Arabia felix?

La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni. [ "Le mille e una notte" ] Il libro di storia che uso in prima media racconta che la parte meridionale della penisola arabica, culla della religione islamica, già ai tempi dei Romani era denominata Arabia Felix perché l'abbondante acqua, il clima salubre e i porti del Mar Rosso e del...
Scritto da: robinia
arabia felix?
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
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La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni.

[ “Le mille e una notte” ] Il libro di storia che uso in prima media racconta che la parte meridionale della penisola arabica, culla della religione islamica, già ai tempi dei Romani era denominata Arabia Felix perché l’abbondante acqua, il clima salubre e i porti del Mar Rosso e del Golfo Persico avevano permesso il sorgere di ricche città. Questi popoli producevano beni tra i più rari e preziosi come la mirra, l’incenso, i profumi, il pepe, le perle, l’avorio, le sete e l’oro e già nell’VIII secolo a. C. Avevano creato città e stati. La sedentarietà permise loro di sviluppare l’architettura e l’idraulica, al contrario dei nomadi beduini che abitavano la parte settentrionale e desertica della penisola. Allora decido di andarla a guardare da vicino questa terra felice e profumata, tanto più che ormai sono cinque anni che hanno smesso di rapire i turisti.

Gli yemeniti sono proprio un popolo buffo, composto da uomini con il pareo (o al massimo con la camicia da notte), un pugnale legato in vita e una guancia smisurata, e donne di cui si vedono – a volte – solo gli occhi tagliati in un panno nero. Gli yemeniti sorridono e stanno. Stanno accucciati e masticano il qat. Guidano e masticano il qat. Fumano e masticano il qat. Bevono il tè e masticano il qat. Dovunque vai essi stanno. A stare. Al sole. Coi denti storti sorridono. E introducono continuamente foglioline nella guancia deformata. Stanno dal barbiere e tu li guardi da fuori e a un certo punto il barbiere si gira e sorride. E anche lui ha la guancia gigantesca. Stanno seduti per terra e mangiano con le mani intingendo il pane in una misteriosa ciotolina. Se fanno i dentisti espongono una gigantesca insegna a forma di dente. Se commerciano alle volte se ne stanno rattrappiti dentro dei bugigattoli minuscoli insieme alla loro merce e alla loro guancia. Se fanno gli artigiani li vedi lavorare nello stesso angusto scatolone dove vendono i loro prodotti. Se stanno a stare a volte hanno un kalashnikov a tracolla. Alcuni ballano danze monotone accompagnate da cadenzate percussioni, agitando il pugnale nella mano. Se è venerdì disertano le strade e seguono il muezzin la cui voce riecheggia ovunque. Quelli che preparano il pane prendono una palla di acqua e farina, la schiacciano a forma di pizza, gli fanno dei buchini sopra con la forchetta e poi la appiccicano sulle pareti di un pozzo di pietra rovente.

Gli yemeniti spesso mangiano la polvere. Fanno incidenti e precipitano nelle scarpate. Se il radiatore si surriscalda lo ricoprono con una pelliccia sintetica inzuppata di acqua. Amano l’Italia e odiano gli Stati Uniti. Se ti accompagnano in spiaggia giocano con la sabbia come bambini. I bambini ti baciano e ti chiedono una penna. Le bambine ti sistemano meglio il foulard intorno al viso e ti dicono ‘jamila’ così gli dai una caramella. Le donne ti sorridono sotto il burqa se lo indossi anche tu. Oppure, urlando, ti abbassano la maglietta che ti ha lasciato scoperto un centimetro di pancia. Sotto il velo non si capisce bene se anche loro hanno la guancia ipertrofica.

Gli yemeniti vivono in un paese pieno di luce e ombre ben definite, che disegnano figure geometriche sui pavimenti di pietra bianca. Producono vetrate tutte colorate e bruciano incensi profumatissimi. E costruiscono le case ma poi si stancano e le lasciano a metà.

Nella capitale, al mattino presto, si può verificare immediatamente la vivacità dei guidatori locali, che si divertono un mondo a suonare senza pause il clacson e tagliare la strada agli altri automobilisti. Poi: tempo sospeso per ottenere la stanza di gruppo (stile Avventurenelmondo), orologi dell’hotel con tutti gli orari del mondo sbagliati (stile Avventurenelmondo), bottiglia di whisky al corrispondente (stile Avventurenelmondo).

