Myanmar, oro che abbaglia, sorrisi che incantano

Quello in Myanmar è stato il mio primo viaggio organizzato, un viaggio di gruppo. Ero piuttosto preoccupata per questa soluzione ma, a causa di una serie di circostanze, avevo dovuto fare questa scelta. L’esperienza è stata tanto positiva da costringermi a smentire tutte le mie reticenze. Mi preoccupava in particolare l’idea del gruppo, di...
Scritto da: Cristiana
myanmar, oro che abbaglia, sorrisi che incantano
Partenza il: 03/01/2007
Ritorno il: 15/01/2007
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 2000 €
Quello in Myanmar è stato il mio primo viaggio organizzato, un viaggio di gruppo. Ero piuttosto preoccupata per questa soluzione ma, a causa di una serie di circostanze, avevo dovuto fare questa scelta. L’esperienza è stata tanto positiva da costringermi a smentire tutte le mie reticenze. Mi preoccupava in particolare l’idea del gruppo, di dover dividere questa esperienza, un viaggio così importante per me, con dei perfetti sconosciuti, dei quali non conoscevo gusti, caratteri, idee. Invece mi sono ritrovata a viaggiare con delle persone eccezionali, intelligenti, interessate, spesso veramente generose, mai in disaccordo tra loro, con vero spirito di adattamento e con una curiosità intelligente verso le splendide cose e sorprese che ci ha riservato questo viaggio. Le sere a tavola si trasformavano spesso in dibattiti e discussioni, per niente frivoli ed inutili, scambi di opinioni e diversi punti di vista riguardo ciò che si era visitato in giornata. Questo continuo confronto ha senza dubbio accentuato le sensazioni ed arricchito le impressioni di ognuno di noi.

E’ stato un viaggio molto interessante, ricco e completo, organizzato in maniera scrupolosa ed efficiente anche grazie alla nostra guida, il pignolo Zaw Win, che ci ha permesso di vedere ed apprezzare il massimo negli 11 giorni previsti dal tour. Abbiamo visitato luoghi e monumenti che spesso non sono compresi e previsti nei classici tour, sia di gruppo che individuali, abbiamo avuto molte occasioni di contatto vero e reale con la popolazione birmana, soste impreviste nei loro villaggi, dove non eravamo più noi i turisti ma le attrazioni per loro. I birmani, un popolo semplice, fatto di persone curiose, gentilissime, povere ma generose, oppresse da un sistema che le tiene all’oscuro di tutto quanto c’è al di fuori del loro paese, che non possono sempre esprimersi come vorrebbero, ma nonostante questo, sempre cortesi, sorridenti e disponibili.

Il volo, effettuato da Milano con la Qatar, con breve scalo a Doha, ci ha portati il 4 gennaio alle 6 del mattino nella capitale, Yangon. Una breve sosta in hotel per cercare di recuperare qualche ora del sonno perduto a causa del lungo volo, e subito dopo pranzo inizia la scoperta della capitale.

Prima sosta alla Chauktatgyi Paya, meglio conosciuta come un imponente Buddha sdraiato, lungo 72 m e alto 17. In quel periodo era in corso l’operazione di pulitura della statua, effettuata da monaci funamboli che, con l’ausilio di corde e pennelli, si arrampicano per eseguire l’imbiancatura del soggetto.

Qui impariamo, per poi farci nostro malgrado l’abitudine, a toglierci le scarpe (e calzini) e camminare sui pavimenti dei luoghi sacri, non sempre puliti a dire il vero.

La seconda visita prevede, ovviamente, la Shwedagon Paya, luogo di culto dal profondo significato religioso, con la sua grandiosa cupola dorata alta 98 metri, che verso il tramonto si colora di un caldo colore arancio. Centinaia di birmani si recano qui a pregare, almeno una volta nella vita, assolutamente incuranti delle decine di turisti che girano, stupiti ed incuriositi, forse un po’ sacrileghi nel trasformare questo luogo di culto in un’attrazione turistica.

