Perù: un arcobaleno di emozioni
Raggiunta la sommità, lasciamo ancora una volta il nostro sguardo spaziare tutt’intorno, mentre Clever continua ad affascinarci raccontandoci le tradizioni di quest’isola. Qui le persone vivono in comunità e quasi tutti si sposano tra di loro. L’uomo e la donna si frequentano per qualche mese, convivono per circa due anni, il tempo necessario a lui per confezionare la tela che la moglie userà per portare a spalle i bambini e a lei per realizzare un poncho che lui indosserà per ripararsi dalle rigide temperature, dopodiché arriverà il matrimonio, seguito da quattro giorni di festeggiamenti che coinvolgeranno tutti gli abitanti di Taquile. Dopo il sì, la donna comincerà a tessere una cintura per il marito a cui aggiungerà qualche ciocca dei suoi capelli, per impreziosirla ulteriormente. L’isola è caratterizzata da un forte legame con la Pachamama: tutte le volte che una persona beve qualcosa, che sia acqua, vino o Inca Cola, una strana bevanda gialla che sa di Big Bubble, deve prima versarne un piccolo sorso a lei, come segno di ringraziamento. La stessa cosa succede con le foglie di coca, vero e proprio tesoro per queste popolazioni: prima di iniziare a masticarle, occorre offrirne una al Sole, una al Lago e una alla Terra. Dopo pranzo, per raggiungere il porticciolo, ci attendono cinquecento gradini affollati di uomini chini sotto sacchi pieni di rifornimenti per il ristorante, bambini dal sorriso triste che ci chiedono un sol per essere fotografati e turisti appena sbarcati ansiosi di raggiungere la cima. La barca ci sta già aspettando, così ci rimane solo più il tempo per una rapida occhiata a questo piccolo paradiso e poi non ci resta che ripartire in direzione di Puno. Durante la navigazione, il sole ci abbandona e una moltitudine di nuvole temporalesche prende il suo posto. Vediamo i fulmini scagliarsi sul lago in lontananza, mentre le cime della Cordillera Real sono illuminate da una strana luce. Le isole galleggianti sono ormai deserte: l’unico movimento è quello delle canne di totora sferzate dal vento. Il tempo di sbarcare a due passi dal nostro albergo ed ecco cadere le prime gocce di un temporale che durerà fino a notte, accompagnato da tuoni assordanti e lampi così forti da illuminare a giorno la collina circostante, creando un’atmosfera da brivido. Il giorno dopo, complice un cielo sempre più imprevedibile ed affascinante, ecco splendere il sole sulle vie allagate e sui campi ricoperti di acqua di Puno. È tempo di dire addio al lago per raggiungere Cusco, la capitale archeologica del Perù. La nostra ultima immagine del Titicaca è legata ai raggi mattutini che esaltano le sue mille sfumature di blu e alle immense distese di totora che ricoprono la zona vicino alla riva. Durante il viaggio, oltrepassiamo il Passo La Raya, a 4.338 m, dove nasce il fiume Urubamba o Vilcanota, che, da adesso in poi, ci accompagnerà tutti i giorni, stupendoci per la sua impetuosità. Stiamo infatti entrando nella Valle Sacra degli Incas, attraversata da questo “fiume sacro” che la rende fertile e vitale. Ormai il deserto della costa è solo un ricordo sbiadito e i nostri occhi sono abituati ai colori splendenti di questa zona. Nell’aria, il profumo persistente degli eucalipti ci inebria. 10° / 16° GIORNO: I MISTERI DELL’IMPERO INCA (CUSCO – VALLE SACRA – MACHU PICHU – LIMA – MILANO) Dopo due soste, una al tempio di Viracocha, il dio fondatore della civiltà inca, e una a Andahuaylillas, per visitare la cosiddetta “cappella sistina del Sud America”, arriviamo a Cusco, l’ombelico dell’impero inca, la città dove la verga d’oro di Manco Capac scomparve nel terreno ad indicare che quello era il luogo migliore per dare origine ad una fiorente civiltà. L’immancabile Plaza de Armas ci accoglie al tramonto e ci stupisce la notte, quando si riempie di luci: le due chiese barocche e il parco al centro creano un’atmosfera molto romantica e i portici, ricchi di negozietti e ristoranti, invogliano a passeggiare. E così ci confondiamo nella marea di turisti, tra bambini che cercano di venderci qualsiasi cosa, dalle gomme da masticare alle cartoline, e camerieri che vogliono a tutti i costi farci consumare una cena tipica nel loro ristorante, scoprendo che è bello perdersi tra le botteghe, alla ricerca di un berretto, di un tappeto o solo di un pretesto per fare due chiacchiere con il proprietario. Il mattino successivo, siamo in perfetta forma per iniziare a scoprire le meraviglie di questa capitale archeologica e così ci incamminiamo per la città, stupendoci di fronte ai muri inca su cui sono stati edificati i palazzi spagnoli: le pietre sono perfettamente incastrate tra di loro, senza l’utilizzo di nessun collante, in un raro esempio di solidità che ha saputo tener testa ai più violenti terremoti che nei secoli hanno sconvolto questa zona. Una sorte diversa è toccata agli edifici dei conquistadores, con i loro classici balconi in legno intagliato, più volte annientati dalla rabbia della Pachamama. Un esempio è rappresentato dalla Chiesa di Santo Domingo, dove ci fermiamo per la nostra prima visita. Questa sorge sulle rovine di Coricancha, il principale tempio inca di Cusco, ed è crollata due volte nel giro di tre secoli, mentre le mura dei templi della luna, delle stelle, del tuono e dell’arcobaleno sono ancora lì, indistruttibili, a testimoniare la grandiosità delle opere di questa civiltà. Si dice che queste mura fossero ricoperte da settecento lamine d’oro massiccio del peso di due chilogrammi ciascuna, ma, a pochi mesi dall’arrivo degli Spagnoli, di questo rivestimento non rimaneva più niente, così come non c’è più traccia delle pannocchie dorate ed argentate, a grandezza naturale, custodite nel tempio, che venivano piantate durante i riti agricoli per chiedere fertilità ed abbondanza. Tutto l’oro è stato fuso in lingotti prontamente spediti alla madrepatria. Comodamente seduti nel chiostro del convento, ascoltiamo Enrico, la nostra guida, raccontarci i misteri della croce andina. Una croce portatrice dei tre valori più importanti per gli Incas: Imparare, Lavorare, Amare. Una croce che rappresenta i tre regni in cui essi dividevano il mondo: il cielo, o condor, dove risiedevano Viracocha, gli altri dei e gli eventi naturali, la terra, o puma, patria degli uomini, delle piante e degli animali, e il regno sotterraneo, o serpente, dove trovavano asilo i semi, le mummie e la Pachamama. Tre mondi collegati tra di loro attraverso le pacarinas, dei canali sotterranei che erano visti come fonti di luce e di vita poiché era attraverso questi che la terra donava i suoi prodotti agli esseri viventi. Dopo il convento, è la volta del Museo Inca, che ospita una bella collezione di oggetti in metallo e in oro, gioielli, ceramiche, tessuti e mummie. Girovagando fra le varie stanze del palazzo, conosciuto anche con il nome di “casa dell’ammiraglio” perché il suo primo proprietario fu l’ammiraglio Francisco Aldrede Maldonado, ci soffermiamo a scoprire i mille particolari della vita quotidiana della civiltà incaica: l’importanza del mais, il culto della coca, l’allevamento dei lama, lo studio delle stelle e soprattutto lo splendore del sole, di cui l’Inca era il rappresentante sulla Terra. Fra i molti reperti, pochi frammenti di mazze e lance sono testimoni della distruzione seminata dagli uomini di Pizarro che, accolti fiduciosamente dall’Inca Atahualpa perché visti come una divinità dalla pelle chiara che veniva da oltre le acque, nel giro di due giorni, tra il 16 e il 17 novembre 1532, appena sbarcati sulla costa dell’attuale Ecuador, hanno massacrato, con 37 cavalli, 2 cannoni e le loro spade di ferro, duemila indios e ne hanno fatti prigionieri altri mille. Dopo una serie ininterrotta di vittorie e genocidi, nell’ottobre del 1533, gli Spagnoli sono giunti a Cusco, dove la loro fame di ricchezze e territori non si è fermata neanche di fronte alle possenti mura della fortezza di Sacsayhuaman, il “falco soddisfatto”, che noi visitiamo nel pomeriggio, sotto una leggera pioggia. Questo forte rappresenta il muso di un puma, animale sacro a cui si ispirarono gli Incas quando gettarono le basi per la città: il corpo era disteso nella parte bassa, con il cuore che batteva in Plaza de Armas, al tempo grande il doppio rispetto ad oggi, mentre la testa era all’erta su questa collinetta che dominava la città, con i denti aguzzi, le ventidue mura a zigzag poste su tre livelli che costituivano le fortificazioni principali, pronti ad attaccare i nemici. Mentre camminiamo tra queste mura ricche di storia dove, ne siamo convinti, si aggirano ancora le anime degli Incas brutalmente uccisi, Enrico ci racconta che qui è stata combattuta una delle più aspre battaglie della conquista: circa due anni e mezzo dopo l’ingresso di Pizarro a Cusco, il ribelle Manco Inca si impossessò di Sacsayhuaman e pose sotto assedio i conquistatori, asserragliati nella città. Solo un disperato attacco condotto da cinquanta cavalleggeri guidati da Juan Pizarro riuscì a sconfiggere gli incas e a porre fine alla rivolta. Manco Inca sopravvisse e si ritirò nella fortezza di Ollantaytambo, ma la maggior parte dei suoi soldati perse la vita nello scontro e i cadaveri attirarono grandi frotte di condor delle