Palmenti a Pietragalla, l’antica civiltà contadina in Basilicata
Trascorrere le vacanze in Basilicata è sempre una grande e continua scoperta. Piccola ma immensa, questa regione caratterizzata da calanchi e coperta da giallissimi campi di grano è piena di segreti, aneddoti, tradizioni e curiosità di ogni tipo. Piccola bomboniera piena di tante porticine, ognuna con una ‘chicca’.
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Terra affacciata sia sul mar Jonio che sul Tirreno, circondata da colline e ricca di abitazioni rupestri e piena di indizi di storia della Magna Grecia o di più antiche civiltà, ricca di musei e di storia, oltre a Matera, offre tanti spunti e ruderi ovunque, in una orografia del territorio pazzesca dove le Dolomiti lucane si ergono massicce e piene di ‘divertimenti’ come il volo dell’angelo e ben due ponti tibetani qua e là, agriturismi, natura, trekking oltre ad attività di birdwatching e falconeria per ammirare aquile, falchi, nibbi, assioli e molto altro.
Pietragalla e il Parco dei Palmenti
Siamo di Roma, e al rientro dalla vacanza estiva ce la prendiamo sempre comoda per fare del giorno di ritorno una vacanzetta nella vacanza stessa. Così, andando in auto da Matera per la strada Bradanica verso la Campania (circa 80 km di strade arroccate in un bel su e giù) abbiamo preso la SS96bis verso Pietragalla, direzione Oppido Lucana e dopo l’ennesima strada millecurve, guardando sterminate distese di grano e casette affacciate su paesaggi mozzafiato, siamo arrivati finalmente ad un’ampia terrazza che ci lascia a bocca aperta, con un nome abbastanza singolare, ovvero Parco dei Palmenti. Se non avessimo avuto l’auto, che è il mezzo decisamente più comodo e semplice per muoversi in questa regione, altro mezzo per raggiungere questo paese da Matera è il pullman di linea della CoTRAB per i cui orari e i costi vi rimandiamo al web.
Ecco, siamo giunti finalmente a Pietragalla, cittadina con poco meno di 4000 abitanti, altresì detta Pietraadda in dialetto lucano, che sorge arroccata come una vecchia cittadella medievale. Pietragalla si estende dal pianoro dove siamo appena giunti fino alla torre del campanile che sovrasta un antico e maestoso Palazzo Ducale. La ridente cittadina a 839 m s.l.m. ha come patrono San Teodosio Martire, che si festeggia a ottobre nel periodo della vendemmia, con una lunga processione che si snoda tra le vie della città.
Cosa sono i palmenti di Pietragalla?
Nel pianoro su cui ci fermiamo incontriamo la Città dei ‘’Palmenti’’, che non sono altro che un antico agglomerato urbano contadino, formato da un grappolo di case ipogee (ovvero costruite nella terra e simili a grotte) che si mostrano aggregate tra loro nell’arenaria a formare un piccolo villaggio tufaceo. I cartelli indicano che si tratta di una cittadella rurale del XIX secolo, con insediamenti forse già presenti nella civiltà contadina del 1700.
Il nome nasce dal Latino Paumentum, come cita l’iscrizione, ‘sostantivo che indica l’atto del battere, del pigiare’ tipico della trasformazione delle uve. Dei palmenti in realtà si parlava già nell’ellenismo, ma a parte vecchi ruderi abbandonati qua e là, sembra che questi siano quelli maggiormente conservati in Europa. Da una ricerca sembra che altri siano in zone europee produttrici di vino già nell’antichità, sul mar Nero in Georgia o nel Mediterraneo dalla Spagna al Portogallo.
Queste particolari case scavate nel tufo, a vasche sovrapposte, sono state costruite da abili architetti, i ‘vignaioli pietragallesi’ che le hanno rese rispettose del contesto in cui nascono e armoniose nell’orografia di questo aspro territorio assolato su cui sono sorte. Affiancate l’una all’altra, dentro ognuna di esse sono stati scavati vari ambienti ove non possono mancare due o quattro vasche, in numero sempre pari e messe su doppio livello, in modo che ce ne sia una o due per far ‘scendere’ il vino bianco e altrettante per il vino rosso, ove spillarli dopo la pigiatura.
Qui fino agli anni Settanta dai vigneti lungo le colline, si vedevano ancora salire gli asini (poi sostituiti da camioncini) con le bigonce cariche di grappoli d’uva, per poi fermarsi qui e procedere alla conservazione e pigiatura delle uve a piedi nudi, e alla fermentazione del mosto nelle vasche sottostanti e così per circa 20 giorni. Ancora visibili dalle immagini le feritoie, in ogni casa da cui fuoriusciva l’anidride carbonica della fermentazione, che altrimenti sarebbe stata letale per i vignaioli.
Alla fine del procedimento, il vino veniva spillato e messo in grosse botti da 35 litri (chiamati le Rutte) che venivano stipate più in alto a nord, nel centro storico della città feudale, dove sorge ancora un bellissimo Palazzo Ducale degli anni intorno al 1500.
E da lì, arroccandosi dal belvedere per una stradina a scale, si può andare a mangiare in un ottimo ristorantino tipico del luogo, La Saittera, Via Roma 18, fresco e scavato nella roccia cittadina, dove ospitalità e accoglienza sono le padrone e dove si possono assaggiare le bontà lucane e le specialità tipiche sorseggiando un po’ di quel famoso vino Aglianico, per non perdere traccia delle tradizioni del passato. A cui chiedere anche, se necessario, il consiglio per un posto dove dormire.
E allora, buona visita!