Comunque il posto è un vero spettacolo che ti riempie gli occhi di immagini sconosciute, bagliori dorati, ricchezza dei decori che si contrappone alla semplicità della religione buddista e dei fedeli, devoti ed adoranti.

Quando cala il sole, una passeggiata in città, nel quartiere di Chinatown ci immerge in una realtà locale fatta di cibi mai visti e odori mai sentiti, non sempre piacevoli. Conosco troppo bene il mio stomaco da non fidarmi di concedermi assolutamente l’assaggio di nessuna di queste “leccornie”: peccato, chissà cosa mi sono persa.

Il 5 gennaio partiamo da Yangon, che ritroveremo l’ultimo giorno, con un volo interno effettuato dalla Air Bagan, ed atterriamo a Mandalay dove, nel primo pomeriggio, visitiamo Shwenandaw Kyaung, un bel monastero in legno, ricostruito nel 19° secolo, decorato con pannelli riccamente intarsiati, alcuni dorati, con rappresentazioni delle vite del Buddha. Fuori del monastero una donna con le guance decorate con il tanaka, porta sulla testa una grande gabbia di uccelli che, mi viene spiegato, a fronte di un’offerta in denaro, vengono liberati; questo per acquisire dei meriti religiosi.

Più tardi ci rechiamo sulla collina di Mandalay, dove si sale con le scale mobili ma, volendo, si scende a piedi nudi, come abbiamo fatto. Da quassù si gode di un’ampia veduta panoramica della città e delle colline Shan circostanti, impreziosite dai colori del tramonto. Per finire la giornata, abbiamo visitato un laboratorio per la lavorazione delle foglie d’oro, utilizzate dai fedeli per arricchire le statue di Buddha, abbastanza interessante anche se la cosa mi è parsa un tantino turistica.

Il 6 gennaio sono previste le interessanti visite alle città antiche nei dintorni di Mandalay.

Lungo la strada per Amarapura, ci fermiamo alla Mahamuni Paya, dove una statua del Buddha alta 4 m, trasportata da Mrauk U è qui molto venerata. La statua può essere avvicinata solo dagli uomini che applicano le lamine d’oro che, col tempo, hanno formato uno strato spesso 15 cm.

Ad Amarapura è d’obbligo la visita all’U Bein’s Bridge, un ponte pedonale in tek lungo 1,2 km che attraversa il lago Taungthaman. Percorrendolo si incontra gente del luogo che si reca al suo villaggio sull’altra sponda del lago, monaci intenti nelle loro preghiere, pescatori e numerosi bambini che cercano di vendere la loro mercanzia. Il ritorno lo abbiamo fatto in barca per ammirare il ponte da una prospettiva diversa.

Sempre ad Amarapura abbiamo visitato il Monastero di MahaGanayon Kyaung, dove studiano circa 1500 monaci. Arrivando verso le 11 del mattino è possibile vederli raggrupparsi tutti insieme per consumare il loro pasto. Successivamente, attraverso una tortuosa strada in salita, siamo arrivati sulla Sagaing Hill da dove si ammirano molti dei 500 stupa di Sagaing e numerosi monasteri e conventi.

Nel pomeriggio, con un piacevole viaggio in barca, giungiamo a Mingun, antica città a 11 km da Mandalay, raggiungibile solo attraversando il fiume. Scesi dal natante, veniamo letteralmente circondati da un folto gruppo di ragazzini che tentano di venderci ogni cosa. Hanno già imparato qualche parola in italiano: “piano- piano, dopo-dopo, costa-poco, attento-alla-testa”. Sono simpatici e, cosa incredibile, si ricordano a chi appartiene ogni singolo paio di ciabatte lasciate alla base della Mingun Paya: ti aspettano lì sotto per portele con gentilezza. In realtà di quella che dovrebbe essere stata la più grande pagoda del mondo, rimane solo l’enorme base in mattoni danneggiata dal terremoto. Comunque dalla sua terrazza, raggiungibile attraverso ripidi e sconnessi gradoni, si gode di un magnifico panorama. Poi ci aspetta la Mingun Bell, la campana sospesa più grande del mondo ed infine lo stupa Myatheindan, bellissimo con le sue terrazze bianche ondulate. Qui io e Chiara, prese da un attacco fotografico quasi isterico, rimaniamo sole, abbandonate dal resto del gruppo di cui perdiamo le tracce. Il ritorno verso Mandalay, sempre in barca, ci offre un tramonto spettacolare, da cartolina.