Ande. È per questo motivo che nello stemma di Cusco compaiono otto condor. Dopo Sacsayhuaman, visitiamo le altre tre rovine arroccate sulla collina di Cusco: Qenko, il cui significato letterale è “zigzag”, luogo dedicato al sacrificio dei lama, che deve il suo nome ai canali per lo scolo del sangue scavati ai lati dell’altare, dove un campesinos particolarmente devoto ha appena offerto alla Pachamama un po’ d’incenso, il cui profumo deciso ci solletica il naso, Puca Pucara, la “fortezza rossa”, chiamata così a causa della colorazione assunta dalla terra in particolari condizioni di luce, e Tambo Machay, “grotta per riposarsi”, probabilmente un tempio dedicato all’acqua, con una vasca cerimoniale in pietra decorata conosciuta anche come “El Baño del Inca”. Il pomeriggio si conclude con la visita a due delle tante chiese sparse per la città, a commemorare l’atrocità delle spade spagnole che imposero il verbo di Cristo sporcandosi di sangue indio: la Cattedrale e la chiesa di San Blas. La prima, le cui torri barocche svettano in Plaza de Armas, è famosa per le numerose opere d’arte della Escuela Cuzqueña, una corrente pittorica nata dall’incontro tra i grandi pittori spagnoli, chiamati in Perù per raffigurare i volti dei santi, e i ragazzi di bottega di Cusco che, anziché limitarsi a rifinire i dettagli, com’era stato loro ordinato, ne hanno approfittato per consumare la loro vendetta, disseminando le tele di simboli incaici e rendendo le mani dei personaggi sacri molto simili a dei piedi. Purtroppo la famosa “Ultima Cena”, dove Gesù e gli apostoli pasteggiano con il cuy, il porcellino d’India, e la chicha, la birra di mais, è in restauro e quindi dobbiamo accontentarci degli altri quadri, grandi e lugubri, caratterizzati dall’uso ridondante di oro zecchino e dalla mancanza di prospettiva. All’uscita, il sole ritorna ad abbagliarci, asciugando le gocce cadute poco prima sugli alberi del parco al centro della piazza, mentre una nuvola sospinta dal vento veleggia allegra dietro il campanile della chiesa La Compañia, costruita sopra le fondamenta del palazzo di Huayna Capac, l’ultimo sovrano inca, che regnò su un impero unito e non ancora conquistato. Ci rimane il tempo per la visita della Chiesa di San Blas, con il pavimento in discesa e un pulpito in legno definito il miglior esempio di arte coloniale dell’intaglio delle Americhe, e per una passeggiata nella stretta via che unisce il quartiere, in cima alla città, con Plaza de Armas. I negozi di articoli religiosi si confondono con quelli di souvenir e, davanti alle loro vetrine, le donne andine, con i lunghi gonnelloni, i cappelli stravaganti e un lama al guinzaglio, si mettono in posa, su richiesta dei numerosi turisti armati di macchina fotografica, per un sol. I loro figli sgambettano su e giù per la strada, provvisti di cartoline di Machu Pichu, di dita veloci per farle scorrere davanti agli occhi indifferenti dei passanti e di molta voglia di contrattare, mentre i tassisti scendono a rotta di collo verso Plaza de Armas, dove, suonando il clacson, faranno capire a chiunque abbia voglia di conoscere i mille monumenti di Cusco che loro sono disponibili. Arrivati in albergo, una tazza fumante di mate de coca, sorseggiato sui comodi divani, si porta via la stanchezza e il freddo dai nostri muscoli, che si rivelano subito pronti per un’altra immersione nelle vie ora illuminate di Cusco. È in programma una cena tipica all’Inca Grill, un ristorante sotto i portici della piazza, dove un gruppo di musicisti si esibisce nel suo repertorio musicale, spaziando da “El condor pasa” a “Let it be”. Le note sono un po’ malinconiche, ma un pisco sour ci rende subito più allegri e da il la ad una cena caratterizzata da un’immancabile sopa, dal solito piatto di patate (qui ne coltivano più di trecento tipi!) e da una creme brulèe alla coca dal gusto molto particolare. Il mattino seguente, la Valle Sacra, 15 km a nord di Cusco, si apre davanti ai nostri occhi assonnati con i suoi campi coltivati, simili a un grande mosaico le cui tessere colorate sono state accostate a casaccio dalla fantasia di un bambino, e i suoi piccoli villaggi sparsi lungo il corso dell’Urubamba, con le vie strette su cui si affacciano fatiscenti case dal tetto di paglia. Ci fermiamo a Pisac, dove, percorrendo un sentiero panoramico difeso da massicce porte di pietra e ripidi gradini, raggiungiamo le rovine inca, appollaiate su uno sperone roccioso 600 m. Sopra il paese. Una volta abituati al senso di vertigine provocato dallo strapiombo, lasciamo lo sguardo vagare sulla valle sottostante e sui pendii di fronte, terrazzati fino al