Malaysia e Singapore

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Scritto da: Davide Landolfi
malaysia e singapore
Partenza il: 29/08/2010
Ritorno il: 17/09/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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29 Agosto 2011 La partenza

H.16.42: la dolce voce di Suzanne Vega mi culla attraverso il lettore Mp3 mentre sorvolo il cielo sopra Sarajevo; è passata quasi un’ora dal decollo a Malpensa, sono sul volo 0094 Emirates (non pieno ma come sempre molto confortevole), destinazione Dubai. La meta finale però è Kuala Lumpur, nella lontana Malaysia. Mi aspettano nuove strade da percorrere, nuovi sguardi da incrociare, nuovi luoghi da scoprire, insomma, un nuovo viaggio sta cominciando. Ora sono le note di Yann Tiersen dalla colonna sonora de “il fantastico mondo di Amelie” a farmi riflettere su quanto mondo abbia già visto e vissuto e di quanto ancora abbia voglia di scoprirne. Viaggiare è sempre di più la mia vita, la mia dimensione, il mondo il mio habitat. E’ soprattutto in questi momenti che questo senso di libertà viene fuori a urlare più del solito. Passano le ore, il volo è lungo, dal finestrino osservo il cielo che si fa sempre più blu, sta lentamente arrivando la notte, notte in volo sui cieli del mondo…

30 Agosto Kuala Lumpur

“Buonasera”. Buonasera??? Ma no, perchè l’addetto all’imbarco della Emirates mi ha subito identificato come italiano ancora prima di vedere il passaporto? Vabbè, dopo aver girato in lungo e in largo lo sfarzoso aeroporto di Dubai, attendo l’imbarco in quella che più che una sala di attesa sembra una cella frigorifera viste le temperature. Si decolla, puntuali, ore 03.15 del mattino: aereo comodo e dotato di ogni confort, anche se 6 ore quassù in volo, tra tante turbolenze, non sono poche… Intravedo la costa malese sotto di me, ci sono! Solita lunga procedura di sbarco che ormai conosco a memoria: controllo passaporto (e timbro!), attesa bagagli (la fase di ansia), poi il cambio in ringgit, la valuta locale cambiata 1 a 4 sull’euro. Per l’equivalente di 35 euro il KLIA, un moderno trenino rosa con in terra una moquette pulitissima, mi porta in meno di mezz’ora a Kuala Lumpur Central; da qui breve corsa in un budget taxi (10 Rm) che mi lascia a pochi passi dall’hotel China Town Inn, in piena Chinatown. Fa caldo, ma il tempo è brutto, e a tratti piove. L’hotel è nascosto tra i banchi di merce dell’affollato mercato, la hall sembra pulita e carina, la camera piccola ma accettabile, nonostante sia priva di finestre e con una leggera ma costante e fastidiosa aria condizionata impossibile da spegnere. Fuori il mercato, un fittissimo labirinto di banchi grandi e piccoli. disposti su più file almeno 4 nella centrale Jalan Petaling, sormontata alla sua sommità dai tipici tetti a pagoda cinesi, color verde. Un immenso mercato a cielo aperto, merce di ogni tipo, soprattutto di grandi firme, dalle borse alle magliette, dai vestiti alle scarpe, tutti esposti su grate bianche e in quantità industriali. E non mancano certo le cineserie, ovvero cianfrusaglie tanto bizzarre quanto inutili, e i mille carretti di cibo cotto all’aperto che fanno concorrenza ai ristoranti. Tramite il passaparola tra albergatore, un’agenzia turistica, amico e faccendiere, alla fine, da una semplice richiesta di informazione, arrivo già a prenotare il passaggio (bus + barca per 75 Rm) per dopodomani fino alla foresta primordiale di Taman Negara. Viene sera, ha smesso di piovere, passeggio lungo i dissestati marciapiedi senza meta, curiosando tra la merce dai prezzi incredibilmente bassi e scambiando quattro chiacchere e qualche battuta coi commercianti sempre cordiali: ben due di loro, senza che glie lo chiedessi, mi indicano le zone migliori della città e come arrivarci spendendo poco, oltre a ricordarmi, non senza un pizzico di orgoglio, la festa dell’indipendenza malese che ricorre proprio domani. Anche se non manca mai il live motive “hello Sir, special price for you”! Si è fatto buio, le vie brulicano ancora di gente, locali e turisti, questi ultimi quasi tutti nordici o americani; le lanterne rosse illuminano dall’alto Jalan Petaling, che ha perfino una bizzarra struttura simil vetro azzurra che la ricopre come un enorme serpentone dall’alto, a forma di onde, un tetto ripara pioggia un pò futuristico. In basso invece, le mille luci di semplici lampadine spoglie che illuminano i carretti; un piatto di noodle e finisce così questo primo assaggio di terra malese.

31 Agosto Kuala Lumpur

Notte semi insonne , forse ancora un pò di fuso orario, ma stranamente silenziosa: la stanza 302 del China Town Inn deve essere uno di quei misteri ad incastro degni del cubo di Kubrik, considerando che sono in piena Petaling street. La via, non più pedonale durante il giorno e senza i banchi di merce al centro, ha tutto un altro aspetto: è presto, cerco un posto dove fare colazione; pochi passi e passo davanti al piccolo Sri Mahamariamman Temple, un santuario hindù. Fuori dalla porta, sormontata da una coloratissima torre ricca di statuette di divinità hinduiste, le scarpe e le ciabatte dei fedeli intenti a pregare al suo interno, oltre a qualche banchetto che vende corone di fiori gialli. A pochi passi, dall’altro lato del marciapiede, un piccolo tempio taoista, lo Sze Ya Temple, con le colonne rosse avvolte da draghi e gli immancabili leoni in pietra ai lati del grande portone di ingresso: al suo interno un piccolo cortile quadrato alle cui sommità sono poste le offerte dei fedeli per gli Dei, ovvero frutta e incensi. Poi un grande forno e spirali di incensi appese ovunque. India e Cina a pochi passi di distanza, ma sono in Malaysia. Le varie etnie qui si mescolano tra loro: tantissime le donne col tudong (foulard copricapo) nero o colorato, e altrettante quelle che indossano i colorati saari indiani. Prendo la metropolitana sotterranea (si, perchè qui esiste anche quella a monorotaia su superficie), pulita e veloce: il treno in arrivo è “nascosto” da vetrate scure che si aprono non appena questi arriva e si ferma (ottimo sistema anti suicidi). Dentro aria condizionata ovunque. 3 fermate e scendo a KLCC, risalendo ordinatamente in rigida fila e sulla destra le scale mobili per rispuntare alla soffocante afa di Kuala Lumpur. Davanti a me, imponenti, le Petronas Towers: i due grattacieli gemelli in vetro e acciaio, sedi della omonima compagnia nazionale petrolifera e del gas, e degli studi televisivi della locale Al Jazeera. Viste dal basso sono altissime, 450 metri, 88 piani, non hanno la normale forma rettangolare, ma una forma geometrica particolare ad esagono, unite tra loro dallo skibridge. Al loro interno anche il lussuoso centro commerciale Suria, con marche da tutto il mondo, mentre attorno il Parco KLCC, ben tenuto con al centro un laghetto artificiale con due uomini immersi coi loro stivaloni gialli nelle sue acque, intenti a ripulirlo. Tanti giochi per bambini, trovare qua per terra una cartaccia è un’impresa ardua. Lo skyline oltre il parco è fatto di alti palazzi e grattacieli. sedi soprattutto di uffici e banche. Il sole ora picchia forte, decido di riprendere la metropolitana e tornare verso Masjid Jamek. Da qui (l’omonima moschea non è un granchè) parte Little India, niente più palazzi o grattacieli, ma un dedalo di vie trafficatissime di pedoni e bancarelle. Mercati, mercati e ancora mercati. Ci sono anche negozi, non come li intendiamo noi, senza vetrine ma bensì grandi spazi ricavati nei palazzi, senza un vero ingresso. In vendita i colorati saari, fiori, frutta, stoffe, abbigliamento, biscotti…ovviamente tutta merce indiana così come gli stessi commercianti. Certo, per chi come me è stato in India, non è proprio la stessa cosa, qui non è come essere a Delhi o Varanasi, ma è comunque piacevole ed interessante questa strana parte della città. Ho già adocchiato mille cose da comprare, come in tutta l’Asia qui i prezzi sono davvero oltre la convenienza! Tappa d’obbligo a Merdaka Square, la piazza (che sembra più un ampio viale) dell’Indipendenza, colma di bandiere malesi, alcune giganti alle spalle dell’ampio spiazzo erboso: qualche turista probabilmente cinese, scende dai pulmann proprio mentre sul marciapiede due signore, una giovane e una anziana, manifestano silenziosamente il loro dissenso contro il governo di Pechino attraverso semplici cartelli che mostrano foto e articoli di torture. Pranzo veloce in un semplice e deserto ristorante indiano self service, poi a piedi, grazie alle indicazioni di qualche passante, sono di nuovo alla porta di Jalang Petaling. Il cielo lentamente si sta annuvolando, torno verso il vicino Sri Mahamarriamman Temple, lascio le scarpe in custodia ed entro al suo interno: un cortile quadrato e contornato da raffigurazioni di divinità dai colori accesi, al centro un piccolo santuario dai pavimenti in marmo, e candele che bruciano in piccole ciotole; con me solo qualche fedele e qualche turista. Allungando la passeggiata, sempre in Chinatown arrivo ad altri due piccoli templi: il Chan See Shu Yuen dalle pareti di lucidi mattoni color smeraldo e all’interno, oltre la colorata porta dietro all’ingresso (a parte della struttura), diverse raffigurazioni di dei, offerte e lunghe assi di legno dalle diverse tonalità di rosso con su incisi ideogrammi cinesi; al centro un grande vaso lavorato con incensi che bruciano, mentre due anziani conversano e un micio fa le sue pulizie. Piccolo, carino, come spesso accade in certi luoghi, mi fa strano avvertire questa sensazione di pace e silenzio, qui è tutto aperto e a poche decine di metri ci sono le vie trafficate della capitale me perfino la monorotaia sopraelevata. Accanto, a pochi passi di distanza, salendo una scalinata arrivo al Koon Yam Temple, meno caratteristico, con una grande sala piena di statue dorate del Buddha e le immancabili offerte di frutta e fiori finti e soldi veri. Sono cotto, cammino da quasi 6 ore, dapprima sotto il caldo sole, con intervalli polari come in metropolitana, e ora con una pesante afa che lo smog cittadino rende ancora più insopportabile. Tappa in hotel. Sono le 16 e ricomincia a piovere, non l’avrei mai pensato visto il cilo blu di questa mattina. Jalan Petaling sta già velocemente riassumendo le sue sembianze di inferno dello shopping , si chiude al traffico mentre decine di giovani spingono i loro carretti arrugginiti e li montano in men che non si dica. Et voilà, , un’unica via neanche tanto ampia, si è trasformata a 4 strette corsie, in alcune non si passa che uno alla volta. Si ricomincia a trattare per gli acquisti, come d’obbligo. La sera anima sempre di più Chinatown. Cena come suggerito dalla preziosa Lonely Planet al Purple Cone Tea Restaurant, con riso cotto nel tè e pezzi di pollo fritto sempre cucinati nel tè verde e miele. Ovviamente con bacchette!