Il 7 gennaio si parte, come al solito di buon’ora, e la prima fermata prevede la visita di Kuthodaw Paya, meglio conosciuta come “il libro più grande del mondo”: 729 lastre di marmo su cui sono incisi tutti i 15 libri del Tripitaka. Ogni lastra è racchiusa in un piccolo stupa. Di questo luogo mi ricordo, oltre che la sua magnificenza e particolarità, la totale assenza di altri turisti e il freddo pavimento in marmo delle 8 del mattino.

Ci aspetta un lungo trasferimento verso Monywa, attraverso villaggi fuori dal tempo, scene di vita rurale e paesaggi incantevoli.

Lungo il viaggio, un gran colpo di fortuna. Ci imbattiamo, incontro assolutamente casuale e fortunato, nel bel mezzo di una festa di noviziato che si sta svolgendo nel piccolo villaggio. Ci fermiamo per assistere alla sfilata dei novizi, bambini e bambine di varie età che si accingono ad entrare in monastero. E’ veramente una bella cerimonia: i piccoli novizi, tutti vestiti con abiti tipici dai colori sgargianti e luccicanti, vengono portati in processione su portantine o su cavalli e buoi addobbati per la festa. E noi, con le nostre macchine fotografiche al collo, i nostri vestiti così strani e fuori luogo, i nostri lineamenti e colori non troppo in sintonia con i locali, veniamo accolti un po’ come degli extraterrestri. Gli abitanti del villaggio sono molto incuriositi dalla nostra presenza e si divertono molto a vedere la loro immagine sulle nostre macchine digitali. In particolare un gruppetto di donne risulta molto interessato alla mia carnagione, a dir poco pallida: mi toccano il braccio quasi non fossi vera…Un po’ mi vergogno.

Nelle vicinanze di Monywa, a bordo di una specie di pick up guidato da uno spericolato autista, ci inerpichiamo su una ripida strada di montagna per visitare il santuario rupestre di Hpo Win Daung Caves, caratterizzato da 492 templi scavati nelle rocce di arenaria che custodiscono 2588 Buddha di ogni dimensione e regno di numerose litigiose e dispettose scimmie. Alcune grotte presentano pitture murali colorate che si possono visionare solo se si ha a disposizione una torcia elettrica.

Nelle vicinanze visitiamo anche Ishwe Ba Taung, definita la casa dell’architetto, un complesso di abitazioni, costruzioni, templi e palazzi interamente scavati con martello e scalpello nella roccia. Veramente notevole! L’8 gennaio si riparte da Monywa alla volta di Bagan. Ma lungo il tragitto ci aspettano ancora molte sorprese.

Bellissima, forse la cosa più sorprendente che ho visitato: la Thanboddhay Paya. Una grande pagoda variopinta, strutturalmente simile ad una chiesa o ad un grande palazzo, con numerosissimi pinnacoli di ogni colore, stucchi fantastici e decorazioni floreali, con ben 582.357 statue di Buddha custodite in ogni angolo dell’edificio, sia all’esterno che all’interno, di ogni dimensione: da quelle enormi dorate e quelle piccole qualche centimetro che ricoprono in serie le volte della pagoda. Praticamente un incubo, quasi un’angosciante casa degli specchi di Buddha. Veramente spettacolare, da non perdere.

Nelle vicinanze, sulle colline Po Khaung, un imponente Buddha disteso di 90 m è sovrastato, alle sue spalle da un altro suo simile alto 167 m: lo spettacolare paesaggio si può apprezzare meglio dalla cima della torre che sorge in mezzo ad una “piantagione” di 8000 Buddha, denominata Bodhi Tataung.

