Yemen, arabia felix?
Sconsigliati da tutti, soprattutto per la supposta pericolosità del paese o per la scelta del periodo estivo giudicato inadatto a visitare la penisola arabica, abbiamo ugualmente deciso quest’anno di viaggiare attraverso lo Yemen, naturalmente alla nostra maniera, cioè organizzati autonomamente, senza servirci di agenzie di viaggio o di tours prenotati anticipatamente.
Acquistati i biglietti aerei direttamente alla Yemenia (la compagnia di bandiera yemenita) e avuto il visto dal Consolato di Roma, il 12 giugno siamo quindi partiti con Tommy, nostro figlio di 11 anni, avendo in tasca, oltre all’indispensabile guida Lonely Planet, solo una mail di conferma per la prima notte all’hotel Arabia Felix, nella parte antica di Sana’a.
Il viaggio non è iniziato sotto buoni auspici, a cominciare dai biglietti del treno per Roma disponibili solo in prima classe, alla sveglia che non ha funzionato costringendoci ad una preparazione trafelata ostacolandoci l’un l’altro e ad un fastidioso “colpo della strega” che mi ha colpito proprio nel caricare gli zaini … Comunque siamo riusciti a prendere regolarmente l’aereo per Sana’a e durante il volo ci siamo resi conto che probabilmente eravamo gli unici viaggiatori per turismo, infatti i pochi occidentali presenti avevano l’aria di essere lì per un viaggio di lavoro oppure diretti in Eritrea o chissà dove … Abbiamo anche avuto il primo impatto visivo con le donne yemenite, che da qui in avanti vedremo solo completamente velate e vestite di nero. Prima bufala sfatata: “arrivati all’aeroporto i poliziotti vi diranno che il visto non va bene e vorranno dei soldi per lasciarvi passare”. Arrivati in aeroporto dove le pratiche di ingresso sono state invece piuttosto sbrigative, senza alcun problema siamo usciti dal terminal, dove stranamente non siamo stati assaliti dalla solita folla di tassisti ansiosi di portarci nei loro hotel preferiti. Ci siamo avvicinati noi ad un tassista che si è dovuto avvalere di un ragazzino che parlava inglese per capire dove volevamo andare. Conosceva l’Arabia Felix e ci ha accompagnato per 10 dollari (un po’ troppo, scopriremo poi, forse abbiamo pagato anche l’interprete …).
Nonostante fossero le dieci di sera, l’aria era ancora calda e c’era un sacco di gente in strada che camminava o sostava davanti ai tanti chioschi e localini dove si vendeva da mangiare. Naturalmente erano solo uomini, le donne evidentemente finivano la loro giornata al tramonto.
Il nostro hotel era situato ai margini delle mura della città vecchia, di fronte al wadi che nella stagione secca è una delle arterie principali di Sana’a trasformandosi invece in un canale tumultuoso nella stagione delle piogge.
L’Arabia Felix ) è una vecchia dimora tradizionale di tre o quattro piani che si raggiungono per mezzo di una stretta scala interna dai gradini molto alti. La camere, tre per ogni piano, sono abbastanza curate ed hanno il bagno esterno. Il ristorante è immerso in uno splendido giardino sul retro e, nonostante l’ora, ci ha offerto la possibilità di mangiare qualcosa.
Dopo cena, ormai quasi a mezzanotte, ci siamo avventurati nella prima, cauta passeggiata nei dintorni dell’albergo per rimanere già a bocca aperta di fronte ai bellissimi palazzi di mattoni con le finestre dipinte di bianco che hanno reso celebre ed unica questa città. La fase di innamoramento nei confronti di Sana’a era già cominciata … Il mattino dopo, durante l’ottima colazione nel giardino incantato, con miele, yogurt e caffè yemenita, abbiamo cominciato a pensare al proseguimento del viaggio. L’idea era di visitare Sana’a e i sui dintorni, proseguire poi fino a Shibam, la “Manhattan del deserto” poi l’Hadramawt e passare una settimana sull’isola di Socotra, decantata da molti per le sue bellezze naturali uniche al mondo.
Dovevamo perciò trovare i mezzi ed i contatti per poter organizzare tutto questo in sicurezza.
Lo Yemen non si può girare troppo liberamente. Per recarsi da una città all’altra gli stranieri devono dotarsi di un permesso della polizia dove vengono indicati il percorso e la località di arrivo; inoltre è necessario avere un certo numero di fotocopie di questo documento che verranno ritirate ai frequenti posti di blocco. In certe località infine è obbligatorio dotarsi di una scorta dell’esercito (nei territori controllati dai beduini che contestano l’autorità statale) per impedire gli ormai famosi “rapimenti”. Nel periodo del nostro viaggio le zone sottoposte all’obbligo di essere scortati erano la zona desertica e la città di Ma’rib e la strada costiera a sud di Al-Mukalla. Inoltre tutta la parte del paese a nord di Sana’a era proibita agli occidentali a causa di episodi di guerriglia in corso con le tribù locali. Abbiamo così dovuto dire addio alle nostre intenzioni di visitare il celebre ponte di Shihara Questo paese, insieme all’Arabia Saudita, rimane custode di una società tra le più tradizionali del mondo arabo. Il legame di appartenenza più forte è la propria tribù a cui nessuno si sogna di anteporre lo Stato; per questo gli yemeniti sono così battaglieri ed insofferenti alle regole. Il mondo maschile e quello femminile sono del tutto separati: l’uomo ha una vita pubblica piuttosto libera, mentre le donne escono fuori dalle stanze a loro riservate solo completamente ammantate di nero tanto che a non tutte è possibile vedere neppure gli occhi. Abbiamo visto alcune di esse con abiti colorati e a capo scoperto solo in alcune zone di campagna dell’Hadramawt.
Un’altra caratteristica peculiare dello Yemen è la presenza massiccia di armi. Nella zona di Ma’rib, tutti i maschi, compreso qualche bambino, girano armati di kalasnikov o di pistola e non è raro incontrare uomini col mitra in spalla anche in centro a Sana’a dove tutti, dico tutti, ostentano la jambiya, il grosso pugnale ricurvo portato alla vita per mezzo di una cintura vivacemente ricamata. È vero che viene considerato solo un ornamento e un simbolo di virilità, ma la grossa lama scintillante fa sempre un certo effetto.
La mattina del 13 giugno, quindi cominciamo la nostra avventura con la visita all’Ambasciata d’Italia. Siamo stati ricevuti da un cortese ed efficiente funzionario italiano, il quale oltre a registrare la nostra presenza nel paese ci ha informato sulle ultime notizie in merito a zone percorribili o meno e ci ha indicato una lista di agenzie e guide private locali alle quali rivolgerci per essere accompagnati in alcune nostre escursioni. Questa visita si è rivelata estremamente utile perché, oltre al contatto rassicurante con una nostra istituzione in terra straniera, ci ha permesso di conoscere alcune persone competenti ed affidabili con le quali abbiamo potuto condividere parte del nostro viaggio e che ci hanno consentito di addentrarci maggiormente nelle proprie tradizioni e capire meglio la cultura yemenita.
La seconda tappa della giornata sono stati gli uffici della Yemenia dove abbiamo trovato i posti per il volo a Socotra solo il 22 giugno successivo. Avremmo avuto così nove giorni da impiegare visitando i villaggi fortificati nei dintorni della capitale e per raggiunge ad est Shibam attraversando il deserto.
Tra i nominativi fornitici, abbiamo contattato telefonicamente Yahyia, una guida privata alla quale si rivolge anche il personale della nostra ambasciata, con cui abbiamo preso appuntamento in albergo la sera stessa per concordare il programma dei giorni seguenti.
Avevamo il pomeriggio libero che abbiamo dedicato alla visita della Old Sana’a all’interno delle vecchie mura di terra, partendo da uno dei simboli del paese, Bab-al-Yaman, la “porta dello Yemen”.
Questa è un’antica porta, tra due bastioni merlati, che immette all’interno della parte vecchia della città. Nel piazzale adiacente è sempre attivo un mercato, in parte ormai turistico, l’unica zona dove abbiamo incontrato qualche altro viaggiatore occidentale. L’interno delle mura, la vecchia Sana’a, patrimonio dell’umanità dell’Unesco, è un meraviglio intrico di stradine piene di vita che separano i famosi palazzi a torre dalle finestre tutte diverse dipinte di bianco. E’ bello passeggiare senza una meta, scegliendo le vie a caso che porteranno nelle piazzette dove si concentra la vita all’aperto degli abitanti o a scoprire le tante moschee, visitabili però solo dall’esterno per i non mussulmani.
Si possono scattare fotografie letteralmente a caso, tutti gli scorci sono interessanti, tutte le strade lasciano scoprire viste indimenticabile ed ogni tanto, quasi per incanto, ci trova di fronte a meravigliosi giardini pieni di palmizi con intorno i palazzi e dietro qualche portone socchiuso occhi luminosi ti guardano meravigliati. In un mercato mi sono lasciato convincere da Tommy a compragli una Jambiya che ha portato alla cintura per tutto il pomeriggio suscitando cordiali apprezzamenti dalla gente “oh, good yemeni…”.
Via via che proseguivamo nella nostra passeggiata abbiamo scoperto con piacere la cordialità della popolazione, così le nostre ultime remore e preoccupazioni si sono dissolte nel nulla già il secondo giorno di viaggio. Dagli sguardi fugaci delle donne che si intravedevano sotto i veli neri, alla cordiale curiosità degli uomini che ci chiedevano spesso da dove venivamo e, saputo che eravamo italiani, ci venivano a stringere la mano e ci dicevano “welcome in our country…” con un modo sincero, commovente. Ci chiediamo a quanti stranieri in visita in Italia sarà capitato di sentire questa frase … Anche i mercanti non sono mai apparsi troppo insistenti, accontentandosi spesso di fare solo due chiacchiere con noi, senza volerci vendere per forza qualcosa.
In ogni momento della nostra permanenza nello Yemen, nessuno ci ha fatto mai fatto mancare il rispetto e la cordialità nei nostri confronti, con un misto di orgoglio di poter mostrare i tesori della propria terra ed una gentilezza innata, senza mai alcun secondo fine.
Solo per questo e per la bellezza di Sana’a varrebbe la pena di fare il viaggio.
Un altro momento piacevole è stato il tè preso sul terrazzo dell’Thai Talha Hotel da dove la vista panoramica della città ci ha regalato uno stupefacente tramonto in solitudine.
In questo viaggio ci siamo trovati molto spesso ad essere da soli, nel senso che non abbiamo incontrato quasi mai, eccetto a Sana’a, altri viaggiatori se non sporadicamente, ma non ci siamo mai sentiti a disagio trovando sempre la cordialità e la curiosità della gente nei nostri confronti. La sera, dopo cena, abbiamo fatto la nostra conoscenza con Yahya Amber, che sarebbe stato la nostra guida il giorno seguente e col quale abbiamo anche concordato il successivo viaggio nel deserto. Salutato Yahya con l’appuntamento per il mattino seguente, ormai sicuri e tranquilli, siamo andati in una strada dove c’era un mercato notturno; erano in vendita frutta e verdura, nonché pane e focacce oltre a cibi pronti da mangiare come il kebab, ormai diffuso anche da noi. Abbiamo così visto per la prima volta la vendita del qat, una pianta dalle foglie leggermente stupefacenti che tutti gli yemeniti masticano incessantemente ogni giorno.