1 Settembre Kuala Lumpur – Kuala Tahan (Taman Negara)

Mattino presto, in Petaling non più la calca di persone e merci, ma solo qualche ristorante locale con gente che divora la sua zuppa di noodle su tavolini in plastica sotto a tetti improvvisati di lamiera. Carico del mio zaino in pochi minuti sono alla hall dell’Hotel Mandarin, dove fra poco dovrebbe arrivare il bus per Jerantut. Eccolo, puntuale, discretamente nuovo: salgono su una ventina di turisti di varie nazionalità (ovviamente nessun italiano); l’autista, berretto in testa e ciabatte ai piedi, parte. Primo tratto di autostrada tra qualche cantiere e casermoni bianchi, poi solo verde, e in tre ore di salite e tornanti, arriviamo alla cittadina di Jerantut. Il pulmann ferma davanti ad un’agenzia che fa anche da ristorante, in una via di piccole case, alcune dipinte di rosa, e ognuna con su la data di costruzione in cima. Disbrigo delle formalità, tassa di accesso al Taman Negara (1 Rm) e per la fotocamera (5 Rm). In attesa dell’arrivo dell’altro pulmann che mi porti alla vicina Kuala Temberling (18 Km), mangio un paio di toast e provo anche il Longsat, un frutto locale gentilmente offertomi, piccolo come un litchi e dal sapore indefinibile ma gradevole, una via di mezzo tra l’uva e il pompelmo dolce. Arriva il bus, il tratto da percorrere è breve, in meno di mezz’ora sono al jetty, ossia il piccolo molo dal quale partono le imbarcazioni per il Taman Negara. Anche qui altro disbrigo di formalità burocratiche, stavolta senza pagare ma solo tramite registrazione di dati, e poi finalmente su, in una barca in legno con tettuccio e a motore, con gli zaini caricati a prua (il mio pende verso l’acqua!). A bordo una quindicina di persone sedute sugli scomodissimi assi di legno a due a due, con l’uomo che guida a poppa, e i salvagenti arancioni (che sembrano più pettorine per le emergenze stradali) poggiati sugli schienali. Comincia la navigazione lungo l’ampio letto del Temperling River, dalle acque color terra. L’imbarcazione è bassa, sono a pelo d’acqua: ai lati solo verde, alberi di ogni dimensione, alcuni dagli alti fusti che salgono verso il cielo, altri con rami che sembrano tuffarsi nelle acque del fiume, qualche solitario pescatore e qualche mandria di bufali nella foresta che vista da qui sembra impenetrabile da quanto è fitta. Viaggio lungo, all’inizio eccitante, però poi dopo due ore col rumore del motore nelle orecchie e il sedere su queste assi, comincio a non vedere l’ora di arrivare. Ancora 40 minuti e finalmente eccomi, sono a Kuala Tahan: la barca attracca appoggiandosi ai copertoni usati come anti urto a lato di un ristorante galleggiante, recupero il mio zaino e scendo. Dopo una breve scoscesa salita sul terreno battuto arrivo al primo gruppo di chalet, il Tembeling River View: 4 chalet piccoli in legno scuro, copritetto in paglia e tavoli fuori, sempre in legno ovviamente. La camera col pavimento plastificato, dipinta all’interno di verde acqua, lo scopino per spazzare le formiche e il letto con tanto di zanzariera color rosa. Geniale, ci sono anche dei fili dove poter stendere, e il piccolo bagno, ritrovo abituale a quanto pare delle piccolissime formiche del villaggio. Sono nella giungla, e per 50 Rm a notte va più che bene. Kuala Tahan è infatti un villaggio di poche casette sparse a caso lungo la costa sud del fiume, qualche semplice chalet in legno per i viaggiatori, e un continuo sali e scendi tra scalini irregolari di cemento o terra fra la vegetazione fitta. Ci sono palme dalle foglie enormi, e alberi di banane: scendendo verso il fiume, una spianata pietrosa porta a sei semplici ristoranti in legno galleggianti, ognuno con la sua insegna, i tavolini nei patio vista fiume e lunghe assi di legno che fanno da ponticello per arrivarci dalla riva. In giro poca gente del luogo, comunque sempre sorridente, e tanti gatti. A monte del villaggio c’è anche una piccola lavanderia, che sul cartello di legno che nè da indicazione lungo la strada, ha dipinto anche in modo infantile le indicazioni per arrivarci, fa tenerezza. Il clima è umido, fa caldissimo e i vestiti si appiccicano alla pelle. Il sole sta tramontando al di là del Temberling River, nascondendosi dietro la vegetazione del Taman Negara il cui ingresso ufficiale è sulla riva opposta. Un uomo accende dei piccoli lumini davanti ai ristoranti, illuminati anche dalle file di lampadine colorate che li ornano oltre alle immancabili bandierine malesi. Doccia fredda (qui l’acqua calda è inutile visto il clima), e armato di piccola torcia, scendo nuovamente verso il fiume, nel buio totale visto che non c’è altra illuminazione. Ceno con l’equivalente di un paio di euro a non più di 20 cm dall’acqua, senza un parapetto; quando passa qualche barca l’intera struttura del ristorante ondeggia. In tutta Kuala Tahan regna ora il silenzio, interrotto dal verso incessante dei grilli e delle cicale, e dal verso di qualche uccello, niente altro, sotto un cielo pieno di stelle da far venire i brividi…

2 Settembre Kuala Tahan (Taman Negara)

Il gallo ha cominciato presto a confondere il suo canto con quello delle cicale, anche se dal chiuso della camera il rumore che sento di più è quello del ventilatore che è andato tutta notte, impossibile spegnerlo con questo caldo. Esco dalla zanzariera rosa (che ha funzionato!), fuori una pace surreale, sembra che tutti dormano; anzi, non sembra, è proprio così. La vegetazione che circonda Kuala Tahan è ancora avvolta dalla leggera foschia mattutina quando scendo verso i ristoranti lungo il fiume: sono ancora chiusi, il personale dorme sdraiato tra i tavoli, sono le 7.40 ed ho fame. Non mi resta che aspettare osservando i profili delle barche di legno ormeggiate, coi loro motori Yamaha, che galleggiano nelle placide acque. Finalmente qualcuno comincia ad alzarsi, sono le 8.30 quando finalmente posso addentare il mio pankake. Spunta anche il sole, qualche donna col velo si fa trasportare dalle piccole imbarcazioni usate come taxi tra le due sponde. Finisco colazione ed anche io salgo sul taxi pluviale al costo di 1 Rm, approdando con la piccola barca in legno dall’altra parte. Qui una scalinata bianca porta direttamente ai ben tenuti chalet del Mutiara Resort. Da qui, senza una inutile guida, mi inoltro a piedi fra i sentieri di quella che è la foresta più antica del pianeta, ben 130 milioni di anni! Il sentiero che prendo è ben tracciato, non ci si può perdere, ma mano a mano che mi addentro, avverto proprio la sensazione di essere in mezzo alla giungla: piste di formiche impressionanti, farfalle giganti, enormi alberi di ogni specie e forma, alcuni altissimi tanto che alzando gli occhi al cielo, talmente fitta è la vegetazione che non si riesce a vederne la cima, altri con le enormi radici che fuoriescono dal terreno e dai tronchi che in alcuni casi superano i 2 metri di diametro. Anche le foglie sono gigantesche, soprattutto quelle delle palme; supero la più grande pianta di bambù mai vista prima, con gli occhi sempre vigili per non inciampare tra le radici in quello che a tratti diventa un percorso ad ostacoli: verde, verde e verde ovunque, con un’umidità micidiale, nonostante il sole non riesca a filtrare tra le foglie, sento già tutti i vestiti appiccicati addosso. Il sentiero verso il Bukit Teresik si fa più impegnativo, comincia a salire, in alcuni tratti delle corde saldamente legate agli alberi agevolano il cammino. La cosa più impressionante è il suono di sottofondo: i rumori della civiltà sono lontani anni luce, si odono versi mai sentiti prima, insetti, scimmie e volatili, che si mimetizzano perfettamente, non si vedono ma sembrano tantissimi. Mi sembra di sentire un rumore simile ad una segheria, poi qualcosa più vicino ai videogiochi di astronavi spaziali…no, non ho bevuto, è proprio così, è fantastico. Sono circondato e osservato da una moltitudine di esseri viventi che non vedo, in alcuni tratti i loro versi si fanno quasi assordanti. L’unico rammarico è che non è stagione di fioritura questa, qui esistono i fiori più grandi del pianeta, e che di animali, eccezion fatta per un millepiedi grande quanto il mio piede, non riesco a vederne. Il panorama in cima al sentiero è guastato dalla troppa luce, scendo stando sempre attento agli sgambetti delle radici, e pieno di sudore e fatica, arrivo nuovamente ai giardini stile british del Mutiara Resort: un altro mondo! Qui donne col tudong in testa e alcuni giovani tutti in divisa fanno le pulizie negli chalet e curano il verde, roba da signori. Scendo le scale che portano al minuscolo molo e prendo il passaggio in barca fin sull’altra sponda. Mai ho desiderato una doccia gelida come ora! Pranzo in riva al fiume mentre lentamente mi riprendo dalla fatica, dovuta principalmente al calore più che alla difficoltà della camminata in sé. Il pomeriggio qui nella cameretta verde del Tembelling chalet scorre lento: dalla finestrella senza vetri osservo alcuni uomini del villaggio che oziano all’ombra dei patii, chi strimpella qualche nota con una chitarra, chi osserva pensieroso il fiume dall’alto e chi se la forme sull’amaca. Anche i gatti sembrano oziare beatamente adagiati sui tavoli di legno degli chalet, che non son di certo quelli fighi del Mutiara Resort. Nessuno è di corsa, nessuno agitato, tutto scorre tranquillamente: faccio due passi per la piccola Kuala Tahan, nessun negozio, se non uno di bibite nel quale faccio rifornimento di bevande isotoniche (qui va per la maggiore la 100 plus) per recuperare i sali persi, e qualche souvenir per turisti. Porto qualche vestito in lavanderia (che poi è la semplice abitazione della lavandaia!) approfittando della permanenza qui di qualche giorno. Arriva sera, qualche ristorante è aperto e qualcuno no: e dire che son 6 zattere in tutto, ma qui il concetto di concorrenza non si sa cosa sia. Mentre ceno si riversa sul villaggio un’improvviso acquazzone, breve ma intenso, che per fortuna mi ha colto al riparo della tettoia del ristorante galleggiante. Sono pronto ora per rinchiudermi nella mia zanzariera rosa, al resto degli insetti penseranno stanotte i due gechi ospiti fissi nella camera.