Per oggi abbiamo fatto “il pieno” di immagini di Buddha! Giungiamo al porto fluviale di Pakokku, dove visitiamo l’antico monastero in legno di Pakhangy. Curioso e folcloristico il “custode”, belli gli interni in legno intarsiato dorato e l’originale Buddha dorato.

Pranzo al sacco e ci imbarchiamo su un battello locale per scendere lungo l’Ayeyarwady fino a Bagan.

La navigazione, che dura poco più di due ore, è molto piacevole, i paesaggi suggestivi.

Arriviamo a destinazione in tempo utile per salire su un grande tempio ed ammirare il nostro primo emozionante tramonto sulla piana di Bagan.

Bagan, una pianura di circa 42 kmq su cui sono disseminati quasi 3000 templi di varie fattezze e dimensioni, è di una bellezza tale da meritarsi da sola il viaggio in Birmania.

Il 9 gennaio lo dedichiamo interamente alla scoperta di questo straordinario luogo: visitiamo diversi templi e pagode, delle quali sinceramente non ricordo il complicato nome. Ma quello che mi è piaciuto in modo particolare è Ananda Pahto con la grande guglia dorata a forma di pannocchia. All’interno quattro grandi statue di Buddha in tek massiccio dorato di quasi dieci metri ciascuna, rivolte verso i quattro punti cardinali, raffigurano le diverse e simboliche posture delle mani.

In mattinata la nostra guida ci porta a visitare una sorta di villaggio modello, d’ispirazione senza dubbio governativa: tutto appare praticamente perfetto, tutto è in ordine e pulito, le donne che filano o confezionano sigari, i bambini che giocano allegramente, le stalle e le case ordinate e pulite, gli uomini…Che non fanno nulla (e questo è quanto di più vicino alla realtà fra tutto ciò che vediamo), persino i cani non sono scheletrici come al solito e tutti, dai bambini di tre anni alle vecchie di novanta, parlano inglese. Dalla scuola, che abbiamo il divieto di fotografare (neanche ci fosse la necessità di farlo), fuoriescono gioiosi i canti dei bambini. E’ indubbiamente un teatrino allestito per noi turisti, una sorta di Truman Show (paragone ideato dal nostro perspicace Andrea) con il quale probabilmente il governo vuole far apparire una tranquilla situazione che nella realtà non esiste. Per fortuna, o per sfortuna (dipende dai punti di vista), lungo il nostro viaggio abbiamo avuto la possibilità di osservare altri villaggi, realistici purtroppo anche nella loro tangibile miseria, sporcizia ed indigenza ma che ci hanno dato l’esatta sensazione della reale condizione della popolazione che vive in campagna.

Il nostro secondo tramonto lo aspettiamo sull’ampia terrazza della Pyathada Paya. Spettacolare e non aggiungo altro, tanto sarebbe superfluo e non renderebbe l’idea comunque.

Il mattino del 10 gennaio, dopo un giretto al pittoresco mercato di Nyaung U, visitiamo altri templi e pagode di Bagan. Al pomeriggio, io e due compagne di viaggio, Chettlyn e Chiara, decidiamo di rinunciare al previsto giro in calesse e noleggiare una bicicletta con cui ci facciamo un bel giretto nella campagna, scovando luoghi affascinanti, alcuni quasi inaccessibili e deserti. Lungo la strada, a dire il vero non proprio in perfette condizioni, veniamo avvicinate da numerosi ragazzini curiosi o solo desiderosi di scambiare qualche chiacchera in inglese. Ci fermiamo anche in un piccolo villaggio presso il fiume dove veniamo accolte da un sacco di persone e dove “vuotiamo” le borse per lasciare a loro qualcosa di utile.

Ad un certo punto si blocca la catena della mia bicicletta. Per fortuna, proprio in quel momento passano gli autisti del nostro pulmino che, come due angeli custodi, si fermano e si danno da fare per mettere a posto il mio velocipede.

Al ritorno ci fermiamo anche a visitare un laboratorio per la lavorazione della lacca.

L’11 gennaio, alle 7.30 del mattino, un aereo di porta da Bagan ad Heho.

