Safari Tanzania Nord

2 genitori + 2 bambini di 9 e 7 anni. con Mistral t.o. volo MI-Amsterdam-Arusha e rit. Abercrombie-Akorn la ottima company scelta in Tanzania da Mistral. 28 agosto sabato volo KLM alle 6.45 per Amsterdam. Lo Schiphol è una immensità. L’aereo per Arusha, cioè per Kilimanjaro airport (chissà perché si chiama così?) è pronto....
Scritto da: Paola Cosmina
safari tanzania nord
Partenza il: 28/08/2004
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
2 genitori + 2 bambini di 9 e 7 anni.

con Mistral t.O.

volo MI-Amsterdam-Arusha e rit.

Abercrombie-Akorn la ottima company scelta in Tanzania da Mistral.

28 agosto sabato volo KLM alle 6.45 per Amsterdam. Lo Schiphol è una immensità. L’aereo per Arusha, cioè per Kilimanjaro airport (chissà perché si chiama così?) è pronto. Pochissimi di colore, siamo tutti turisti, inglesi e tedeschi soprattutto, già vestiti color cachi. Gli manca solo il cappello alla Livingstone. Volo di ore 8.30, per fortuna i bimbi dormono un po’, specie durante la proiezione di “the day after tomorrow” che è una sequela di sfighe da toccarsi.

Si passa su Gorizia e Trieste (pensiero a papà), poi bellissime tutte le isole dalmate. Quattro ore solo per arrivare sopra l’Egitto. Il volo segue il Nilo, striscia d’argento nel deserto, che si allarga al lago Nasser, quello della diga di AbuSimbel. Atterraggio in orario perfetto, evviva le valigie ci sono, fuori c’è una selva di uomini “marroni” (Pietro definisce così i coloured, insomma (con rispetto parlando) i negher), con cartello in mano.

Eccolo, è lui, la nostra guida/autista/tuttofare per i prossimi giorni: Jambo! Ci saluta in swahili, il suo nome è La Guida, io lo imparerò solo l’ultimo giorno, un ragazzone di 29 anni che sembra un giocatore di basket americano, ma parla un ottimo italiano. E, delizia per Pietro! Una grande Jeep verde scuro, Toyota Land Cruiser, 4200 cilindrata, 6 cilindri, 4WD, con presa d’aria per il filtro che protrude verso l’alto per i guadi, dettagli che a questa famiglia interessano sempre molto. Nel tragitto verso Arusha, cittadina di partenza di ogni safari del nord-Tanzanìa, declamiamo da esperti la nostra cultura africana, forti della perfetta conoscenza del “The lion king” 1 e 2. Simba significa leone (ma và?), Pumbaa non significa facocero, ma qualcosa tipo grassottello, Mufasa vuol dire padre, e Rafiki amico. E, naturalmente, hakuna matata: no problem; senza pensieri, la tua vita sarà, etc. Hotel bellissimo vecchio coloniale rifatto, doppio lettone, prime zanzariere, pasticca anti-malaria prima di infilarsi nel letto (scoperto e controllato sotto le lenzuola che non ci siano sorprese). Curiosità: in bagno, il sapone è appoggiato su di una foglia a cuore, vera, che non marcisce mai.

29 agosto domenica Giornata riposante, al confronto delle successive. Solo tre ore di asfalto verso Ovest. Una pacchia. Coloratissime le donne tanzaniane in parei e scialli di cotone con fazzolettone in tinta in testa. Movimentato il mercato in uscita da Arusha, ma c’è calma piatta rispetto al delirio brulicante dell’India, neanche da paragone sotto ogni aspetto. Chiediamo a La Guida una sosta, se facile, in una missione cattolica, è domenica, no? La Tanzanìa è cristiana all’70%, i missionari un secolo fa hanno avuto vita facile, la popolazione è tranquilla e ben disposta. Le 120 tribù si sono da tempo mischiate tra loro, e proseguono in una lenta e per ora sana occidentalizzazione. Già i genitori della nostra guida provengono da due tribù differenti, e non hanno avuto problemi già 30 anni fa. Troviamo una grande rotonda chiesa cattolica, a capanna, piena di gente colorata, c’è la Messa, la seguiamo un pochino. Ci guardano. Non resisto alle foto a tanti bimbetti vestiti “della domenica” che giocano fuori, occhioni neri bellissimi, intrico di treccine e “vermetti” (come dice Ottavia) ai capelli. Alla nostra destra lasciamo la sagoma dell’imponente monte Meru, terza montagna d’Africa, alto “soltanto” quei bei 4600 mt (= al Rosa), rispetto ai 5900 del Kili.