Dopo la colazione a base di uova sode e succo di mango, si parte alla volta del magnifico Dar al-Hajar, il palazzo costruito sulla roccia la cui immagine campeggia sulle bottiglie di acqua Shamlan. L’ex residenza estiva degli Imam è un capolavoro di merletti di stucco bianco e vetrate che proiettano i loro colori sui pavimenti: dalle terrazze si gode un super-panorama sugli altopiani circostanti. Tappa successiva il villaggio di Bayt Baws, piazzato su un’ampia roccia verde, dove una deliziosa bambina mi aiuta con modi meticolosi a sistemarmi il fazzoletto in testa.

Tornati alla capitale, ci immergiamo nell’intricatissimo suq dalla porta Bab-el-Yemen, l’unica rimasta intatta. Da qui ammiriamo per la prima volta, un po’ distratti dal brulichio incessante, gli straordinari palazzi a torre di Sana’a, i “grattacieli” di fango con decori bianchi, arabeschi, balconcini in legno. Il mercato è diviso in diversi settori: il mercato del sale, quello dei bovini, del tornio, delle corde, dell’argento, dei cereali, dei narghilè, della carne, del qat. Si affastellano davanti agli occhi pugnali, cinture dorate, spezie, stoffe, teorie di abiti tutti neri, sciarpe, monili d’ambra, incensiere. Ci togliamo un po’ di sfizi alimentari con frutta secca, dolci, pane con spiedini di carne speziata, tè. Acquisto un burqa e il negoziante mi aiuta a indossarlo con il classico metodo yemenita: la sistemazione prevede sempre una toccatina casuale alle tette. Vicino alla porta un dromedario bendato aziona un rudimentale frantoio di olio di sesamo girandogli incessantemente intorno.

La sera, in un ristorante enorme e stra-luminoso, sono esterrefatta nel vedere uno dei tavoli completamente nascosto da una tenda dai colori pastello e nello scoprire che alle donne è proibito mangiare in pubblico.

Una giornata è dedicata alla visita di Ma’rib, situata a più di 200 km a est di Sana’a, raggiungibile solo con la scorta armata a causa delle tensioni tra le tribù della zona. Sulla strada sempre più affascinante e petrosa ne approfittiamo per una passeggiata a piedi nudi tra le dune di sabbia chiara: è solo un antipasto senza piatto forte poiché Ma’rib è la località più a oriente di tutto il breve viaggio. Se dio vuole ci sarà una prossima volta in cui avanzerò fino ad esplorare il territorio desertico e il rigoglioso Wadi Hadramaut.

Ma’rib è la città più antica dello Yemen, collocata sull’antica via dell’incenso e capitale dell’impero della leggendaria regina di Saba più di 1000 anni prima della nascita di Cristo. La regione è stata lussureggiante per molti secoli grazie alla grande diga, sorprendente opera di ingegneria idraulica, fino al suo crollo nel Sesto secolo. Da allora è cominciato il declino di Ma’rib e del territorio circostante che è tornato ad essere arido e desertico come lo vediamo oggi, nonostante una nuova diga realizzata negli anni ’80 del secolo scorso, ma che non è riuscita a far rinascere la città. Della grande diga resta ben poco poiché la maggior parte delle sue pietre furono utilizzate per costruire la città nuova. Oltre alla nuova e alla vecchia diga, visitiamo il tempio della luna con le cinque colonne e mezzo e quello dedicato al dio sole risalente al periodo sabeo. Mi sento molto protetta perché faccio amicizia con un bellissimo militare baffuto che mi sorride e mi offre la coca cola e l’ingresso gratuito ai templi. Giungiamo al tramonto alla vecchia Ma’rib, tutto uno splendore di case dorate di sabbia e paglia, diroccate e parzialmente distrutte dai bombardamenti più di quarant’anni fa.

In questo pomeriggio di luce intensa e cappotti verdi stile Armata Rossa, in cui si sparge la voce di una frana nelle vicinanze che ha provocato alcuni morti, io mastico il qat. E lo mastico per alcune ore così come fanno loro, per vedere l’effetto che fa. Ma poi sarà la stanchezza o la bellezza o l’eccitazione non riesco a capire l’effetto che fa. Raccontano i consumatori che esso aumenta concentrazione ed attenzione, un po’ come delle leggerissime anfetamine. Il consumo di qat è severamente vietato in tutti gli altri paesi arabi mentre qui è masticato dalla maggior parte della popolazione maschile e da numerose donne. A seconda della qualità ogni masticatore spende dai 500 a più di 1500 riyal al giorno (da 2 a 7 euro) procurandosi seri danni all’intestino e deformandosi le guance.