La masticazione del qat è allo stesso tempo un fatto culturale e un grave problema di questo paese. Gli uomini fin dal primo pomeriggio si ritrovano insieme, ognuno con la propria bustina di foglie che iniziano a masticare lentamente succhiandone la linfa. Nella bocca si forma un bolo verde semimasticato che, grande come una palla da tennis, ingrossa una guancia in modo a volte molto evidente. Questo è un momento aggregativo importante e serve agli uomini per discutere di affari o per risolvere eventuali problemi tra i componenti delle tribù, ma in un paese povero come lo Yemen, una grossa parte della popolazione in pratica lavora solo per procurarsi il qat.
Anche le donne hanno l’abitudine di masticare queste foglie, ma possono farlo solo all’interno della zona a loro riservata delle abitazioni.
Parlare con una persona che sta masticando il qat, è curioso, bisogna stare attenti a non farsi colpire dai frammenti che fuoriescono insieme alle parole farfugliate nell’inglese già approssimativo a causa della bocca piena di erba masticata. Pare che l’effetto sia simile al caffè, acuisce la soglia dell’attenzione, la fatica si può sopportare meglio e serve agli autisti per non addormentarsi alla guida. Anche noi abbiamo provato a masticarla, qualche volta che ci è stata offerta, ma a parte il sapore amarissimo, non abbiamo potuto costatare altri effetti. Evidentemente bisogna perseverare nell’uso, cosa che abbiamo comunque evitato.
Da tutto questo si deduce che l’economia del paese è in gran parte basata sul qat. Quasi ogni lembo di terra fertile è utilizzato per la coltivazione di questa pianta, simile ad un arbusto alto circa un paio di metri e ogni campo è sorvegliato da guardiani armati che possono sparare a vista su chiunque si avvicini senza autorizzazione alle preziose foglioline.
La mattina del 14 giugno siamo quindi partiti con la nostra guida e la sua potente Toyota per un raid intorno alla capitale. Quasi ogni villaggio vale la pena di una sosta, mi limiterò quindi ad elencare quelli vistati con le caratteristiche di ognuno: Al-Rawda: tipiche case in adobe, un misto di paglia e argilla che combina resistenza a leggerezza permettendo un buon isolamento dagli sbalzi termici; è con questo materiale che sono costruiti i “grattacieli” che vedremo a Shibam; Wadi Dhahr: villaggio posto ai bordi di una gola scavata da un antico fiume, dove sorge un altro simbolo dello Yemen, il Dar Al-Hajar, il palazzo sulla roccia, costruito alla fine del ‘700 come residenza di un imam. L’interno, visitabile, contiene ancora mobili e suppellettili dell’epoca, nonché una bella collezione di foto d’epoca. Nei pressi del villaggio ci siamo fortunosamente imbattuti in un matrimonio. Lo sposo insieme a parenti e amici danzavano accompagnati dai tamburi e percussioni in un’area all’aperto dove era stato allestito un rinfresco. Ovviamente erano solo uomini, la sposa e le altre donne stavano festeggiando ugualmente, ma a casa.
Ci siamo chiesti come sia possibile scegliere la propria sposa senza poterla mai vedere prima. Probabilmente le future fidanzate vengono tenute d’occhio fin da bambine, visto che fino ai dodici anni stanno a capo scoperto o avranno sviluppato un sesto senso: più di una volta ci è capitato di vedere ragazzi che rimanevano a bocca aperta con lo sguardo colmo di desiderio al passaggio di alcune ragazze completamente imbacuccate come suore di clausura.
Kawkaban: splendido villaggio fortificato di montagna, da dove il panorama spazia per tutto l’altipiano. Ci siamo fermati a pranzare in un ristorante tipico dove, seduti in terra abbiamo potuto assaggiare alcune specialità fra cui la salta, il piatto nazionale che è uno stufato piccante a base di verdure, legumi carne condita con varie spezie, veramente gustoso. Naturalmente Paola, vegetariana, si è dovuta accontentare del fool, una sorta di purè di fagioli. Ottimo dovunque è il pane o meglio le focacce chiamate opis servite sempre caldissime e che servono anche da piatto per gli altri alimenti; Hababah: celebre per la sua grande cisterna ovale nella quale si specchiano le antiche case a torre, ancora usata dagli abitanti per attingere l’acqua o far abbeverare gli animali; Thula: altro villaggio fortificato con una grande piazza centrale dove abbiamo bevuto una bibita in un locale chiamato “Shalif Ali Baba” che per fare onore al proprio nome ci ha fatto pagare il triplo di quanto pagavamo di solito; piacevole da visitare se non fosse per la particolare insistenza dei venditori che qui sono veramente insistenti e fastidiosi. Abbiamo conosciuto Saddam, un petulante ragazzino che ci ha tampinato per tutto il percorso, costringendoci quasi a fuggire via il prima possibile … Al-Tawila: con uno dei forti più spettacolari della zona che, con la sua imponenza sovrasta il villaggio, un tempo a guardia del traffico di caffè che da qui veniva trasportato dalle carovane fino alla costa.
Naturalmente durante il percorso ci siamo fermati in altri posti, magari solo per comprare una bottiglia d’acqua o goderci un panorama, tutti egualmente interessanti che sarebbe però lungo descrivere e che terremo perciò solo nei nostri ricordi.
In uno di questi villaggi ero quasi riuscito a vendere mia moglie, e, se non si fosse messo di mezzo Tommy col suo veto assoluto, molto probabilmente l’affare si sarebbe potuto concludere. L’unica difficoltà sarebbe stata come portare a casa una decina di cammelli … A proposito di ciò, bisogna sfatare anche questo mito. Nei paesi arabi, le donne naturalmente non si comprano con i cammelli, pecore o altro, la “trattativa” tra le famiglie per arrivare al matrimonio è assai più complessa e tiene conto di molti fattori quali le parentele, l’autorevolezza e la stima della tribù ecc … Siccome la sposa va a vivere presso la casa del marito, la famiglia di origine viene compensata dal mancato lavoro della ragazza, con uno o due animali da fatica come i cammelli per l’appunto o un paio di pecore per i meno abbienti.
Quando un turista si sente offrire ben cento cammelli per la moglie, deve sapere che questo vuole essere solo un complimento alla signora, vista la palese esagerazione dell’offerta … Nel corso della giornata abbiamo anche fatto amicizia con Yahya, che ci ha accompagnato spiegandoci ciò che visitavamo, riuscendo ad essere anche molto discreto nel lasciarci liberamente andare da soli senza mai farci alcuna fretta. Un bravo ragazzo la nostra guida, dall’inglese un po’ approssimativo a cui sopperiva con qualche parola d’italiano imparata dai turisti o frequentando l’ambasciata, a venticinque anni con una famiglia da mantenere adoperandosi per lanciarsi nel business del turismo in un paese che non riscuote certo le attenzioni dei grandi operatori internazionali. La mattina del 15 giugno è cominciata con una sorpresa: Yahya non poteva accompagnarci perché suo padre durante la notte è stato ricoverato in ospedale e lui doveva accorrere al villaggio, ma ci ha presentato il suo amico Abdulwalì, più anziano, con grandi baffi ed un viso simpatico a prima vista. Sarebbe stato lui ad accompagnarci nei giorni seguenti per il viaggio fino a Shibam con la sua Toyota. Il 90% del parco auto del paese è di questa marca giapponese, sono mezzi economici e robusti, molto adatti alle strade non sempre asfaltate, con motori che non soffrono molto la polvere o la sabbia.
Naturalmente Yahya ci ha dato ampie assicurazioni sul nuovo autista e si era già occupato dei nostri permessi di viaggio con tutte le fotocopie necessarie.
Gli accordi con le guide/drivers comprendono una cifra giornaliera comprensiva dell’auto e del carburante nonché di tutte le escursioni e anche di eventuali deviazioni che dovessero essere necessarie o richieste dai clienti ed è compreso anche il costo delle scorte che vanno pagate direttamente al capo dei militari. Oltre a ciò bisogna provvedere al vitto dell’autista che comunque non pesa più di tanto sull’economia del viaggio, visto che in genere si pranza abbondantemente con meno di 5 dollari a testa. Nel contratto non è compreso l’alloggio; ad ogni tappa si sceglie l’hotel sulla base delle indicazioni della guida o delle proprie preferenze. Ognuno paga per se, ma se la scelta è troppo costosa per il driver, questo dormirà da un’altra parte o presso amici.
Siamo partiti quindi da Sana’a diretti a Ma’rib dopo aver fatto colazione. Appena fuori città abbiamo dovuto aspettare ad un posto di blocco le 9 per formare un convoglio di auto turistiche che sarebbe stato scortato per tutto il percorso, considerato tra i più pericolosi per via dei frequenti casi di rapimento di occidentali. Come ho già scritto, non abbiamo incontrato molti turisti, perciò, con un po’ di apprensione abbiamo scoperto che alle nove l’unica auto del “convoglio” sarebbe stata la nostra.
Siamo così ripartiti con al seguito un pick-up dotato di mitragliatrice con quattro militari armati fino ai denti. Ogni tanto uno dei soldati saliva in macchina con noi per qualche tratto di strada forse più rischioso.
La pericolosità di questi rapimenti sui generis è alquanto dubbia, infatti dai racconti dei turisti che hanno avuto questa non piacevole avventura, si evince che i rapitori sono generalmente beduini delle tribù del deserto con rivendicazioni nei confronti del governo centrale in termini di tasse o per avere la riparazione di una strada o altro di simile. Nessuno è mai stato oggetto di violenze, anzi il trattamento secondo le tradizioni beduine è quello riservato agli ospiti con le restrizioni dovute dalla dura vita nel deserto. Trattenendo per qualche giorno i turisti occidentali, la tribù ottiene visibilità e attenzione ai propri problemi da parte del governo, il quale si trova così costretto a prendere in esame il problema sollevato.
Spenderei ora una parola sul governo “democratico” del Presidente Ali Abdallah Saleh, generale dell’esercito dell’ex Repubblica Araba dello Yemen e ininterrottamente capo dello Stato dall’unificazione nazionale del 1990: l’esercizio del potere per così tanto tempo in un paese con legami tribali ancora molto forti, ha favorito un culto della personalità per cui le sue gigantografie campeggiano ovunque nel paese: è una specie di padre padrone ed è considerato come un monarca, magari illuminato, ma si può facilmente immaginare come il popolo possa effettivamente esercitare un qualsiasi tipo di controllo democratico sui poteri dell’esecutivo. Inoltre lo Yemen, essendo uno dei paesi arabi più tradizionalisti, non ha mai potuto sviluppare un senso di libertà democratica come lo intendiamo noi. In sostanza gli yemeniti sembrano essere prigionieri delle proprie tradizioni e regole tribali che il governo statale non aiuta a superare o almeno a mitigare nei confronti degli strati sociali più deboli come le donne e i poveri.
Siamo arrivati a Ma’rib per pranzo e ci siamo subito resi conto della diffusione di armi di ogni tipo: kalasnikov e moschetti appoggiati sulle stuoie del ristorante, pistole e le solite jambiya erano portate alla cintura con noncuranza da tutti gli uomini adulti. In pratica io ero l’unico disarmato, ma se avessi voluto, avrei potuto acquistare un buon mitra usato per meno di cento dollari e l’avrei potuto portare liberamente in giro. Un altro segno della scarsa presenza di regole, era la mancanza delle targhe su gran parte delle automobili in circolazione, il tutto tra l’indifferenza di poliziotti e soldati, occupati come sempre a masticare qat.