La campagna diradata di case, rivela i primi villaggi masai. Quelli divenuti stanziali, che cioè hanno costruito un recinto per le loro mucche. Gli altri, per tradizione, le mucche le seguono, e per definizione il popolo masai è nomade. E’ l’unica tribù che si rifiuta di cambiare, e vive tuttora come vivevano le altre 100 anni fa.

I villaggi sono da iconografia africana: capanne rotonde, tetto in paglia a cono, a volte una staccionata tipo fortino. Irresistibili. Eccole, le mucche masai. Di fianco, il loro pastore, con la tovagliona rigorosamente rossa addosso, gli adulti, mentre i bimbetti sono quasi nudi. Immancabile, il bastone. Quando non è una lancia. Il bastone non lo mollano mai, neanche quando incontriamo “moderni” masai in bicicletta, carichi di taniche di acqua. Si arriva a Motwambo (?), detto mosquito village, il nome è un programma. E’ all’ingresso del Lake Manyara Park, che visiteremo domani. Per ora saliamo a tornanti in cima al Rift, proprio la spaccatura geologica terrestre lunga 9000 Km che separa le derive continentali. Il lago è giù, asciuttino, dai riflessi bianchi, ha elevata concentrazione alcalina. Lassù ci aspetta l’unico campo tendato del tour, (Kirurumu) luxury camp. Grosse tende verdi, agganciate a tetti a capanna, sparse nella sterpaglia, unite da vialetti sconnessi. Di luxury non vedo molto, ma si mangia molto bene. Pomeriggio at leisure, ma che fai nella sterpaglia? E guarda caso, ecco pronto alla reception un masai che ci accompagna in un botanical walk. Lui ha il bastone, noi no. Ci sono serpenti? Chiedo. Risposta masai: sometimes yes, sometimes no. Tante grazie. Interessanti le piante, ciascuna serve per qualche medicamento, ogni masai che si rispetti ne è a conoscenza, poi se stanno male c’è uno stregone al villaggio che li cura, e se proprio sono alla canna del gas, si sono rassegnati anche loro ad andare all’ospedale. C’è una pianta da cui estraggono una gomma contro la diarrea. Un’altra è l’acacia della febbre gialla, la corteccia è gialla, bellissima. C’è una pianta dal cuore nero: è l’ebano. Arriviamo alla scarpata del Rift, e mentre godiamo della vista e del silenzio arriva una chiamata da una nonna. E, magia! Da sotto il tovaglione rosso il masai tira fuori anche lui il suo bel mobile phone. Lo guardo e lo fotografo come fosse un marziano. Masai moderno, non c’è dubbio.

Notte in tenda, impregnati di Baygon. Ma è un vento infernale a tenerci svegli, che sembra spazzar via le pareti verdi che sbatacchiano senza sosta. Se parte un fiammifero nella sterpaglia, finiamo tutti arrosto. Pietro ha però dormito beato, con me, Ottavia pure, nell’altra tenda con papi. All’alba prendo coraggio ed alzo la cerniera, e…Mi piglia un accidenti! Quattro masai tovagliati in totale silenzio fuori tra le due tende! Niente paura, stavano solo già aspettando le nostre valigie.