Sfuggiti a pericolosi agguati (lo stesso giorno hanno cercato di rapire alcuni motociclisti italiani che erano con noi a visitare Ma’rib, e due giorni dopo hanno rapito 5 italiani proprio qui), facciamo ritorno a Sana’a e alla cena al neon dal somalo (riso e pollo e tè al latte). Il quartiere semi buio alle 11 di sera è tutto un lavorio di barbieri che tagliano e sbarbano.

Lasciamo la capitale diretti a nord, verso paesaggi spettacolari, grandi altitudini, tribù bellicose, cittadelle arroccate, conflitti tribali. Sono luoghi dove persistono antiche tradizioni e dove molti uomini ostentano pistole e fucili, facili da reperire anche nei negozi: le ultime guerre civili scoppiate per la riunificazione dei due Yemen – avvenuta nel 1990 – sono piuttosto recenti e dunque molte armi sono rimaste in circolazione.

Facciamo conoscenza con i simpaticisimi autisti, che ci accompagneranno fino all’ultimo giorno al volante di Land Cruiser malandate e sempre sul punto di esalare l’ultimo respiro. Dopo una sosta ad Amran, con le sue particolarissime case di paglia e sabbia e un vivace mercato pieno di arance e tessuti, ci dirigiamo a Shihara, una cittadina arroccata su un cucuzzolo a 2500 metri, famosa per i suoi studiosi e per la valorosa resistenza contro gli ottomani (che non riuscirono mai ad espugnarla). Per raggiungere il “nido delle aquile” il passo non è breve: molta strada polverosa con le jeep e 12 chilometri che durano 2 ore a bordo di pick-up che danno il colpo di grazia alla nostra cervicale. Infatti non è permesso raggiungerlo con mezzi propri perché il monopolio dei trasporti è nelle mani di una famiglia della zona.

Qui su ci si bea col panorama al tramonto e la sera di stelle godute dalla terrazza del funduk Francesca. La proprietaria senza volto della struttura, madre di due bambini splendidi e sbaciucchioni, è divorziata da due anni: ci informano che qui la pratica del divorzio è normalmente accettata. Ci sistemiamo per la notte in due stanzoni muniti di materassini e sacchi a pelo e nell’attesa della cena mi spaparanzo insieme ai masticatori locali con qat, tè e sigarette. Il factotum Yayha, completamente drogato da 12 ore ininterrotte di qat, insospettabile e ritegnoso per tutta la giornata, per la cronaca mi abbranca nel buio cercando di baciarmi. Cena a gambe incrociate e notte irrequieta interrotta all’alba dalla voce metallica di alcuni muezzin non sincronizzati, il primo dei quali sembra che canti Fratelli d’Italia.

L’alba regala foto sorprendenti dalla terrazza e alle 6 siamo già in assetto trekking per scendere a piedi attraversando un minuscolo ponte sospeso su una profondissima gola, che risale addirittura agli inizi del 1600. Ci circondano infiniti terrazzamenti per la coltivazione del qat, una delle fonti principali dell’economia locale (le torrette di pietra che si scorgono qua e là ospitano nottetempo i guardiani delle coltivazioni). Il trekking fascinoso in discesa finisce con un mio impeto di nervosismo nei confronti dei milioni di bambini che vogliono le penne. A quest’ora? Con questo equilibrio precario? Con i quadricipiti ridotti a brandelli? Ma non vi rendete conto? Mo’ vi metto la nota! Torniamo a riconsegnare i pick-up. Il programma ora prevedeva di avanzare verso nord fino a Sa’da, ma ci informano che l’ingresso ai turisti è interdetto; nell’appressarsi del cenone di fine anno dunque facciamo rotta verso la cittadina fortificata di Thula, racchiusa nella antiche cinte murarie, dove subito ammiriamo un paesaggio mozzafiato di tetti al tramonto dalla terrazza dell’unico funduk, dove dormiremo. Qui guide e negozianti parlano italiano e possono essere piuttosto ossessivi. Visitiamo una delle 25 moschee (aiuto!) presenti in città, la cisterna e alcuni dei numerosissimi negozi di souvenir e oggetti antichi. Si spera di fare una doccia mentre gli altri sono all’hammam (senza esito) e poi si cena. Sbrigative le cene yemenite: mischi riso e pollo e verdure ed è andata. Poiché gli alcolici sono vietati in tutto il Paese, era prevedibile che ci fosse un traffico clandestino di lattine di Heineken calda, vendute allo straordinario prezzo di 4 euro l’una, che qualcuno di noi paga senza battere ciglio nonostante l’assurdità dell’operazione. Per farla breve, l’ultimo dell’anno prevede danze tradizionali a lume di neon e altrettanto tradizionali panettoni e torrone e spumante appositamente portati dall’Italia (di cui avrei fatto volentieri a meno). Qui al nord le feste sono tristissime perché mancano le donne, sembrano le feste delle medie degli sfigati; invece pare che al sud ci si diverta perché uomini e donne ballano insieme.