cielo, perdendoci così la spiegazione di Enrico che forse ci avrebbe permesso di apprezzare ancora di più le camere e i templi, perfettamente conservati, di questo centro che doveva avere una funzione sia religiosa che di difesa. Scendendo in paese, ci fermiamo tra le tante bancarelle che ravvivano le vie del centro a mercanteggiare con gli indios. Pisac è famosa per il suo mercato che, soprattutto la domenica, si anima grazie ai tanti andini provenienti dai paesi limitrofi e alla folla di turisti curiosi che si reca in paese anche per assistere alla messa celebrata in quechua e seguita dallo scambio di foglie di coca tra i sindaci dei villaggi vicini, in segno di pace, e dall’offerta di alcune gocce di chicha alla Pachamama. Al pomeriggio, dopo una faticosa salita lungo i terrazzamenti posti a sua difesa, raggiungiamo la fortezza incaica di Ollantaytambo, dove Manco Inca, il ribelle, pianificò una delle rare vittorie contro gli Spagnoli, chiamando dalla giungla arcieri esperti nello scoccare frecce e facendo deviare il corso del fiume per allagare la valle sottostante e creare serie difficoltà a cavalli e cavalieri. Il suo successo, però, ebbe vita breve: poco dopo, alle forze spagnole di Cusco si unirono quelle di ritorno da una spedizione in Cile e un corpo di cavalleria quattro volte più grande attaccò di nuovo Ollantaytambo, costringendo Manco Inca a ritirarsi nella roccaforte di Vilcabamba. Dalla montagna di fronte, il Viracocha scolpito nella pietra non ha potuto far altro che assistere, impotente, alla disfatta della civiltà che un secolo prima aveva creato, così come adesso assiste alle orde di turisti che, guide illustrate e macchine fotografiche alla mano, ogni giorno prendono d’assalto questo sito, stupendosi di fronte agli enormi blocchi di pietra trasportati fin qui dalla cava a sei chilometri di distanza che hanno costituito le basi per una parte del tempio, poi rimasta incompiuta. Tra le vie del villaggio, che sorge ai piedi dei terrazzamenti, su fondamenta inca, vediamo per la prima volta un gruppo di portatori. Siamo entrati nella zona dell’Inca Trail, il percorso che in quattro giorni, partendo dal famoso chilometro 88 della ferrovia, permette di raggiungere il Machu Pichu a piedi, valicando tre passi, uno dei quali a 4.200 m. Di quota, e questi ragazzi sono disponibili per accompagnare i turisti trasportando zaini carichi di tende, sacchi a pelo, cibo, che spesso pesano quanto loro. Ai piedi non hanno scarponi, ma scarpe aperte ricavate da copertoni usati, e le loro spalle sono ormai irreparabilmente piegate. Enrico ci spiega che l’agenzia per cui lavorano li paga meno di 9 soles al giorno e quindi loro cercano di guadagnare qualcosa facendosi fotografare dai turisti… La sera pernottiamo a Yucay, all’interno di una vecchia casa coloniale trasformata in albergo. Il cedro che ci accoglie all’entrata, su cui convivono fiori appena sbocciati, frutti non ancora maturi ed altri pronti per essere colti, trasmette gioia di vivere e senso di continuità, mentre i giardini intorno alle camere sembrano una tavolozza di colori su cui un pittore distratto ha dimenticato il giallo splendente delle bocche di leone, il fucsia dei gerani e il verde dell’erba rinvigorita dalla stagione delle piogge appena passata. Dall’altra parte della via, altre stanze sono state ricavate da quello che un tempo era un convento. Qui, il negozio di souvenir, dove morbidi maglioni di alpaca cercano di attirare l’attenzione dei turisti infreddoliti, e le note di “My way”, che escono dagli zufoli di un immancabile gruppo di andini a disturbare concentrati giocatori di biliardo, creano un contrasto un po’ blasfemo con la stupenda chiesetta dai colori pastello che appare, timida, alle spalle del ristorante. La notte, il fantasma che si dice infesti una delle camere non si fa vivo, forse spaventato dai fulmini temporaleschi che squarciano il cielo, seguiti da tuoni capaci di rompere il silenzio sonnacchioso caduto tutt’intorno. Al risveglio, la pioggia continua a cadere e le nubi minacciose in agguato all’orizzonte contribuiscono ad avviare nel peggiore dei modi la nostra giornata dedicata alla visita di Machu Pichu, la ciudad perdida de los Incas. In preda allo sconforto, raggiungiamo la stazione di Ollantaytambo, dove prendiamo posto su un comodo treno dotato di mille comfort, ma sprovvisto di quell’atmosfera un po’ rustica che il nome, Trenino delle Ande, evocava in noi. Ci aspettavamo di trovare donne dirette al mercato con sacche traboccanti di maglioni, berretti e pannocchie di mais da vendere ai turisti, o uomini con la pelle bruciata dal sole e