30 agosto lunedì Mattino tutto al Lake Manyara park. All’ingresso parco La Guida sblocca e alza il tetto della jeep. Parco tutta vegetazione, passaggio tra alberi alti, tra cui il sausage tree, da cui penzolano autentiche salsiccione giganti. Per noi non commestibili poiché piccanti, pare piacciano alle numerose famiglie di babbuini che subito ci circondano. Saranno scimmie calabresi. La visione della prima giraffa lascia un ricordo indelebile: elegante e flessuosa, ci guarda (dall’alto), con aria mite, continuando a masticare. Così vicina, e così vera. Mamma, com’è bella! Ottavia si innamora perdutamente. La Guida spegne il motore, ed entri nel silenzio dell’Africa. Lo riaccende in fretta, arrivano i primi elefanti, siamo sulla loro pista, mica si schiodano, loro. E cominciamo, gazzelle, antilopi varie, le piccole dik-dik, sempre in coppia, zebre, struzzi, facoceri, e ancora elefanti e giraffe. Vicino al lago scorgiamo, un po’ lontani, gnu, zebre, fenicotteri, pellicani, cicogne,e ippopotami. Sulla via del ritorno un mamba, uno dei serpenti più velenosi, ci taglia la strada, lungo e verde. Sometimes yes, sometimes not. Per fortuna è vietato scendere dalle jeep. 4 ore volano. Voleranno molto meno le cinque ore del pomeriggio, nel tragitto verso il Serengeti, il parco più lontano. Una sola ora di asfalto. Le altre sullo sterrato, da paura. Curativo per il mal di schiena. Pier attacca col Voltaren. Al gate del parco si può scendere, e passa una giraffa a meno di dieci metri. Lei e Ottavia si guardano a lungo. Per la bambina è la sensazione più forte di tutto il viaggio. Magnifico il lodge, ( Sopa Lodge), grandiosa doccia, cena con qualche danza locale. Buonanotte, Africa.

31 agosto. Martedì Intero giorno dedicato al Serengeti Park. In lingua masai significa grande pianura. Che fantasia. Difatti è grande 14000 Kmq, cioè più della metà di Lombardia. Mentre la Tanzanìa è grossa tre volte l’Italia, tanto per avere un’idea.

Ne gireremo “solo” circa 1/5, girellando per le piste circa 150 Km. Al confine a nordovest col lago Vittoria (sorgenti del Nilo), e a Nord col grande MasaiMara del Kenya, entrambi i parchi cuore delle grandi migrazioni nella wet season, da novembre a marzo. Si parla di 2 milioni di gnu (ormai troppi) e zebre a seguire. Vanno sempre insieme perché la zebra ci vede bene e lo gnu ci sente bene. Al risveglio un branco di zebre ci passa davanti la finestra. Si parte, ma per due ore neanche una quaglia. Va bè, due ghepardini ma lontani lontani, non si può uscire dalle piste, rischio di cazziatone da parte dei rangers. Ogni tanto incontriamo qualche solitaria iena, che ha poco da ridere.

Ma come? Dove sono i leoni? Bisogna cercarli, dice La Guida, con flemma africana. Ah già. All’improvviso, eccoli, anzi eccole: tredici leonesse sdraiate sotto la pianta, il leone, solo, sotto un’altra. Bimbi eccitati, ma nulla si muove, i tempi si dilatano, siamo in Africa. Da qui in poi è un continuo. A fine giornata saranno 33, tra leoni e leonesse, un bel record, dice la guida. Una la becchiamo con le cornine di gazzella che le spuntano dalla bocca. Poi tre maschi, belli distesi sotto una pianta. E qui La Guida ci fa un regalo: rapida occhiata che nessuno sia in giro, esce di pista, alla faccia del ranger, gira intorno all’albero, i tre maschioni ci guardano, siamo a un metro, ci separa solo la parete della jeep. Noi, siamo in gabbia, noi, siamo lo zoo al’incontrario, questa, è casa loro. E’ semplicemente pazzesco. E ancora. Lungo il fiumiciattolo (di nome Seronera), di lontano, sette leonesse. Arrivano, hanno fiutato le gazzelle sottovento. Qui tutto si ferma, i nostri tempi diventano finalmente quelli della natura, non serve l’orologio, guardiamo solo le leonesse che si fermano, riprendono, si acquattano, si seguono, fiutano, arrivano con lentezza misurata al fiume per bere. E le gazzelle che hanno capito, alzano le cornine, si allontanano, indecise, l’acqua è preziosa, che si fa? Nessun rumore, motori spenti, è la savana. Assoluta, rovente, immobile in un movimento incessante di occhi, teste, orecchie che si alzano. Nessun attacco, alla fine. Troppe jeep (sette, in realtà) hanno disturbato la caccia, le gazzelle ringraziano. Trotterellano anche alcune buffe famiglie di facoceri, Pumbaa a vederlo fa proprio ridere. E La Guida dice che non puzza poi così tanto come ci han fatto credere nel “Re leone”. Scoviamo anche un coccodrillo a mollo in una pozza.