Arrivati a destinazione, a bordo di un piccolo pullman, attraversiamo bucolici e pittoreschi paesaggi lungo una strada che si inerpica sulla montagna e raggiungiamo le grotte di Pindaya, luogo fantasmagorico e sacro ai buddisti, in cui sono state collocate, tra stalattiti e stalagmiti, nel corso dei secoli, più di 8000 statue di Buddha, di ogni materiale e dimensione. Curiose, all’interno, alcune piccole camere per la meditazione in cui si entra attraverso strettissimi pertugi.

All’esterno del luogo sacro è stato costruito un orribile ascensore panoramico, come uno sfregio sulla montagna. In tarda serata, praticamente col buio, con una spericolata corsa del nostro autista un po’ “fatto” (masticava foglie di betel in continuazione), arriviamo all’imbarcadero sul lago Inle dove una piccola lancia a motore ci porterà al nostro hotel sul lago.

Quanto freddo!!! Ma non scorderò mai quel cielo stellato, tante ma tante stelle mai viste tutte insieme e così luminose nel buio e silenzioso cielo sul lago Inle. In lontananza piccoli fuochi sulla montagna accentuano la magia del luogo e la poesia del momento. E’ stato un momento indimenticabile.

L’hotel sul lago Inle, una serie di piccoli boungalow a palafitta, è molto bello, peccato faccia così freddo. Un consiglio a chi si reca sul lago in gennaio: non fidatevi e portatevi un bel maglione di lana ed un pigiama pesante, meglio lasciarli in valigia se non servono che non averli e rimanere al freddo.

Il mattino del 12 gennaio, di buon’ora e nonostante la temperatura non troppo piacevole, ci imbarchiamo sulle nostre lance a motore e attraversiamo il lago sulle cui sponde vivono gli Intha in case-palafitta, coltivando orti galleggianti e pescando in modo pittoresco, stando in piedi sulla punta di fragili imbarcazioni. Ogni casa-palafitta, curioso, ha il suo piccolo recinto-palafitta in cui vive il maiale di casa.

Tutta la loro vita, le loro attività quotidiane si svolgono in completa dipendenza dalle acque del lago: lavare i panni, lavare le stoviglie, farsi il bagno, lavarsi i capelli ed i denti, lavare i loro bufali, tutto viene fatto con e nell’acqua del lago. Dopo una breve sosta in un pittoresco ed affollato mercato locale, tanto per non perdere il vizio dell’acquisto “inutile”, attraverso un tortuoso dedalo di canali costeggiati da una fitta foresta di alti bambù, arriviamo al villaggio di Indein dove sorge il monastero di Nyaung Ohak. Da qui una lunghissima scalinata fiancheggiata da centinaia di colonne di legno sale fino alla sommità della collina, dove troviamo lo straordinario complesso di Shwe Inn Thein, più di mille stupa, che circondano l’antico monastero, piuttosto danneggiati dall’azione del tempo ma proprio per questo molto belli e affascinanti.

Subito dopo pranzo una breve visita alla grande pagoda dorata di Phaung Daw Oo Paya, Nel pomeriggio, sempre navigando il lago, è prevista quella che per me era in teoria la tappa più importante: il monastero Nga Hpe Chaung, meglio conosciuto come monastero del gatto che salta. In realtà, da gattofila quale sono, speravo di trovare dei bei gatti tenuti bene. Invece trovo una ventina di gatti un po’ rognosi, sonnolenti e nervosi che sono “costretti”, evidentemente contro la propria volontà che, per loro natura, è solo quella di mangiare e dormire, ad esibirsi per noi, avidi turisti, in uno spettacolo un po’ penoso ma anche straordinario, se penso a quanto sia difficile “obbligare” un gatto a fare quello che non vuole.

Finiamo la giornata attraversando il lago nel suo tratto più ampio, con lo sfondo del panorama delle splendide colline di Inthein. E’ molto bello e suggestivo.