Nonostante questa prima impressione di scarsa sicurezza, anche qui ci siamo dovuti stupire dall’estrema gentilezza della popolazione. Molti ci chiedevano la nazionalità o venivano solo a stringerci la mano felici di fare la nostra conoscenza. In diverse occasioni ci è stato chiesto di fare foto e comunque quasi mai ci è stato impedito di farne. La presenza di Tommy destava molta curiosità e spesso intorno a lui si formava un capannello di ragazzini curiosi che cercavano di comunicare con il reciproco inglese un po’ sgangherato. Portare i propri figli in questi paesi viene in genere molto apprezzato, considerato un segno di fiducia e consenso che certamente favorisce la comunicazione. Sono anche convinto che la presenza di un bambino in qualche modo possa fungere da deterrente nei confronti di eventuali malintenzionati il cui senso dell’onore impedisce di rischiare di fargli del male.
Ma la cosa più importante è la grande esperienza di vita che viaggi come questo possono fornire ai nostri figli contribuendo positivamente alla formazione del loro carattere e di una maggiore tolleranza verso le realtà sociali differenti.
Ma’rib, antica città capitale del regno sabeo ed una delle più antiche della penisola arabica, oggi è una polverosa cittadina ai margini del deserto con un unico albergo decente, il “Land of two Paradises” di cui eravamo gli unici ospiti. L’hotel ha un piazzale circondato da alte mura e l’ingresso sorvegliato da personale armato ed ogni volta che avevamo bisogno di uscire dovevamo aspettare un’auto della polizia di scorta che ci accompagnasse.
Abdulwalì mostrava qualche segno di preoccupazione avendo saputo dalla polizia che erano stati segnalati in zona elementi di Al-Qaeeda e che i militari avevano qualche timore a scortarci. Al momento non abbiamo dato molto peso alla cosa, ma successivamente avremmo dovuto ricrederci: appena qualche giorno dopo di noi, un gruppo di turisti spagnoli sarebbe stato falcidiato da un attacco suicida proprio in prossimità degli antichi templi di Bilqis e della Luna che anche noi abbiamo visitato, facendo nove vittime. Ma questo l’avremmo saputo solo dopo, quindi abbiamo visitato tranquillamente gli splendidi templi sabei con le famose colonne quadrangolari e le incisioni nell’antica scrittura preislamica, testimoni della mitica civiltà della regina di Saba.
Durante la cena, avremmo voluto offrire qualche bibita ai militari che vegliavano sulla nostra sicurezza, ma Abdulwalì ci ha dissuaso con la considerazione che avremmo dato il via ad un fatto che poi sarebbe stato preteso, per cui abbiamo deciso di lasciar perdere.
Il giorno seguente, 16 giugno, siamo partiti poco dopo l’alba per percorrere il tratto desertico fino a Sayun. Man mano che avanzava il giorno, la temperatura si alzava fin quasi al limite della sopportazione e neanche l’aria condizionata dell’auto era di grande conforto. Numerosi posti di blocco ci fermavano con la solita domanda: “what country?” e, alla risposta “italian” ritiravano la copia del permesso di viaggio e ci facevano proseguire o, in molti casi, ci facevano sostare fino all’organizzazione di un pick-up di scorta che veniva cambiato dopo qualche decina di chilometri al successivo posto di controllo.
In qualche punto particolarmente panoramico, Abdulwalì si fermava e ci arrampicavamo sulle dune sabbiose, sempre alla presenza di almeno uno dei soldati. L’estensione del deserto verso l’Arabia Saudita a nord, sembrava infinita e all’orizzonte si intravedevano miraggi di grandi laghi inesistenti nell’aria tremolante della calura.
Nel pomeriggio siamo infine arrivati a Sayun, il capoluogo della regione del Wadi Hadramawt, caratterizzata da ampie gole fertili dove sorgono i villaggi più antichi del paese.
In questa città abbiamo trovato l’albergo più bello del nostro viaggio, l’hotel Al-Ahqaf, con ampie camere pulite e piscina per soli 25 dollari per la tripla. Dopo la traversata del deserto ci voleva proprio un paradiso come questo! A Sayun c’è da vedere il Sultan Palace, un grande palazzo del XIX secolo, nella piazza centrale della città, con più di novanta stanze. Di un candore quasi accecante, assomiglia un po’ ad una torta nuziale e fu costruito come residenza di un sultano mentre oggi è adibito a museo con una bella collezione di lussuosi arredi d’epoca e di foto in bianco e nero scattate negli anni 30 dai viaggiatori di allora, tra i quali l’intrepida Freya Stark.
Oltre a ciò, si può passeggiare tranquillamente tra le botteghe del vecchio suq o tra le vie della città vecchia visitando le tombe monumentali di antichi imam. Al centro vi è anche un bel giardino con un paio di ristorantini all’aperto dove vengono preparate ottime focacce e deliziosi succhi di mango, oltre al chai, un the al latte molto zuccherato e servito bollente ad ogni ora, la bevanda tipica in tutto il paese.
Avremmo impiegato i due giorni seguenti per visitare alcune località della zona, tra le più famose di tutto lo Yemen, quali Tarim, Shibam e la Wadi Daw’an, fertile oasi in mezzo al deserto, dove si produce il migliore miele del mondo, intervallando le nostre escursioni con momenti di relax a passeggio tra le vecchie stradine (anche Abdulwalì si è mostrato sempre molto discreto, senza imporci mai la sua presenza o programmi già predefiniti, acconsentendo sempre a soddisfare le nostre richieste di deviazione dal percorso).
La sera, in piscina nuotavamo mentre alcuni pipistrelli facevano rapidi passaggi radenti all’acqua per abbeverarsi al volo, con Tommy che cercava inutilmente di acchiapparne uno.
Ecco una breve descrizione delle località da noi visitate, con la consapevolezza di non poter descrivere a parole le sensazioni di vera meraviglia e di serenità provate allora, che rimarranno nei nostri ricordi con nostalgia: Tarim: antica capitale della regione e importante centro teologico islamico, oggi è una cittadina dove la vita sembra essere rimasta ferma al secolo scorso. Le strade polverose sono percorse dai carretti dei mercanti e davanti alle antiche botteghe sono esposte le merci in vendita soprattutto perla gente del posto. Ogni tanto si incontrano per strada gruppi di donne, al solito completamente velate in giro per la spesa.
La grande moschea Al-Muhdar vanta il più alto minareto dello Yemen, un altro simbolo del paese, riprodotto anche sulle banconote.
Shibam: è stata una delle principali mete del nostro viaggio e la visita di questa città unica, insieme a Sana’a valgono da sole il biglietto per lo Yemen. Siamo arrivati lì nel pomeriggio del 18 giugno. La città è apparsa improvvisamente dalla sabbia del deserto, con l’affascinate altezza dei suoi celebri grattacieli di terra e paglia, palazzi alti fino a otto piani che l’hanno fatta definire la “Manhattan del deserto”. Come un’isola, la città vecchia, cinta da alte mura con una sola grande porta, si staglia nel cielo particolarmente azzurro quasi come un miraggio.
Appena dentro le mura, in una grande piazza circondata dagli alti palazzi, gli uomini si ritrovano davanti ai vari locali a fumare i narghilè giocando a domino seduti a gambe incrociate su grandi tappeti colorati. Certamente più abituati alla presenza di viaggiatori, sembravano piacevolmente impressionati dalla presenza di Tommaso e, come sempre, ci hanno accolto con grande interesse e cordialità. La vita scorre entro le mura immutata nel tempo, uomini e capre condividono gli stessi spazi e si intuisce il tempo trascorso solo dalla presenza dei fili elettrici da un palazzo all’altro e dal rumore di qualche vecchia moto che solleva la polvere delle strade non asfaltate.
Abbiamo così trascorso un po’ di tempo a sorseggiare chai, prima di perderci tra le stradine della città che ogni tanto si allargavano in una piazzetta dove i bambini giocavano o alcuni vecchi, accoccolati a terra, filosofeggiavano masticando qat. La miglior visione della città si ottiene al tramonto, quando si può ammirare il cambiamento della calda luce del sole tra le ombre dei grattacieli. Accompagnati da alcuni ragazzini, siamo saliti sulla cima di una collina di fronte alla città da dove lo spettacolo era veramente meraviglioso ed appagante. I nostri accompagnatori, due fratelli dell’età di Tommy, erano incuriositi da nostro figlio e cercavano in tutti i modi di comunicare così che dopo poco hanno cominciato a giocare insieme, misurandosi nell’abilità di scendere velocemente attraverso il viottolo impervio tra le rocce.
La Wadi Daw’an è una stretta valle fertile dove abbiamo potuto vedere alcuni tra i più antichi villaggi del paese, quali Sif e Al-Hajarayn con pittoresche case dipinte con colori pastello e dove abbiamo potuto incontrare le donne col caratteristico cappello da strega portato sopra il velo nero. Questo, chiamato madhalla, è un alto copricapo di paglia intrecciata che, portato dalle donne che praticano la pastorizia o lavorano nei campi, rendono la loro figura un po’ inquietante. Fotografarne qualcuna è un’impresa alquanto difficoltosa a causa della loro abitudine a lanciare pietre verso gli incauti fotografi. Noi abbiamo tentato, ottenendo solo alcune immagini sfocate, vista la prudenza del nostro autista, preoccupato di non farsi danneggiare la macchina a sassate … Al ritorno da una di queste escursioni siamo andati fino sull’altipiano sopra il wadi, da dove abbiamo potuto scoprire il magnifico panorama della valle lussureggiante di palmizi e coltivazioni, rinfrescati da un piacevole venticello. Non potevamo certamente esimerci dal comprare il famoso miele della valle, il più buono (e caro) al mondo e con la mediazione del nostro “zio” Abdulwalì, abbiamo potuto prenderne un vaso a buon prezzo.
Durante il soggiorno in questa zona, i nostri pasti sono stati un po’ monotoni. Infatti, viaggiando in località non battute dal turismo di massa e per di più fuori stagione, non trovavamo mai una grande scelta; in pratica, io e Tommy mangiavamo quasi sempre pollo, mentre Paola si doveva accontentare di fagioli e opis, con rari fortunati incontri con qualche pomodoro. Solo una volta abbiamo trovato del montone, abbastanza grasso, ma pur sempre piacevole per rompere la monotonia.
Il 18 giugno siamo partiti per raggiungere la costa ad Al-Mukalla, una città portuale che abbiamo raggiunto in serata dopo i soliti posti blocco “what country? ..Ah, italian ok ok..”. Arrivati in città ci siamo sistemati all’hotel Corniche, direttamente sul porto. L’hotel era un po’ tetro, nei corridoi e nelle camere erano affissi quadri con i versetti del corano e un simbolo che indicava la direzione della Mecca per la preghiera dei fedeli. Abbiamo avuto l’impressione di essere in un ambiente un pochino troppo integralista. Nella reception, dietro il bancone erano appoggiati a terra un paio di kalasnikov e l’atteggiamento del personale non ci è sembrato proprio cordiale, comunque il servizio è stato sempre corretto. Dalla finestra della nostra camera vedevamo il mare ed una piacevole brezza soffiava rendendo fresca la serata. Al-Mukalla non ci ha impressionato molto, oltre ad un giro ozioso tra le bancarelle del mercato e la vana ricerca di un gelato, non abbiamo potuto fare un granché, inoltre ci eravamo abituati troppo bene alla pace ed agli spazi del deserto, per cui sentivamo la città un po’ stretta. Anche qui, nonostante il caldo quasi opprimente, le donne erano tutte completamente velate e molte portavano addirittura i guanti neri, per non far vedere neanche le mani! Per noi stato difficile comprendere quale fosse l’effettiva condizione della donna in un paese islamico tradizionale. In un primo momento prevaleva un sentimento misto di compassione e irritazione, quando, nelle poche frasi scambiate da Paola con qualcuna di esse, trapelava una dolcezza infinita dallo sguardo o quando abbiamo visto le peripezie di un uomo nel voler sistemare le quattro mogli in aereo senza che nessuna fosse vicina ad un estraneo e come queste si assoggettassero docilmente a tutti gli spostamenti richiesti.
