Riti, miti e mitomani
E se tanti sono i momenti della giornata in cui l’anima si stacca improvvisamente dalle attività e ricorda la sua originaria, cristallina natura, ben vengano un tempietto in ogni quartiere e un altarino ad ogni incrocio. Quello della nostra locanda a Yogyakarta, all’ombra d’un banyan decorato da felci a corna di cervo, riceve offerte di fiori freschi ogni giorno. Non che i fiori manchino, qui. Quelli del frangipane sul prato sono solo caduti, ma sembrano essere stati sparsi per accogliere gli ospiti. Qui siamo giusto qualche grado sotto l’equatore, in un’eterna estate, per il tripudio della vegetazione, che cresce a dismisura, e degli stressati, in spiaggia tutto l’anno. Sembrano presine da cucina quelle che adornano l’edicola, ma al centro uno specchietto rotondo ha il compito di riflettere, spaventandoli, gli orridi spiriti malvagi. Un gonnellino di saput poleng, un tessuto a scacchi bianchi e neri, ha la medesima proprietà apotropaica, e lo si ritrova attorno ai tronchi abitati da uno spirito e alle statue all’esterno dei templi. No, non quelle nel sancta sanctorum: chi ha superato la fase della banale differenza tra bianco e nero, tra giusto e sbagliato, sa che il confine tra bene e male non è netto, che anche gli errori aiutano e che nulla è totalmente negativo o positivo. E’ l’antica religiosità animista, sulla quale si sono innestate le dottrine provenienti da occidente – induismo e islam sopra tutte – che ancora traspare, informando credenze, abitudini e riti. Al lato delle camere è in costruzione un piccolo tempio, e non importa che per quelli nuovi si usi cemento al posto del marmo: i bassorilievi dei riquadri sul frontale sono dettagliati ed eleganti e, anche se sono le epopee del subcontinente che vi sono illustrate, lo stile è indocinese piuttosto che indiano. Gli arcieri su bighe si prendono vicendevolmente di mira mentre re e dèmoni lottano in una giungla incontenibile – la stessa che circonda le città, la stessa che abbraccia Borobudur, il più grande monumento buddhista in assoluto.
I pellegrini vengono accolti dal mastodontico banyan che fronteggia l’idilliaco giardino del monastero di Mandut. Nel piccolo tempio Buddha, peculiarmente seduto all’occidentale, è colto durante il suo primo sermone dopo l’illuminazione. La promessa dell’ascesa è sostenuta dal tempio Pawon, seconda tappa, anch’esso in nera pietra lavica, anch’esso decorato da formelle didascaliche. Si può tentare l’alba a rischiarare i pinnacoli di Borobudur sullo sfondo della vampa dei primi raggi, come nelle spettacolari cartoline, ma in una giornata nuvolosa il lontano profilo delle 72 campane di pietra è a mala pena riconoscibile, nel mare di nebbia da cui emerge, da quello delle colline circostanti. Delusi e annoiati, i fotografi radunati al belvedere di Pethuk Setumbu prendono a terrorizzare gli uccelli coi droni, si fanno prendere la mano, paiono mandarli in orbita, dando prova di poco rispetto per quell’immenso mandala, quell’insegnamento tangibile, quella filosofia fatta pietra che è Borobudur. Quando l’intelletto guida la materia colle sue regole, secondo un programma precostituito informato da un granitico apparato simbolico, l’imposizione, la ripetizione e la costrizione diventano evidenti, preponderanti addirittura. Le nove terrazze, metafora ciascuna d’un ambito spirituale, rimarcano la disciplina necessaria per il raggiungimento del nirvana. Gli impulsi, l’energia e la varietà della vita regnano però nei cinque chilometri di bassorilievi che narrano la storia di Siddharta Gautama. Alla luna piena di maggio si partecipa al Waisak, i quattro giorni dell’anniversario di Buddha, con l’acqua santa portata dalla sorgente di Umbul Jumprit, con le torce accese alla fiamma perenne di gas naturale di Mrapen e con la Pradaksina, una processione di fiori bianchi che percorre tre volte il perimetro del tempio. Completato il rituale con la meditazione e la benedizione, mille lanterne si librano nel cielo, auspicando l’illuminazione dell’intero universo.
Lo slancio dell’anima è invece manifesto a Prambanan, in assoluto il più bel complesso templare indù. Se l’Unesco ha dovuto smontare e ricostruire Borobudur pietra a pietra, consolidando la base divenuta acquitrinosa, a Prambanan resta ancora molto da fare: la piattaforma centrale coi sei santuari dedicati alla trinità e ai suoi veicoli – il cigno sacro per Brahma, il toro Nandi per Shiva e l’aquila Garuda per Vishnu – era circondata da un esercito di piccoli stupa, tutti ancora in rovina. Ingaggiamo, come a Borobudur, un cicerone che ci possa spiegare la coesistenza di questi con il vicino, enorme Candi Sewu, buddhista, ma il bahasa indonesia – la lingua franca dell’arcipelago, che ne conta più di 700 – e l’inglese son talmente distanti che tra il limitato vocabolario e l’accento inintelligibile, una guida indonesiana è un’illusione, un mito, pur se la nostra vanta una pubblicazione a suo nome su ciascuno dei due templi. E’ ovvio, comunque, che la fatica del distacco dalla materialità, reiterata nell’ostinata orizzontalità di Borobudur, si sublima nella verticalità lirica di Prambanan, così fotogenica da fungere da scenografia per uno spettacolo di canti e danze giavanesi. La storia è quella del Ramayama, gli attori non si risparmiano e quel ch’era paventato come un noioso obbligo del turista conquista e addirittura appassiona con i colpi di scena dell’intreccio, la coreografia brillante e un finale di (vero) fuoco. Le maschere e i costumi sono gli stessi delle marionette e delle siluette colorate usate nel teatro delle ombre, cesellate dai fogli traslucidi di pelle di bufalo d’acqua. A Yogyakarta, se si riesce a schivare l’assalto dello sterminato esercito dei motociclisti, che si ripete tumultuoso ogni volta che il semaforo s’accende al verde, si possono acquistare i burattini direttamente dagli artigiani, nel laboratorio vicino al Kraton, il palazzo reale. E se la moto rimane a secco, banchetti ai lati d’ogni via vendono la benzina in bottiglie.