La mattina dopo rinuncio alla visita alla fortezza per motivi di orario e di sonno e mi consolo con l’acquisto di due pugnali di ambra. Tra le illazioni e le battute a doppio senso della popolazione locale, riusciamo a districarci alla volta di Hababah (grande cisterna dove la gente attinge l’acqua, pacifici cammelli, un originale palazzo colorato: incantevole). Poi raggiungiamo l’abbarbicata cittadella di Kaukaban da cui intraprendiamo un trekking di un’oretta sulle pendici del monte omonimo scendendo alla volta di Shibam. Qui sostiamo per il pranzo in un funduk con diverse stanze in una delle quali ci fanno accomodare a piedi nudi per terra, su tappeti cosparsi di avanzi di riso. Ormai non faccio più caso ai dettagli e mangio con le mani anche se ci danno le forchette.

In serata giungiamo ad Al-Hajjara, in un nebbione fantasy à la Harry Potter, situata su una collina a sud-est tra i monti Haraz, zona di miele e trekking. È andata via la luce in tutta la zona e apprezzo la suggestione del lume di candela. Giunge voce che sono stati rapiti 5 italiani e comincia la girandola di sms preoccupati: mia madre per scaramanzia fa finta di non sapere nulla e mi scrive chiedendomi com’è il tempo e se mi sto divertendo. Dopo la succulenta cena sono richiestissima al ballo. Il cielo, senza l’inquinamento luminoso, è pieno di stelle.

Al risveglio è previsto un trekking ma do forfait. Stendo il bucato sul terrazzo assolato e mi godo la compagnia degli autisti temporaneamente sfaccendati che bevono il tè e chiacchierano. L’atmosfera è così pacifica che ti vien voglia di mandare a quel paese tutti i tuoi punti di riferimento della vita vera e restare qui. Così. A stare. È il momento per apprendere alcune caratteristiche della vita quotidiana in questo paese così felice e lucente. Per esempio perché alcuni portano il pareo ricamato e altri il camicione? Semplice: il pareo è tipico del sud e il camicione del nord. E quali sono le differenze tra una jambiya (il pugnale a lama curva che tutti gli uomini indossano) e l’altro? Non certo il fodero bensì il manico, che può essere di corno di rinoceronte, d’avorio, di pietre preziose, d’argento e può arrivare a costare moltissimo. I ragazzi già dai dodici anni ne possono indossare uno. Mi sforzo di trovare un equivalente occidentale dell’accessorio e propendo per la cravatta, simbolo fallico anch’esso ma nettamente meno bellicoso. Apprendo anche che le donne nella “provincia” sono rintanate in casa a sbrigare le loro faccende, ma nelle grandi città lavorano e studiano all’università. Portare il velo è una loro scelta, mi riferiscono: in pratica è una tradizione che a loro piace molto; nei luoghi pubblici esse scelgono liberamente di presentarsi in total black look ma in casa indossano abiti coloratissimi e seducenti. La scuola è – teoricamente – obbligatoria fino ai tredici anni, anche se abbiamo verificato che nelle zone più povere specialmente di montagna molti bambini non la frequentano. Oltre all’arabo studiano l’inglese e non vedono l’ora di sfoggiarne la conoscenza quando incontrano dei turisti.

Raggiunti dai reduci del trekking pranziamo all’aperto ricoperti di piz buin come se fossimo in un volgarissimo rifugio di montagna a riposarci dalla sciata. Prima della partenza una passeggiata nel meraviglioso villaggio con annesso agghiacciante intermezzo shopping e gli agguati delle guide bambine che ci perseguitano.