Cercando di approfondire un po’ attraverso letture e resoconti, si percepisce però che il velo può anche dare la libertà, ad esempio di guardare senza essere viste e azzeri tutte le diversità (belle e brutte sono tutte uguali) e possa essere così considerato dalle donne islamiche come una difesa dal mondo esterno. Sarà forse per queste considerazioni che nei paesi occidentali c’è la tendenza delle ragazze arabe a volersi riappropriare della libertà di portare il velo o come in Afghanistan, dopo la liberazione dal burqa imposto dai talebani, ora le donne tendano a metterlo di nuovo.
Tornando a noi, dopo un’ottima cena, finalmente a base di pesce, al ristorante Al-Kayyam (raccomandato dalla Lonely Planet) siamo andati a letto. La mattina successiva avremmo affrontato il lungo viaggio che ci avrebbe riportato a Sana’a. In questi giorni, ogni tanto Yahya, il nostro primo autista, ci ha telefonato per sincerarsi che non avessimo problemi, perché avendoci raccomandato Abdulwalì, si sentiva responsabile del buon esito della escursione. Abbiamo apprezzato molto questa gentilezza, segno della assoluta serietà ed affidabilità del nostro amico. Con caratteristiche diverse, ambedue le nostre guide si sono rilevate sempre ottime ed all’altezza della situazione. A seconda delle circostanze e delle nostre necessità molto presenti o discrete, hanno fatto in modo che noi potessimo capire quanto più possibile del loro paese, rendendo un ottimo servizio a noi, senza quelle fastidiose furbizie di portarci in negozi o alberghi da cui ricevere una percentuale. Anzi, più volte sono intervenuti, discutendo con i vari venditori per farci avere un miglior trattamento! Hanno così reso un buon servizio a noi, ma anche al loro paese, tanto bisognoso di essere meglio considerato in questi tempi difficili … Abbiamo passato il giorno successivo, il 19 giugno, sempre in viaggio. Partiti alle 6.30 del mattino, siamo arrivati alle 9 di sera a Sana’a, dopo più di quattordici ore di viaggio con poche soste, solo per il pranzo e per qualche foto, attraverso la provincia di Shabwa considerata a rischio di rapimenti e quindi di nuovo scortati dalla polizia.
Abdulwalì non ha mai mostrato segni di stanchezza o di cedimento, a suo dire per merito del qat che ha masticato per tutto il giorno. All’arrivo ci attendeva una bella sorpresa: Yahya ci stava aspettando con i biglietti dei bus già fatti ed i permessi pronti per andare, nei due giorni seguenti a Ta’izz, a sud di Sana’a. Gli avevamo parlato per telefono della nostra intenzione di andare là, così lui si è attivato autonomamente per farci trovare tutto pronto, naturalmente gratis! Siamo quindi andati tutti insieme in un locale a mangiare opis caldo con la salta e a bere un ottimo frullato di frutta fresca, chiacchierando come vecchi amici. Yahya ci ha riferito che dall’ambasciata italiana avevano chiesto nostre notizie e lui li aveva rassicurati. Più tardi ci siamo lasciati con abbracci e saluti. Abdulwalì avrebbe dovuto guidare ancora due ore per ritornare, finalmente, dalla famiglia al proprio villaggio.
Il nostro albergo (Al-Ikhwa), scelto solo perché vicino alla stazione degli autobus, era molto economico, solo 2000 rials (1 euro = 265 YR), ma veramente brutto. Oltre al concetto di pulizia diametralmente diverso dal nostro, completavano l’opera una situazione di generale degrado, reti sfondate, accessori del bagno rotti con rubinetti gocciolanti, tanto che Tommaso l’ha subito ribattezzato “hotel lupanares”.
Ma le sorprese non erano finite: all’interno di un borsone si era aperta una bottiglia di shampoo versando tutto il contenuto all’interno. Fortunatamente i danni ai vestiti erano pochi, ma abbiamo dovuto lavare completamente lo zaino. Prima di allora non avevo mai fatto caso a quanta schiuma potesse sprigionarsi da una bottiglietta di shampoo … Nei due giorni seguenti ci saremmo dovuti organizzare da soli. La mattina del 20 giugno eccoci quindi alla stazione degli autobus per prendere il nostro fino a Ta’izz. Negli spostamenti in autonomia all’interno del paese ci siamo serviti sempre della compagnia Yemitco che ha bus nuovi e comodi con un servizio tutto sommato efficiente. L’unico “fastidio” era la musica tradizionale continuamente suonata ad alto volume. Una volta gli altoparlanti hanno diffuso per tutto il tempo le preghiere di un imam.
Ma c’era una difficoltà: gli autobus, una decina in fila pronti per la partenza, non avevano alcun cartello con l’indicazione della destinazione. Tutti i viaggiatori si rivolgevano agli autisti o agli addetti ai bagagli per cercare di sapere quale fosse quello giusto, ma le opinioni a volte erano contrastanti. Anche noi ci dirigevamo prima verso la cima della fila e poi verso il fondo chiedendo informazioni a diverse persone e alla fine siamo saliti sul mezzo che aveva avuto il maggior numero pareri favorevoli sulla destinazione a Ta’izz.
Siamo partiti così alle 7 e mezzo e arrivati intorno alle 13. Ta’izz si trova a 250 chilometri a sud di Sana’a, lungo la strada che arriva sino ad Aden. E’ la terza città del paese e venne definita dal grande viaggiatore arabo Ibn Battuta “una delle città più grandi e più belle” e in effetti la parte vecchia col grande mercato ed il forte che la sovrasta sono molto interessanti. La città fu capitale del regno dei Rasulidi fino al 1962.
All’arrivo avevamo un’altra difficoltà da risolvere: il nostro piano prevedeva necessariamente il ritorno a Sana’a per il giorno dopo, in quanto avevamo l’aereo per Socotra da prendere, ma alla stazione dei bus, l’addetto non parlava inglese e si rifiutava di capire le nostre richieste o di chiamare qualcuno che fosse in grado di farlo, trincerandosi dietro un sorrisetto indifferente. La nostra frustrazione si stava trasformando velocemente in rabbia quando, sentendoci alzare la voce, si è avvicinato un signore che ha spiegato al ragazzo le nostre esigenze, così che i biglietti sono saltati fuori. L’alternativa sarebbe stata per noi quella di cercare subito un mezzo qualunque per tornare indietro, sprecando così due giorni di viaggio.
Dopo esserci sistemati in hotel (Tourism Yemen, ottimo!) siamo andati a pranzo, festeggiando il mio compleanno con pesce fresco e dolci. Il proprietario del ristorante, molto cordiale ed incuriosito dalla nostra presenza nel suo locale, ci ha presentato suo figlio di dodici anni, molto fiero che parlasse inglese con noi.
Abbiamo poi passato il pomeriggio tra le stradine della città vecchia dove abbiamo comprato la famosa uva passa, uno dei prodotti nazionali dello Yemen. Ogni banco del mercato che la vendeva era dotato di un ragazzino che allontanava le mosche agitando incessantemente un piumino sopra le grosse ceste ricolme di frutti.
Abbiamo bevuto dell’ottimo chai in un locale dove erano affissi, oltre al ritratto del Presidente, anche quello di Saddam Hussein, cosa che abbiamo riscontrato più volte sia in locali pubblici, che sui vetri di molte autovetture. E’ evidente il contrasto tra la politica ufficiale di alleanza con gli Stati Uniti e i sentimenti della popolazione che considera il dittatore iracheno quasi una sorta di Che Guevara arabo. L’avversione della gente nei confronti degli americani e degli inglesi è palese, ma noi italiani, probabilmente anche in forza dei tanti progetti di sviluppo avviati nel paese, siamo ottimamente considerati e molti ce lo hanno dimostrato apertamente.
Alla fine del nostro giro per la città abbiamo trovato una gelateria dove abbiamo potuto mangiare delle grandi coppe di gelato fresco, notando che il locale aveva la zona riservata alle donne divisa da quella maschile per mezzo di un lungo paravento. Avevamo già notato che in alcuni locali le famiglie si riparavano in una zona riservata, dato che le mogli, almeno per mangiare, avevano bisogno di sollevare l’onnipresente velo dal viso.
Il mattino seguente avevamo intenzione di visitare il Salah Palace, antica residenza di un imam che conserva tutti i suoi ricordi ed i doni ricevuti, ma purtroppo era giorno di chiusura, così accompagnati da un intraprendente tassista che, pur non parlando una parola d’inglese, ci ha portato dappertutto riuscendo con una spiccata gestualità a parlarci della città e della sua famiglia, siamo arrivati fino al forte Qalat-al-Qaira che domina la città da un’altura.
Attualmente anche questo è chiuso al pubblico in quanto zona militare, ma all’ingresso, il comandante della guardia ci ha permesso di entrare ugualmente, un po’ perché eravamo italiani, ma soprattutto perché è rimasto favorevolmente impressionato dalla nostra conoscenza di qualche parola di arabo, tanto che, prima di lasciarci passare, ci ha fatto una specie di interrogatorio per “saggiare” la nostra preparazione.
Abbiamo notato più volte, nei nostri precedenti viaggi, come sia importante, nel visitare un paese straniero, cercare di imparare alcuni rudimenti della lingua del posto, Il tentativo di esprimersi nella lingua locale viene molto apprezzato e favorisce maggiori opportunità di contatto con la gente.
Basta poco, una decina di parole, come salve (as-salam aleikum), bello (jamil), grazie (shukran), sì/no (aiwa/la), acqua (maa), tutto bene (kullo taman), sono italiano (ana min italini), hotel (funduq), arrivederci (ma’as salama) ecc., qualche numero (1-wahid, 2-ithnin, 3-thalatha, 4-arba’a, 5-khamsa, 100-mia, 1000-alf) e, aiutandosi con i gesti e con qualche frase pronta della guida, per ottenere immediatamente l’apprezzamento e l’attenzione di ogni interlocutore. Da lassù il panorama era spettacolare, si poteva vedere tutta Ta’izz come dai finestrini di un aereo.
Salutati i militari gentili, siamo ritornati in centro e dopo aver fatto un buon pasto a base di pollo e pesce fritto nel ristorantino ormai solito, abbiamo ripreso l’autobus per Sana’a, dove siamo arrivati alle otto di sera. Questa volta abbiamo scelto un hotel un po’ migliore, sempre nella zona della stazione dei bus, il Sayun. All’ingresso era affisso il cartello “vietato entrare armati”.
Poco dopo l’arrivo abbiamo rincorso invano l’autobus col quale eravamo venuti da Ta’izz nel tentativo di recuperare i falsi Rayban di Tommaso appena acquistati e subito dimenticati sulla poltroncina. Tanto era mesto ed afflitto il suo sguardo che abbiamo dovuto ricomprarglieli nuovamente … Siamo anche riusciti a prelevare col bancomat, in una delle due banche dello Yemen collegate col sistema internazionale, L’Arab Bank e l’Islamic Bank.
Alle tre di notte, la sveglia ci ha imposto di alzarci: dovevamo raggiungere l’aeroporto, dove alle 5 sarebbe partito il nostro volo per Socotra.