3 Settembre Kuala Tahan (Taman Negara)

Prendere al volo la barchetta che per un Ringgit mi porta da una sponda all’altra del fiume, non è come prendere al volo la metropolitana milanese: soddisfazioni di un viaggio! Sono nuovamente tra i giardini del Mutiara Resort, con le loro palme e le piante fiorite di bouganville; c’è perfino uno scoiattolo che corre tra gli chalet. Esco da questa fetta di parco immacolata per rigettarmi tra i sentieri selvaggi della foresta vera. E dire che quella percorribile è solo una piccolissima parte di un’area complessivamente più vasta della Valle d’Aosta; tigri ed elefanti selvatici che la abitano se ne stanno infatti ben lontani dai sentieri percorribili dall’uomo. I suoni che odo qui difficilmente li dimenticherò, è un concerto di natura primordiale. Voglio arrivare al Canopy Walkway, il sentiero per arrivarci è più semplice e in piano; arrivo ad una serie di gradini ai piedi dei quali gli addetti del Parco controllano l’autorizzazione di ingresso allo stesso, che ovviamente ho con me. Salgo a fatica con questo caldo, arrivando ad uno spiazzo: un piccolo gabbiotto di legno che fa da cassa (5 Rm) e poi il Canopy! Un ponte, anzi no, una serie di ponti, ben sei, sospesi nel vuoto dall’alto della foresta; una lunga passerella costituita da singole assi di legno in fila, e ai lati una rete alta poco più di un metro con la corda per tenersi. Non c’è nessuno, il ponte sembra stabile ma appena su comincia ad ondeggiare; momento di panico e di sudore freddo, le mie vertigini inconsce escono allo scoperto, ma oramai ci sono. Concentrazione, decisione e via, camminando sulle assi di legno e tenendomi ben stretto alle corde: un cartello indica 10 metri di altezza, a me sembrano molti di più, l’intero ponte sarà lungo un centinaio di metri, lo percorro arrivando all’estremità opposta, su una sorta di piccola piattaforma in legno attorno ad un grande tronco. La paura è vinta ma questo è solo il primo tratto: un altro ponte e poi un altro ancora, sempre più in alto e sotto il vuoto e le cime degli alberi; ora sarò a 50 metri di altezza ma guardare sotto non mi sembra il caso, basta inclinarsi un pò e tuttto ondeggia, anche se la rete che dalle assi si apre ad imbuto fino ad altezza petto un pò mi rassicura. L’ultimo tratto è un’alta scalinata di metallo che scende verso il suolo, anche essa saldata attraverso corde legate ai tronchi, anch’essa quindi mobile. E’ fatta, bella esperienza, che si aggiunge al ponte tibetano attraversato in Laos, un bel test per il mio senso di vertigini. Torno a Kuala Tahan, sulla sponda opposta, dove è chiaro ormai che i ristoranti galleggianti aprano un pò a giro visto che oggi sono chiusi quelli aperti ieri. Pranzo in uno di questi che funge anche, come gli altri, da abitazione per il personale che vi lavora. Devo tirare le 15 per l’appuntamento preso con un barcaiolo che mi porterà dagli Orang Asli, una etnia che vive nei dintorni. E infatti alle 15 puntuale arriva il barcaiolo, che dapprima prova ad includermi una gita per le rapide del fiume insieme ad altri turisti, che ovviamente declino. Così mi “procura” un altro giovane barcaiolo e con lui parto seduto a prua su una stretta barca di legno con motore. Dopo 10 minuti di navigazione accostiamo su una piccola spiaggia sabbiosa dove scendo. Scalo il piccolo promontorio di fronte ad essa, fatto di sabbia mista a terra, ed eccomi ad un pugno di capanne che fungono da abitazioni degli Orang Asli: 7 malandate capanne , simili a basse palafitte di bambù , con sopra ai tetti dei teli plastificati, dentro un materasso, qualche vestito alla rinfusa, bucce di frutti e rifiuti vari, perfino un orsacchiotto di peluche non in buona salute. Una donna, indifferente alla mia presenza, si pettina l’enorme chioma alla Jimy Handrix con un fermaglio di legno, altre se ne stanno all’ombra dentro ai capanni; c’è un neonato, non avrà di sicuro più di un mese, piange da solo dentro ad una capanna, una donna, forse la madre ma non è scontato, lo prende e lo porta al suo seno allattandolo. Ci sono altri bambini che scendono fin giù alla spiaggetta tuffandosi poi nelle acque marroni del Timberling River; scendo dopo di loro, con discrezione, cercando di interagire in qualche modo, ma non sono molto sociali nè curiosi. Non mi sento perfettamente a mio agio a differenza di altri contatti avuti nei miei viaggi con altre popolazioni, la loro diffidenza mi trasmette un senso di invadenza, di estraneità. Il giovane barcaiolo, che mastica un pò di inglese, mi spiega che gli Orang Asli sono un popolo senza religione, che vive solo dello stretto contatto con la natura, cacciando piccoli animali e raccogliendo frutti; una curiosità, i defunti li portano in cima agli alberi nel cuore della foresta. Sta arrivando un piccolo gruppo di altri turisti, insomma, qui a differenza delle precedenti esperienze, mi sembra più una sorta di esposizione (e contaminazione), con tanto di programmata dimostrazione di accensione del fuoco e tiro con la cerbottana. Non fa per me, e torno in barca verso Kuala Tahan, in tutto questa “gita” è durata poco più di un’ora; vado a ritirare i panni portati ieri in lavanderia mentre da lontano, proveniente dalla piccola moschea, sento diffusa la preghiera del muezin. Torno verso lo chalet, passando davanti alla scuola dove un papà carica ben 4 bambini oltre a lui e gli zainetti, sul suo motorino, ovviamente tutti senza casco ma sorridenti. Un pò di relax e una doccia, si fa sera ed è ora di riscendere verso riva attraversando la pietraia. Scelgo stavolta il ristorante Nusa: tavolino a bordo fiume, il “nusa rice” (frittata ripiena di riso nero alle verdure) è squisito. Cenano anche i giovani inservienti o proprietari del locale, tutti con la maglia verde, le ragazze col tudong in testa, mangiando con le mani dalle loro ciotole riso misto a carne. All’orizzonte di nuovo lampi, meglio tornare in fretta verso il letto, con la mia mini torcia nel fitto buio di Kuala Tahan, per farmi cullare dal suono dei grilli e, ahimè, del ventilatore.

4 Settembre Kuala Tahan (Taman Negara) – Marang

Sono le 7 del mattino, nella penombra di una sonnolenta Kuala Tahan, aspetto il taxi che mi dovrebbe portare a Marang, sulla costa orientale malese. Con un pò di ritardo eccolo arrivare, già temevo: un uomo taciturno, sulla cinquantina di anni, più o meno forse la stessa età dell’auto! Uscendo da Kuala Tahan comincia a piovigginare lungo la statale tutta curve ma in discreto stato, contornata prima da palmeti e poi da fitta foresta; pochi cartelli, tanto verde. Non c’è traffico e il tassista ne approfitta per tirare oltre i 100 km/h azzardando qualche sorpasso. Sono le 9 quando arriviamo a Maran, e da qui imbocchiamo l’autostrada in direzione Kuantan; smette di piovere e un pallido sole cerca di farsi largo con poco successo. Dopo un’ora riprendiamo la statale in direzione nord, la East Coast Highway, che attraversa qualche piccolo villaggio (kampung in lingua locale) circondato da alte palme da cocco. Qualche mucca al pascolo e decisamente più traffico, c’è anche un motorino con a bordo un ragazzo e due scimmie! Oltrepassiamo la cittadina di Cukai, più grande di quelle finora viste lungo la strada, entrando così nella regione di Terengganu. Qui i semafori rallentano un pò il viaggio. Poco oltre, un immenso complesso petrolchimico della compagnia locale Petronas, che per un lungo tratto di strada costeggia entrambi i lati della carreggiata, diventata ora a due corsie di marcia. Le bandiere malesi sono appese un pò ovunque, case, pali della luce, industrie. Finalmente le prime indicazioni per Marang, non dovrebbe mancare molto e la mia fame cresce, vedendo anche ai bordi della strada, chioschi che vendono angurie più piccole rispetto alle nostrane. Dopo 5 h e mezza di auto finalmente, alle 12.30 ecco Marang. Mi faccio lasciare alla Kemak Guesthouse: 50 Rm per una camera doppia, un piccolo bagno con lo sciacquone che non va (sostituito dal vecchio metodo del secchio), e le pareti dipinte ognuna di un colore diverso. Ospite non gradita, una colonia di minuscole formiche. La piccola guesthouse a gestione familiare è lungo la strada che costeggia il fiume (sungai) Marang, semi prosciugato, solo qualche piccola e malandata imbarcazione da pesca, mentre sulla battigia delle bizzarre torrette di osservazione color fucsia! A largo si vede bene l’isola di Pulau Kapas, dove andrò domani. Percorro a piedi la strada fino al molo dei traghetti e chiedo informazioni al negozio 5 come suggeritomi via email dai proprietari del Qimi Chalet di Kapas: c’è un traghetto con partenza domani alle 9. Marang è piccola, c’è il mercato coperto di frutta e verdura, la moschea nuova color carta da zucchero coi suoi 4 minareti, e nulla più. I pochi negozi sono tutti chiusi, eccetto un piccolo minimarket al quale chiedo dove poter mangiare: il cassiere mi guarda sorridendo e mi dice che oggi è l’ultimo giorno del Ramadam, resterà tutto chiuso! Non ci posso credere, ho saltato colazione ed ora anche pranzo e cena? E pure la colazione di domani? Sono anche io in Ramadam forzato…inshallah! A fianco della moschea c’è un piccolo mercato affollatissimo di gente locale, ognuno col suo sacchetto di plastica pieno di cibo, le donne tutte col tudong e tanti gatti che girano tra i banchi. Il cibo però quà sui banchi è di dubbio gusto…mi fido e mi accontento di tre springrolls (1 Rm!) e di una mela che saranno la mia cena di stasera…Non c’è altro da fare, Marang è un pò deludente, forse anche per via della festività in corso. Domani di nuovo zaino in spalla e via giù al molo. Intanto curioserò un pò cosa guardano i malesi dalla piccola tv in camera.