Pranzo a picnic, con le razioni K (Pier le ha battezzate così, a ricordo della naja), preparate dal lodge. Area allestita al visitor center del parco, sotto massi giganti che ricordano la Rupe dei Re. Piccolo museo all’aperto con dettagli anche sugli scopritori della zona. Picnic tra manguste ed enormi procavie, toponi giganti senza coda, che aspettano le briciole. Pumbaa e la sua famiglia passano vicino. Tantissimi uccellini coloratissimi, verdi e blu. A fine giornata le ore di jeep saranno nove. Stanchi ma felici. E, come si suol dire, ovvio, ne valeva la pena.

1 settembre mercoledì.

La giornata più da ricordare di tutto il viaggio, coi suoi imprevisti che racconteremo ai nostri nipoti. Mattino ancora due ore a girellare per il Serengeti, la zona dei kopjies, ovvero i grandi massi che creano aree di grande bellezza. Elefanti intorno, pitture masai che sotto i massi si rifugiavano, piante belle e grandi, pozze d’acqua. Non è savana riarsa come quella di ieri. Le piste sono di sabbia più morbida, ciononostante…Foratura! Avvenimento di assoluto rilievo e interesse, seguito nei particolari da Pietro e papi. La Guida tira fuori un crick gigantesco inimmaginabile, giù le valigie, e in pochi minuti cambia la gomma dietro della jeep. Rimane immacolato dopo tutta l’operazione, avessimo dovuto farlo noi saremmo delle maschere di sabbia rossa, si vede che è abituato e sicuro nei gesti. Ripartiamo, ci attendono altre quattro ore del trasferimento alla Ngorongoro Conservation Area. Pesantissime. La velocità è circa 50-60 Km/h, ma sballottamenti, polvere, rumore, sassi da evitare, strada tonda “a schiena d’asino” così si viaggia tutti storti, insomma continua la cura al mal di schiena. Sole a picco. A velocità piena (si fa per dire), seconda foratura. Niente paura, Pietro ha notato fin dal primo giorno che ogni auto da safari possiede ben due gomme di scorta! Anche se da qui in poi saliranno al cielo litanie per non forare la terza volta. Stop a lato sinistro strada, a ri-giù le valigie, e il gigantesco crick, ma…Abbiamo spettatori! Dal nulla, ci si materializzano intorno alcuni ragazzini masai. Ma mica col tovaglione rosso. Questi sono in nero, che più nero non si può. Sappiamo già da La Guida che i ragazzini, una volta circoncisi, si separano dalle famiglie per vivere qualche mese nella boscaglia, alla guida di un santone “iniziatore”. Tutto questo, e la cerimonia ad esso legata, comporta un rituale speciale: i ragazzini vestono stoffe nere, poi impregnate di burro e altre sostanze che le rendono simil-pelle, si acconciano con piume di guerra, soprattutto si pitturano la faccia con bellicosi segni bianchi. Stupendi, e decisamente minacciosi, questi futuri guerrieri masai. Hanno l’età di Ottavia. Magnifico, averli intorno al cambio gomma. Il primo tentativo va a vuoto: la jeep su tre ruote scivola, non fa presa, rischia di ribaltarsi sopra La Guida. Il Villani comincia a essere preoccupato. Allora sposta la jeep dal lato opposto della strada, trascina le valigie, occhio a Pietro che saltella eccitato, i masai sempre attorno, ridono, money, mi infilano un braccialetto di perline al polso. Ottavia in queste occasioni impietrisce, ma fiduciosa. Secondo tentativo, anche qui l’auto è decisamente piegata, ma il buon diretur si appoggia col suo possente peso a tenerla dritta mentre La Guida lavora sul lato opposto. In tutta questa situazione tragicomica, io che faccio? Le foto, naturalmente. Ti pare che mi lascio perdere una occasione così ghiotta? Alla gomma, al diretur, alle valigie, ai masai, ormai il money gliel’ho dato, riesco persino a restituire il braccialetto, ma loro vogliono il mio orologio, mica scemi, i futuri guerrieri. Me li godo, in verità. Così vicini, l’odore di latte che emanano è fortissimo, vorrei parlare, capirsi, ci sono mille anni, mille culture tra di noi in pochi centimetri, non mi capiterà mai più nella vita, solo il più sveglio sa tre parole in inglese, capisco che hanno 10, 12, 14 anni, i numeri li sa, per via del money, ovvio.