Nonostante l’ora antelucana il sonno è subito passato, prima per l’eccitazione di essere prossimi a realizzare uno dei sogni del nostro viaggio, e poi per un’altra brutta sorpresa: non avevamo il volo di ritorno che pensavamo di aver prenotato nell’agenzia della Yemenia il giorno del nostro arrivo! Che fare? Le possibilità erano due, rinunciare a visitare Socotra oppure andare, sperando di riuscire a tornare in tempo per il volo di rientro in Italia. L’ipotesi di non poter tornare non era solo teorica, perché nella stagione estiva l’isola è battuta da un forte vento che a volte impedisce agli aerei di atterrare così che molti voli vengono annullati e le liste di attesa aumentano a dismisura. Inoltre, a complicare le cose, ci sono solo due voli la settimana, perché la tratta è percorsa quasi esclusivamente da residenti che hanno forti sconti sul prezzo del biglietto così che la Yemenia non ha alcun interesse a renderli più frequenti, nonostante la forte richiesta. Avremmo potuto constatare di persona la confusione che regna nel piccolo aeroporto dell’isola alla partenza di ogni aereo … Socotra appartiene allo Yemen, ma è un’isola che si trova davanti al Corno d’Africa dal quale si è staccata durante la formazione dei continenti. Come tutti i luoghi rimasti isolati per molto tempo, anche qui, come alle Galapagos, la natura ha sviluppato elementi unici, che non si trovano in nessun’altra parte del mondo.
L’isolamento di questa terra è durato fin quasi ai giorni nostri, infatti i primi visitatori, trecento in tutto, sono arrivati nel 2002 trovando solo alcune comunità di pescatori con lingua ed abitudini completamente diverse dai loro compatrioti della terraferma, una piccola guarnigione militare che nei primi tempi è servita da “hotel” e … Una natura veramente meravigliosa, un luogo incantato dove lo scorrere del tempo sembrava fermo da secoli. Spiagge infinite, grotte e canyons inesplorati, strane piante a forma di bottiglia e alberi “sangue di drago” facevano parte di uno scenario ancora incontaminato. E tutto finora è rimasto praticamente lo stesso. Certo, l’aeroporto si è un po’ ingrandito, ora sono sorti alcuni piccoli alberghi, la luce elettrica funziona con l’ausilio dei generatori dalle sei del pomeriggio fino a mezzanotte, ci sono i fuoristrada che percorrono le poche strade dell’isola, ma nient’altro ha snaturato lo spirito dei luoghi e della gente che ci vive, rimasta ancora semplice, sincera e cordiale.
Naturalmente, con queste aspettative, è prevalsa in noi la curiosità e la voglia di andare rispetto alla prudenza ed alle possibili difficoltà per il ritorno, così alle 7 della mattina del 22 giugno sbarcavamo dall’aereo proveniente da Sana’a, nel piccolo scalo dell’isola. C’era un vento pazzesco.
Solo chi vive a Trieste e conosce la bora, può capire la sensazione che abbiamo provato nel percorrere le poche decine di metri che ci separavano dal terminal.
Una volta usciti, abbiamo preso accordi con un ragazzo per farci accompagnare ad Haidibu, il capoluogo e unica cittadina dell’isola. Ancora frastornati, non abbiamo fatto molto caso alla sua proposta di farci da driver durante la nostra permanenza a Socotra, comunque abbiamo preso il suo numero di telefono.
Arrivati nella piccola città, poco più di un villaggio con basse case di mattoni ed una nutrita popolazione di capre in giro per le strade, siamo andati in uno dei due alberghetti, l’Hafej Hotel dove abbiamo contrattato il prezzo della nostra camera per tutta la settimana: 3000 rials al giorno, per una tripla bilocale, aria condizionata, tv satellitare e frigorifero, niente male.
La nostra prima uscita in esplorazione è stata sconfortante: abbiamo percorso sotto lo sferzare del vento alcune vie tra le case, verso il mare. La sabbia e la ghiaia sollevata dal vento ci colpiva costringendoci spesso a camminare all’indietro. I rari passanti inturbantati ci guardavano curiosi ma il clima inclemente consentiva solo rapidi saluti.
In queste condizioni abbiamo raggiunto uno dei ristoranti consigliati dalla LP, lo Shaboa, dove, unici clienti, abbiamo pranzato con alcuni pezzi di carne di capra freddi in un cartoccio insieme ad una patata lessa. Ci siamo cominciati a chiedere se veramente, stavolta non avessimo sbagliato tutto, tanto più che mi tornavano in mente le raccomandazioni di altri viaggiatori “… Temo che da qui in avanti e sino alla fine di settembre Socotra sia impraticabile per i forti venti monsonici che la percuotono, sei davvero sicuro di voler trascorrere una settimana in un clima tanto inospitale?”.
Tommaso era a dir poco perplesso, dopo le promesse di meraviglie della natura, di spiagge incontaminate, battute di pesca e quant’altro, vedersi sballottato da un ventaccio infame con gli occhi arrossati per la sabbia lo aveva avvilito: “papà, torniamo a casa?…”.
Tentiamo di raggiungere gli uffici locali della Yemenia per risolvere almeno il problema dei biglietti di ritorno, ma una volta arrivati là, in una specie di magazzino scrostato senza neanche l’insegna, abbiamo trovato chiuso. Era venerdì, giorno festivo.
Sempre più depressi, siamo tornati in hotel e, attingendo dalla preziosa lista fornitaci in ambasciata, abbiamo chiamato una guida per vedere se fosse stato possibile vedere qualcosa dell’isola.
Abbiamo così conosciuto Abdulwaasa, e da quel momento è cambiato tutto, in positivo naturalmente! Ci aveva già notato in aeroporto, ma noi ancora disorientati, gli avevamo detto di non aver bisogno di nulla … Abdulwaasa (diminutivo Wasà) è un ragazzo di 23 anni, dai modi affabili e cortesi, esperto conoscitore della sua terra e fiero di potercene mostrare le bellezze naturali. Nonostante fossimo fuori stagione, Wasà ci ha rassicurato sul problema del vento che a volte può concedere alcuni giorni di pausa e che comunque a Socotra c’erano punti abbastanza riparati da poter essere visitati tranquillamente.
Sapere ciò ci ha confortato molto e ci ha dato di nuovo la carica giusta; a questo punto avevamo bisogno di un’autista e abbiamo così telefonato al ragazzo che ci aveva accompagnato in città poche ore prima. Waheed (Primo, in italiano), 25 anni, ex militare, già con moglie e due bambini, ci avrebbe così accompagnato, con la sua Toyota un po’ scassata, in tutte le escursioni della settimana successiva e, insieme a Wasà, avremmo formato quasi un gruppo di amici che avrebbe scarrozzato inerpicandosi per le strade sterrate ai limiti della percorribilità, alla scoperta delle meraviglie dell’isola di Socotra.
Siamo subito partiti per l’area protetta di Ras Di Hamri, paradiso per le immersioni subacquee e la spiaggia di Delesha dove immense dune di sabbia bianchissima svanivano velocemente per ricomporsi poco più in là, trasportate dal vento, comunque meno forte di prima, così abbiamo potuto stenderci al sole e goderci per un po’ il posto magnifico.
Decine di piccoli trampolieri infilavano il becco nella sabbia umida approfittando della risacca per catturare un mollusco o qualche granchio fantasma che usciva correndo dal proprio buco sul bagnasciuga.
Poco oltre, alcuni vecchi carri armati russi in disuso, facevano ancora la guardia semi immersi nella sabbia in attesa di improbabili attacchi dal mare … La sera, ci siamo dati appuntamento nell’unico ristorante aperto di Hadibu (e dell’isola), il Taj Suqutra per concordare il programma dei giorni seguenti.
Wasà e Waheed ci avrebbero portati dappertutto, assicurandoci che avremmo potuto fare i bagni e pescare, oltre ad andare all’interno nei boschi di alberi bottiglia e di “sangue di drago”. Le giornate successive sarebbero cominciate con la spesa nei piccoli negozi del centro, dove avremmo comprato quanto necessario per pranzare sotto l’ombra di un tamarindo o in una delle molte grotte che avremmo visitato. In pratica avremmo mangiato quasi sempre tonno e scatolame col solito pane tipo focaccia. A Socotra non si coltivano molte verdure o frutti oltre ai datteri, peraltro buonissimi, coi quali avremmo chiuso ogni pasto.
Il primo giorno, 23 giugno, abbiamo scoperto la spiaggia di Qalansiyah. Wasà ci ha fatto chiudere gli occhi “I have a surprise for you..” e quando li abbiamo riaperti ci siamo trovati di fronte alla più bella, sconfinata e maestosa spiaggia che avessimo mai visto, completamente deserta, con una laguna popolata solo da centinaia di uccelli marini. Una delle meraviglie del mondo create dalla natura e ancora conservate lontano dall’opera demolitrice dell’uomo.
Nella bella stagione che va da novembre a marzo, spesso i turisti passano tutta la giornata a Qalansiyah, accampandosi anche per la notte, perché vedere il tramonto su questa spiaggia è un’esperienza indimenticabile, ma noi abbiamo dovuto proseguire e, attraversando alcuni piccoli villaggi dove le donne, sempre velate, ma con abiti a volte vivacemente colorati, lavavano i panni in piscine naturali, siamo arrivati in un’altra splendida spiaggia, Qadama, detta “turtle beach” perché la notte si possono osservare le tartarughe marine mentre depongono le uova. Qui, al riparo dal vento abbiamo potuto fare il nostro primo bagno in compagnia di pellicani indolenti e dei cormorani che ogni tanto si tuffano in profondità a caccia di pesci.
Dopo una visita in una salina ricavata da una cisterna naturale, siamo tornati in hotel per una doccia e poi in un locale per prendere un chai.
La sera, al ristorante abbiamo mangiato un grande pesce alla griglia e Paola i soliti fagioli. Abbiamo anche scoperto l’unico internet point, un paio di computers in un garage, dove ad una preistorica lentezza che avevamo dimenticato, siamo riusciti a dare nostre notizie a casa, unico modo possibile, visto che a Socotra non funzionano i cellulari e dai telefoni fissi si possono fare solo chiamate nazionali.
La mattina seguente, 24 giugno, siamo andati a scoprire gli alberi bottiglia, quelli d’incenso e il “sangue di drago”. La zona centrale dell’isola è attraversata da un grande canyon che la divide lungo l’asse nord-sud e le pareti rocciose sono scavate da molte grotte naturali con stalattiti e stalagmiti. In una di queste abbiamo pranzato in compagnia di alcuni avvoltoi egiziani, talmente comuni da essere considerati dai socotrini quasi domestici.
Sull’altopiano abbiamo incontrato i curiosi alberi bottiglia, dal tronco tozzo e un ciuffetto di rami con qualche foglia sulla cima, talmente buffi da sembrare quasi cartoni animati. Ogni tanto incrociavamo qualche pastore con asino e ragazzini al seguito che, chiesto ai nostri accompagnatori chi fossimo, ci salutava cerimoniosamente stringendoci la mano.
Dopo aver attraversato una zona dove crescevano gli alberi dell’incenso, una delle ricchezze dell’isola, siamo arrivati nella foresta degli alberi “sangue di drago” che non si trovano in nessun’altra parte del mondo, segno tangibile dell’isolamento di Socotra che ha permesso un’evoluzione separata di queste piante preistoriche. Questo albero, alto fino a due o tre metri, ha un fusto diritto sormontato da un ombrello di rami tozzi dalla cima dei quali spuntano le foglie lunghe e spesse. Il tronco, essendo cavo, viene utilizzato per la costruzione di tamburi, mentre la resina di colore rosso che si ricava incidendo la corteccia, ha proprietà terapeutiche ricostituenti e viene usata anche come colorante per decorare il vasellame di terracotta realizzato dalle donne.