5 Settembre Marang – Pulau Kapas

Cammino carico di zaini verso il molo, sono le 8.40: incrocio solo qualche signora che spazza via le foglie dai marciapiedi, con scope di plastica e il cappello di paglia in testa. Il cielo è nuvoloso, a tratti pioviggina. Il tragitto non è in traghetto ma in motoscafo, e nonostante il mare mosso, in 10 minuti sono nella piccola isola di Pulau Kapas, direttamente sul tratto di spiaggia dove affaccia il Qimi Chalet: non c’è un molo, lo scafo si ferma a pochi metri dalla riva, due ragazzi dello chalet mi aiutano direttamente con gli zaini dalla spiaggia. Il Qimi, tre chalet a fianco alla casa palafitta in legno che fa da reception e da ristorante, con i tavoli sulla spiaggia, e altrettanti chalet sempre in legno su alte palafitte a ridosso della vegetazione. Lo chalet scelto da me ovviamente è uno di questi, e ci arrivo salendo una ripida scalinata di pietra posta tra gli alberi; la palafitta sarà alta da terra 4/5 metri, incastonata tra gli alberi, tutta in legno scuro, eccetto il piccolo bagno completamente in pietra; letto comodo con zanzariera bianca e terrazzino tra i rami che affaccia sulla spiaggia, e il parapetto fatto di veri tronchi. Mi affaccio guardando il mare di fronte a pochi metri, tra i rami degli alto alberi che ho ad altezza viso, tutto attorno foresta. Mi sento un Robinson Crusue dei tempi moderni, è bellissimo qua, immerso nella natura e di fronte al mare, sistemazione fantastica, una delle più belle di tutti i miei viaggi. Via le scarpe, qua è tutto legno o sabbia, non serviranno granchè. Comincio a perlustrare l’isola: Pulau Kapas è una piccola isola promontorio ricoperta di foresta, con lunghe spiagge sabbiose che si alternano separate dalle rocce a piccole calette di sabbia fine, alcune collegate tra loro da passerelle a gradini. Alle spalle alberi di ogni specie, immancabili ovviamente gli alti fusti delle palme da cocco, insomma, un piccolo paradiso da cartolina. Non fa neanche il caldo umido dei giorni scorsi, anche se il cielo continua ad essere nuvoloso e lascia solo a tratti, quando esce, intravedere la trasparenza delle acque marine. Sulla sabbia, a riva, qualche conchiglia e qualche frammento di corallo morto: la barriera non è distante dalla riva. Qimi è la struttura più ad est dell’isola, oltre solo spiagge deserte. Dopo il forzato Ramadam di ieri, finalmente è ora del pranzo: riso con pesce. Arriva di nuovo lo scafo, oltre a portare una coppia di turisti, a bordo ci sono anche i due proprietari del Qimi col loro piccolo di 9 anni: marito e moglie, magrissimi e gentilissimi, subito si presentano dandomi il benvenuto. Oltre a loro il personale è costituito solo dagli altri due ragazzi di questa mattina, è tutto a gestione familiare. Faccio un’ altra passeggiata lungo la spiaggia, stavolta verso ovest: passata la prima passerella sopra le rocce, una lunga spiaggia di sabbia di fronte a semplici chalet decisamente più anonimi e meno selvaggi del Qimi. Non c’è nessuno, la spiaggia è deserta, solo una coppia che legge su due sdraio; oltrepasso il molo centrale, l’unico dell’isola, fino ad arrivare all’estremità opposta, da qui si può procedere solo a nuoto. Il tratto più bello, appartato e solitario è proprio quello ad est del Qimi, ho scelto bene. Ed è lì, in una caletta isolata, che mi rifugio per un pò di ozio. Per il bagno mi sposto nella più grande spiaggia a fianco, anch’essa totalmente deserta, e dove l’acqua è più limpida. La sensazione del bagno nelle acque calde è bellissima, comincia a piovigginare ed ho tutta la spiaggia e il mare che è una tavola piatta per me. Passo così il tempo sulla spiaggia, smette di piovere, il sole non c’è ma sulla pelle si fa sentire lo stesso. Torno allo chalet, la doccia nel bagno di pietra con effetto plantare naturale è una figata, non mi resta che godermi l’assoluto relax seduto sulla comoda poltroncina di legno del terrazzino, piedi sul tronco ed occhi chiusi per ascoltare meglio il suono perpetuo della risacca marina accompagnato dal canto degli uccelli della foresta. Un mix ben combinato. Odo anche qui il misterioso verso dell’uccello (o insetto?) “effetto segheria” che c’era nel Taman Negara, mi avrà seguito? Il tempo trascorre lento e bene, arriva la sera e con lei le zanzare, di gran lunga più numerose qua sull’isola che non nella foresta del Taman Negara. E’ buio, i tavolini del Qimi vengono illuminati da candele rosse anti insetti. Ceno mentre il bimbo dei proprietari canticchia le note di “the sound of freedom” di Bob Marley, che lo stereo in sottofondo sta trasmettendo. Da noi a 9 anni neanche sanno chi sia Bob Marley. La famiglia Qimi mangia con le mani la sua cena a base di riso e verdure, una coppia gioca a scacchi mentre qualcuno ozia sulle amache legate agli alberi. All’orizzonte si vedono le luci di Marang. Il cd di Bob Marley è finito, ora di sottofondo qualche chiacchericcio, i grilli, le cicale e il mare, leggero, perpetuo…

6 Settembre Pulau Kapas

Stanotte alle 2 si è scatenato su Pulau kapas un violento temporale, ora il mare è agitato e l’acqua è avanzata mangiandosi parte del litorale sabbioso. Per il momento non piove più, esco a fare colazione, mentre alcune donne armate di scope spazzano la spiaggia dalle grande e secche foglie cadute dagli alberi. Nonostante anche ieri sia stato sempre nuvoloso, il sole sulla pelle è comunque filtrato tanto che mi ritrovo con le spalle leggermente arrossate; è il caso comunque di usare la crema protettiva, così posso rifugiarmi nuovamente nella distesa di sabbia accanto al Qimi, appena oltrepassati gli scogli, che è deserta. Ci sono solo io e qualche piccolo granchio che esce veloce dalla sua tana per gettarsi in acqua. Mi metto a riparo tra grandi e bizzarri tronchi, credo di mangrovie, cresciuti in orizzontale, quasi a cercare di raggiungere il mare: è strano guardare avanti e vedere l’immensità del mare, mentre alle spalle si ha una vera foresta, piante di ogni specie, l’una sulle altre, di un verde intenso e ancora più acceso dopo tutta l’acqua che è venuta giù questa notte. Passano un paio di ore; approdano sulla spiaggia due canoe con 4 turisti indiani, la mia solitudine ahimè è finita. Mi dondolo un pò su un tronco legato da robuste corde a fare da altalena, e torno al Qimi per il pranzo: non ho tanta fame e un buon sandwich al tonno può bastare. Il posto è fantastico ma io continuo a non essere un tipo da spiaggia, pur amando il mare. Così mi accontento di starmene qualche ora sul balconcino dello chalet guardando il mare dall’alto. Leggo dalla Lonely Planet un pò della storia della Malaysia e passo il resto del tempo a riflettere e pensare. sono quasi le 16 e il cielo è di nuovo minaccioso, ma un bagno me lo voglio ancora fare. Scendo, torno alla mia spiaggia preferita e via a nuotare un pò nelle acque calde. Giusto in tempo perchè appena esco si scatena il temporale. E meno male che questa non è la stagione delle piogge, ma stavolta va così. Spero solo domani in un tempo più clemente che mi permetta di fare qualche bella foto di questo piccolo paradiso. Bagnato fradicio mi rifugio nello chalet. E’ ora di cena, si è alzato un forte vento, fa perfino fresco. Speriamo porti il bel tempo. Intanto mi consolo con l’ottimo pollo in salsa di cocco cucinato dalla bravissima Rose, la signora Qimi.

7 Settembre Pulau Kapas

Finalmente il sole! Ftta colazione ne approfitto subito per rifugiarmi nella “mia” spiaggia, all’ombra dei grandi alberi dai bei fiori a petali bianchi con steli viola. Dopo due giorni di brutto tempo oggi il cielo è di un blu intenso, i riflessi sull’acqua sono fantastici, le condizioni per fotografare sono perfette. Un bagno nelle acque color smeraldo e come sempre calde. Ozio, e relax. Lentamente si fa ora di pranzo. Le ore più calde le passo sul terrazzino, si sta benissimo, c’è una leggera brezza, e i suoni della natura danno al momento una sensazione di pace, che quasi mi fa addormentare da seduto, cosa non da me. Sono le 16 quando esco nuovamente in spiaggia, munito di inseparabile macchina fotografica ma stavolta anche di maschera e boccaglio noleggiati qua al Qimi per 10 Ringgit. Fare snorkely qui è fantastico, un giardino subacqueo fatto di coralli rosa e viola, grandi piante di anemoni arancioni, una perfino di un giallo fluorescente, spugne di mare con grandi conchiglie carnivore dalle labbra carnose e variopinte, piante nere dagli appuntiti aculei, e poi tanti pesci coloratissimo, di tutte le forme e dimensioni, da piccoli a grandi quanto il mio braccio, soli o in branco. Non tutti i tratti sono così colorati e abitati, vanno un pò ricercati nuotando, la vera barriera corallina è più al largo, ma quando arrivo a nuotare sopra questi colorati giardini subacquei è uno spasso; il sole riflette perfettamente attraverso le acque limpide, che in alcuni tratti sembrano talmente basse che ho paura nuotando di prendere qualche corallo. Comincio ad essere fisicamente stanco, sono a testa in giù da più di un’ora e mezza, ma ne è valsa la pena. Ora il sole, di fronte al mare, illumina con una luce diversa le alte palme e il verde della foresta alle loro spalle. Il lento calar del sole dipinge in cielo e in mare paesaggi dalle tonalità calde e via via diverse, neanche un pittore riuscirebbe a fare meglio. Il tramonto è sempre un momento magico e ricco di fascino. Ora che il sole è andato a riposare alle spalle di Marang, all’orizzonte, posso tornare su per una doccia prima che le zanzare mi divorino. Per festeggiare il ritorno del bel tempo, Rose e suo figlio, il più grande, hanno addobbato i tavolini per la cena sulla spiaggia con fiori e candele ad olio che la illuminano, davvero romantico; mamma Rose e il piccolo Qimi, accendono le candeline galleggianti che poi spingono in mare, il tutto molto suggestivo. Anche le scale in pietra che portano allo chalet sono illuminate da piccole fiammelle. La cena è deliziosa come sempre; così come il relax assoluto sui comodi materassini etnici a fianco al ristorante, con le solite note di Bob Marley che dolcemente si fondono col suono della risacca marina. E le candeline di mamma Rose e del piccolo Qimi nel frattempo hanno preso il largo…