Su le valigie, si riparte, finalmente. Il meccanico è “solo” a due ore di distanza, ora pro nobis. Deviazione con picnic razione K alle “gole di Olduvai”. Un piccolo canyon, teatro di sfighe catastrofiche preistoriche. Vale a dire, molteplici eventi in epoche successive (ma proprio tutti concentrati qui?) hanno sepolto sotto diversi strati un patrimonio inestimabile: nientepopò che l’”Australopitecus boisei”!, un paio di Homo erectus, qualche sapiens, nonché animali e impronte di ogni genere e specie. Ammiriamo (e tocchiamo…) il cranio dell’australopiteco e compagni al piccolo museo, la preistoria Ottavia l’ha proprio studiata quest’anno. Ma siamo già in ritardo, e ripartiamo in fretta, tanto che il diretur si dimentica di filmare le gole del canyon… Comincia la lunga salita al cratere del Ngorongoro (in fantasiosa lingua masai: grande grande), che domina il paesaggio dai suoi 2200 mt. Di altezza. Presso il villaggio dei workers, in cima, si trova anche il benzinaio della company, l’unico nel raggio di 400 Km. Tant’è che torneremo fino ad Arusha con questo pieno. La sosta benzina è da spettacolo: la pompa arrugginita e malandata è azionata a manovella, da un masai strabico (e te credo, a furia di girar la manovella), senza tovaglione, che ride. Riempie anche le taniche. La Guida chiede subito di far riparare le gomme, ma “no electricity now”, e si riparte. Assicura che presso il lodge ci sarà un altro meccanico, punto di assistenza a tutte le auto per i safari. Altri 50 minuti di viaggio polveroso lungo il bordo del cratere, ecco finalmente il lodge, lussuoso, bellissimo. Ma gli uomini si fiondano dal meccanico a riparare le gomme, e Pietro col suo occhio di lince trova i chiodi e i punti delle forature, che vengono riparati velocemente, permettendo così a La Guida di farsi la doccia in tempo: nella baracca delle guide è consentita solo un’ora di acqua calda, fino alle 18. A noi ricchi nel lodge, ben 3 ore. Il lodge (Sopa Lodge) è davvero spettacolare: tre enormi capanne tipo masai fanno da reception, bar, e ristorante. Ognuna con un magnifico camino, e profusione di statue africane e rilievi di animali alle pareti. Complimentary tea served, come ci sentiamo English. Oppure ci sentiamo Hemingway, protagonisti dei suoi libri africani. Ma è il cratere lì sotto di noi, view point romantico dalla piscina, coi suoi 20 Km di diametro, 600 mt di strapiombo, lui, a dominare e calamitare ogni attenzione. Non basterebbero cento foto a dipingerlo. I colori al tramonto tolgono il fiato, dall’alto variano ogni minuto, a seconda delle ombre delle nuvole che passano veloci, dei raggi che filtrano, dei riflessi della zona verde o del lago salato sul fondo. Siamo qui per questo, finalmente. Ci sentiamo piccoli, e si sta in silenzio, quando la natura, come qui, è così immensa, e totale, completa, perfetta.

Ci pensa una bellona, italiana, a rovinare l’atmosfera: “e bbasta co’ste foto!” al neo- marito, ma cambia viaggio di nozze, cretina, non hai capito un cavolo, e quelli come te sono ormai purtroppo l’immagine del turista italiano che esportiamo più spesso. Mi vergogno per te.