Ci spostiamo a occidente verso le coste affacciate sul Mar Rosso e il paesaggio muta nettamente: compaiono tropicali banani e vegetazione finalmente rigogliosa grazie alle temperature più alte e all’umidità. Una sosta in un misero villaggio ci dà l’impressione di essere già in Africa, con le capanne e i bambini con la pelle scura e tutti gli animali insieme. Dopo il rapimento la polizia si prende cura di noi scortandoci e azionando la sirena. Al-Hodeida è molto diversa da tutto ciò che abbiamo visto finora: ampi viali, concessionarie d’auto, grandi alberghi, un moderno ospedale, negozi luccicanti. È certamente la città più “occidentale” – e dunque familiare. La cena in un ristorante di pesce frequentato da giovani in jeans e felpe, ma che – paradosso – ha la sala separata in cui le donne cenano dietro le solite tendine da ginecologo (rosa) dove i camerieri devono servire la coca cola dall’alto. Ottimo pesce purtroppo semi coperto da una salsa piccantissima. L’odore del mare arriva sulla strada. È qui che apprendiamo che i rapiti sono nostri compagni di Avventure. Senza giornali e telegiornali risulta difficile cogliere la gravità della situazione e condividere il clima di panico, anche se una costosa telefonata intercontinentale me ne dà il sentore. Lo shopping notturno regala soddisfazioni ai più e in hotel il video dell’artista locale con la kefiah circondato da paccottiglia natalizia (pupazzi di neve, alberi ricoperti di luci, pacchi dono) mi fa addormentare con il sorriso sulle labbra mentre il ventilatore gira.

Al mattino è d’obbligo la visita al mercato del pesce: visi simpatici dei pescatori, pescherecci dai colori squillanti, enormi cesti e cappelli di paglia. Nella passeggiata sulla spiaggia veniamo circondati da ragazzini che implorano una foto mentre tra i banchi odorosi si svolge l’asta per aggiudicarsi i pezzi migliori e tutti sbraitano con i soldi in mano. Poi via, verso Beit Al-Faqih e il suo famoso mercato dove sono concentrate tutte le mosche e la polvere e la spazzatura dell’universo. Il problema della spazzatura è davvero serio, la plastica abbandonata deturpa i paesaggi più belli: mi raccontano che uno dei motivi principali di questo scempio, oltre all’abitudine di buttare dal finestrino qualunque involucro (che fino a qualche tempo fa era biodegradabile e adesso non più), è la pratica del qat (ancora!) che viene consumato da bustine di plastica nere o rosse o verdine poi abbandonate ovunque. Nonostante ciò vengo attratta da meloni datteri pesce sfrigolante cammelli galline polpette. Beit Al-Faqih era un importantissimo centro per il commercio del caffè, che veniva poi spedito dai porti di Al-Hodeida e Al-Mokha (da cui deriva la parola moka).

Prossima tappa Zabid, considerata una delle città più calde della Terra (meno male che è gennaio), dove raccontano che fu inventata l’algebra. Qui Pasolini ha girato diverse scene del “Fiore delle mille e una notte”, e lo scenario è più bianco di calce, appannato di polvere, comodo di seggioloni in vimini intrecciato, ombroso per ripararsi dalla calura. Sostiamo in un palazzo privato dove le donne ci dipingono le mani con l’henne e dove prendiamo il tè in una stanza di legno e cuscini e finestre colorate. Visitiamo un ossimorico museo senza luce, al’interno della cittadella del palazzo dell’Imam, dove la polvere mulina incessantemente. Il pranzo si svolge in uno di quei posti in cui pensi che vorresti essere solo e lasciato lì per molte ore all’ombra su questi letti di legno e vimini intrecciato, con l’omino sorridente che ti porta il tè alle spezie.

Il tramonto verrà ammirato in un villaggio sul mare fatto apposta per riconciliare le coppie in crisi – informa (ironica?) la Lonely Planet – il Moka Marine Village nei pressi di Al-Khawkha: palme, spiaggia chiara, aironi che ti accolgono nella passeggiata spazzata da un vento potentissimo. A dicembre comincia la stagione dei datteri e ogni pomeriggio si alza un vento carico di sabbia, utile appunto per la crescita di questi frutti. Per la mattina dopo però possiamo essere sicuri che si sarà calmato. Cena a base di pesce, aria di mare, chiacchiera della buona notte con delle guide finalmente parlanti inglese, che spettegolano sul corrispondente di Avventure il quale a detta loro per risparmiare ci fornisce autisti only arabic.

Oggi abbiamo deciso di dare spettacolo in spiaggia: i nostri bikini sono l’attrazione della giornata per gli sfaccendati locali che stanno, guancia sulla mano e sguardo fisso. Anche gli “impiegati della dogana”, che dovrebbero sorvegliare sull’arrivo di clandestini dalle vicine coste del corno d’Africa, preferiscono lo show al lavoro. Come dargli torto? Piz buin, conchiglie giganti e un tuffo nel mare traboccante di spazzatura. Con entusiasmo accogliamo l’idea di un giro in barca divertentissimo con tutti gli autisti in mutandoni e tuffi e goffi tentativi di risalire a bordo alla maniera dei tonni.