8 Settembre Pulau Kapas – Kuala Terengganu

E’ tornata la pioggia qua a Kapas, il mare si è nuovamente inghiottito parte del litorale. Oggi lascio lo chalet da sogno non prima di essermi riseduto un pò a contemplare per l’ultima volta il mare dal terrazzino. Alle 9.30, puntuale, arriva la barca a motore (doppio), a bordo sale anche una delle due coppie che era qui ospite; con l’aiuto di Rose e dei suoi due figli adulti, carico gli zaini e salgo anche io sulla improvvisata scaletta di legno, con mezzo piede in acqua. Sono stati proprio carini in tutto, mentre a motore spento la barca si allontana dalla spiaggia, continuano a salutare, poi i motori si accendono e via; mano a mano ci allontaniamo scompaiono le sottili strisce di sabbia all’orizzonte e Pulau Kapas appare sempre di più come un promontorio verde che spunta in mezzo al mare. Piove, il mare è agitato e i 10 minuti che mi separano dal porticciolo di Marang sono una vera avventura da brivido: lo scafo sembra impennarsi per poi ricadere forte di pancia cavalcando le onde, mi sento Don Johnson in Miami Vice! Bagnato fradicio eccomi al molo di Marang: c’è già l’autista di un taxi che aspetta, un omone robusto e gentile che parla un buon inglese. Mi consiglia se ho bisogno (e ne ho) di prelevare qua contanti perchè i prossimi due giorni potrei avere problemi dato che si festeggia la fine del Ramadam. Prelevo, poi partiamo e in breve arriviamo a Kuala Terengganu, che dista solo 18 km. Saluto il gentile tassista ed entro nella piccola hall dell’hotel Ming Star, prenotato via web dall’Italia. Dalla palafitta di legno di Robinson Crusue ad un vero hotel su tre piani, con ristorante, ascensore e apertura porte con tanto di tessera magnetica, il salto è notevole. Raggiungo attraverso un labirinto di corridoi la stanza 342, pareti color verde, tv, phone e perfino il bollitore dell’acqua con servizio da tè. La finestra, ampia, dà sulla strada, sul soffitto, come a Marang, una freccia con la scritta “kiblat” che indica la direzione della Mecca. Quanto lusso. Fuori piove ancora, ma mi avventuro ugualmente alla scoperta della città, più grande di Marang decisamente, fatta di case basse interrotte da qualche palazzina, tanti negozi e tanto traffico che, a differenza dei vicini Paesi indocinesi, è soprattutto di auto (tutte di marche asiatiche), sono infatti pochi i motorini e nessuna bicicletta, eccezion fatta per pochi sgangherati risciò a pedale trainati da anziani, quasi un segno di un passato che ahimè sta scomparendo. La vita dei pedoni qua è più complicata che non a Kuala Lumpur: i pochi marciapiedi sono in pessime condizioni, e l’attraversamento delle strade sta all’intraprendenza e al coraggio, ricordandosi sempre di guardare dalla parte giusta visto che la guida è a destra. Una tappa al centro commerciale Astaka, nessun turista, solo gente locale e pochi oggetti tipici, ma merce di uso comune, che però non mi evita lo stesso qualche buon affare. Smette di piovere. Passo e curioso tra i banchi del Kedai Payang Central Market, un mercato locale al coperto, frutta secca e verdure, dolci e pesce, accanto ad una piccola moschea dalla quale si sente forte la preghiera ad Allah. La regione del Terengganu dove mi trovo è la più tradizionalista dell’intera Malaysia, le donne indossano tutte il tudong, in vari colori e modelli, e tanti uomini invece il classico copricapo islamico. Le vesti delle donne sono molto belle, i Kain Songket, abiti lunghi avvolgenti e colorati, quasi sempre realizzati a mano in seta. Sopra al mercato, in un vero e proprio labirinto di cemento simile ad un parcheggio, ci sono tante botteghe che realizzano e vendono proprio i bellissimi Kain Songket e parei: i prezzi però me li immaginavo più bassi, nonostante sia d’obbligo la contrattazione; in effetti però considerando che si tratta di seta lavorata a mano…forse mi sono un pò troppo abituato ai “sottocosti” asiatici. Arrivo sempre a piedi al quartiere cinese: lanterne rosse appese ai pali della luce, un piccolo tempio taoista, tante piccole botteghe ma anche qui, per via del Ramadam, tutti i ristoranti chiusi. Le ragazze però in questa parte della città, non indossano il tudong. Anche oggi, pranzo con un gelato confezionato acquistato in una…farmacia cinese! Non ho portato dietro con me la Lonely Planet, e il mio senso di orientamento fa cilecca, ci metto infatti una vita a tornare nella via dell’hotel, aiutato dalle indicazioni richieste ai passanti, perfino ad una poliziotta donna, con tanto di tudong anche lei. Un salto in camera per poi uscire nuovamente, sono le 18.30, il cielo finalmente sembra rasserenarsi, tutti i negozi sono chiusi da mezz’ora, eccetto i mitici e onnipresenti mini market della catena 7eleven. Però in compenso e stranamente, i ristoranti presenti nella via a fianco dell’hotel sono aperti: ce ne sono diversi, alcuni semplici chioschi coi tavolini in plastica all’aperto, ma stasera, dopo il tanto camminare e l’acqua presa, mi concedo una cena all’occidentale con fish and chips nella seppur asiatica catena del Secret Recipe, ristorante specializzato in magnifiche torte dall’aspetto e dalle porzioni più che invitanti! Dovrò pur consolarmi in vista della notte senza più essere cullato dal suono del mare…

9 Settembre Kuala Terengganu

Mangiare noodles, coscette di pollo o riso fritto a colazione proprio no, non ce la faccio. Nella sala ristorante del Ming Star non c’è nessuno, per la prima volta in questo viaggio, la colazione è a buffet e compresa nel costo della camera; per fortuna almeno un toast con marmellata non manca. C’è il sole. Il tempo di uscire dall’hotel e fare un centinaio di metri a piedi che mi sento chiamare da un’ auto: “hallo sir!”. E’ un ragazzo giovane, forse appena maggiorenne, magro, occhiali da sole alla moda; vuole sapere dove vado, ne approfitto e gli dico che voglio andare alle cascate Sekuya Falls e sto cercando un taxi. Ovviamente si offre lui, da queste parti del mondo funziona così, mi fido e cominciamo a contrattare: l’equivalente di 12 euro per l’intera mattinata considerando che il costo del taxi, già sentito prima tramite la reception è di almeno il doppio, è un buon affare per entrambi, affare fatto. Salgo in macchina e partiamo. Le cascate distano circa 56 km da qua. Mohd, questo è il suo nome, ha solo 20 anni e parla un discreto inglese; appena fuori città ci fermiamo nei pressi di una casa e carichiamo anche suo cugino, più o meno stessa età, insomma una giornata diversa e una gita anche per loro. Attraversiamo la campagna attorno a Kuala Terengganu fatta di qualche piccolo kampung (villaggio), con semplici casette di legno e qualche villetta, le onnipresenti bandiere malesi affiancate stavolta da quelle nere con la luna e la stella bianca, simbolo della regione islamica di Terengganu. La guida di Mohd è spericolata, come in media quella di gran parte degli asiatici: i sorpassi in curva sono una normalità, la cosa assurda è che nessuno si arrabbia o impreca neanche quando gli viene tagliata bruscamente la strada. Strada che comincia a salire tra gli altipiani ricoperti dalla fitta vegetazione: incrociamo qualche scimmia ai bordi della carreggiata, è più di un’ora che viaggiamo ma evidentemente ci siamo persi. Gira e rigira, invece di arrivare alle Sekuya Falls ci ritroviamo al Tesik Kenyir, il più grande lago artificiale del sud est asiatico; dico a Mohd che va bene così, non ho voglia di passare tutto il tempo in auto a cercare le cascate, e questa era l’altra possibile meta tra cui scegliere. Ci fermiamo, dandoci appuntamento per dopo, così comincio a passeggiare lungo le sponde del lago. Al molo qualche house boat, tutto è estremamente tranquillo, un paio di begli scorci panoramici e strani fiori ma nulla di più. Torno dopo un’ora a cercare i due boys, e ripartiamo per il rally di ritorno. Senza che glie lo chiedessi, Mohd lungo la strada, dopo aver rischiato un paio di frontali, si ferma all’Islamic Civilization Park, una specie di parco, deserto, con al centro la grande Crystal Mosque, una vera moschea che più che di cristallo sembra di vetro scuro, con i 4 minareti e la grande cupola centrale. Da un lato le fontanelle per le abluzioni, fuori dal portone principale le scarpe e ciabatte dei fedeli che sono dentro in preghiera. E’ già l’una e mezza, il sole picchia forte e fa caldo, molto caldo. Sosta breve, Mohd e il cugino prima di risalire in auto vogliono farsi una foto ricordo con me tramite il loro telefonino. In breve tempo sono di nuovo in città. Saluto le mie due giovani guide improvvisate, e mi faccio lasciare al caotico (ma almeno al riparo dal sole) Kedai Payang Central Market, pieno di gente del posto (in due giorni a Kuala Terengganu ho visto solo una coppia di turisti). Una passeggiata e qualche acquisto al piano superiore tra i coloratissimi banchi di batik e Songket, poi di nuovo in strada per la lunga passeggiata che mi riporta nel primo pomeriggio al Ming Star Hotel. Alle 16.30 il cielo si è fatto di nuovo minaccioso, esco ma non vale la pena spingermi troppo in là, così, mentre qualche fuoco d’artificio esplode come preludio alla festa di fine Ramadam, mi tocca rifugiarmi nel vicino Secter Recipe per un té e una gigantesca fetta di torta, la vita a volte è fatta di sacrifici…In segno di festa è tanta la gente del posto che acquista intere torte da portare via. Alla fine niente temporale, il vento sembra essersi portato via i nuvoloni neri, così mentre i negozi stanno chiudendo essendo ormai le 18, intere famiglie in 3 o 4 tornano verso le loro case a bordo di piccoli motorini, con i bambini tenuti su in qualche modo.; anche questa è l’Asia. Ceno al moderno Coffe Shop First Station, con la parete alle mie spalle adornata da una gigantesca immagine in bianco e nero di un vecchio treno a vapore, e i camerieri con divisa rossa e berretto del Manchester United, si proprio quello della squadra di calcio inglese. Mangio fin troppo, e mentre fuori aumentano i botti dei fuochi di artificio sparati qua e là, brindo anche io alla fine del Ramadam con un vero boccale di…fresco succo di lithys.

10 Settembre Kuala Terengganu – Singapore

E’ ancora mattino presto quando aprendo le tende del finestrone sigillato col silicone mi accorgo che fuori piove ancora. Per strada nessuno in giro, fatta eccezione per i soliti gatti e il commesso del 7eleven che, appoggiato all’ingresso, legge il giornale in attesa di qualche cliente. A differenza di ieri mattina, la sala ristorante del Ming Star oggi è affollata di turisti cinesi. Terminata colazione, prenoto tramite la hall il taxi per l’aeroporto, oggi pomeriggio si vola verso Singapore. Mi studio nel frattempo la mini Lonely di questa città stato che son curioso di scoprire. C’è il tempo per un ultimo pasto al ristorante Secret Recipe e di un’ultima strabiliante fetta di torta “chocolate indulgence”, squisita. Nel tavolo a fianco due giovani commessi sono intenti nella decorazione di un’altra torta, tra frigo ed esposizione ce ne sarenno a decine già pronte. La clientela che entra è tutta vestita a festa, le donne con eleganti e colorati Songket, gli uomini col copricapo islamico bianco, e lunghe tuniche monocolore che assomigliano a dei pigiami. Puntuale, alle 12.40 ecco il taxi: l’autista somiglia al Mullah Omar, copricapo e tunica, alto e grosso, senza baffi ma con una lunga e folta barba nera, inquietante nell’aspetto ma gentile nei modi, come tutti qua d’altronde. Non piove più, in 15 minuti sono al nuovo aeroporto di Terengganu, molto bello da fuori coi suoi grandi tetti arancioni. Dentro è vuoto; due poliziotte col tudong in testa, e qualche negozio tra cui una gioielleria, un caffè e un piccolo alimentari, oltre ad una grande vasca dove nuotano delle cernie. Null’altro. Oggi è una giornata di spostamenti e attese per aeroporti: farò scalo a Kuala Lumpur e da lì altro aereo per Singapore, sempre con la compagnia locale Malaysian Airlines. Attesa, controlli, check in, poi di nuovo attesa e decollo…Ormai tra tutti i miei viaggi ho perso il conto dei voli fatti. Atterraggio, attesa, controlli e ancora decollo…Alle 20.40 l’aereo coi sedili tutti colorati atterra a Singapore. Il controllo passaporti è abbastanza rapido. L’aeroporto è lussuoso, per terra dappertutto moquette, e per la prima volta da quando viaggio ho l’onore e il piacere di vedere uscire dal nastro del ritiro bagagli il mio zaino per primo! Esco, il sistema dei taxi è efficiente, tutti in fila e un addetto assegna a ciascuno un numero corrispondente al parcheggio dove recarsi: mi tocca casualmente una lussuosa limousine nera con autista elegantissimo in smoking, per fortuna che le tariffe sono a km e non ad auto! E’ la prima volta che salgo su un’auto così lussuosa! Il tragitto fino all’Hotel Orchid 81 prenotato via email dall’Italia mi costa circa 24 dollari singaporesi, circa 12 euro. L’Orchid 81 è un classico hotel a più piani, alla reception non trovano la mia prenotazione, ma mi assegnano comunque la camera avendo io una ricevuta, domani verificheranno meglio. Sesto piano, piccola stanza con bagno, abbastanza anonima. La stanchezza fa si che finisca qua la mia prima serata a Singapore.