A cena con l’ombrello. In “copp’o cratere” può capitare. Siamo riusciti a far piovere in Tanzanìa in piena stagione secca. 2 settembre giovedì ore 7.30, tutti pronti, si scende nel cratere. Tranquilli, è spento da qualche milione di anni, imploso su se stesso. A causa di qualche sorgente d’acqua che qui spunta da più parti, il cratere è manna per gli animali, che vi si rifugiano nella stagione secca, senza dover cercare altrove, senza fatica. Qualche elefante lo troviamo già nella discesa. Ma qui sarà l’impressionante numero degli erbivori a farla da padrone. Intere mandrie di gnu e zebre, bisogna farsi largo, scusi permesso, che neanche corso Vercelli a dicembre. Ci si diverte a farli spostare davanti alla jeep, a bassa velocità. Ci si richiudono dietro. E gazzelle di Thomson, impala, kudu, antilopi d’acqua, alceolafi, poi struzzi, facoceri. Curiosità, niente giraffe. Ma La Guida aguzza l’occhio esperto, deviazione improvvisa, eccoli! Quattro splendidi ghepardi, la madre davanti, tre dietro a distanza, adagio, sottovento, puntano. Movimenti da documentario National Geographic, a noi la Licia Colò ci fa un baffo. Silenzio e tempi lunghi, ormai lo sappiamo. Ma i gattoni si fermano, han poca voglia. Proseguiamo sulle piste interne, c’è una collinetta da cui si godono i colori della zona palude, del lago salato, della zona foresta e savana. Curiosamente tutti questi ecosistemi convivono nel cratere, popolati dalle differenti specie. E qui Pietro riceve il più gran regalo da La Guida: gli fa nientemeno che…Guidare la jeep! Deve averlo visto tanto interessato agli aspetti meccanici che se lo tira in braccio, e vai per le piste della savana. Pietro guida attento e sciolto, affronta con sicumera le buche, vi entra bene. La faccenda va avanti per una ventina di minuti, fosse per lui non smetterebbe più. Ma il cratere è pieno di rangers. Prossima fermata al lago salato, dal violento riflesso d’argento, increspato di fenicotteri rosa. Un piccolo sciacallo ci prova, e gli uccelli si levano impauriti, spettacolo davvero unico. Nella zona foresta le cortecce delle piante sono sfrangiate dagli elefanti che vi si grattano contro. Non si può nemmeno far pipì in pace: appena allontanati dalla jeep, un cercopiteco si lancia da una acacia dentro al tetto, cominciando a scartare le scatole dei picnic. Pier è il più vicino, cerca di cacciarlo, e la scimmia reagisce urlandogli contro minacciosa. Corre in aiuto il gigante La Guida, e salveranno così il nostro pranzo. Che non sarà tranquillo: tutti intorno a una delle “hyppo pool”, ma tutti dentro in macchina: il rischio è di vedersi strappare dalle mani la coscia di pollo dalle numerose aquile, che ormai sanno come funziona. In effetti l’uomo qui è intervenuto sull’ecosistema del cratere.

Girellando ancora tra gruppi di avvoltoi e iene che si contendono qualche carogna, scorgiamo anche 5 leoni sparsi. Poca roba, sembra che nella wet season siano una infinità. La Guida riesce a distinguere due rinoceronti. Anche noi, ma col binocolo. Se ne stanno ben lontani, ma non v’è dubbio, le due corna davanti ci sono. Ci godiamo una ventina di ippopotami a mollo, messisi a raggera in una pozza dai colori vivissimi. C’è anche qualche piccolino, alla nascita pesa “solo” 15 Kg. Non fanno granchè, se non rotolarsi ogni tanto a turno per bagnare anche la schiena, rivelando una buffa panciona rosa e zampettone da pubblicità della Lines. Sono a loro modo bellissimi, fanno ridere. Ma è ora di tornare al lodge, stanchi. Ottavia e io ne approfittiamo per scendere al villaggio delle baracche delle guide, con la scusa di assistere alla partita di calcio nel campetto. Giocano anche tre masai, fra di loro, uno non molla il bastone neanche con la palla al piede. Ci lasciamo prendere a far foto ai numerosi masai che salgono al lodge a prendere gli avanzi e poi spariscono nei villaggi nascosti nella boscaglia. Sono uomini e donne bellissimi, alti, coi lobi delle orecchie allargati fin da piccoli con tappi di sughero, per adornarsi di orecchini dalle mille perline, e collane rotonde, e coroncine. Cerco di dire loro che sono belli, vorrei comunicare in ogni modo, è un bisogno viscerale e primordiale che mi spinge, a gesti, che rabbia non riuscirci, ma capisce poco inglese solo un ragazzino di 16 anni, lui a scuola ci è andato, ora basta, la sorellina di dieci anni no. Gli adulti (avranno 25-30 anni) neanche a parlarne. Il capovillaggio masai decide per tutti, l’uomo può essere poligamo, la donna non ha capacità decisionali. Ma come vorrei saperlo da loro! E, curiosità incredibile, non hanno funerali, non hanno, stranissimo, alcun culto dei morti. Chi muore, viene lasciato nella savana, non sepolto, rientra tout-court nel ciclo della vita, come tutti gli altri esseri viventi. Questo mi affascina moltissimo. Mai come in questo caso, “polvere sei e polvere ritornerai”. Impara dai masai. Meditate, gente, meditate. Ultimo tramonto sul Ngorongoro. In Tanzanìa si viene per questo.