Abbiamo terminato la giornata, con un bagno a turtle beach, ormai la “nostra” spiaggia, anche perché, come al solito eravamo gli unici turisti in circolazione, eccettuato un gruppo di francesi che incontravamo la sera al ristorante, dediti esclusivamente alle immersioni nella zona di Ras Di Hamri.
25 giugno, giornata dedicata alla pesca, tanto attesa da Tommaso. Abbiamo raggiunto l’estremità orientale dell’isola dove le acque di un ruscello si mescolavano alle onde marine. Mentre Wasà e Waheed preparavano ami ed esche, Tommy cercava invano di catturare i pesciolini nel ruscello. Poco dopo eravamo tutti intenti alla pesca (eccetto Paola, naturalmente, vegetariana ed animalista) e in precario equilibrio su alcuni massi, lanciavamo le nostre lenze in acqua speranzosi di grosse catture. Tra rotture varie ed intrecciamenti del filo, ami perduti tra le rocce ed esche mangiate a sbafo dai voraci, ma evidentemente furbi pesci oceanici, solo Wasà è riuscito catturarne qualcuno che abbiamo poi cucinato in uno spiedo improvvisato presso una vicina grotta. Una piacevole variante del solito tonno e fagioli dei nostri pranzi abituali in quei giorni.
Devo qui attestare l’estrema cura che questi due ragazzi hanno avuto nei nostri confronti, dalla pazienza per le incessanti domande di Tommaso ovviamente curioso di tutto, all’impegno con cui per tutta la settimana hanno cercato di farci visitare ogni luogo interessante nonostante il tempo poco favorevole. Il tutto con rara gentilezza e con una simpatia autentica. Entrambi fanno parte del “Socotra Conservation Fund”, una organizzazione no profit per la conservazione e lo sviluppo sostenibile di Socotra. Sarà molto impegnativo preservare dalle mire dell’industria del turismo di massa questo habitat ancora integro. Purtroppo il miraggio di facili guadagni e delle comodità mostrate dalla televisione verso la quale i socotrini, raccolti nei locali pubblici, mostrano di rimanere quasi ipnotizzati, sembra essere un richiamo irresistibile.
Vigilare su questo habitat spetta soprattutto ai suoi abitanti che, una volta arrivati i soldi, verrebbero letteralmente scippati della loro isola con la sola opportunità di fare i camerieri nei grandi villaggi per le vacanze del tutto compreso. Bisogna poter mantenere il giusto equilibrio tra la necessità di conservare l’integrità di questo ambiente naturale ed il bisogno di entrate in valuta pregiata che il turismo potrebbe dare, ma dubito che lo Yemen ne abbia la forza e la volontà. Già oggi il governo centrale non controlla efficacemente il suo territorio, come si può facilmente notare nelle provincie più turbolente e anche qui nell’isola, dove ogni anno le razzie dei pescherecci indiani derubano i pescatori locali di migliaia di tonnellate di pesce, per di più massacrando i fondali, senza che ci sia una sola vedetta yemenita a contrastare questo scempio.
Tornando a noi, la sera al ristorante, per cambiare abbiamo chiesto delle uova, il ragazzo dice di aver capito l’ordinazione, ma alla fine è arrivato il solito pesce alla griglia … E fagioli per Paola! Nei due giorni successivi siamo stati in montagna, tra boschi di “sangue di drago” e colonie di alberi bottiglia inerpicati sulle rocce, abbiamo scoperto alcune piscine naturali con acqua limpida e fresca dove abbiamo potuto fare lunghi bagni e tuffi dalle rocce. La specialità di Tommaso era quella di scivolare lungo una roccia umida di muschio fino a gettarsi in acqua quasi fosse in un parco acquatico.
A volte abbiamo condiviso il bagno con alcune famiglie del luogo in vacanza. In una occasione all’ora di pranzo ci hanno offerto un vassoio di riso e montone. Abbiamo ringraziato e volevamo contraccambiare con le nostre scatolette, che però hanno cortesemente rifiutato. Presso uno di questi laghetti abbiamo assistito alla scena di una bambina che, volendo fare il bagno insieme ad altri ragazzini, ha chiesto il permesso a suo padre il quale dovrebbe averle detto di andare a mettersi il costume da bagno. Infatti dopo poco la bimba è tornata con un pesante abito con cappuccio sopra quello che già portava ed ha così potuto fare il bagno con gli altri… Durante la nostra permanenza nel paese non abbiamo mai visto alcuna donna fare il bagno in pubblico. Al massimo, completamente vestita di nero, qualche mamma seguiva i bimbi più piccoli dentro l’acqua sino alle caviglie, mentre marito e figli nuotavano beatamente.
Durante l’escursione in una delle piscine naturali più belle, con uno stupendo panorama che spaziava fino al mare sottostante, Paola si è fatta male ad un piede, battendolo contro una roccia tanto che, non potendo camminare, l’ho dovuta portate sulle spalle durante il ritorno in salita, tra le rocce. In quel frangente ho potuto constatare come una dieta vegetariana non sia automaticamente associabile alla leggerezza.
Il giorno seguente, il piede è ritornato a posto, semplicemente battendolo ancora contro una roccia, come nei cartoni animati dove l’effetto di una botta in testa viene annullato da una successiva.
Meno male, non sarebbe stata piacevole la continuazione del viaggio, nell’ipotesi che un dito fosse fratturato come avevamo temuto.
Nel pomeriggio, finalmente abbiamo ricevuto la buona notizia che i nostri biglietti aerei erano pronti, grazie ad un amico di Abdulwaasa alla Yemenia che è riuscito a farli saltar fuori dalla lunga lista d’attesa. E’ andata bene, perché cominciavamo a preoccuparci seriamente di non poter arrivare in tempo a Sana’a per il volo di rientro in Italia. Il 28 giugno, ultimo giorno a Socotra, l’isola ci ha voluto salutare mostrandoci il meglio di sè. Intanto l’assoluta assenza di vento ci ha fatto gustare appieno la giornata a Delesha Beach con bagni e sole, poi abbiamo potuto vedere un albero bottiglia con lo strano cespuglietto di fronde pieno di grandi fiori rossi, una rarissima fioritura fuori stagione e, dulcis in fundo, una colonia di delfini a pochi metri dalla riva ci ha sorpreso con salti e giochi. In effetti stavano cacciando un branco di sardine che saltavano anche loro fuori dall’acqua nel tentativo di sfuggire ai predatori. Wasà ci ha detto che questo è uno spettacolo comune durante la stagione giusta, ma in questo periodo era invece molto insolito, “you are very lucky…”.
Alla fine del pomeriggio abbiamo fatto un’interessante visita al Research Centre, un centro di ricerca statale che ospita in un vivaio le specie botaniche di Socotra oltre a conchiglie, carapaci di tartarughe e mandibole di squali. Ospitati dal direttore, abbiamo goduto un po’ di relax mangiando datteri e bevendo uno strano caffè dall’aspetto di una tisana, fatto con chicchi non tostati.
La sera, ultima cena, con pesce alla griglia, fagioli e … Un ospite inatteso, una capretta che girando tra i tavoli è stata dapprima adottata al tavolo dei francesi ed è poi venuta a prendere il dessert da noi.
Una curiosità: a Socotra non ci sono cani. Si dice che gli abitanti non amino il loro abbaiare e ne abbiano paura tanto che non ne hanno mai importato uno dal continente. Gli unici animali da compagnia, qui sono appunto le capre.
La mattina del 29 giugno, accompagnati dai nostri amici Wasà e Waheed, siamo tornati nel piccolo aeroporto di Haidibu per prendere l’aereo. Nonostante la nostra ormai pluriennale esperienza di viaggi, credo che senza l’aiuto di Wasà non saremmo stati in grado di fare il check in: l’unico banco era letteralmente assalito da una folla di persone vocianti che tendevano il braccio protendendo il biglietto davanti al viso dell’impiegato che ne prendeva qualcuno a caso, compilava a mano la carta d’imbarco che rimetteva nella stessa mano rimasta in attesa Altrettanta confusione avveniva alla consegna dei bagagli, composti da un’enorme quantità di scatoloni di tutte le dimensioni legati con spago o nastro adesivo, che dovevano essere stivati a bordo. Il nostro amico ci ha fatti accomodare sulle poltroncine della sala d’attesa e si è tuffato come un’anguilla nella calca, uscendone poco dopo con le nostre carte d’imbarco già pronte. Grazie anche per questo, Abdulwaasa, veramente una guida insostituibile! Poco dopo, stesse scene al momento dell’imbarco. Senza alcun rispetto per la coda, tutti si accalcavano alla la porta d’uscita verso l’aereo in attesa, tanto che alla fine della coda siamo rimasti noi ed il gruppo di francesi a guardarci divertiti. Ma, come si dice, beati gli ultimi! Quando siamo entrati nel velivolo, tutti i posti erano ormai occupati ed abbiamo “dovuto” fare il volo in prima classe! Dopo uno scalo ad Al-Mukalla siamo arrivati nella capitale. Fuori dall’aeroporto abbiamo ritrovato il buon Yahya, che ci ha accompagnato in città al nostro albergo, ancora il Sayun. Naturalmente abbiamo concordato con lui il passaggio fino ad Al-Hudayda, per il giorno successivo. Vista l’impossibilità di visitare Shihara, ancora preclusa ai viaggiatori per questioni di sicurezza, avevamo deciso di trascorrere l’ultima settimana nella zona a sud di Sana’a, sul Mar Rosso.
Abbiamo passato il pomeriggio a perderci nella città vecchia, sempre affascinante, dove abbiamo fatto molte foto, seguiti da un codazzo di bambini incuriositi dalla nostra presenza. La sera abbiamo cenato al Palestine, uno dei ristoranti consigliati dalla LP, dove finalmente abbiamo potuto cambiare menù, cane e omelette dopo l’abbuffata di pesce e fagioli dei giorni precedenti.
Yahya si è presentato la mattina dopo con la sua Toyota lustrata e con i nostri permessi che ci consentivano di viaggiare per tutta la settimana successiva, fino ad Al-Khawkha, il punto più meridionale che avremmo toccato.
Abbiamo percorso i 170 chilometri di strada fino alla costa, visitando alcuni villaggi di montagna molto interessanti, tra i quali Manakhah col vicino santuario ismailita di Al-Khutayb abbarbicato in cima ad una roccia, meta di frequenti pellegrinaggi anche dall’India. All’interno, in quanto non mussulmani, non siamo potuti entrare, ma la salita del centinaio di scalini scolpiti nella roccia è stata ripagata da un panorama stupendo dei villaggi fortificati circostanti.
Un altra meta da non perdere è stata Al-Hajjarah, villaggio risalente all’XI secolo, rimasto praticamente intatto e considerato uno dei più belli dello Yemen. Percorrendo le stradine strette tra le alte case a torre, fino alla imponente porta d’accesso, sembrava di essere tornati nel medioevo. Sporgendoci dai camminamenti abbiamo potuto vedere il sottostante quartiere ebraico di Al-Ba’aha ormai diroccato e abbandonato e le coltivazioni a terrazza nelle vicine campagne che consentono agli abitanti di sfruttare al massimo l’arida terra sabbiosa.