11 Settembre Singapore

Finalmente Singapore, dopo una lunga dormita me ne sto rendendo a pieno conto. Esco presto, il cielo è azzurro, è una bella giornata. Mi dirigo a piedi lungo Geylong Road: da entrambi i lati dell’ampia strada ci sono piccoli ristoranti cinesi, sotto a file di case ad un solo piano, e la gente che ordinatamente attende gli autobus alcuni dei quali sono a due piani stile inglese. In 10 minuti arrivo alla fermata della metropolitana (MRT) di Kallang; i biglietti si possono acquistare solo self service dalle macchinette verdi con lo schermo touch screen che permette di scegliere la fermata, in realtà non sono dei biglietti cartacei ma delle tessere in plastica. La metropolitana è quanto di più moderno ed efficiente si possa immaginare: pulita, una canzoncina che somiglia più ad un buffo gingle natalizio dalla voce da cartone animato annuncia l’arrivo del treno, in terra le frecce indicano dove aspettare l’apertura delle porte, sia in entrata che in uscita, e tutti ordinatamente in fila le rispettano. Tre fermate e sono a City Hall, nel quartiere Colonial District. Appena in superficie la prima cosa è subito un centro commerciale a più piani. E’ solo il primo…Mi dirigo in North Bridge Road, i marciapiedi sono ampi e puliti, fa quasi impressione non vedere in terra nulla di nulla, neanche un mozzicone di sigaretta; raccolta differenziata ovunque, attraversamenti pedonali sopraelevati e semafori sonori con timer. E ancora cartelli di divieto parcheggio di moto e biciclette sui marciapiedi e di attraversamento pedonale fuori dalle strisce e, salvo rare eccezioni, tutti sembrano rispettare questi severi ma efficaci divieti. In breve sono all Elgin Bridge, e qui si apre sul Singapore River un panorama fatto di piccole case colorate con locali e tavolini all’aperto, e alle spalle imponenti palazzi e alti grattacieli di vetro, uno skyline da cartolina. Sembrano tutti nuovi e puliti da quanto sfavillano, sono tanti e proprio alti. Al di qua del fiume dove sono ora, gente di tutte le età fa jogging. Gli spazi verdi sono molto curati, perfino a fianco dei grattacieli è possibile notare grandi alberi secolari, palme e fiorite aiuole. Percorro il piacevole tratto lungo il fiume fino ad arrivare e attraversare il piccolo e antico Cavenagh Bridge, il ponte dove una troup televisiva sta girando delle scene. Dall’altra parte del ponte che sarà lungo una trentina di metri, diverse sculture, alcune bizzarre come una famiglia di gatti che osserva l’acqua o dei bambini che danno l’impressione di gettarsi nelle acque. Proseguo oltre ma temo di essermi perso, guardo la mappa ed è proprio così, sono finito verso sud in viali di enormi palazzi quasi tutti sedi di banche: passandoci a fianco, nonostante le grandi porte di vetro chiuse, si sentono lo stesso le folate di aria condizionata, un toccasano in questo caso visto che comincia a fare davvero caldo. Con tutti questi grattacieli è quasi impossibile non camminare col naso all’insù; qua e là qualche cantiere, anche esso di dimensioni esagerate, con squadre di operai quasi tutti di origine indiana e tutti col caschetto e gli scarponcini, che lavorano azionando enormi gru: “ ci scusiamo per il disagio creatovi” recitano i cartelli rivolti ai pedoni. Torno sulla retta via ed arrivo al Merlion, la bianca statua simbolo di Singapore, affacciata sulla baia: corpo di pesce e testa di leone, dalla cui bocca esce un getto continuo di acqua che si riversa nella Marina Bay. Impossibile non trovare qui comitive di turisti, soprattutto cinesi, intenti a scattare foto ricordo, e tra loro una foto la riceve anche il puffo viaggiatore mio inseparabile compagno. Sullo sfondo in lontananza, la grande struttura a forma di lunga nave che poggia letteralmente sulla sommità di tre grattacieli allineati. Attraverso il lungo Esplanade Bridge sotto un sole cocente, fino alla bizzarra forma in vetro del teatro che pare il corpo di un gigantesco armadillo. Bella, mi piace questa zona, è piacevole da percorrere a piedi. Proseguo verso Waterloo Street, la via degli indovini: si tratta di una larga via pedonale piena di venditori di fiori, negozi di oggetti sacri cinesi e di erbe della medicina tradizionale; davanti ad uno di questi un anziano riconosce la provenienza della maglietta verde con stella gialla che indosso: “Vietnam my friend!” così attacca bottone e il discorso slitta poi inevitabilmente anche sul calcio. Vuole anche una foto con me, è tenero, ci salutiamo con un’energica stretta di mano e proseguo. Quasi affiancati, a pochi metri l’uno dall’altro, due templi di religioni molto diverse tra loro. Il tempio hindù di Sri Veeramakaliamman è dedicato alla sanguinaria dea Kalì: tolgo le scarpe per entrare, accatastandole fuori insieme a quelle dei numerosi fedeli indiani che vi entrano. C’è anche qualche cinese che prega nella lunga sala piena di dipinti coloratissimi delle varie divinità, oltre chè delle immancabili collane di fiori gialli, rossi e arancioni. C’è una cerimonia in corso, alcuni uomini a petto nudo suonano forte i tamburi e i flauti. Esco, recupero le scarpe e mi ritrovo dopo pochi passi davanti al rosso Kuan Im Thong Hood Cho Temple: la Lonely Planet lo definisce come uno dei luoghi di culto più vivaci di Singapore, ed in effetti, a giudicare dalla confusione creata dalla calca dei fedeli che entrano accendendo lunghi steli di incenso a mazzi, sembra proprio così. Al centro della grande sala una statua del Buddha e davanti un grande tappeto dove la gente, bambini compresi, prega battendo per terra mazzi di bastoncini. Suggestivo, ma troppa confusione per potere apprezzare a pieno i particolari. Continuo a camminare lungo la via, tra imbanditori di erbe magiche (con tanto di microfono) e loro, i maghi e gli indovini che leggono il futuro attraverso le carte…quelle dei mazzi di scala 40! Arrivo alla fermata Bugis, ma decido di proseguire ancora a piedi nonostante sia un bel tratto da qui arrivare fino al quartiere Little India. Lunga ma eccomi, sono in India, come per magia! Eppure odori, colori, gente. tutto mi riporta proprio lì, non sembra più di essere a Singapore! Serangoon Road, la via principale, in entrambi i lati è un susseguirsi di botteghe e negozi che vendono tessuti, calzature, abiti, incensi, olii e qualsiasi altra cosa tipica del continente indiano. Cammino tra gli stretti marciapiedi assiepati di merce, sotto i portici delle piccole case basse che fanno da cornice alla via, all’inizio della quale c’è un centro commerciale che vende bei vestiti indiani a prezzi convenienti. Mi addentro anche nelle piccole vie laterali, anche qui botteghe e odore di Neg Champa diffusi ovunque nell’aria. La gente è quasi tutta indiana, tante donne vestite con i colorati saari, e musica bhangra che fuoriesce ad alto volume dai negozi che vendono cd. Insomma, l’atmosfera si avvicina tanto a quella della vera India: pranzo in un affollato ristorante, col suo piccolo lavandino interno al quale tutti passano a lavarsi le mani, visto che qui, niente bacchette ma oltre alle posate, le mani! Due turiste orientali sono eccitate all’idea del pranzo indiano e chiedono un pò a tutti i presenti il nome del piatto che stanno mangiando, me compreso. Compro, e se potessi comprerei ancora di più, a Little India si fanno affari. Anche qui i cinesi sono riusciti ad intrufolarsi, infatti tra un saari e un olio indiano per massaggi, ci sono dei negozi a gestione cinese denominati 3×10, ovvero 3 articoli a scelta tra quelli in vendita al costo totale di 10 dollari locali, più o meno 5 euro: tra tante “cinesate” anche qualche bell’oggetto come orologi o profumi, ovviamente tarocchi. Resterei qui a lungo ma sono tante le cose ancora da vedere e così esco da Little India tornando verso la fermata della linea rossa metropolitana North South. Qusai senza accorgermene sono in un nuovo mondo ancora: ma quanti viaggi sto facendo oggi? Lungo Rochord Road entro in un centro commerciale tutto e solo di elettronica e fotografia: quattro piani di accessori di tutte le marche, stand affollati che vendono macchine fotografiche, obiettivi, lenti, computer, Ipod e Ipad…un vero delirio! Prezzi indubbiamente più bassi che in Italia, anche se mi ero illuso di una convenienza ancora maggiore; anche qui è d’obbligo contrattare nonostante si stia parlando di grandi marche. Fermata Bugis, affollata di gente, e metropolitana fino a Kellang, e poi il tratto a piedi fino all’hotel, dove finalmente mi dicono di aver ritrovato la mia prenotazione. Sono sfinito, 11 ore camminando avanti e indietro in zone diverse anni luce tra loro: se penso allo skyline dei grattacieli di questa mattina e poi a Little India, stento a crederci di aver vissuto entrambe le esperienze in un’unica giornata. Eppure è così, qua a Singapore giri l’angolo e cambi mondo. Io invece poso le borse del mio shopping, doccia e relax. Sono le 21.30 quando esco a cercare un posto nelle vicinanze dove cenare, qua in Geylong Road, invasa ora dai tavolini in plastica dei ristoranti cinesi un pò alla buona, cucina a vista e per fortuna foto dei piatti per capirci qualcosa, anche perchè, in questa zona, di occidentale non c’è nulla, neanche le scritte. I tavoli sono tutti pieni di gente del posto ipnotizzata davanti alle tv onnipresenti che trasmettono tutte una partita della Premier League inglese, d’altronde qui a Singapore esistono perfino locali intitolati al Liverpool, al Totthenam, al Manchester United, ed è facile incontrare ragazzi con le maglie di Rooney o Gerrard, ma anche, come in tutto il mondo, anche quelle della Beneamata! Ceno nell’unico chiosco dove non c’è la tv sulla partita e quindi trovo un posto al tavolino all’aperto. Poi due passi ancora lungo Geylong per capire che la sera alcuni locali diventano alquanto ambigui a giudicare dalle signorine in abiti succinti che attendono davanti a delle specie di discoteche. Rientro in hotel, cotto dalla stanchezza, ancora a chiedermi come abbia fatto in un solo giorno a camminare in così tanti Paesi che sulla mappa geografica sembravano così lontani…