Una trafficatissima strada – è la festa dell’indipendenza e la settimana delle celebrazioni comprende sfilate di carri allegorici e allegria generale – sale verso nord, all’altopiano Dieng, costellato di floride coltivazioni, laghi bollenti e piccoli templi indù. Ogni santuario ha caratteristiche uniche: testine che sporgono dagli archetti (Candi Bima), finestre a forma di campana (Candi Arjuna), gargolle e fregi (Candi Dilarang Memanjat Dinding). Ma le celle son così anguste che certo la statua della divinità si deve sentire, più che venerata, imprigionata a guardia del territorio di cui è stata eletta nume tutelare. Le ricostruzioni, dai cumuli di pietre nei quali terremoti ed eruzioni li avevano ridotti, non sempre indovinano l’aspetto originario degli stupa: lo si nota da alcune vistose incongruenze architettoniche. I vulcani sovrintendono ora tranquilli alla laboriosità infinita dei paesani, permettendosi giusto il candido, densissimo sbuffo del cratere Sikidang, circondato da soffioni e pozzanghere di fango ribollente, e il fotogenico Lago Colorato, le cui tonalità di giada, dovute allo zolfo che risale dal fondo, richiama scolaresche e novelli sposi. Come avrà fatto lei a salire sullo sperone del belvedere con quei tacchi a spillo? Da lassù, la vista spazia oltre il Telaga Warma e il gemello Lago Pengilon fino alle alture ammantate di pini che coronano le geometrie sterminate delle vertiginose terrazze coltivate a ortaggi, precise e delicate come un acquerello di Klee.
E presso un artista facciamo base, dove la confluenza di Elo e di Progo, i due torrenti presi a riferimento per Borobudur, ricorda quella, sacra, del Gange e dello Yumna in India. La casa, naturalmente, è un work in progress, un organismo in crescita le cui parti mutano volto e funzione secondo l’evoluzione impressa da Mr. Abah Sony Santoso, dreadlocks e abbigliamento hippy nonostante l’età, andamento lento dell’uomo che ha trovato tutto il mondo in sé e produzione artistica sempre visitabile in una vasta ala dedicata. Mitomane, certo, ma almeno sa un po’ d’inglese e racconta volentieri le sue avventure. Dal fondo della scarpata i due torrenti cantano parole d’acqua giorno e notte e l’ospitalità familiare, serena, è ribadita dalle piante e dai fiori del giardino. Il sentiero che porta agli spartani chalet riceve affettuoso come se ci si tornasse dopo una lunga assenza: uno di quei posti che ti provano che hai sbagliato tutto nella vita.
Provvede Surakarta a farci tornare coi piedi sull’asfalto. E’ vero che nel Pasar Triwindu, il mercato dell’antiquariato, ci si può imbattere in uno sconosciuto capolavoro che, dopo mille peripezie, riuscirà a raggiungere le coste italiche per far bella figura nel soggiorno d’una grande viaggiatrice. E’ altrettanto vero che è stipato di esotismo da due soldi, di ferraglia e di oggetti che avrebbero trovato più appropriato destino nella discarica cittadina. Ma a Surakarta si va per i batik. Si ammirano colori e motivi stupendi su tessuti o su confezioni, ma quelle manine che stendono il filo di cera liquida sulle zone che riceveranno diverso colore si fanno pagare le pazienti, laboriose ore – a meno di comprare un batik stampato, ma allora è come acquistare uno scampolo qui in Italia, colla differenza che la fantasia sarà improponibile per una tenda. La ricerca del batik che completi il nido, quell’elusiva pagliuzza che trascenda il rango di souvenir e diventi prezioso possesso è il passatempo più divertente della città: si monta su un becak (triciclo a pedali o a motore) per arrivare in centro e dalla grande, trafficatissima arteria, si scompare inghiottiti da Kampung Winongan, un quartiere di stradine strette, quasi troppo per un’automobile, dove s’affacciano oscure stanzette, piccoli alimentari, ampie case con verande in ghisa, soggiorni aperti e poltrone in vimini, e naturalmente le boutique dei famosi batik. Sono anch’esse stupende dimore coloniali con vasti vani comunicanti, aperture sopra gli infissi per far circolare l’aria e vetrine in legno scuro piene di stoffe. Si sorseggia il liquore di benvenuto, ci si orienta sul colore e si dispiegano i batik, la cui precisione e squisitezza valgono tutte le rupie del prezzo. Ci si possono passare le ore: alle sei viene sera – e all’equatore il passaggio dal giorno alla notte è quasi brusco – e ci si fa portare da un calesse nella zona pedonale, dove i turisti cenano, seduti, alle note del karaoke di strada. L’alternativa è portarsi le provviste e stendere un telo a terra: il picnic sul marciapiede piace sia alle coppiette a mo’ di cena intima, sia ad intere famiglie per far baldoria coi bambini e, considerando la calura, non si può dar loro torto.