Dopo un pranzo tradizionale, in un ristorante che ci ha offerto pure uno spettacolo di musica e danzatori, nel primo pomeriggio del 30 giugno, siamo arrivati sul mare, ad Al Hudayda. Abbiamo salutato Yahaya che sarebbe ritornato subito indietro e siamo andati a rinfrescarci nella nostra camera dell’hotel Al-Jazeera. O almeno così pensavamo, perché invece mancava l’acqua. Dopo due ore passate nell’attesa che sistemassero il problema senza riuscirci, nonostante tutte le assicurazioni dei vari “ten minutes, please…”, abbiamo ripreso i bagagli e ci siamo trasferiti all’Al-Fakhama, uno degli hotel consigliati dalla guida, bello, direttamente sul lungomare, solo un po’ caro (6.500 rials).
Un primo giro per la città non ci ha emozionati, la città, polverosa e caotica come qualunque altra, non è riuscita evidentemente a mostrarci la sua “anima”. Vale comunque la pena di passare per Al Hudayda solo per vedere il suo famoso mercato del pesce, che si svolge ogni mattina di fronte al porticciolo dove sono attraccati i variopinti pescherecci di altura.
La mattina del primo luglio siamo entrati quindi nel mercato, animatissimo e colorato. I compratori si mettevano in cerchio davanti alle casse ricolme di cernie giganti, razze, aguglie, pesci martello e squali di ogni dimensione e crostacei, contrattando i prezzi con gesti rituali e guardandosi in cagnesco. A noi queste contrattazioni sembravano fin troppo animate, sempre sul punto di degenerare in rissa, ma alla fine si concludevano con l’accordo siglato da grandi pacche sulle mani ed ampi sorrisi. Come sempre eravamo gli unici visitatori, così la gente ci indicava dove erano i pesci più grandi e più belli da vedere. Anche i pescatori erano fieri di mostrarci le loro prede più grandi e volevano che scattassimo loro delle foto, per le quali si mettevano in posa per noi.
Siamo così arrivati davanti ad una scena magnifica e terribile nello stesso tempo. Dalla stiva di un barcone stavano tirando fuori quattro grandi squali bianchi con l’aiuto di una gru. Gli enormi predatori ormai vinti, venivano issati in alto e caricati sul cassone di un camion che li avrebbe portati a destinazione per essere sezionati e venduti a pezzi. Le bocche insanguinate che mostravano le fila di centinaia di denti aguzzi, facevano ancora una certa impressione e Tommaso, allo stesso tempo affascinato ed impaurito, commentava con grandi gesti le sue impressioni con i ragazzini divertiti che erano lì radunati, più interessati a noi che agli squali.
Abbiamo continuato ancora un po’ a girovagare tra i cumuli di pesci accatastati a terra, poi, quando la dose di sangue e di animali morti ha superato il limite per Paola, ce ne siamo andati. Al-Hudayda non aveva niente altro da offrirci, quindi abbiamo deciso di andare più a sud, fino a Zabid.
Zabid è una antica città fondata nell’VIII secolo da un califfo ed è diventata celebre per le scuole coraniche (madrasse) dove era approfondito lo studio islamico e scientifico, tanto che si fa nascere qui l’algebra (Al-Jabr), termine coniato da uno studioso di questa disciplina nella moschea di Al-Iskandar.
La città è cinta dalle mura originali con alcune delle sue porte ancora in piedi ed è rimasta intatta con i quartieri suddivisi tra dignitari e studiosi e le diverse categorie professionali tra le quali erano rinomate quelle dei tintori e dei tessitori. All’interno delle mura ci sono circa una ventina di moschee e più di cinquanta madrasse. La città si può vedere, così com’è ancora oggi, nel film di P.P. Pasolini “Il fiore delle mille de una notte” ambientato quasi interamente proprio qui. Zabid è anche considerata uno dei posti più caldi della terra e noi eravamo lì il primo luglio.
Non ci sono mezzi pubblici per raggiungerla, quindi da Al-Hudayda abbiamo dovuto prendere un taxi che ci ha scucito ben 6000 rials. Durante i cento chilometri di viaggio, siamo passati nel bel mezzo di una tempesta di sabbia e abbiamo dovuto tenere i finestrini alzati mentre la macchina percorreva la strada a forte velocità, infilandosi dentro una nube marrone e luminosa che offuscava l’orizzonte. Alla fine siamo arrivati fino all’unico albergo della città, appena fuori le mura, vicino alla porta Bab Ash-Sabariq, il Zabid Tourism Resthouse che è risultato essere un po’ tetro e non troppo pulito, ma ci siamo dovuti adattare.
Una volta fuori, ci sembrava di essere in una città fuori del tempo e nel caldo opprimente non riuscivamo neanche a trovare qualcosa che somigliasse ad un negozio dove comprare una bibita fresca. Poi abbiamo incontrato Omar, un ragazzo di 15 anni che si è offerto di farci da guida facendo in modo che la nostra prima impressione cambiasse completamente, così che la permanenza a Zabid sarebbe diventata uno dei momenti topici di questo viaggio.
Omar ci ha guidato tra i vicoli della città, a visitare le antiche botteghe degli artigiani i quali si fermavano volentieri a parlare con noi con le solite frasi “where you come from…” e “nice to meet you, welcome, very welcome in Yemen”, con una sincerità autentica che ci ha commosso. Abbiamo anche condiviso una fumata al narghilè con un signore che ci ha invitato a sedere con lui.
In un paio di occasioni abbiamo avuto la possibilità di visitare le abitazioni nel loro interno, accolti dai padroni di casa che ci offrivano bibite fresche. Naturalmente in queste visite ci era precluso l’ashram, la parte della casa riservata alle donne che per noi erano del tutto invisibili. In un caso però, durante la visita di un’abitazione tra quelle che servirono da set al film di Pasolini, mentre io e Tommy visitavamo col proprietario le stanze “aperte ai visitatori”, Paola è potuta entrare nella parte riservata alle donne. All’interno, queste vestono abiti dai colori vivaci e non portano alcun velo. Mogli, fino a quattro, sorelle, figlie e madri, vivono così insieme e solo lì, sono libere di dire e fare quello che vogliono, unica zona franca dall’influenza degli uomini. Paola è stata accolta con piacere e mentre una ragazza le disegnava con l’hennè, complicati disegni di benvenuto sul palmo di una mano, le altre cercavano di chiedere notizie ed informazioni alla “strana” visitatrice.
Sempre in compagnia di Omar abbiamo potuto visitare le due principali moschee della città. Pur essendo vietata la visita ai non mussulmani, invitati dal nostro accompagnatore siamo potuti entrare ugualmente. Unica raccomandazione, se qualche anziano imam ci avesse chiesto qualcosa, avremmo dovuto rispondere con una frase che doveva significare qualcosa del tipo “sono un fedele”, ma era talmente complicata che l’abbiamo dimenticata nello stesso momento in cui ci veniva detta. All’interno nella frescura e lontano dall’accecante luce del sole, i colori predominanti erano il bianco ed il verde, sui muri erano scolpite le sure del Corano e una cripta riccamente intarsiata indicava la direzione della mecca dove i fedeli rivolgono la preghiera guidati dall’imam che sta in piedi sopra un soppalco raggiungibile tramite una stretta scalinata. Nel momento della nostra visita era l’ora del riposo, qualcuno dormiva sdraiato sui tappeti e alcuni religiosi accovacciati a terra stavano studiando degli scritti, così nessuno si è interessato a noi. In una delle moschee abbiamo incontrato gli allievi della scuola coranica che ci hanno concesso di fare una foto tutti insieme. Veramente una bella esperienza; questa giornata sarebbe destinata a ricordarci immediatamente il viaggio nello Yemen.
Quando si ripensa ai viaggi fatti, ad ognuno di noi viene in mente per prima un’immagine, quella rimasta nel cuore che non necessariamente corrisponde ad una situazione eclatante o ad un luogo particolarmente famoso, ma è qualcosa legato ad un ricordo che identifica, solo per se stessi, quel paese e non è facilmente condivisibile con altri che non hanno avuto la stessa esperienza. Oggi, quando ripenso allo Yemen ho per prime, nella mia mente, le immagini di Zabid.
La sera, dopo un’ottima cena a base di montone grigliato (e fagioli), siamo andati al mercato notturno del qat, lungo la strada per Aden, dove attorno ad una decina di capanne illuminate dalle lampade a gas si accalcavano gli abitanti della città che discutendo lungamente sul prezzo, sceglievano le foglie più tenere per la masticata del giorno seguente. La presenza di tanto pubblico ha favorito il nascere di bancarelle di dolci, frullati (ottimi come al solito) e kebab, oltre a venditori di stoffe, jalambye e cassette musicali; una specie di fiera che si anima ogni sera intorno alle magiche foglioline, della quale per una volta anche noi siamo stati un’attrazione, vista la quantità di persone che ci guardava con curiosità, ci veniva a stringere la mano o ci chiedeva di essere fotografata.
Il giorno seguente abbiamo passato la mattina nella visita del Nasr Palace, all’interno della cittadella fortificata. E’ un enorme palazzo, antica dimora di un imam, diventata come altre un museo, a testimonianza della vita da nababbi che questi signori feudali facevano fino a qualche decina di anni or sono. Unici visitatori, siamo stati accompagnati dalle guide nelle varie sale dove erano in mostra utensili e vasellame, abiti e oggetti appartenuti agli antichi proprietari oltre alle armi e quello che restava di una delle auto dell’imam, una vecchia Ford degli anni 30.
Con la mediazione di Omar abbiamo poi concordato il passaggio in taxi fino all’ultima meta del nostro viaggio: Al-Khawkha un villaggio di pescatori sul mar Rosso con alcuni complessi balneari dove avremmo passato gli ultimi tre giorni per un po’ di relax prima di rientrare a casa.
Avremmo voluto visitare il mercato di Beit Al-Faqih, secondo la guida uno dei più importanti della regione, però non era il giorno giusto, allora visto che era di strada ci siamo fermati brevemente al mercato di Hays, ma non era nulla di diverso da quanto non avessimo già visto ed abbiamo preferito proseguire fino al Moka Marine Village, un paio di chilometri fuori Al-Khawkha.
La guida diceva: “…Composto da una decina di bungalows tradizionali, distribuiti in un delizioso giardino fra le palme, è un posto bellissimo, tranquillo e ben gestito, ideale per chi vuole riprendersi dalle fatiche del viaggio…” ed era proprio così, ho riportato la frase esatta perché non c’è altro da aggiungere, se non che è direttamente sul mare che si raggiunge dal giardino con tettoie e comodi canapè per sdraiarsi a leggere un libro e che, come al solito, eravamo gli unici turisti. Il proprietario è un gentilissimo ingegnere in pensione che, dopo aver lavorato per anni in Francia, è tornato nella sua terra e gestisce il villaggio col figlio. Ha grandi progetti di ampliamento e nei giorni successivi ci avrebbe fatto visitare i terreni limitrofi spiegandoci dove avrebbe messo la piscina, nuovi bungalows in mezzo alle palme, un anfiteatro per gli spettacoli ecc… L’unico neo era che l’energia elettrica, fornita da un generatore, era disponibile solo ad orari prestabiliti, ma ci saremmo abituati in fretta.
Era il 2 luglio, ci aspettavano alcuni giorni di riposo e snorkeling nel mar Rosso quindi ci siamo affrettati a raggiungere la spiaggia per il primo bagno. Attraversando la laguna che dovevamo guadare per raggiungere il mare, abbiamo fatto il primo incontro imprevisto, una bella razza dai riflessi arancione che, semisepolta nella sabbia si è lasciata docilmente accarezzare mentre ondulava lentamente la pinna che la circonda, con grande soddisfazione di Tommy, appassionatissimo di animali di tutti i tipi. Avremmo visto spesso le razze sfrecciare sotto i nostri piedi sollevando nuvole di sabbia nell’acqua bassa della laguna, ma non ci è più capitato di accarezzarne una.
La spiaggia non era molto grande e neanche troppo pulita, ma era tutta a nostra disposizione. Solo in lontananza vedevamo alcuni capanni dove i pescatori arrivavano ogni tanto con le loro barche affusolate, ma nessuno ci è mai venuto a disturbare. A parte i loro cani.
Nel villaggio vicino ce n’erano molti, tutti dello stesso tipo, probabilmente fratelli o cugini tra loro. Vistici come nuovi intrusi nella “loro” spiaggia sono venuti verso di noi in gruppo abbaiando con quel fare misto tra coraggioso e codardo che hanno i cani non addestrati. Abbiamo dovuto tenere a freno l’esuberanza di Tommaso che, imprudente quando si tratta di animali di ogni specie, voleva correre loro incontro per accarezzarli. Li abbiamo ignorati e dopo poco ci hanno lasciato fare il bagno in pace con i pellicani, le sule e i gabbiani. Abbiamo passato il resto del giorno sulla spiaggia prendendo il sole e tuffandoci in acqua quando la sensazione di caldo sulla pelle diventava meno sopportabile, Tommy cacciava i granchi fantasma che si avventuravano fuori dal loro buco nel bagnasciuga o pescava i cetrioli di mare durante i suoi lunghi bagni.
La sera siamo andati a Al-Khawkha che si raggiungeva percorrendo un paio di chilometri di una strada sterrata attraversando alcuni gruppi di casupole di terra e paglia dei contadini. Abbiamo incontrato un gruppo di bambini che trasportava, portandolo a turno sulle spalle, un pesante sacco di patate, così Tommaso si è offerto di portarlo anche lui per un po’conquistandosi la simpatia dei suoi coetanei. Naturalmente è andata a finire che ho portato io il sacco per quasi tutto il tragitto … Anche qui avremmo avuto modo di apprezzare la consueta cordialità delle persone che ci avvicinavano con curiosità e ci salutavano dandoci il benvenuto. Noi cercavamo di contraccambiare rispondendo con le poche parole in arabo che conoscevamo, suscitando così ancora maggiore considerazione. Ovviamente anche qui eravamo gli unici stranieri in giro.
Il paese non aveva gran che da offrire (a parte le mosche in grande quantità!) così dopo un giro tra i banchi del mercato e la cena sui traballanti tavolinetti di un piccolo ristorante “sgarrupato” a base di carne di montone e omelette, era ormai buio e dovevamo tornare al nostro village.
Cercavamo un taxi, e ci hanno indicato un gruppo di motociclette con i proprietari seduti sopra i sellini che parlavano tra loro masticando qat. Abbiamo chiesto di essere portati in albergo: “please, Moka Village… Hotel Moka…”, ma nessuno sembrava capire cosa volessimo. Presto si è formato un capannello di persone che cercava di capirci e ognuno esprimeva la propria opinione tentando di interpretare le nostre richieste. Io mi stavo sbracciando ad indicare la direzione dove si trovava l’hotel, temendo di dover ripercorrere al buio la strada del ritorno, quando a qualcuno si è accesa una lampadina: “funduq mokà?”. Nessuno sapeva l’inglese, quindi la parola magica era appunto funduq, cioè albergo. Sicuramente l’insegna dell’albergo riportava quella scritta in arabo, mentre il suono dei termini hotel village , scritti in caratteri latini che nessuno sapeva leggere, risultava incomprensibile.
Con grandi sorrisi e pacche sulle spalle, siamo saliti su due motociclette che ci hanno finalmente riportato al nostro albergo zigzagando per la via sterrata, probabilmente la cosa più pericolosa che abbiamo affrontato nel nostro viaggio … L’indomani mattina ci siamo svegliati presto, intorno alle 7, allo spegnimento dell’aria condizionata e passeggiando lungo la spiaggia abbiamo assistito al ritorno dei pescatori con le loro barche cariche di pesciolini che avrebbero poi fatto essiccare al sole semplicemente spargendoli sulla strada, con grande soddisfazione di corvi e gabbiani che i cani cercavano di scacciare (ecco la loro funzione!). Avevamo visto spesso nei mercati interi cumuli di questi pesciolini essiccati che sembrano essere molto utilizzati nella cucina yemenita, probabilmente delle famiglie meno abbienti, perché non ce li hanno mai proposti nei ristoranti, neanche in quelli più economici che abbiamo frequentato.
Nel primo pomeriggio abbiamo affittato maschere e pinne e con un barca siamo andati a fare snorkeling per ammirare la molteplicità della fauna marina del mar Rosso. Pur non essendo all’altezza delle più famose barriere coralline di Sharm El-Sheik o di Hurgada, anche nello Yemen si possono ammirare in fondali facilmente raggiungibili anche dai meno esperti, pesci di ogni dimensione variamente colorati che si aggirano tra gli scogli ed i coralli schivando i tentacoli delle anemoni o gli aculei dei ricci.
Più tardi, facendo alcuni tentativi per trovare un buon punto di ricezione per il cellulare, abbiamo appreso la terribile notizia dell’attentato a Marib. Come detto, eravamo stati proprio lì nei primi giorni del nostro viaggio e ricordo di non aver preso troppo sul serio le preoccupazioni espresse dalla nostra guida Abdulwalì. La consapevolezza di essere stati in qualche modo notati e tenuti d’occhio da un gruppo di terroristi ci ha fatto accapponare la pelle. Probabilmente sarà stato un deterrente la presenza di un bambino o magari avranno considerato che eravamo tre soltanto, troppo pochi per “sprecare” un kamikaze … Dopo aver contattato i nostri familiari a casa per rassicurarli, avevamo un’altra preoccupazione: il nostro amico Yahya dopo averci lasciato ci aveva detto che doveva incontrare proprio un gruppo di spagnoli da portare nel deserto. Abbiamo passato la serata nell’ansia prima di avere sue notizie rassicuranti dalla nostra ambasciata e, più tardi, dallo stesso Yahya che ci ha telefonato sapendoci preoccupati per lui. Il nostro sollievo nulla toglie alla totale repulsione verso questi atti ingiusti ed aberranti che attentano la vita di persone del tutto innocenti, magari proprio quelle che viaggiando, cercano di conoscere meglio e di capire le differenze, perché proprio la conoscenza e la reciproca comprensione delle diversità potrà un giorno favorire la pacifica convivenza tra i popoli.
Più tardi io e Tommaso, siamo andati in riva al mare per vedere, alla luce di una torcia elettrica, l’attività notturna dei grossi granchi e dei paguri sulla battigia, peccato che ci siamo persi nel buio e siamo andati a finire un po’ troppo vicino ai capanni dove dormivano i pescatori. I latrati furiosi e qualche ringhio troppo vicino ci ha consigliato di tornare sui nostri passi tenendo a bada i cani abbagliandoli con la luce della torcia… Abbiamo trascorso il 4 luglio tranquillamente in spiaggia e la sera volevamo andare per l’ultima volta in paese per cenare, così ci siamo avviati come il solito verso Al-Khawkha per la strada di campagna che abbiamo percorso per un tratto con Obeida, la cameriera dell’hotel che tornava a casa dopo la giornata di lavoro. Facendosi capire, più che altro a gesti, ci ha invitato a visitare la sua casa dove viveva, essendo vedova, con due figlie. E’ andata a finire che le figlie e la casa le hanno viste solo Paola e Tommaso, perché io non potevo entrare dove vivevano donne sole e sono stato relegato in una specie di garage. Sentivo le chiacchiere e le risate delle donne al di là del muro di paglia e terra, mentre Tommaso rincorreva tutti gli animali da cortile della casa. Ogni tanto Obeida mi portava un bicchiere di chai e mi faceva cenno di aspettare; non vedevo l’ora di andare, ma lei ci ha invitato a cena: pane, the e omelette che ha portato anche a me in un piatto poggiato a terra nella casupola dove ero esiliato. E’ strano l’aver provato l’esperienza di essere escluso, cosa a cui noi maschi, bianchi e occidentali non siamo certo abituati.
Insomma, la cena “vera” al villaggio è andata a monte e siamo dovuti ritornare in hotel a piedi indovinando la via dal tenue chiarore della strada nel buoi più profondo.
Ma ormai i giorni della nostra permanenza nello Yemen erano agli sgoccioli. Il 5 luglio siamo ripartiti dal Mar Rosso per ritornare a Sana’a, via Al-Hudayda. Abbiamo fatto chiamare un taxi dall’hotel e poco dopo colazione si è presentato un tipo mingherlino con un logoro turbante a bordo di un auto della quale non si capiva neanche la marca, tanto era malridotta, arrugginita, senza lunotto posteriore né tergicristalli. Poco male, abbiamo pensato, questi dovrebbero essere l’ultima cosa utile d’estate in questo paese.
Il tassista, viste le nostre facce perplesse, dava grandi manate sul cruscotto dicendo “taman, taman” (buona, buona – la macchina), rischiando così di fare altri seri danni.
Siamo partiti e abbiamo preso così un acquazzone di proporzioni bibliche, l’unico nello Yemen. Per prima cosa ci siamo fermati a sistemare i nostri bagagli in modo che non stessero proprio sotto la pioggia, poi il tassista, data la scarsa visibilità, si è messo a guidare con la testa fuori dal finestrino asciugandosi il viso con il turbante che aveva srotolato dalla testa, inoltre l’acqua è cominciata a filtrare dalle logore guarnizioni del vetro anteriore, sui miei pantaloni, ma ho prontamente ricevuto una coperta per ripararmi dalla pioggia che cominciava a cadere incessante dentro l’abitacolo. Dietro non si stava meglio, Paola era seriamente preoccupata, solo Tommy riusciva a ridere della situazione.
Infine l’auto, o quello che ne rimaneva, si è fermata del tutto. Il tassista dopo qualche tentativo di rimetterla in moto è sceso gridando “gazol, kaput”. Era finita la benzina.
In momenti come questi si apprezza maggiormente la solidarietà tra gli automobilisti. Poco dopo si è fermata una macchina che ha fornito, cavandolo dal tubo di arrivo nel motore, il bicchiere di benzina necessario a raggiungere il primo distributore dove il prode tassista ha fatto rifornimento facendosi anticipare da me parte del prezzo pattuito per la corsa. Senza altri inconvenienti siamo così arrivati a Zabid dove abbiamo cambiato mezzo e, con un comodo pulmino Toyota, abbiamo raggiunto Al-Hudayda. Al momento di pagare abbiamo scoperto che i vari tassisti con i quali avevamo fatto lo stesso tragitto all’andata, ci avevano “fregato” almeno 4000 rial.
Anche stavolta la città non ci ha entusiasmato, così dopo un breve giro siamo tornati nella nostra camera all’Al-Jazeera (che nel frattempo aveva riparato le tubature dell’acqua) a guardare la televisione e preparare le ultime cose.
La mattina del 6 luglio, ultimo giorno nello Yemen, abbiamo preso un bus fino a Sana’a e dopo aver sistemato le valige all’ormai solito Sayun Hotel, siamo usciti a comprare i piccoli oggetti d’argento che avremmo portato per ricordo ad alcuni amici. Ancora una volta nei vicoli della Old Sana’a, annusavamo l’aria e ci riempivamo gli occhi di immagini che presto ci sarebbero mancate.
Alle tre di notte, con un taxi poco migliore del precedente, abbiamo raggiunto l’aeroporto da dove un paio d’ore dopo saremmo decollati per Roma.
FINE