una strana bolla all’angolo della bocca, dove le foglie di coca, masticate insieme a un pezzetto di una particolare pietra, stavano diffondendo le loro svariate virtù, invece ci accolgono due hostess sorridenti che, mentre il treno scende fino ai 2.000 m. Di Machu Pichu, lasciandosi alle spalle la pioggia, ci offrono la colazione, un immancabile mate de coca e la possibilità di comprare ogni tipo di souvenir. All’uscita da ogni nuova galleria, la foresta ci avvolge sempre più, mettendo in scena uno spettacolo grandioso. Ci sono foglie grandi quanto noi, tempestate di mille goccioline di umidità, che si contendono un po’ di spazio con orchidee e gladioli selvatici i cui colori splendenti sembrano un inno alla vitalità, mentre i tronchi degli alberi, ricoperti da uno spesso strato di muschio verde ed onnipresente, fanno a gara per conquistare un raggio di sole. Arrivati alla stazione di Aguas Calientes, un pullman ci attende per portarci alle rovine attraverso una strada ripida e tortuosa a picco sul fiume Urubamba che, visto dall’alto, sembra un enorme serpente marrone che si insinua nella foresta profanandone la sacralità. Dopo dieci minuti di continui scossoni, cominciamo a intravedere le prime costruzioni, stagliate contro le nuvole grigie, ma è dopo aver varcato la soglia d’ingresso e percorso pochi gradini, che Machu Pichu si svela in tutta la sua magia, con i terrazzamenti, i templi e la cima dell’Huayna Pichu, la Giovane Vetta, che fronteggia orgogliosa il Machu Pichu, la Vecchia Vetta, a cui diamo le spalle mentre osserviamo, rapiti, questo spettacolo. Siamo divisi tra la smania di partire subito alla scoperta dei tanti segreti racchiusi tra queste mura secolari e la voglia di rimanere lì ancora un po’, a far vagare la mente, portandola indietro al tempo degli Incas, a immaginare timide Vergini del Sole affacciarsi alle finestre, o attenti astronomi discutere di solstizi attorno all’Intihuatana, o devoti sacerdoti correre verso il Tempio del Sole per celebrare un rito. Pensiamo allo stupore di Hiram Bingham che, il 24 luglio 1911, mentre era alla ricerca di Vilcambamba, l’ultima roccaforte inca, poi individuata anni dopo nell’inaccessibile e remota giungla, si imbatté quasi casualmente in questa cittadella scampata alle razzie spagnole e ci vengono in mente le parole scritte nel suo resoconto: “Mi immersi nell’umida atmosfera del sottobosco, con il cuore che martellava. Davanti a me, un muro coperto di muschio, seminascosto dagli alberi”. Dopo cinque anni di lavoro, questo muro e tutti quelli che lo circondavano sono stati liberati dall’invadenza della foresta e dei serpenti e questa meraviglia archeologica, magistralmente incastonata tra precipizi vertiginosi, ha finalmente rivisto la luce. Negli ultimi anni, il sito è stato proclamato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco e, ogni giorno, migliaia di visitatori giungono fin qui dai quattro angoli della Terra per ammirare questa testimonianza pietrificata della potenza dell’impero inca. Nonostante ci sembri un sogno, complice l’atmosfera ovattata creata da una leggera nebbiolina che ogni tanto si alza dalla giungla, anche noi siamo tra quei fortunati e, gambe in spalla, seguiamo Enrico per i ripidi scalini che ci portano al Tempio del Sole, l’unico edificio rotondo di Machu Pichu, da cui ha inizio la visita. A poco a poco, oltrepassiamo l’Intihuatana, un pilastro di roccia utilizzato per prevedere i solstizi, e la Piazza Centrale, dove quatto lama stanno brucando la tenera erbetta del prato, per raggiungere la Roccia Sacra, presa d’assalto da alcuni seguaci della new-age arrivati fin qui per fare il pieno di energie positive, e concludere con la zona bassa, di carattere più pratico, dove, tra gli edifici destinati a prigioni, una pietra scolpita a forma di condor, simbolo di libertà, ricordava ai detenuti ciò che avevano perso, forse per sempre. Al pomeriggio, dopo aver oltrepassato la Capanna del Custode della Roccia Funeraria, un edificio chiamato così per la sua vicinanza con una roccia scolpita probabilmente usata per mummificare i nobili, camminiamo per circa un’ora, con il corpo aggredito dall’umidità della foresta, per raggiungere l’Intipunku, o “porta del sole”. Questa è l’ultima tappa dell’Inca Trail, dove la vista della “ciudad perdida de los Incas” ripaga gli esausti trekkers di tutti gli sforzi compiuti nei quattro giorni di cammino, e deve il suo nome ai primi raggi del sole che, al mattino, passano attraverso questi blocchi di pietra prima di illuminare i templi di Machu Pichu. Da qui lo sguardo corre dal serpente d’acqua che si snoda nella valle sottostante ai picchi innevati delle Ande, dai tornanti della strada, dove una nuvola di polvere ci avverte che nuovi turisti sono in arrivo, alle sconfinate distese di alberi che ricoprono queste montagne, habitat di migliaia di animali forse non ancora scoperti dall’uomo, ma ritorna sempre, come ipnotizzato, alle rovine, integrate alla perfezione con la cornice naturalistica circostante. Vaghiamo per tutto il pomeriggio tra i templi ed i terrazzamenti, sentendo l’energia di Machu Pichu invaderci il corpo, sempre accompagnati dal volo di un passerotto, sicuramente la reincarnazione di un inca che ha deciso di vegliare su di noi, fino a quando non arriva l’ora di risalire sul pullman per raggiungere l’albergo ad Aguas Calientes. Quando scende la notte, le alte montagne ricoperte di alberi che circondano il paesino, con la loro forma di panettone, risultano opprimenti, soffocanti. Il cielo sembra imprigionato, distante, ricoperto da una coltre di nubi che non lascia intravedere le stelle, mentre il ruggito dell’Urubamba pare aumentare sempre più di intensità. Al mattino, quando ci perdiamo tra le vie in costruzione di Aguas Calientes, un paese nato grazie alla scoperta di Bingham ed oggi colonia di hotel moderni ed assolutamente fuori luogo, ci assale una sensazione di tristezza, che neanche il sole splendente riesce a cancellare. Gli alberi abbattuti per fare posto a nuove strade ricche di ristoranti e negozi di souvenir, gli sguardi bramosi dei bambini indio fuori dalle hall dei grandi alberghi, i cani randagi che si azzuffano davanti a un osso gettato per terra, il rantolo del treno che si ferma proprio in mezzo alle bancarelle e una continua umidità che soffoca e toglie il fiato ci fanno quasi apprezzare il “Trenino delle Ande” che, nel primo pomeriggio, ci porta via da questo luogo inabissato nella valle, dove il contrasto tra ricchezza e povertà appare forte ed insuperabile. Risalendo verso Cusco, la valle dell’Urubamba ci offre un collage di immagini da antologia: il rosso vivido di un gladiolo selvatico che spicca tra il cupo verde delle foglie di un ficus benjamin, un cactus che si staglia contro un cielo di un’intensità quasi dolorosa, un’agave che protende le foglie verso il sole, il giallo intenso delle ginestre che quasi ferisce lo sguardo, le Ande con i loro ghiacciai che incombono sulle nostre teste ed alimentano il fiume, sulle cui rive crescono strani alberi dal tronco contorto, e le varie sfumature rossastre dei fichi d’India che stanno maturando e che presto saranno depredati da alcuni bambini che ci salutano mentre il treno fischia passando in mezzo a un gruppo di case dal tetto di paglia. Dopo tre ore di viaggio, gli ultimi raggi del sole, che abbandonano il cielo lasciandogli una ferita rossa, alzano il sipario sullo spettacolo offerto dalla città di Cusco, completamente illuminata, che appare ai nostri occhi dall’alto della collina. Le due chiese di Plaza de Armas, la Cattedrale e la Compañia, di giorno così nauseanti nel loro opulente barocco, catalizzano gli sguardi, come raffinate prime donne che, sul palco di un teatro, si contendono il favore del pubblico, con un’interpretazione intensa e ardente. In cielo, la luna piena, elegante nel suo semplice vestito di luce, dirige impeccabile la sua orchestra di stelle e, mentre si diffondono le note dei violini di Orione, ecco le quattro voci della Croce del Sud rompere il silenzio ed accompagnare le acrobazie luminose delle due stelle che brillano in piazza, lasciando il pubblico basito. Anche le case della periferia e della collina intorno alla città, chiamate a svolgere il ruolo di comparse, hanno sostituito l’abito stinto del giorno con uno più scintillante, su cui brillano migliaia di lustrini. In un continuo sferragliare, il treno abbandona la cima della collina e le luci al suo interno, prima spente per permetterci di ammirare in totale intimità lo scintillio della città, vengono riaccese, in modo violento ed inaspettato; sui nostri volti, l’espressione sognante ed incantata indugia fino a quando non arriviamo in stazione ed il caos ci avvolge, crudele e malvagio, con le urla dei tassisti, l’odore dei gas di scarico, la confusione del mercato che sta per concludersi lasciando sulle strade qualche frutto, delle casse vuote e dei fogli di giornale che volano sospinti da una leggera brezza. Con negli occhi ancora lo spettacolo di poco prima, arriviamo sul palco di Plaza de Armas, al cospetto delle due chiese, per ammirare i loro piccoli particolari da vicino: lo slancio verso l’alto delle torri, il bronzo delle campane ravvivato da un particolare bagliore, il verde della porta trasformato dalla luce calda che lo illumina. Solo adesso scopriamo la funzione di regista svolta dal parco, in grado di unire le due prime donne, in competizione tra di loro, con le sue luci morbide e lievemente soffuse. Il mattino successivo, senza trucco e vestito da sera, la piazza ha perso la sua magia. Le due chiese non riescono a nascondere del tutto i loro difetti, come la patina grigia che avvolge i muri o una porta leggermente scrostata, e i piccoli taxi e i pullman carichi di turisti parcheggiati al loro ingresso le rendono un po’ volgari. Solo il parco sembra non risentire troppo della spietata luce del giorno, in grado di smascherare ogni minima imperfezione: le panchine comode richiamano frotte di turisti allegri e i raggi del sole trasformano le gocce zampillanti della fontana in tanti brillanti di effimera durata, mentre le foglie degli alberi si lasciano cullare da un dolce venticello, disturbate ogni tanto da un uccellino che cerca un po’ di riposo su un ramo. Noi, andatura rilassata e boleto turistico alla mano, approfittiamo dell’ultima giornata a Cusco per visitare ciò che nei giorni precedenti ci è sfuggito. Raggiungiamo il palazzo del sesto sovrano inca, Inca Roca, dove, tra le varie pietre che costituiscono il muro, dovrebbe essercene una con ben dodici lati. Un bambino si offre di farci da guida e ce la indica: naturalmente, non resistiamo alla tentazione di contare e rimaniamo sbalorditi quando ci rendiamo conto che la pietra ha veramente dodici lati ed è perfettamente incastrata tra le altre. Il bambino, fiero dei suoi antenati, ci fa sapere che questo non è l’unico esempio di pietra poligonale presente nelle mura inca: a Torontoy, una rovina di secondaria importanza, a metà strada tra Machu Pichu e Ollantaytambo, è stato trovato un blocco con addirittura quarantaquattro angoli! Forse ci sta prendendo in giro, ma noi gli crediamo, ringraziandolo per le informazioni e lasciandolo a un altro gruppo di turisti che si sta avvicinando al muro con aria scettica. Dopo aver superato una moltitudine di cambiavalute appiccicosi, ecco apparire davanti ai nostri occhi il cortile del Coricancha, il tempio del Sole, su cui si affaccia il Convento di Santo Domingo: seduti sull’erba soffice, raramente interrotta da qualche macchia fiorita, proviamo a tornare indietro con la mente di circa cinque secoli, al tempo in cui gli Incas non avevano ancora conosciuto il ferro delle spade spagnole, e ci immaginiamo un enorme parco dove piante, animali e fiori erano riprodotti in oro massiccio e anche le stesse zolle di terra erano costituite da pezzi di oro fino. Nell’angolo, un gregge di lama con relativi pastori dorati ci osserva mentre due pannocchie argentate sono infilate nel terreno, secondo un antico rito propiziatorio. Ogni giorno qui venivano esposti alla luce del dio sole i corpi mummificati di diversi sovrani inca, a cui i sudditi più fedeli portavano cibo e bevande, mentre, di notte, quando la città era immersa nel sonno, esperti sacerdoti alzavano gli occhi alla volta stellata e si dedicavano allo studio della Via Lattea, il sacro fiume in grado di collegare il mondo dei vivi con quello dei morti. La nostra ultima sosta è davanti al Palazzo Municipale, sul cui balcone di legno intagliato sono issate due bandiere: una, con tutti i colori dell’arcobaleno, sventolava già ai tempi del Tahuantinsuyu, l’impero inca, rappresentando i quattro quarti in cui questo era diviso, mentre l’altra, con una striscia bianca al centro, su cui spicca lo stemma della nazione, e due strisce rosse ai lati è la bandiera peruviana. La leggenda vuole che i suoi colori siano stati scelti da Josè de San Martin, il liberatore del Perù, rimasto abbagliato dalle sfavillanti ali di uno stormo di fenicotteri in volo sulla costa di Paracas la sera dell’8 settembre 1820, quando il sole stava tramontando. Al pomeriggio, ormai sazi di monumenti e palazzi, ci dedichiamo allo shopping nel quartiere di San Blas, sulle cui strette vie, che salgono da Plaza de Armas fino alla chiesa sulla collina, si affacciano numerose botteghe artigianali. In una di queste, un pittore sta dipingendo con gli acquerelli il volto di una bambina con un variopinto berretto calato sulla testa, da cui spuntano due impertinenti trecce nere, mentre, sulla soglia del negozio di fronte, una signora con il viso coperto di rughe sta confezionando un tappeto su cui un lama bruca l’erba di un improbabile prato verde acido, sotto gli occhi del suo pastore. Nella parte più alta, vicino alla chiesa, incontriamo quasi esclusivamente botteghe di articoli religiosi: al loro interno, i proprietari sono in attesa di qualche cliente, con lo sguardo fisso sugli scaffali ricolmi di crocefissi in legno eccessivamente elaborati e di miniature della Cattedrale aggredite dalla polvere, mentre dalle vetrine, i santi raffigurati sulle tele ispirate alla Escuela Cuzqueña, con la loro postura rigida, quasi fossero impagliati, e l’espressione austera, sembrano disapprovare la nostra andatura rilassata e le nostre mani intralciate da numerose borse dalle quali spuntano caldi berretti di alpaca, tipiche tele colorate e zufoli che difficilmente proveremo a suonare una volta tornati a casa. Alla sera, mentre le nostre gambe cercano un po’ di riposo sulle panchine della piazza, i nostri occhi, fino ad oggi sempre pronti ad illuminarsi di fronte ad una nuova scoperta, lasciano trasparire, per la prima volta, un velo di tristezza per il distacco imminente. Un distacco che si rivela in tutta la sua brutalità il mattino successivo quando l’aereo per Lima ci augura buona giornata con un assordante rumore di motori, il freddo quasi polare dell’aria condizionata e l’assurdo ripieno di una brioche offertaci insieme ad un mate de coca ormai inutile. All’atterraggio, ci accoglie una città rumorosa, inquinata e soffocante: le strade brulicano di taxi e pullman turistici i cui gas di scarico, aiutati dall’immancabile garua, creano una persistente foschia che rende il cielo grigio e poco attraente. I nostri corpi, abituati al clima secco delle Ande, faticano ad accettare l’umidità e accolgono con grande piacere la frescura del Convento di San Francesco, dove, dopo aver ammirato una splendida biblioteca in legno i cui libri, con le pagine ormai ingiallite dall’inesorabile avanzata del tempo, sono stati studiati già dai primi conquistadores, ci immergiamo nell’atmosfera un po’ lugubre delle catacombe tra le cui mura basse e odorose di muffa si dice siano state sotterrate circa 70.000 persone. I brividi che ci corrono lungo la schiena, alimentati dal sorriso sinistro dei numerosi teschi perfettamente conservati e disposti in modo ordinato insieme a femori, tibie ed altre migliaia di ossa, si placano solo quando ritorniamo in superficie e la calda luce del sole ci ferisce gli occhi. Lasciamo il convento camminando un po’ insicuri sui suoi pavimenti feriti dai numerosi terremoti che, ciclicamente, hanno colpito la città, e in breve tempo raggiungiamo la Cattedrale barocca che, con le sue torri di un grazioso giallo pastello, ravviva le grigie vie del centro. Al suo interno, in una sfarzosa cappella decorata con preziosi mosaici colorati, hanno trovato asilo i resti di Francisco Pizarro, le cui “gloriose” imprese vengono ricordate con un’imponente statua, donata dagli Spagnoli, che troneggia nell’angolo opposto di Plaza de Armas. Su questa, il conquistador, nella realtà un mediocre cavaliere, si erge impettito a cavallo di un purosangue, che, quando la statua si trovava nel centro della piazza, fu accusato di rivolgere il posteriore verso la cattedrale. A seguito delle continue lamentele dell’autorità ecclesiastica, il monumento venne spostato davanti al Palazzo del Governo, dove rimase fino a quando uno dei principali uomini politici che vi lavoravano subì la stessa sorte toccata a Pizarro nel lontano 1541: venne assassinato. Questo fatto causò la preoccupazione dei suoi superstiziosi colleghi che, tormentati dal pensiero di una maledizione, decisero di spostare la statua nella posizione attuale. Proprio davanti al Palazzo del Governo, sulla cui sommità sventola la bandiera rossa e bianca, assistiamo al cambio della guardia, tra squilli di trombe e allegre uniformi blu e rosse, e poi, dopo una sosta a Miraflores, per un’ultima occhiata all’oceano, dove una moltitudine di surfisti è alla ricerca dell’onda giusta, e una breve visita alle vie sonnacchiose del Barranco, il quartiere degli artisti, famoso per la sua sfrenata vita notturna, arriva l’ora di raggiungere l’aeroporto e di abbandonare questo Paese che, con i suoi forti contrasti, ci ha regalato grandi emozioni. Al decollo, davanti alla notte stellata di Lima, la mia mente è tempestata da mille immagini che si sovrappongono: la nuotata di un cucciolo di leone marino, il collo del fenicottero scolpito nel deserto di Nasca, i colori vividi del Colca Canyon, la magia di Sillustani, il blu incantato del Lago Titicaca, le luci di Cusco, l’energia dei templi Machu Pichu e, soprattutto, la morbidezza del caldo maglione di lana acquistato alla Cruz del Condor che, indossato nelle fredde sere invernali, mi riporterà alla memoria il sorriso aperto e sincero di quell’andina vestita di mille colori…