Il mercurio scende solo salendo di quota. A 1400 metri, Candi Cetho sovrasta nebulosi pendii terrazzati a risaie, orti e canneti da zucchero. Pietre sagomate a lingam e dirette inequivocabilmente verso un triangolo, anch’esso di pietre, annunciano i riti di fertilità che i paesani del vicinato, una delle ultime comunità induiste sopravvissute a Giava, vi celebrano. La successione dei puntuti varchi di pietra nera, a guardia dei sei erti, muti livelli in cui si articola il santuario, infonde un senso d’ordine e di gerarchia quasi ultraterreno. Le capanne ai lati dell’ascesa invitano alla meditazione, mentre basse statue e primitivi bassorilievi di personaggi scolpiti di profilo rimandano curiosamente allo stile babilonese. Incensi bruciano davanti a un grande, tozzo membro maschile, in singolare contrasto con la modestia che contraddistingue i popoli asiatici. Sullo stesso argomento insistono le figure e le rozze sculture del vicino Candi Sukuh, una massiccia piramide mozza alla quale si sale attraversando tre terrazze, tre come i mondi – sotto, sulla e sopra la Terra –, tre come i riti di purificazione per conseguire l’immortalità e la perfezione. Per il momento, grossi falli, maschere mostruose e personaggi alati che ricordano Pazuzu, il dèmone che ci ha terrorizzato ne “L’Esorcista”, sono la nostra compagnia. Sono sbozzate processioni, emblemi, serpi, misteriose iscrizioni e scene talmente enigmatiche che, invece di aver giusto seicento anni, potrebbero provenire da un’altra era geologica, da un barbaro pianeta gremito di cazzuti onanisti, alieni e schiavi nani. Sulle tre tartarughe dal carapace piatto non vogliamo sapere cosa o chi venisse sacrificato – non lo vollero sapere neanche i primi archeologi olandesi quando scoprirono ossa umane e animali a Prambanan. Di certo, in quei pochi pannelli si riassume una turbolenta, affascinante saga.
Per quanto avvincenti, i misteri dei templi del monte Lawu non reggono il confronto con la partecipazione, tutta fisica, al sorgere del sole sul vulcano Bromo. La catena montuosa sulla quale siamo appollaiati si sporge su un bianco nastro di caligine – le luci d’un paese da un lato, il pennacchio del vulcano dall’altro. Ai 2770 metri del monte Penanjakan il freddo è intenso e la combriccola malesiana accanto a noi inscena una festa con frizzi, lazzi e selfie per non intirizzirsi. La notte scolora in tonalità fredde e la luce rivela un paesaggio selvaggio dove il sole stenta a trovare forma, disturbato com’è da vapori, nuvole e venti. La soddisfazione di esserci stato rimane per sempre, ed è solo mia perché nessuna foto può rendere il sentiero per King Kong Hill, il semisegreto punto panoramico, il gelo, l’attesa e lo scenario rivelato dalla luce. Al Bromo s’arriva poi in fuoristrada, e pare d’aver cambiato continente: cowboy scuri, stagionati dal sole e abbrustoliti dai fumi, cavalcano bassi cavalli in un deserto di sabbia grigia fino ai piedi della montagna, dove la processione umana inizia la scalata, come per un rito sacrificale, per gettarsi tra i densi vapori bollenti e placare il soffio sordo e furente della terra. Il cono del silenzioso gemello Batok, pelato e rugoso, rimane a testimone.
Non cavallini ma motorette ci portano alla cascata Madakaripura. E’ conveniente andarci la mattina, prima che, puntualmente, il mezzogiorno porti nuvole e foschia. Il sentiero, costeggiando un ruscello, s’incunea tra felci giganti fino a una stretta gola dove, dalla selva del Parco Nazionale Bromo Tengger Semeru, duecento metri più in alto, l’acqua cade a secchiate, atomizzandosi. Ardimentosi si tuffano nella pozza ghiacciata, ma più piacevole è la piscina dell’hotel di Surabaya, da dove un volo di poco più d’un’ora ci sbarca a Makassar, nell’isola di Sulawesi. Su uno sfondo di deliziose colline a pan di zucchero color smeraldo, la strada verso nord è fiancheggiata da case dall’architettura inappropriata alle dimensioni: archi magniloquenti, colonne, timpani e finestroni si rincorrono in un pot pourri di classico, déco e moderno, spesso svilito da colori chiassosi come le fantasie africane, simile ad un plastico infantile che avesse inopinatamente cambiato scala. Nelle costruzioni in legno resiste un’antica consuetudine: a punta è l’incrocio degli spioventi del tetto per i pescatori, a forma di corna per i contadini. Tra le palme e le vasche per l’allevamento dei pesci, una strada laterale è ostruita da una soglia tutta rosa: immediatamente inchiodiamo il pulmino. Il podio colla banda e la platea di sedie, anch’esse rivestite di rosa e pizzo, sono allestiti per un matrimonio musulmano. Le donne, capo rigorosamente coperto da un chador e festose in coloratissimi abiti da cerimonia, attendono alla chiacchiera, al cellulare o al cibo. Gli sposi però arriveranno solo quando anche gli uomini, signorili in giacca, sarong e songkok – il tradizionale copricapo nero – avranno preso posto nel temporaneo teatrino. La madre è commossa mentre conduce per mano la sposa, ingioiellata come una ballerina dell’Opera di Pechino, sul palco reale. Il maestro di cerimonie si rivolge ai convenuti ma la presentazione si dilunga. Si arrabbia, si riacquieta, un momento agita l’indice minaccioso, l’altro fa uno sberleffo sornione mentre, di volta in volta, gli uomini sopportano i moniti e le donne nascondono il riso dietro i ventagli. E’ l’imam della moschea attigua che avverte e diverte passando in rassegna i piaceri e i doveri del matrimonio. Gli sposi, naturalmente, sono onorati di avere l’attenzione di ospiti d’oltreoceano e noi di partecipare a un genuino rito locale.
Più fotogeniche ancora le celebrazioni a cui prenderemo parte nella regione di Rantepao. Si tratta di funerali, ma è vietato piangere: solo quando il lutto è stato elaborato e il distacco finalmente accettato, la famiglia indice la festa d’addio. In processione, amici e vicini portano offerte. I parenti più stretti, in cerchio, intonano una segreta cantilena che narra la vita del defunto celata in un rosario di vocali, quasi un pow‑wow al Mogadon. Piattaforme rialzate approntate per l’occasione danno a tutti la possibilità di presenziare ai riti, il più importante dei quali è il sacrificio, il primo giorno, del toro il cui spirito trasporterà quello del morto nell’aldilà. L’animale, abituato alla vicinanza umana nel lavoro dei campi, non s’aspetta il colpo di machete che gli taglia la gola. Sorpreso, stramazza col muso nella polvere, perde l’equilibrio, rotola, scalcia, muore in pochi, terribili secondi. Ogni mia cellula grida “No!” e, al solo ricordo, una stilettata amara mi trafigge. Contronatura. Nulla di quel che si crede lo sia lo è, solo uccidere è contronatura. I maiali, più simili agli umani, lo sanno e lo fanno sapere, divincolandosi e urlando, ma verranno tutti sacrificati nei giorni successivi assieme agli altri tori, e i pezzi macellati ripartiti tra i partecipanti. Così si esibisce la ricchezza e si afferma il prestigio, così si allacciano rapporti, così si rivedono lontani parenti e si intesse la rete degli obblighi tra le famiglie. In questa pittoresca regione non c’è giorno in cui non si possa prender parte a un funerale. Il paesaggio aveva iniziato a movimentarsi all’altezza dell’Erotic Mountain a Buntu Kabobong in Bambapuang, l’accesso al territorio dei Toraja. Le grinze del poggio davanti al belvedere disegnano senza mezzi termini i genitali femminili, e verso nord la lunga valle sfonda contro cime e crinali degni d’un pittore fiammingo. Pranzo con vista su uno splendido paesaggio a Batutumonga: attorno a Rantepao è tutto un saliscendi di stradine di terra battuta che serpeggiano nell’intrico dei rami e, quando trovano uno spiazzo piano, si aprono su un gruppo di case. Talvolta le abitazioni sono squadrate, più spesso tra le fronde si intravedono i becchi degli inconfondibili tetti tradizionali delle tongkonan puntare al cielo. Non che le tre stanze interne siano diverse dalle nostre – si tratta pur sempre di scatole di legno – ma quel che caratterizza la casa Toraja – le sei colonne di legno su cui poggia, le incisioni dipinte dei pannelli esterni, il trovarsi irreggimentata con altre in uno spazio sociale – la rende, più che un’abitazione, la base d’una vita di inclusione e di condivisione. E, con enorme rispetto, grande ammirazione e un po’ d’invidia, ci si avvicina a questa gente, l’unica in Sulawesi ad aver resistito agli attacchi degli islamici che son riusciti ad annientare le particolarità delle altre culture autoctone: i Bugis (marinai), i Makasar (commercianti) e i Mandar (pescatori). Ogni specie di formica che si estingue è una perdita, ogni massificazione culturale ci fa più poveri, meno interessanti. Nella carta d’identità il nostro assistente è classificato come “cristiano”, come la maggioranza qui, ma l’ancestrale animismo politeista è giusto sotto l’etichetta. E ad ogni passo si scopre un tassello della aluk to dolo, la “maniera degli avi”, che comprende leggi, usanze agricole, religione e rituali. Ogni villaggio, autonomo fino all’arrivo dell’amministrazione istituzionalizzata, è una famiglia allargata: i membri del clan lavorano assieme, condividono i riti dei bufali e sono solidali nel pagare i debiti. E quando si è lì, in mezzo alle risaie e magari, come noi, a dormire in una tongkonan a Kata Sumpia, diventa ovvio che la ricchezza si conti in bufali e che, per far fronte alle richieste della terra, servano le risorse di tutti. E tutti sono obbligati a partecipare alle cerimonie della casa, cosmo in miniatura, retaggio degli antepassati, centro dei riti dei viventi e luogo dei discendenti.
E, per qualche anno, anche dei morti. I quali, finché restano in casa, son considerati solo “malati”. Col permesso del proprietario, si entra. Il nostro accompagnatore accede alla stanza, chiede alla morta se possiamo farle visita. Su un banchetto, un piatto con del cibo fresco e, accanto, un cesto oblungo grande abbastanza per contenere una vecchietta. Scostiamo il tappeto che lo copre e conversiamo sottovoce. Non si può sapere perché la morta non puzzi: questione di riti, questione di foglie, questione segreta. Pare che foglie di betel e succo di banana si combinino in una sorta di formalina. Fatto sta, la morta riposa nella sua stanza da parecchi mesi, il figlio le porta ogni giorno del cibo e il funerale verrà celebrato quando per lui e per la famiglia sarà arrivato il momento opportuno. Ogni elemento è interconnesso e trova il suo senso nella forma che la vita ha preso qui: impossibile non rimanere affascinati e comprendere che ogni identità culturale è patrimonio non solo di chi la incarna ma dell’umanità intera. Per contrasto, la nostra è una società che ha fatto della scienza un’immorale religione e quando trovano un conforto scientifico, le nostre credenze diventano sacrosante e altri punti di vista non vengono nemmeno considerati. Una visita al mercato di Bolu, stipato d’ogni ben di dio sia fresco che conservato, rivela che punti di contatto comunque ci sono. Sotto una tettoia, i maiali, legati a una graticola di bambù, attendono sonnacchiosi un nuovo padrone. Più oltre, un vasto spiazzo è riservato ai bufali, legati per le froge: mazzi dei rossi biglietti da 100.000 rupie cambiano mano. Le loro corna verranno affisse al palo che fronteggia la tongkonan, numerando i funerali che quella famiglia ha finanziato, e quindi esibendo il suo status. I ricchi possono anche permettersi un tau-tau, una statua, cioè, a propria immagine e somiglianza, che possa contenere lo spirito del defunto. Una volta di legno, ora di cera, i tau-tau si schierano, sbiancati dal sole e stracciati dal vento, su balconi intagliati nelle pareti delle rocce come se, dall’altro mondo, si presentassero al nostro. Altri tau-tau vengono tenuti sotto chiave in caverne: troppi ne sono stati rubati da sacrileghi turisti. Nei massi – enorme quello di Lo’ko’ Mata – vengono anche scavati, a colpi di mazza e picchetto da uomini che non debbono avere contatti con donne per la durata del lavoro (sei mesi circa), i buchi che conterranno le bare. La vita è difficile e il sostegno del clan non basta, ci vuole un aiutino extra: questa è l’incombenza degli antenati, che non possono non essere benevoli verso i propri discendenti – a patto che siano stati avviati verso l’aldilà con un funerale degno. E’ un tratto comune a tutte le culture – i Toraja lo hanno certo esaltato, anche se anticamente solo ai nobili era consentito avere un funerale sfarzoso. La stessa sorprendente forma del tetto delle tongkonan celebra le barche colle quali, nella notte dei tempi, i loro progenitori lasciarono la provincia cinese dello Yunnan per approdare in Sulawesi, traversata mitizzata in una discesa dal cielo attraverso una scala. Ma, curiosamente, il vestito da cerimonia delle bambine, ornato da un collare e fili di perline, ricorda quello delle squaw degli indiani d’America… E, a proposito di bambini, i piccolissimi deceduti vengono affidati alla corteccia di un grande albero che, poeticamente, continua ad alimentarli. Assediati come sono dal turismo, i Toraja tengono segreta l’ubicazione di queste sepolture per preservarne la sacralità, ma se ne può visitare una a Kambira, a pochi chilometri dalla caverna che ripara i teschi e i tau-tau della gente comune, e da Suaya dove, incassati in una parete verticale, i tau-tau reali s’affacciano assorti ad osservare noi intrusi.
Vero è che queste genti sono parenti di tribù cannibali – oltre a Sulawesi, a quel tempo chiamata Celebes, le coste di Sumatra, Thailandia e Birmania erano approdi pericolosi fino a un centinaio di anni fa – ma ora si rischia solo a Komòdo e a Rinca, le isole dei draghi. Un viaggio in Indonesia non è completo senza una deviazione per vedere la lucertola più grande del mondo nel suo ambiente naturale. A vederla ondeggiare come un ubriaco esausto non la si direbbe pericolosa, ma quella schifosa ha un’arma segreta: la saliva, che gli analisti affermano contenga almeno cinquanta tipi di batteri, oltre al veleno delle ghiandole che ha tra i denti. “Aaaagh! Si sposti da lì!” Stavo fotografando uno di quei rettili quando, per un’inquadratura migliore, mi sono pericolosamente avvicinato ad un altro che non avevo notato. Scatto la foto. Tutto sommato si tratta di una lucertola gigante, in nulla simile ai draghi alati che pullulano nelle nostre favole medievali: mai denominazione è stata più impropria. Scatto, muovo un passo. “Aaagh! Le ho detto di non avvicinarsi!” Accidenti, sono circondato, ce ne sono dappertutto. E il pericolo sta nel fatto che, immobili, si confondono così bene con il colore di questa spoglia savana che davvero non ci si accorge della loro presenza. E, come i coccodrilli, lenti il 95% delle volte ma fulminei il restante 5%, occorre stare all’erta. Un attacco è mortale, basta un morso per morire di setticemia, per cui è indispensabile avventurarsi scortati da un guardiaboschi armato di forcone e di buona vista. Il paesaggio dei pochi colli delle isole, cosparse di tamarindi e acacie, non è entusiasmante ma, oltre alla singolarità di vedere coi propri occhi quelle lingue biforcute tastare il terreno ad ogni barcollante ma temibile passo di quegli unghioni ed immaginare un attacco che vogliamo rimanga solo immaginario, la ragione per una crociera nell’arcipelago tra la grande isola di Flores e la piccola Komòdo è l’acquario nel quale ci si può immergere in alcuni punti dove le correnti, ben visibili dalle increspature, dagli schizzi e dai mulinelli che creano in superficie, non arrivano e l’oceano è innaturalmente liscio come l’olio. A Manta Point le mante giganti non hanno mantenuto l’appuntamento, ma è un bel giardino là sotto. Tra una perlustrazione dei fondali bassi di Kanawa, un riposino abbronzante, un gustoso pranzo che il nostro magico cuoco riesce ad approntare in quel metro quadrato di cucina a poppa della bagnarola che ci è casa per tre giorni, le ore passano in una sorta di incantesimo, sfiorando gli isolotti brulli o boscosi che s’avvicinano e s’allontanano all’incedere imbambolato dei nostri pensieri, ormai totalmente dimentichi di assurdità come orari, impegni e preoccupazioni. E la sera compare la luna. E’ una falce. E’ uno spicchio. E’ il cerchio che Giotto ha appena iniziato. La luna è un occhio socchiuso sulle luci immobili di una costa o di una passerella, prima laggiù, ora accanto, e la barca ci gira attorno, come una falena. Altre barche scivolano silenziose in una lenta danza, anch’esse stregate dal mare e dalla notte. La luna è una bocca che si apre e sogghigna, forse di noi, imbelli europei che nulla sappiamo dei miracoli dell’Asia, dei misteri dell’altra metà della realtà, realtà magica. E, magicamente richiamato dal crepuscolo, un fiotto, un fiume, uno stormo infinito di uccelli neri si leva improvviso dal fitto delle mangrovie di Pulan Kalong invadendo il cielo: sono i pipistrelli giganti che ricreano ogni sera una scena da film dell’orrore andando a caccia di frutta nelle isole vicine. Trovata la boa di Pulau Kambing e gettata l’ancora, si rimane sospesi tra l’acqua immobile, nera e deserta, e una Via Lattea luminosa e affollatissima. Dopo una breve notte, i marinai sono già al lavoro mentre il buio impallidisce. All’alba, rapida e silenziosa, gli uccelli si cinguettano con insistenza il programma della giornata, mentre quello col singhiozzo, quello sentito ma non visto durante le passeggiate a Loh Buaya a Rinca e a Loh Liah a Komòdo, non è ancora guarito. Dopo il rosa della modesta Pink Beach, perdiamo l’orientamento: cielo e mare raggiungono lo stesso punto di blu mentre il tempo annega.
In cielo restiamo meno di due ore, tra nuvole e fumi di vulcani, ed ecco Bali la bella. Lasciamo alle coppie di ventenni gli alberghi di lusso e le fantasmagoriche architetture dei locali notturni che si assiepano lungo la strada dell’aeroporto e – ma solo perché non ne abbiamo il tempo – anche le spiagge che da Kuta arrivano a Legian. Poco più a nord, il tempio Tanah Lot sembra chiudere la striscia festaiola ma è invaso dalla stessa, distratta folla, che magari è anche disponibile a bagnarsi fino alla cintola per arrivare alla roccia, isolata dalla frastagliatissima costa, sulla quale è arroccato il tempio, ma solo per una foto: nessuno sale al santuario per il rito impartito dal sacerdote. I tramonti qui sono leggendari, ma anche di giorno le sette pagode del complesso, ombreggiate da graziose siepi e appollaiate sugli scogli e sui ponti di roccia contro cui l’oceano si frange in spettacolari spumeggiate, esercitano un richiamo irresistibile. Tra statue e giardini in fiore, i rituali ombrellini gialli completano la foto da cartolina. L’atmosfera a Pura Luhur Batukau, immerso nell’umidità, nei boschi e nel silenzio d’una montagna sacra, induce invece all’introspezione e alla preghiera. Solo chi indossa il tradizionale sarong può entrare, e l’accesso è anche vietato alle donne mestruate, gravide o con bambini piccoli, ai bambini coi denti da latte e a chi è in lutto. All’interno del vasto sito sono in corso i preparativi per il Galungan, il Capodanno, celebrato lo scorso febbraio e di nuovo adesso, in settembre, dato che l’anno balinese, secondo il sistema Pawukon, dura 210 giorni. Mentre i preti, tutti in bianco, addobbano le pagode con bande color d’oro e di luce, le donne, nei loro vestiti di pizzo dai toni sgargianti, preparano le offerte e i cibi. Sarà la natura rigogliosa, sarà il genius loci: l’induismo balinese è più abbordabile di quello indiano. Ma è tutto, a Bali, che è più piacevole, attraente e positivo: Dharma ha prevalso su Adharma, il bene sul male, ed è questo che si celebra. Ai lati delle strade i paesani issano lunghe aste di bambù con coloratissime decorazioni di cocco, riso, frutta e fresche foglie di palma e portano ai templi le offerte che, dopo la preghiera, consumeranno con la famiglia. La festa per gli occhi continua al Pura Ulun Daru Beratan, un tempio in miniatura, per metà induista e per metà buddhista, sulla riva d’un lago vulcanico. La pagoda con undici tetti è così fotogenica da esser stata scelta per la banconota viola da 50.000 rupie. Il clima è mite a 1.200 metri e i padiglioni aperti, il giardino pettinato, le variopinte statue di ancelle, discepoli e animali in stile luna park ne fanno un favorito delle famiglie con bambini. Per una strada certo progettata da specialisti di montagne russe, attraversando fittissimi vapori e nuvole da tregenda che non ci si aspetterebbe in un’isola tropicale, s’arriva al belvedere del lago Tamblingan. L’attrazione è la cascata Munduk, un violento, diretto getto da un dirupo nascosto. Lo scosceso sentiero che vi discende, infilandosi nella vegetazione, è la sala prove di grosse cicale che strillano come maiali al macello. Le chiome che proteggono l’ingresso sono di Syzygium aromaticum, qui spontanei, i cui boccioli – sorpresa! – sono i chiodi di garofano. Le spezie sono da sempre la carta vincente dell’arcipelago, ma il dono più prezioso di questa terra è il riso, che a Jatiluwih, a 800 metri sul mare, è coltivato in terrazze così tecnicamente ed esteticamente perfette da meritare la protezione dell’Unesco. Basta una scarpinata su e giù per i pendii, tra le capannucce, le tettoie per i buoi, i ripari per gli attrezzi e i sorrisi dei coltivatori per capire quanto lavoro e quanta cura questo capolavoro di ingegno e di bellezza richieda. L’orlo delle vasche asseconda la conformazione del terreno, bordato dalle palme e dai bambù frondosi e punteggiato dalle vampate della ti, una cordyline rossa fotogenicissima in quest’universo totalmente verde. I cespi di riso trapiantati da poco sono sorvegliati da edicole di pietra, alle quali non mancano mai offerte. La mia macchina fotografica cerca inquadrature inedite per le geometrie che si susseguono sullo sfondo della bruma che aleggia sulle foreste che chiudono l’orizzonte, ma in una foto ci son solo contorni e colori, mentre in una camminata si vedono i riflessi nell’acqua, si percepisce l’odore del bestiame, si avverte la fatica dell’arrampicata, si condivide la speranza del raccolto. L’inserimento dell’uomo nell’ordine naturale è perfetto, i galletti qui sanno quando fa giorno e perfino i fiori gialli dei frangipane cadono con studiata raffinatezza.
Tutto il lavoro dell’uomo, visibile agli dèi nelle avvolgenti curve delle spettacolari risaie, si condensa nella gola Pakerisian, due ripidi fianchi rocciosi nei quali sono stati scolpiti dieci santuari a formare Gunung Kawi, il monumento funerario di re Anak Wungsu. Le enormi nicchie, insolitamente coronate dalla flora tropicale sovrastante, offrono al credente ermetici tabernacoli geometrici e i templi, le grotte, le fontane e i padiglioni sono la maestosa risposta dell’uomo a una cornice irrefrenabile di radici impressionanti, chiome altissime, foglie giganti, acqua corrente e caldo torrido. Tutti i visitatori menzionano la discesa e la risalita di quei trecento ripidi scalini, ma nessuno rimpiange la fatica. Goa Gajah, in una valle ombreggiata più ampia e articolata, è simile e sarebbe perfetto per un film di Indiana Jones. Mentre i preti officiano, per poche migliaia di rupie, un rito per i miscredenti, i saliscendi della mulattiera, la vegetazione portentosa e l’atmosfera da saga equatoriale ne fanno un’esperienza imperdibile.
Venditrici di banane col vassoio ben carico sulla testa e un banyan talmente enorme da avere un proprio altarino invitano alla visita di Tirta Empul, una fonte creata dal dio Indra in persona, l’aitante baffuto ritratto nella grande statua all’ingresso. Dozzine di devoti si bagnano, si rallegrano e si purificano nella lunga vasca dell’eterna giovinezza, lasciando offerte agli zampilli sormontati dalla svastica di vita, passando da uno all’altro secondo il rituale. Elefanti e draghi ingioiellati sorvegliano, mentre sullo sfondo d’un pendio d’erbetta così artificiosa che non poteva che essere quella della residenza del dittatore Sukarno, personaggi e creature mitiche scolpite da un Botero locale dirigono alle sorgenti che ribollono sotto la sabbia. A far tornare nel mondo materiale le anime così mondate provvedono i filari di bancarelle di souvenir della grande piazza antistante. E, a proposito di compere, non ci si può esimere da una visita alla vicina Satria Agrowisata, coltivazione e vendita di caffè e thè ai mille gusti. Sebbene sia il caffè delle montagne del Sulawesi uno dei migliori in assoluto, quello di Bali ha la peculiarità di essere stato ingerito e digerito dal luwak, lo zibetto comune delle palme. Ce li si immaginerebbe iperattivi, ma i furetti in esposizione son così annoiati dalla giornaliera processione di turisti pronti ad essere spennati che preferiscono dormire nelle loro piccole gabbie. Sotto le tettoie che danno su un frondoso canalone si sorseggia, si apprezza e si finisce per acquistare. La medesima sensazione di supermercato, stavolta spirituale, si ha a Pura Ulun Danu Batur, una sequenza di templi tutti allineati lungo la medesima strada. Contro l’architettura nera di porosa pietra vulcanica risaltano le statue vistosamente colorate e, se non fosse per i portali a punta così caratteristicamente indonesiani, i pacchiani Ganesh farebbero pensare di essere in India. Seduti o inginocchiati, gli adepti, in veste e copricapo bianco, alzano le mani giunte in preghiera. Se fossi un dio, accorderei loro tutto, a loro che m’invocano senza avermi mai visto e m’offrono quel che hanno. Le pagode a nove tetti sono altrettanto fotogeniche a Besakih, un labirinto di scalinate, passaggi, templi, aiuole e statue che domina uno spettacolare panorama. L’umanissima personalità di queste divinità conferisce loro il ruolo di fratelli maggiori e la mancanza di ascetismo permette davvero di relazionarvisi: il tempio è pieno di fedeli e di buone intenzioni, un concentrato di positività. Sui seguaci in preghiera, sugli strumenti musicali, sull’architettura peculiare, sui floridi cespugli e sulla piana lontana il tramonto si stempera in un momento indimenticabile.
Altrettanto deliziosa è l’esplorazione del Tirta Gangga, un parco a tema acquatico del 1948, lascito del sovrano di Karangasem che tanto volle questo giardino di piacere da partecipare personalmente agli scavi. Vasche d’acqua limpida per passeggiarci attorno e per specchiarsi seguendo percorsi sopraelevati sono delimitate da invitanti prati e aiuole in fiore, mentre quelle per tuffarsi sono gremite di locali vocianti, intenti a godersi la frescura e le fontane. La bellezza e il divertimento che vi regnano sono assicurati dai leoni e dai draghi di pietra che tengono lontana ogni tristezza. Le processioni primaverili al suono del gamelan e complete di ombrellini devono essere indimenticabili. Insignificante invece la visita al villaggio tradizionale di Tenganan, noto per i tessuti: a parte l’organizzazione di una piccola comunità autocratica, nulla s’è notato che differenziasse la cultura Aga dei residenti dagli altri balinesi o che rimandasse a un pittoresco primitivismo, che abbiamo invece trovato al Pura Goa Lawah, un luogo di culto costruito attorno a una caverna infestata da centinaia di pipistrelli. Mentre gli animali dormono, appesi al soffitto e infastiditi dalla luce intensa del mezzogiorno, incensi e cestini vengono deposti sugli altari, decorati con fasce gialle e bianche, dai pellegrini che frequentano in massa questo curioso tempio sulla sponda orientale dell’isola. L’arte non è comunque esclusiva della religione: al centro dell’abitato di Klungkung il soffitto del Kertha Gosa è meticolosamente istoriato con miti, viaggi immaginari e, appropriatamente, visto che vi si amministrava la giustizia, punizioni infernali. A questo tribunale – in realtà un semplice padiglione sopraelevato – si accede da un ponte che attraversa il piccolo bacino che lo circonda, incorniciato da un giardino lussureggiante. Le incantevoli, vividissime immagini raffigurano anche uomini e dèi impegnati in epiche battaglie e in avvenimenti fantastici, un mondo in trambusto lontanissimo dall’accondiscendente tranquillità che Bali sembra emanare da ogni corolla d’ibisco. Altrettanto remoti sembrano i faccia-a-faccia dei nativi contro gli invasori olandesi, rappresentati nei quadri conservati nel vicino Museo Semarajaya. Alla rotonda principale del paese, la statua Kanda Pat Sari comprende quattro personaggi, rivolti ciascuno verso un punto cardinale, nell’ormai consueto stile ricamato: dal XVI secolo, infatti, Klungkung è stata il centro dell’arte balinese classica. Del XIV secolo è invece il piccolo eremo di Yeh Pulu, perduto nel pervasivo color erba delle risaie. Le figure intagliate sulla fascia verticale di roccia raccontano episodi della vita di Krishna, un’incarnazione di Vishnu, in uno stile essenziale, un po’ legnoso, immediatamente rievocativo del nostro Sironi. Da Yeh Pulu un sentiero s’intrufola nella giungla raggiungendo il magico Goa Gajah dove l’esterno scolpito dell’antro, caldiccio, umido e caliginoso, rappresenta l’enorme bocca spalancata della divinità indù Bhoma, in tutto simile a quella dell’orco di Bomarzo. Un intrico di tortuose, colossali radici ha preso possesso della costa della vasta gola, dove labirintici viottoli e scalinate serpentine portano a templi in funzione, templi in rovina, cascate, vasche, statue, aioule, pagode, padiglioni, strapiombi e anfratti in una cattedrale d’alberi altissimi. La pioggia dei fili delle liane arriva alle pietre coperte di muschio che accolgono quei pochi raggi che riescono a filtrare, mentre la vegetazione stupefacente ci osserva con occhi di gigante e non cessa di respirarci addosso un alito primordiale. Se ne esce come da un’altra dimensione, per tornare a Ubud, il centro culturale di Bali. Dietro le stradine, la notte, l’acqua, le ranocchie e le lucciole intessono un discorso infinito di cui i sassi sono gli unici testimoni. E’ un matrimonio mistico in cui la dura realtà del giorno si scioglie nelle dolcezze, nel mistero di forme astruse, di cicli stellari epocali, di dettagli infimi per i quali il senso non è la vista ma l’udito, in cui a percepire non sono i sensi ma l’anima.
E si fa festa tra gli umani. La sera i turisti si ammassano attorno al quadrato, delimitato dagli strumenti dell’orchestra gamelan, per lo spettacolo di danze tradizionali. A due passi dai musicisti che ricevono la benedizione prima dello spettacolo, i giovani, nelle magliette leggere a cui obbliga il caldo incessante, siedono a terra, mentre i veterani dei voli intercontinentali si installano sulle sedie più distanti, tutti aspettandosi meraviglie da chi vive in quest’isola meravigliosa. E non si rimane delusi: la semplice coreografia permette di apprezzare lo sfarzo dei costumi, la ricchezza del trucco, la grazia e la perfezione dei misurati movimenti che alludono ad una storia: per gli appassionati dell’Oriente questo è il balsamo che ripaga di ogni difficoltà, questo è il fascino del continente gentile che incatena nella dolce schiavitù del Mal d’Asia, nostalgia perenne d’una nobiltà di spirito che si manifesta nelle arti, nella religione e nei dettagli della quotidianità. E’ un’attrazione fatale che nulla ha a che vedere con la fascinazione morbosa di cui, nel 1933, era denso il film “Die Insel der Dämonen” (L’isola del diavolo), di cui troviamo la locandina nell’Agung Rai Museum of Art, museo, centro culturale, bar, albergo e interessante giardino botanico (l’albero delle zucche (crescentia cujete) deve essere visto per essere creduto!). A quel tempo, l’Indonesia era un luogo mitico, popolato da tagliatori di teste, inarrivabile quanto per noi, adesso, Marte. Forse, nelle remote giungle, si poteva ancora incappare in qualche cannibale, forse Michael Rockefeller nel 1961 non finì in acqua ma in un brodo, ma la tranquilla vita diaria è documentata nelle minuziose opere degli artisti del passato, dove l’umano, festoso formicolìo anima e quasi riesce a prevalere sul paesaggio esuberante. Accanto alle tele d’ambientazione quotidiana e mitologica può stupire trovare quadri astratti: la collezione dell’ordinato Museo Rudana presenta eccellenti esemplari di ambedue gli stili, entrambi informati dalla pervasività del colore, impossibile da mettere da parte in un’isola così vitale. Il Neka Museum of Art offre, all’interno di numerose architetture tradizionali, la più completa collezione di dipinti in Indonesia, con immagini del sistema astrologico, di marionette e della vita – romanzata o realistica – di Bali.
La guida Toraja insisteva: “Voi non potete capire, voi che ragionate col cervello sinistro, che credete alla legge di causa ed effetto. C’è una separazione tra Europa ed Asia”. “Dove? Dov’è la frontiera?”. E lui, ineffabile: “Nella testa”. A Rantepao c’erano galli tarati su ogni fuso orario e ogni ora, delle ventiquattro che ha il giorno, era giusta per un poderoso chicchirichì. E, dove ha attecchito, l’Islam ha dovuto adattarsi: le bambinette vestono il velo – inguardabili – fin dall’asilo, ma alle ragazze viene comprato il motorino appena riescono a poggiare il piede a terra, per andare a scuola. Da noi la relatività ha poco più di cent’anni, mentre l’Asia, gelosa dei suoi miti millenari e dei suoi riti radicati, procede da sempre secondo una logica trasversale. Il caldo, la luce, il riso – tutto è come è sempre stato. Anche le opere d’arte: un disegno del 1930 avrebbe potuto essere stato schizzato oggi, e i labirintici percorsi dei templi, dei giardini, dei comprensori privati provano che, se per noi, che abitiamo il tempo relativo, la vita già vissuta è scomparsa nel vortice che avanza, per loro, che si sentono comparse in un film che si ripete, il tracciato è circolare ed eterno. E nell’indomabile Indonesia l’Asia presenta tutti i colori del suo eterno, mitico arcobaleno.