Il 13 gennaio prevede un lungo trasferimento, dapprima con la barca e poi via terra, che ci condurrà, attraverso una strada di montagna ricca di scorci spettacolari, dapprima a Taunggyi e di lì a Kakku.

Taunggyi, città tra le più ricche e intraprendenti del paese, è ufficialmente l’ultimo luogo raggiungibile dagli stranieri diretti ad est; al di là c’è un mondo di operatori del mercato nero, miniere di rubini, eserciti ribelli e signori del commercio dell’oppio. Nella zona vivono le comunità pa-o, che di distinguono dal loro costume tipico, una camicione con pantaloni neri ed una sorta di asciugamano colorato avvolto in testa.

Qui, presso il centro culturale del paese, l’ufficio del collettivo pa-o, troviamo la guida locale, obbligatoria, che ci accompagnerà alla visita del sito di Kakku.

Lungo il tragitto, una quarantina di chilometri, secondo fuori programma, ci fermiamo presso un villaggio dove è in corso una grande festa per il diploma scolastico: è una specie di sagra paesana con tanto di musiche e balli tradizionali e bancarelle che preparano ogni genere di leccornia che ci fidiamo di assaggiare.

Anche qui l’impatto con i locali è curioso e divertente: da una parte noi presi dal delirio fotografico per immortalare qualcosa di così caratteristico, dall’altra loro che ci guardano incuriositi e divertiti per la nostra presenza.

Arriviamo a Kakku subito prima di pranzo. Il sito archeologico consiste in una vasta distesa di stupa, alti 3 o 4 metri, disposti in file ordinate, costruiti in stile pa-o, shan e bamar, in mattoni ricoperti con elaborate decorazioni in stucco. Il collettivo pa-o gestisce il sito e si occupa, attraverso denaro donato dai pellegrini per acquisire meriti religiosi, del restauro degli stupa. I turisti occidentali preferirebbero l’aspetto fatiscente e pittoresco delle rovine piuttosto che constatare che i restauri non rispettano le tecniche antiche, il massimo e più efficace recupero di quanto esistente e l’armonia dell’insieme.

Lungo la strada di ritorno verso il Inle, ci fermiano al monastero Shwe Yaughwe Kyaung con una sala delle consacrazioni in legno dalla caratteristiche finestre ovali.

Ultima notte nell’hotel-palafitta, dove ormai ognuno di noi ha escogitato qualche personale metodo, spesso comico, per affrontare il freddo della notte.

Il viaggio sta per terminare. Infatti il 14 gennaio facciamo rientro, con un breve volo, a Yangon, dove ci rimane la Sule Paya ed il grande Bogyoke Aung San Market, dove dilapidiamo tutti i nostri soldini liquidi per acquistare piccoli souvenir e qualche bel oggetto di artigianato. A tal proposito mi sento di consigliare gli acquisti presso i piccoli mercatini che si trovano un po’ dappertutto, nei vari villaggi o presso i luoghi di culto, piuttosto che in questo grande mercato dove la merce non sempre è la migliore e non sempre la trattativa è vantaggiosa. Per finire, un ultimo giretto nel quartiere coloniale e nella zona portuale della città.

Il 15 gennaio, alle 7 del mattino, un aereo della Qatar ci riporta alla nostra tranquilla vita occidentale, ricca di agi e comodità, di piccoli lussi quotidiani ai quali siamo ormai abituati ed ai quali ci sentiamo di rinunciare solo per brevi periodi della nostra vita, quando un viaggio in luoghi come questi ci cala in una realtà “sperimentale” che, sono sicura, nessuno sceglierebbe per la vita ma che ci fa comunque sentire dei privilegiati solo per il fatto di poter scegliere.

Come tutti i viaggi che ci mettono in contatto con popoli, tradizioni, usi e costumi diversi dai nostri, anche questa è stata un’esperienza che, senza voler fare falsa retorica, mi ha arricchito interiormente in modo profondo e mi ha fornito un ennesimo nuovo punto di vista sulle cose e sulle persone.

P.S. Un caro saluto a chi mi leggerà riconoscendosi nel mio gruppo ed in particolare a Laura, Carlo e Chiara.



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