3 settembre venerdì Si ripercorre tutta la strada del primo giorno, scendendo prima di tutto dal cratere. Al gate è bellissimo incontrare una classe di bimbi tanzaniani, 10 anni, ultimo anno di scuola, tutti in divisa azzurro/bordeaux, che vanno in gita nel “loro” parco naturale. Alcuni con macchina fotografica, sperano di vedere il ghepardo, occhioni neri stupiti e un po’ intimoriti dalle mie domande. Solo che loro viaggiano in 25 in una jeep da 4. Ma sono già fortunati.

Ci attende il quarto e ultimo parco del tour, poco oltre il Manyara. Si chiama Tarangire, dal fiume che lo attraversa, e il parco è disegnato per lungo attorno al corso d’acqua. Il paesaggio cambia radicalmente, intanto per la presenza di un mare di baobab, sì, l’albero dove viveva Rafiki, nel “Re leone”. Sono alberi molto grossi, di età millenaria, ma ora senza foglie, un po’ inquietanti. La corteccia è letteralmente distrutta dagli elefanti. Il Tarangire infatti è il parco con la maggior concentrazione di elefanti al mondo. Ottavia, comincia a contarli! Uno, due, dieci, trenta, insomma un delirio, in un’ora di attraversamento per raggiungere il lodge sono già 85, a fine giornata 172, all’uscita la mattina successiva saranno per noi 256. E scusa se è poco. I numeri si moltiplicano quando si pensa che ognuno di loro mangia per 18 ore al giorno. Ma anche qui le sensazioni sono più forti dei grandi numeri. Intanto un disagio crescente, poiché qui stavolta gli insetti ci sono. Ogni sosta della jeep permette l’entrata di zanzare (piccole, mi sembra, speriamo in bene) e mosche, tante, per cui l’attività principale è sterminarle a suon di colpi coi cappellini. Impariamo a riconoscere la mosca tze-tze, più grossa, dalle alucce azzurrine ripiegate su se stesse, la bastarda pizzica sia Pietro che Pier, grandi tragedie al momento, ma si prega solo che non sia portatrice del parassita. Al lodge non si può abbassare la guardia, spariamo Baygon dovunque, Autan a fiumi, zanzariera controllata al centimetro.

4 settembre sabato Lasciando il parco il mattino dopo, rimaniamo bloccati da un bel gruppo di elefanti, all’improvviso, il piccolo è in mezzo alla strada, la madre ci si para davanti di colpo, minacciosa. La Guida è pronto in una rapida retromarcia, e si attende, a distanza. Quando riusciremo a passare un deciso barrito ci confermerà che li avevamo proprio scocciati. Va bè, scusate, ce ne stiamo proprio tornando a casa, stasera c’è l’aereo, ancora un po’ e ce lo facevate perdere. Regalo finale, pochi Km dopo…Un leopardo, anzi “il” leopardo, unico, difficilissimo. E’ sopra una roccia, poi il gattone ci attraversa la strada dietro, e si fa piccolo nell’erba alta e secca. Una visione indimenticabile, per chiudere in bellezza.

Arusha ci accoglie nella confusione del sabato, e nella festosità di decine di matrimoni: è un continuo passaggio di cortei di sposi, con banda di trombettisti su camioncino al seguito, che pare di stare a New Orleans. Una festa di colori e di suoni.

Salutiamo La Guida un po’ in fretta, ma non sarà lui a portarci all’aeroporto, stasera. Scende il tramonto su una animatissima e colorata Tanzanìa, che ci spiace lasciare nonostante la stanchezza accumulata. La foschia si apre, e non crediamo ai nostri occhi, lassù, eccola, la cima del grande padre Kilimanjaro! E’ da cartolina la pendenza obliqua del vulcano e la neve in cima. E’ proprio alto, ma tanto, ci sono 5000 mt da dove siamo noi, si vedono tutti. All’aeroporto si imbarcano con noi 5 italiani “sani”, gli zaini sporchi, riconosco il tipo di abbronzatura: questi il Kili l’hanno scalato.

Circa due voli partono da Arusha, uno è il nostro, l’altro un “Precision Air” per Nairobi, il nome fa ridere, in Africa. Ciao, Tanzanìa (con l’accento sulla i), ciao Africa. Ultima emozione: il passaggio sul bellissimo ghiacciaio della Jungfrau, laggiù lontano il Bianco, più vicini Cervino e Rosa, lato Macugnaga. Il Kilimanjaro è ormai decisamente lontano.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche