Panama, il posto giusto al momento giusto!
Dopo due giorni nella capitale all’alba prendiamo il volo per la provincia autonoma di Kuna Yala. La maggior parte di questo territorio è costituito dall’arcipelago di San Blas, 365 isole ed isolotti piccolissimi, di cui solo poco più di una quarantina abitati. La tribù dei Kuna che qui vive, ha uno statuto ampiamente autonomo, una amministrazione indipendente dal governo panamense, proprie leggi e una fortissima identità culturale che ne fanno una popolazione estremamente interessante e singolare. Sono il gruppo etnico più basso al mondo dopo i Pigmei e quello che ha la più alta percentuale mondiale di individui albini. La bellezza e l’originalità dell’abbigliamento delle donne Kuna mi colpisce fino dall’aeroporto dove incontro un piccolo gruppo familiare che si imbarca sull’avioneta con noi per tornare al villaggio. Dopo poco più di un’ora di volo arriviamo a Playon Chico, e da là una lancia ci accompagna ad un’isolotto poco più grande di un campo di pallone dove alloggeremo in una delle cabañas del Sapibenega Lodge. L’albergo è molto affascinante: sembra di vivere nella capanna di Robinson Crusoe ma in fondo non manca nessuna comodità e le onde del Caribe arrivano a un metro dalla mia porta. Tutte le strutture alberghiere dell’arcipelago, che non sono molte, sono gestite dai Kuna stessi per legge, e questo lodge è forse il migliore. Il nostro soggiorno passa piacevolmente andando a prendere il sole su isolotti che sembrano usciti da una vignetta: un ciuffo di palme al centro di un micro-atollo di sabbia bianca su cui manca solo il naufrago. Si va poi all’isola abitata dai Kuna, dove le donne siedono davanti alle capanne a chiacchierare e cucire le “molas”, delle specie di arazzi coloratissimi con cui decorano i propri abiti che sono diventate quasi un simbolo del paese. Un altro luogo interessantissimo è il cimitero sulla vicina terraferma, qui vengono portati i defunti di tutte le isole dei dintorni. Le sepolture sono sulla cima di una collina, protette da tettoie di foglie di palma, dove donne e bambini si recano spesso per rendere omaggio ai parenti scomparsi e tenere in ordine le “cappelle di famiglia”. Il posto è talmente bello, la vista che spazia sull’arcipelago così affascinante, che si capisce perché passino qui intere giornate a dondolarsi sulle amache, cucire e cucinare, col risultato che il cimitero è un luogo vivo ed animato quanto il villaggio. Rimaniamo tre giorni in un quasi completa solitudine nel lodge, poi riprendiamo il volo.
A Panama City acchiappiamo appena in tempo la coincidenza per David, una città a nord, verso il confine con il Costarica. All’aeroporto stesso troviamo un taxi che ci porta a Boquete, a una cinquantina di chilometri, e in poco più di mezz’ora passiamo dal caldo soffocante al clima fresco del tropico di montagna. Siamo infatti oltre i 1000 metri in una vallata verdissima, traboccante di alberi e fiori. Boquete è una località amata dai panamensi più ricchi e da vip di tutto il continente americano, che possiedono ville e proprietà varie nei dintorni. Si viene qui per fare passeggiate alle sorgenti termali, birdwatching in cerca dei mitici quetzales, trekking al vicino vulcano Barù. Il paese è piccolo e gradevole, ci sono vari alberghi e pensioni e noi ci fermiamo al Panamonte, una deliziosa costruzione di legno dipinta d’azzurro che ha quasi cento anni e moltissima atmosfera. Passiamo qui quattro giorni rilassanti, facendo passeggiate ed escursioni nella vallata. Da non perdere assolutamente è il parco del Sendero de los Quetzales, anche perché sul capo di questo luogo di una bellezza commovente pendono minacce gravissime. Il parco, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, è percorso da 15 chilometri di sentiero sterrato che arrivano al Serro Punta da Boquete: una strada che attraversa senza arrecare danno un paesaggio di foresta pluviale con alberi altissimi, liane, sottobosco fiorito, torrenti rocciosi e cascatelle, frequentato da un’infinità di uccelli e altri animali. Pare che il governo abbia deciso di ampliare ed asfaltare questo percorso per incrementare il turismo, con conseguenze tragiche per l’ambiente. Gonzalo Miranda, un acceso ecologista che ci ha fatto da guida nel parco ha detto che lui e i suoi amici sono pronti a tutto pur di fermare il progetto e ha chiesto aiuto per far conoscere al mondo intero questo scempio. Chi ne ha voglia può visitare il sito www.Salvalo.Org per saperne di più.
Un’altra cosa interessantissima da fare nella valle è andare a vedere una piantagione di caffè e tutti gli stabilimenti per la lavorazione del prodotto. Qui si coltiva il famoso caffè di montagna, forse il migliore del mondo, e se si ha la fortuna di avere come accompagnatore una persona in gamba come è capitato a me, l’esperienza sarà sorprendentemente valida. Ancor più valida se, dopo aver ascoltato la campana di chi lavora per un grande proprietario “cafetalero”, si potrà ascoltare la versione di chi conosce la vita e la fatica degli indios che lavorano come stagionali per la raccolta del caffè. Da parte mia ogni volta che bevo una tazzina oggi ho molti pensieri ed immagini che tornano nella mia mente…
Di nuovo un breve volo in avioneta ci porta su un arcipelago nel Caribe, Bocas del Toro. Bocas sarebbe un posto bello e piacevole, se avesse un clima differente… L’indispensabile Lonely Planet, che per ora esiste solo in inglese, riporta che ci sono due stagioni: una è “wet”, e l’altra “wetter”… Non si può dire che non fossi preparata ad un posto piovoso, ma non fino a questo punto! Sotto una pioggia quasi perenne anche le case di legno dai bei colori tropicali perdono buona parte del loro fascino, e cielo e mare assumono un colore plumbeo quasi indistinto. Eppure Bocas è il posto più turistico di questo paese, ci sono molti americani che vengono a vivere qui senza timore dei reumatismi. Noi resistiamo due giorni, ma dopo una sera in cui per tornare all’albergo che dista si e nò duecento metri dal ristorante dobbiamo prendere un taxi per sopravvivere al muro d’acqua che ci si rovescia addosso, decidiamo di fuggire in cerca di altri cieli.
Arrivati alla capitale questa volta decidiamo di noleggiare un’auto, e ci avviamo lungo la strada che costeggia il Pacifico. Finalmente il sole! Sulla costa si susseguono varie spiagge e località turistiche frequentate dalla gente della capitale nei fine settimana. Decidiamo di fermarci a Santa Clara, dopo un centinaio di chilometri. Qui la spiaggia è bianca, lunga e quasi deserta; alle spalle esplode subito la vegetazione tropicale. Qualche decina di chilometri più avanti ci sono un paio di alberghi villaggio di grandi catene internazionali, quelli che si trovano su tutti i depliant turistici, ma qui siamo in un altro pianeta, per fortuna. Las veraneras è un tranquillo gruppo di cabañas che confinano da una parte con la spiaggia e dall’altra con la selva, con in mezzo una bella piscina. Decidiamo che è il posto ideale per fermarsi a fare un po’ di mare e da cui muoversi per conoscere la provincia. Passiamo così qualche giorno alternando il mare alle escursioni ai villaggi sulle colline dell’entroterra: Penonomè, La Pintada, El Valle. In quest’ultima località andiamo di domenica, giorno di mercato. Il paese è al centro di quello che anticamente era il cratere di un vulcano, ed ora è una vallata rigogliosa, con clima fresco e profusione di fiori. Il mercato è vivace, colorato e ordinato, diverso da quelli del Messico o del Guatemala, frequentato soprattutto da panamensi che vengono ad acquistare piante e oggetti di artigianato in legno. Si vendono anche i cappelli che prodotti nella regione, ma sono molto diversi da quelli che noi chiamiamo “panama”, e che in realtà vengono fatti in Ecuador.
Quando rientriamo alla capitale ci fermiamo un paio di notti in città per avere il tempo di vedere il canale e le sue chiuse, un’esperienza che consiglio di fare dopo aver visitato il museo nella città vecchia per capire bene com’è fatto il canale e tutti i problemi legati alla sua realizzazione. Andiamo in taxi alla chiusa di Miraflores, dove esiste un edificio con grandi terrazze da cui si può assistere al passaggio delle navi. All’interno ancora un museo, anche questo interessantissimo, con addirittura un simulatore nel quale si può provare l’esperienza di condurre una nave attraverso la chiusa.
Ancora un volo ci porta all’ultimo degli arcipelaghi di questo viaggio costellato di isole, a Contadora. L’Arcipelago delle Perle si trova nel golfo su cui si affaccia Panama City, e Contadora dista solo 15 minuti dalla capitale. L’isola è lunga solo 13 chilometri e abitata da 350 persone, non ci sono auto, ma una decina di bellissime spiagge e una vegetazione meravigliosa. La vicinanza alla capitale e la bellezza hanno fatto sì che molti ricchi, panamensi e non, vi costruissero la loro villa. Ci sono un paio di alberghi, abbastanza cari per la media del paese, e due o tre ristoranti. Ci fermiamo al Punta Galeòn (l’altro è un all-inclusive, un genere di alberghi al quale sono allergica) dove ci ritroviamo ad essere praticamente soli, con tutto il personale, la spiaggia e la bella piscina a nostra disposizione. Anche l’altro albergo è quasi vuoto, a parte la troupe televisiva della versione francese di Survivor che ha soggiornato qui per mesi e che ora sta imballando l’attrezzatura. Infatti le piccole isole deserte a poche miglia da qui sono state usate per varie edizioni del programma, negli ultimi anni. Sulla spiaggia conosciamo anche Teresa e Marco, una coppia di italiani che vive e lavora qui da tre anni. Marco ha una barca con la quale ci porta alla scoperta di meravigliose isole e spiagge deserte coperte di conchiglie. Sull’isola di Casaya, in un piccolissimo villaggio di pescatori di perle, un gruppetto di bambini bellissimi ci accompagna entusiasta delle caramelle e dei giocattolini che ho portato dall’Italia. In un altro isolotto disabitato la stupidità umana ha lasciato il segno: una struttura di legno abbandonata da una troupe televisiva è come una macchia sulla bianca lingua di sabbia e dei pali conficcati nell’acqua bassa minacciano la sicurezza delle barche che arrivano quando la marea si alza…
I giorni passano veloci sull’isola e quando ripartiamo dopo una settimana mi sembra di conoscere tutta Contadora, persona per persona, e perfino i cani e gli uccelli, e tutti mi mancheranno. Ancora un giorno a Panama, un ultimo giro nel Casco Viejo, qualche acquisto, un’ultima ottima cena, e poi si torna a casa. In conclusione una considerazione: spesso viaggiando mi è capitato di trovare un posto bello ma già abbastanza “battuto” dal turismo internazionale e di parlare con l’immancabile italiano che gestiva l’onnipresente ristorante. Ogni volta mi sono sentita dire “Se avessi visto questo posto quando sono arrivato dieci anni fa…”. Ma a Panama no. Mai come questa volta mi sono sentita nel posto giusto al momento giusto.