Prima del ritorno a Sana’a dedichiamo l’ultima giornata ad uno spot di sud, senza purtroppo giungere ad Aden, sull’Oceano Indiano. La strada è lunga per raggiungere Taizz, una città con un passato glorioso e antico e allo stesso tempo una di quelle che si è più ampliata negli ultimi anni. L’ultimo tratto di strada la percorriamo al seguito di un’auto della polizia a sirene spiegate che ci fa superare tutto il traffico clacsonante. Mi pervade un’inquietudine strana, anche perché ci attende una folla quasi aggressiva all’hotel e poi al suq rapinano due membri del gruppo di un cellulare e un portafogli e infine c’è il cesso alla turca in camera. Nonostante tutto ciò il mercato è bello e meno costoso che altrove: formaggi di latte di vacca, pugnali, spezie. Cena dal simpatico fasolaro Zaccaria che ci apparecchia con fogli di giornale freschi di bucato e ci serve innumerevoli ciotole di terracotta piene di zuppe e omelette a prezzi popolari. Sulla via del ritorno in hotel un poliziotto ci fa segno di affrettarci.

Lasciamo Taizz diretti a Sana’a. Ultimo viaggio della speranza, appena in tempo! Le Toyota cominciano infatti ad avere seri problemi: pneumatici bucati, radiatori agonizzanti e conseguenti traslochi e agglomerati umani nella stessa auto. Prima di lasciare la città visitiamo la moschea di Al Asraffiya dai due minareti e la moschea di Al-Jamal a pochi chilometri da Taizz, risalente al VII secolo, dove parte del gruppo si dedica ad una partitella di pallone con gli scugnizzi locali. Passeggiata nella splendida Jibla, regno della regina di Arwa, cittadina rimasta fascinosamente identica nel tempo, altro scenario pasoliniano. Abbiamo modo di visitare un’altra moschea e di conoscere fanciulli pieni di fiori gialli e già pronti per diventare protagonisti delle nostre foto. Dopo il pranzo a Ibb, altro importante centro yemenita, in serata raggiungiamo la capitale dove – come se nulla fosse accaduto – recuperiamo la vecchia abitudine di cenare dal somalo con i suoi neon e le patate fritte. E forse nulla è successo, il tempo si avvolge su sé stesso.

Ultimo giorno a disposizione per consumare nel suq i riyal avanzati. C’è aria di festa in Old Sana’a ma non sono i saldi di gennaio: mancano pochi giorni all’Eid’ Al-Adha, la festa islamica “del montone” che commemora la sottomissione di Abramo disposto a sacrificare il figlio Ismael. Mentre provo abiti lunghi total black e burqa giunge la notizia della liberazione degli ostaggi italiani, giusto in tempo per il volo di domani. Il suq all’improvviso sorride tra gioielli frutta secca narghilè incenso e mirra. Incontro conoscenti come se fosse il 24 dicembre e stessi in via Sparano a Bari. Trascorriamo un paio di ore liete sulla terrazza dell’Hotel Taj Talha con vista sui tetti di Sana’a, bevo un tè e chiacchiero con un documentarista austriaco ma residente a Lugano che è venuto qui con la sua bicicletta. Nella frenesia degli acquisti rimedio una lampada in gesso bianco con intarsi colorati, una sciarpa-tovaglia a strisce orizzontali e alcuni scialli neri. Ultima cena in un ristorante siriano freddissimo dove mangiamo pietanze fritte mediterranee indigeribili.

Sul volo Yemenia, poco prima del decollo una voce dall’altoparlante del velivolo scandisce due volte: “I cinque italiani reduci dal rapimento vengano in prima classe”. All’arrivo a Fiumicino siamo accolti da tutte le televisioni, ma nessuno pare ansioso di conoscere la mia opinione. Tornata a Omegna nemmeno una telecamera di Verissimo si è dimostrata interessata ad intervistarmi. Tanta fatica per niente. Non solo. Gli amici e i conoscenti mi hanno rimproverato per essere andata in un posto tanto pericoloso e il Codacons ci ha chiesto di coprire le spese sostenute dal governo italiano per liberare i rapiti. [ Tutti i diari di robinia sono su www.Robiniaonline.It]



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