio religioso cristiano abbia sfruttato le strutture di quello pagano precedente.

Resti romani si scorgono anche lungo la via che costeggia sulla sinistra la chiesa attuale: il percorso ricalca l’ingresso al foro ed è introdotto dall’Arco di Druso, opera onorifica in parte interrata e in parte inglobata dalle case, ma ancora imponente con la sua unica e liscia fornice in pietra chiara. In pochi minuti giungiamo così proprio al foro, che nel frattempo è diventato Piazza del Mercato: qui troviamo qualche macchina in eccesso, ma anche una brezza inattesa che mitiga il sole che brilla nel cielo azzurro. Subito sulla destra, entrando, c’è il caffè degli Artisti che ci invita con i suoi tavoli all’ombra: ne approfittiamo per un caffè che ci consenta di riposare un attimo.

Attraversata la piazza, proprio di fronte alla seicentesca fonte che la decora, facciamo una deviazione sulla destra verso il Palazzo Comunale che si affianca alla piazza omonima con la sua lunga facciata rialzata. Diversamente dai suoi confratelli nel resto dell’Umbria, esso è relativamente recente perché nel Settecento un terremoto danneggiò le strutture trecentesche e si decise di ricostruire con linee pulite e regolari dominate dalla stretta torre centrale, unico ricordo dei secoli precedenti. All’altezza di questa, ma sul corpo principale, spicca il quadrante di un orologio affiancato da quello delle fasi lunari, mentre sotto – non si sa mai con la tecnologia – è disegnata una meridiana.

Il palazzo risulta rialzato anche perché, per buona parte sulla sinistra, poggia su un’antica villa romana, che la tradizione vuole essere appartenuta alla madre di Vespasiano. L’edificio originario era imponente e fu riutilizzato nel medioevo separandone gli spazi in più appartamenti finche non fu inglobato dalle costruzioni circostanti: ora, pazienti scavi hanno ripristinato almeno in parte gli ambienti del piano terra, con i mosaici del pavimento originari e ancora tracce di color porpora sui muri. Con un po’ d’immaginazione, si può scoperchiare la zona dell’impluvium e ricostruire l’aspetto dell’epoca classica: per farlo, è necessario pagare il biglietto (ci sono sconti se si visitano anche altri musei) che consente di gironzolare fra i vari ambienti dove sono disposti i numerosi oggetti ritrovati oltre che alcune opere moderne che sfruttano la casa come spazio espositivo.

L’accesso è dalla stretta via del Visiale, seguendo la quale giungiamo infine all’inconsueta, e meravigliosa, Piazza del Duomo che digrada lentamente da Via Fontesecca e si allarga davanti alla facciata della chiesa di Santa Maria Assunta caratterizzata da tre livelli: in basso il portico, al centro i delicati rosoni e sotto gli spioventi il grande mosaico centrale. Si tratta di uno di quei luoghi dove ci si potrebbe sedere ad ammirare per ore, spostandosi magari per scovare nuove angolature, tra gli antichi palazzi sulla destra e l’abside di Sant’Eufemia sulla sinistra. Da non sottovalutare è anche il controcampo di cui si può godere da sotto il porticato quattrocentesco della chiesa, con le linee che risalgono dallo spazio aperto della piazza alle case accumulate una sull’altra della città vecchia. L’interno seicentesco, se è riposante per la vista dopo la luce del mezzogiorno, non riesce però a essere all’altezza e per fortuna che dalla ristrutturazione voluta dal cardinale Barberini si salvarono gli affreschi di Filippo Lippi sopra l’altare, dove sulla volta spicca la vivace e coloratissima Incoronazione della Vergine. Non può mancare neppure il solito Pinturicchio, presente con gli affreschi un po’ malandati della cappella Eroli, proprio accanto all’ingresso: l’ambiente è piuttosto spoglio e gli occhi delle figure dipinte sembrano non staccarti lo sguardo di dosso.

Troviamo chiusa la chiesa di Sant’Eufemia, all’interno del vicino Palazzo Arcivescovile: forse è colpa ancora una volta dell’orario, ma siamo costretti a rinunciare al romanico restaurato di recente. Tralasciando trattorie che uniscono prezzi eccessivi a piatti troppo elaborati, per mangiare torniamo al Caffè degli Artisti, anche perché speriamo in quel po’ di frescura che effettivamente troviamo. I sandwich e le insalate richiedono un esborso normale, anche se le dimensioni non si possono certo dire esagerate, e per fortuna che decido di prendere il panino con la cotoletta… Almeno non siamo appesantiti quando passiamo di nuovo accanto al Municipio per sbucare in Piazza Campello, ombreggiata da numerosi alberi, e raggiungere l’imbocco della stradina pedonale che, girando alla base del colle su cui sorge la Rocca, conduce al Ponte delle Torri.