12 Settembre Singapore

Anche oggi splende il sole, un record in questo viaggio. Di buona mattina sono già dall’altra parte della città, in Beach Road, la missione (fondamentale) è quella di acquistare il biglietto del bus per domani con destinazione Melaka. Prima però tappa per la colazione da Starbucks, è domenica, nel locale ci sono a quest’ora solo due manager che trafficano sui loro Ipad, qui la Apple fa affari d’oro. La gentile addetta alla cassa mi indica dove posso trovare le agenzie che emettono i biglietti; mi dirigo allora sempre lungo Beach Road fino al Golden Mile, una specie di centro commerciale dove però sembra tutto chiuso. Per fortuna una guardia indiana mi indica la biglietteria, seminascosta in un lato dell’edificio, e riesco a fare il biglietto per domani: 23 dollari e scelta del posto a sedere. Sono le 10 e l’afa è già opprimente; passeggio tra alti palazzi e grattacieli fino all’ Arab Quarter e alla Sultan Mosque, di colore bianco panna con le cupole dorate e i tratti caratteristici moreschi. La zona araba è tranquilla, a parte un piccolo gruppo di turisti cinesi, non c’è nessuno. Lascio le scarpe fuori dall’edificio e indosso la lunga tunica marrone che mi viene data per entrare: un ragazzo con la kefiah in testa mi indica il limite oltre il quale non posso andare, lì l’accesso è solo per i fedeli musulmani in preghiera. A differenza delle sontuose moschee viste nei miei precedenti viaggi, questa è un pò deludente: per terra la moquette bordeaux dove i fedeli pregano scalzi, e appoggiati alle colonne, dei piccoli mobiletti contengono i testi sacri del Corano. Dalla silenziosa moschea mi dirigo verso la fermata Bugis, diventato ormai il mio punto di riferimento come snodo cruciale tra le varie linee della metropolitana; è un continuo sbalzo di temperatura, tra afa e aria condizionata, mai così ricercata prima d’ora. Cambio due linee e arrivo ad Orchard Road, l’ennesimo volto di Singapore: Nemmeno faccio in tempo a passare il biglietto magnetico sui tornelli per uscire, che sono già, volente o no, in un immenso e lussuoso centro commerciale a più piani sorto sull’uscita della metropolitana. Gente, luci, rumori, faccio fatica a trovare la via di uscita per riemergere in superficie, mi perdo nei corridoi pieni di negozi, poi eccola finalmente: spunto in Orchard Road, un ampio viale con grandi centri commerciali da entrambi i lati; grandi edifici che vendono marche di lusso da un pò tutti i Paesi del mondo, promoter travestiti da personaggi del cinema, aria condizionata che dalle grandi entrate dei centri arriva direttamente fin sugli ampi marciapiedi affollati di gente con borse e sacchetti al seguito. Un tratto della via è occupato dagli stand ufficiali delle case automobilistiche di Formula 1 visto che fra una settimana si correrà qua il Gran Premio. Qui nessuna bancarella e nessun mercatino, solo grandi firme e lussuosi negozi a più piani, non è proprio il mio genere però una tappa qui è d’obbligo. Passeggio sentendomi come una piccola formica tra questi enormi colossi di vetro di tutte le forme. Sono quasi le 15 quando torno verso Bugis, prima un veloce pasto in un fast food locale e poi di nuovo in pista, mi manca da vedere il quartiere cinese, Chinatown. Ci sarebbe anche altro da visitare qui a Singapore, come l’isola di Sentosa, ma ahimè il tempo stringe. Di nuovo la metropolitana per spuntare a Raffles Place, un quartiere di grattacieli sedi di banche ed assicurazioni, con le vie deserte essendo oggi domenica. Poche centinaia di metri e come per magia eccomi in strade con file di piccole case colorate in fila l’una all’altra, mercatini che vendono qualsiasi trappola per turisti e ristoranti cinesi coi tavolini all’aperto. C’è tanta gente ma meno di quanto temessi. C’è anche, bizzarrie di Singapore, un tempio hindù. Ma il vero gioiello del quartiere è il Thian Hock Keng Temple, situato in una via appartata: tre grandi porte con dipinti di samurai e dragoni, un grande vaso brucia incensi nel cortile centrale e, posto davanti al luogo di preghiera, una statua bronzea del Buddha. Non c’è nessuno, regna il silenzio, fa effetto vedere i tetti rossi a pagoda sormontati da sculture di naga e serpenti, con in lontananza le sagome dei grattacieli di vetro. E’ molto bello e pacifico questo angolo. Fuori una mamma allatta col biberon il suo piccolo e i nonni mi invitano quasi entusiasti a fare delle foto. Due passi nel mercatino, qualche acquisto e poi, stanco, decido di rientrare: “train is coming, train is coming nooow!” annuncia il gingle, arriva la metro, discretamente affollata per essere un festivo. Forse è proprio qui, nei puliti e gelidi vagoni della metropolitana, che ci si può fare un’idea della mescolanza di razze e culture che convivono in questa grande città stato: la pelle scura degli indiani fa da contrasto al bianco candido che caratterizza invece le giovani orientali, queste ultime vestite alla moda, anche in modo bizzarro in taluni casi, al contrario delle loro coetanee indiane; saari e tudong arabi, infradito e stivali in pelle, ma tutti o quasi con cuffie alle orecchie o cellulari in mano. Bizzarra, pulita, cosmopolita , calda, moderna…gli aggettivi per descrivere Singapore si potrebbero sprecare. Niente cena fuori questa sera, piccola spesa al 7eleven e via in hotel, a sistemare nello zaino i tanti acquisti di questi giorni a Singapore, e a dare il meritato riposo alle mie povere gambe.

13 Settembre Singapore – Melaka

Il taxi mi ha appena lasciato al Golden Mile, dove c’è la stazione degli autobus a lunga percorrenza; ore 8.30 puntuale il pullman diretto a Melaka, semivuoto, parte. C’è traffico, è ora di punta quando passo a lato della grande ruota panoramica, la più alta del mondo, e per l’ultima volta ammiro lo skyline dei grattacieli di Singapore, poi l’infinito cantiere navale di Marina Bay con centinaia di container accatastati uno sopra all’altro, con grandi gru che danno l’idea di una città che non ha nessuna intenzione di arrestare la propria crescita. Dopo quasi tre quarti d’ora sono alla frontiera con la Malaysia, il pullman si ferma in quello che assomiglia più al parcheggio sotterraneo di un centro commerciale: a piedi entro nella struttura per il controllo passaporti, poca gente in coda, ma funzionari decisamente pignoli e lenti. Passo, e risalgo sul pullman, sono le 9.40 e lascio Singapore. Attraverso il lungo ponte stradale dal profilo a forma di onda, che passa sopra il Singapore River, mentre in cielo una grande aquila sembra quasi dare l’arrivederci. Al di là del ponte nuova sosta, si scende e altra coda per entrare in Malaysia. Nessun tipo di controllo bagagli in entrambe le frontiere. Alle 10 ripartiamo lungo la E2 , l’autostrada che, attraversando paesaggi dominati dal verde con palme a perdita d’occhio, mi porta verso nord. Gli spostamenti, che siano in pullman o in aereo o in qualsiasi altro mezzo, sono sempre un momento fertile per i pensieri e i mille flash back del viaggio in corso e non solo. Dopo 4 ore eccomi a Melaka. Dalla stazione dei bus, previa contrattazione d’obbligo, mi faccio portare in taxi fino alla Sama Sama Guesthouse, consigliata dalla Lonely Planet. E’ una piccola casa bianca situata in una stretta via: un grande atrio con alcuni bei murales alle pareti, una statua del Buddha sdraiato e un gatto vero senza una zampa. Le camere sono al piano di sopra, bagni e docce spartani e in comune, i pavimenti in assi di legno scuro non trattato, dove si cammina per forza scalzi visto che le scarpe vanno lasciate di sotto; anche la camera è molto semplice ma carina, decisamente più da backpaker rispetto a quell anonime degli ultimi due hotel; un piccolo comodino antico con specchio, le pareti di muratura bianca, la finestra con tenda di bambù che affaccia all’interno del piccolo patio pieno di piante con giù anche un pozzo, il ventilatore e il letto con tanto di zanzariera rosa! Rosa come nel Taman Negara, deve essere evidentemente un colore non gradito alle zanzare. Mi piace la Sama Sama, è tranquilla e accogliente, da viaggiatori! Ed è pure a pochi passi dal centro storico e dalla principale via dello shopping, ovvero Jonker Street; qui breve sosta al ristorante Famoso, con decorazioni che lo fanno sembrare quasi un tempio, poi comincio a curiosare fra i tanti negozi e le botteghe che vendono di tutto: artigianato antico, cineserie varie, dolci tipici in pasta di cocco, magliette e scarpe, souvenir per ogni gusto, tutto a prezzi stracciati. Oggi studio, domani comprerò. Visti i prezzi mi sto ammalando di shopping compulsivo. Peccato solo che la via, seppur stretta, sia aperta al traffico e a volte bisogna dribblare le auto in sosta stando attenti a quelle di passaggio. Poco distante c’è la piazzetta con l’antica, bassa e tozza torre dell’orologio, una fontana e la pittoresca facciata rosa della Christ Church. A lato ancora bancarelle e i caratteristici risciò a pedale completamente ricoperti e addobbati con fiori finti e alcuni anche con peluche, tutto carino anche se molto turistico. Infatti non sono pochi i gruppi di turisti cinesi e indiani tutti intenti a scattare foto ricordo. Attraverso il ponticello per fare quattro passi lungo in Sungai Melacca , il piccolo fiume che attraversa la città: anche qui qualche antica testimonianza restaurate del passato della città, come i cannoni che la difendevano dagli attacchi dei pirati, la grande ruota in legno di un mulino e perfino la ricostruzione di un vascello. E’ proprio di fronte a questo, oltre il piccolo molo turistico, che c’è un altro bazar coperto! Arrivo a sera girando tra stand e negozi, assaggiando anche i dodol, piccoli coni gelatinosi di vari gusti, in vendita un pò ovunque. Cala il buio, il piccolo centro di Melaka si illumina, io mi concedo una pizza al tonno sui tavolini all’aperto del Bamboo Hut Bistrot, mentre fuori i risciò vanno avanti e indietro illuminati da mille lucine che li fanno sembrare degli alberi di natale in movimento, con musica occidentale ad alto volume emessa da improvvisati impianti autoradio, più che una cinesata una tamarrata vera e propria, anche se alcuni turisti sembrano apprezzare a quanto pare. Me ne torno nella tranquilla Sama Sama Guesthouse chiuso nella mia zanzariera rosa, con ancora la pizza sullo stomaco e poca voglia di dormire.