E’ primo pomeriggio, il sole picchia implacabile e ogni albero è un ristoro almeno finchè non giungiamo nei pressi del ponte stesso che, alto oltre ottanta metri sulla stretta valle del Tessino, gode di una rinfrescante corrente d’aria. Costruito nel Duecento o nel Quattrocento che sia, si tratta di una struttura imponente a dieci arcate che serviva come passaggio ma soprattutto come acquedotto nel caso di assedio della Rocca: collega difatti il colle su cui è situata quest’ultima con quello dirimpetto, mentre là sotto, in fondo in fondo, passano il torrente quasi invisibile e la trafficata Flaminia.

Mentre attraversiamo sullo stretto passaggio posto un paio di metri rispetto al culmine del ponte, possiamo ammirare le verdi colline davanti a noi completamente coperte da un fitto bosco: giunti dalla parte opposta, scopriamo che da qui si dipartono diversi sentieri che o si inoltrano tra gli alberi fino a località anche oltre i mille metri di quota o scendono verso Spoleto facendo un largo giro. Salendo per alcuni metri fino alla struttura in muratura che serviva per convogliare le acque, si gode di un ottimo panorama e ne approfittiamo per alcune foto mentre Chiara gioca con una fontanella che sgorga lì accanto: con l’aiuto di un bastoncino riesce a far zampillare l’acqua in modo assai più energico del normale, pigro fluire da un’apertura posta in un sasso. Mentre siamo intenti a tali attività, alcune coraggiose ci passano accanto correndo e siamo testimoni della conclusione di un incontro clandestino all’ora di pranzo (o, almeno, questa ci pare la spiegazione più logica): lì accanto passa una strada da cui arriva un macchinone guidato da un lui da cui scende una lei che recupera veloce l’auto lasciata in quel luogo lontano da sguardi curiosi.

Il ritorno verso il centro è meno faticoso perché il completamento del periplo della Rocca ci consente di stare all’ombra per un lungo tratto. Quando giungiamo di nuovo in pieno sole, siamo accanto all’ingresso che conduce agli ascensori per salire fino alla struttura fortificata e vista la poca fatica e l’ancor meno spesa, decidiamo di fare un salto: ci infiliamo così nella galleria che serve anche da accesso al parcheggio sotterraneo, trovando come gradita sorpresa un ambiente fresco ai lati del quale sono allineate una serie di fotografie storiche del Festival che, in gran parte, mostrano in un bel bianco e nero i personaggi più o meno famosi che vi sono stati ospiti dagli anni Quaranta in poi.

La Rocca, opera quattrocentesca del solito, infaticabile cardinale Albornoz, svetta su tutta la vallata circostante con la struttura rettangolare e gli spigoli delle sue molte torri: ancora protetta da un giro di mura e dal fossato, ai giorni nostri ospita di tutto un po’ – da un Museo a una scuola a un teatro – ma è soprattutto la sua imponente e chiara struttura, oltre all’invidiabile posizione, a colpire di più. Così ecco sotto di noi stendersi i tetti di Spoleto, a partire da quello del Duomo affiancato dalla relativa piazza: riscopriamo dall’alto i luoghi visitati durante la mattinata prima di arrenderci a un calore che continua a mordere e da cui, sugli spalti, non c’è modo di trovare riparo.

Una volta scesi, passiamo sotto l’arco che introduce in Via Fontesecca e proviamo un itinerario alternativo tra le stradine – deserte – del centro, ma veniamo ostacolati da una serie di lavori in corso che, oltre a risistemare numerosi spazi commerciali a piano terreno, finiscono per occupare l’intera sede stradale per poter completare quello che pare il rafforzamento dei vecchi muri. Decidiamo così di tornare pian piano in direzione della macchina, che raggiungiamo dopo una sosta in una libreria a metà di Corso Mazzini che stiamo percorrendo controsole. All’uscita del parcheggio scopriamo che in un paio di minuti si può raggiungere la Flaminia, evitandosi l’attraversamento del centro abitato: informazione che verrà buona per la prossima volta.



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