14 Settembre Melaka

La sveglia, anzichè un gallo, me la dà il muezin che alle 5.50 ha cominciato a diffondere la sua preghiera dalla vicina moschea. Alle 8 sono per strada, non fa ancora caldo, in cielo qualche nuvola; i pochi passanti per le vuote strade salutano come se fossi uno del posto. Percorro la stretta strada della Sama Guesthouse fino al vicino piccolo Sanduo Temple, un tempio taoista: un signore accende degli incensi e mi fa cenno di entrare nel piccolo cortile tutto decorato in perfetto stile cinese, con due grandi draghi verdi che delimitano il bel tetto a pagoda. Scatto qualche foto, e ringrazio il gentile signore. Neanche 10 metri avanti, sullo stesso marciapiede, c’è lo Sri Poyyatha Vinaygar Moorthi Temple, hinduista e poco decorato: dentro solo una statua della divinità Vinayagar e un santone indiano dalla lunga barba. Ancora qualche metro ed eccola, la moschea della sveglia di qualche ora fa: strana, completamente diversa rispetto al classico stile delle moschee, il minareto è una bianca torre mentre al posto della cupola un ampio tetto più simile a quello di una pagoda; è la Kampung Kling Mosque, dentro è semplice ma deserta, solo un paio di motorini e qualche bicicletta nel cortile, ciabatte sparse ovunque. Continuo a camminare lungo la medesima via mentre le cornacchie gracchiano posate sul labirinto di fili della luce che attorcigliati tra loro, passano un pò ovunque. Arrivo al Cheng Hoon Teng Temple (tempio delle nuvole sempreverdi), molto più grande degli altri, infatti è il luogo più famoso qui in città, risalente al 1646. C’è qualche fedele che accende lunghi steli di incenso o candele rosse, vicino alle statue di leone che fanno da guardia a quella del Buddha; bella la tranquilla atmosfera che si respira qui. Sul marciapiede opposto stavolta, un altro tempio buddista, dalla bella facciata esterna, che racchiude però solo statue di varie dimensioni raffiguranti il Buddha e altre divinità. In poco più di 100 metri di via ben 5 luoghi di culto di diverse religioni! Se penso che da noi ancora oggi si fatica anche solo ad ipotizzare una moschea accanto alle nostre fin troppo presenti chiese…Rimetto per l’ennesima volta le scarpe lasciate all’uscio e mi dirigo per la parallela Jonker Street, dove i negozi sono ancora tutti chiusi. In effetti è ancora presto, il cielo sempre più minaccioso, si sfoga in un improvviso temporale. Aspetto che apra un locale per fare colazione riparato sotto un portico; alle 9 in punto i sordi rintocchi delle campane della Christ Church molto british, quasi annunciano l’apertura: finalmente posso mangiare; anzi no perchè il pane per i toast non è ancora arrivato e chissà se arriverà, quindi mi accontento di un buon milkshake al melone e lime. Smette di piovere; Melaka è piccola, col giro di questa mattina praticamente ho visto tutto quello che c’era da vedere, quindi oggi mi godrò il lento scorrere del tempo, dedicandomi agli acquisti. L’orario di apertura dei negozi è un optional, tappa alla Sama Sama poi di nuovo in giro sotto il sole che nel frattempo è tornato a splendere, e si sente. Torno in riva al fiume per il pranzo: palle di riso in salsa di soia. Oggi sembra esserci meno gente rispetto a ieri in giro, anche se i turisti certo non mancano: Melaka tra quelli vsiti fino ad ora è sicuramente il primo luogo da tour organizzato, anche se gli angoli tranquilli non mancano, come nella via della Sama Sama dove un uomo batte ancora il ferro ardente su una vecchia incudine nella sua piccola bottega di ferramenta, e una signora lava le stoviglie per la strada in una bacinella; dalla piccola galleria d’arte ad angolo, si sente il suono di una rilassante melodia jazz. Torno in piazzetta e da qui salgo su fino a delle vecchie rovine, tra famiglie di turisti malesi a giudicare dai tudong indossati dalle donne. Si fa sera, è impressionante il cinguettio simultaneo di centinaia di uccellini che affollano i rami degli alberi del centro, illuminati da lampade poste alla base dei tronchi. Alcuni di questi alberi sono degni del Taman Negara, hanno radici e tronchi enormi, molto belli. Oltre la piazza a pochi passi mi ritrovo in un centro commerciale sviluppato in orizzontale stavolta, anomalia malese rispetto a Singapore. Strano passare dalle botteghe di Jonker Street a qui, però almeno mi concedo per cena un buon fish and chips e l’immancabile dessert fatto di palline di melone e anguria; domani completerò il mio giro malese, questa è l’ultima notte nella tranquilla Sama Sama e qui a Melaka, cittadina piacevole e dall’aspetto decisamente meno caotico e moderno rispetto alle altre città malesi. Fatta eccezione per gli scatenati risciò – discoteca che impazzano per le strade.

15 Settembre Melaka – Kuala Lumpur

La stazione degli autobus è sempre un luogo caotico di per sè, in qualunque parte del mondo. Sono arrivato qua in taxi e aspetto davanti alla pensilina n.5 che parta il pullman per Kuala Lumpur (biglietto 12 Rm). Il cartello indica partenza alle 8.45, ma il pullman verde con tanto di adesivo sul parabrezza di divieto di cibo, fumo e sputi (!), mette in moto solo alle 9. A bordo poca gente, e nessun turista; cominciamo in breve a percorrere l’autostrada a tre corsie in direzione nord. Dopo quasi due ore di strada e un rapido temporale, ecco i profili dei grandi palazzi della periferia della capitale: passato il casello sono di nuovo a Kuala Lumpur. I tassisti non mancano, ne scelgo uno e dopo una estenuante contrattazione, salgo a bordo e si parte: c’è un pò di traffico, chiacchero in inglese col tassista che mi porta e lascia a Petaling Street, davanti all’inconfondibile insegna verde e la copertura ad onda di vetro piena di lanterne rosse, e ovviamente, delle immancabili bancarelle. La camera dell’hotel China Town Inn dove mi fermerò per le prossime due notti, è un pò più spaziosa rispetto a quella delle prime notti qua, senza finestra nè aria condizionata ma con ventilatore. Giusto il tempo di una breve sosta per posare gli zaini e rinfrescarsi, e son di nuovo per strada, mappa in mano e macchina fotografica al collo. Voglio godermi ogni istante finale di questo viaggio, e poi ora comincia il momento dello shopping conclusivo.; arrivo a piedi fino alla vicina fermata della monorail, un piccolo trenino con solo due vagoni che viaggia senza autista su monorotaie sopraelevate alle strade, offrendo anche dei bei scorci della città da un’ottica di mezza altezza, con le Petronas Towers che svettano su tutto. Anche qui si paga in base alla distanza percorsa: 6 fermate in tutto (ognuna delle quali ha uno sponsor pubblicitario) e sono a Little India, il quartiere indiano. Stavolta meno banchi rispetto a qualche settimana fa, ne approfitto lo stesso però per qualche buon acquisto in negozio, dove gli stessi esercenti rifiniscono saari e vestiti con vecchie macchine da cucire. Il cielo ora è limpido e fa caldo. Un giro anche in un supermercato locale e sono nuovamente alla fermata della monorail, ora più affollata soprattutto quando ferma davanti ai grandi magazzini di Central Plaza. Sono ora a Chinatown, le merci esposte e in vendita sono completamente diverse qui a Petaling: meno etnico, tantissime scarpe, borse, magliette di ogni marca. Trascorro così parte del pomeriggio e della sera tra calcolatrici che passano di mano in mano per trattare il prezzo giusto, o seduto su mini sgabelli di plastica in attesa che l’addetto del banco vada, armato di walky talky, a recuperare chissà dove la taglia giusta dell’articolo scelto. Mi piace questo caos assolutamente “controllato”: alle 16 in punto la via diventa pedonale, arrivano altri carretti colmi di merce e si formano le strette 4 corsie dove curiosare e comprare in quello che viene chiamato il night market di Chinatown. Nonostante continui a riempirmi di sacchetti ( ci starà tutta questa roba nello zaino?) non rinuncio a pezzi di frutta fresca venduti in piccoli sacchetti agli angoli delle strade: una fetta di anguria tagliata a meno di 25 centesimi di euro (1 Rm) dove la ritrovo?

16 Settembre Kuala Lumpur

Jala Petaling al mattino presto sembra un’altra via seppur qualche banco alle 8 già espone la sua merce. Mi rifugio nel vicino Starbucks per una colazione coi fiocchi: succo di dragon fruit e kiwi e ipercalorica fetta di torta al cioccolato. Guardo dai vetri il via vai di autobus urbani, un pò sgangherati con la gente che va al lavoro anche se, a differenza della nostra frenesia, qui il passo è ben diverso, sembrano tutti piuttosto tranquilli. Salgo su un taxi e per 8 Rm mi faccio portare al Lake Garden, la zona dei grandi parchi di Kuala Lumpur. Comincio a passeggiare tra i tranquilli sentieri in mezzo al verde, ben curato, mentre alcuni bambini con le loro famiglie giocano nei prati; c’è un piccolo lago artificiale, qualche fontana e sullo sfondo, in lontananza, i grattacieli della città. Breve passeggiata anche al Deer Park che ospita un nutrito gruppo di cervi in grandi spazi ma ahimè recintati. Da qui con una lunga passeggiata sotto al sole, arrivo al Taman Rama Rama (Parco delle farfalle, ingresso 9 Rm), un giardino che sembra un piccolo Eden: vialetti, piccole cascate, ruscelli, lo stagno con le tartarughe, tante piante fiorite e decine e decine di farfalle di tutte le dimensioni e dai colori stupendi, che svolazzano. Il tutto è delimitato da un’alta rete che fa si che vivano tutte in questo ambiente ricreato ad hoc. Se ne vedono con estrema facilità di ogni tipo: continuo a scattare foto (anche se non è semplicissimo) mettendo alla prova l’obiettivo macro acquistato a Singapore qualche giorno fa. E’ molto bello qui, tanto che il tempo passa veloce. Esco passando per il piccolo museo con enormi insetti in gabbie di vetro e qualche farfalla imbalsamata, non fa per me, lo trovo inutile e crudele. Un altro centinaio di metri a piedi e arrivo al Bird Park (ingresso 45 Rm): si tratta di una enorme voliera, ma davvero grande, tanto che ci sono i sentieri segnalati. E’ divisa a zone tramite grandi porte con le reti che separano gli ambienti. Cammino tra grandi pavoni blu, laghetti con trampolieri e fenicotteri rosa, grandi volatili che che ti passano davanti a pochi metri volando o che passeggiano tra i rami degli alberi. Peccato che alcune specie siano invece chiuse in voliere grandi ma pur sempre come gabbie. Insomma, un pò di disagio e pentimento. E’ quasi l’una, fa tanto caldo e camminare sotto questo sole diventa via via sempre più un’impresa, ma faccio un ultimo sforzo per arrivare all’ Orchid Garden, stavolta solo 1 Rm per l’entrata più 2,5 Rm per una bottiglia d’acqua che mi vende la ragazza col tudong in testa addetta alla biglietteria: il garden è piccolo, non tutte le orchidee sono fiorite, ma quelle che lo sono appaiono bellissime. Sono davvero alla frutta, provo, fallendo, la trattativa con un tassista, ma al secondo tentativo va meglio: già salire sull’auto provvista di aria condizionata vale il costo della corsa che mi riporta in hotel per una provvidenziale sosta. Mi ritrovo nella solita Jalan Petaling, fra i banchi colmi di merce e le insegne dei locali che si accavallano l’una sull’altra, la musica e i venditori di cd taroccati che ti propongono il listino coi loro book alla mano, e dove vedere camminare fianco a fianco donne col coloratissimo saari indiano in seta, donne con il tudong o perfino il burka nero che lascia intravedere solo gli occhi, e ragazze con vertiginose minigonne e ombrellini ripara sole, è assolutamente nella normalità del quotidiano. Petaling, un pò come Kao San Street a Bangkok, è un piccolo ombelico del mondo che bisogna vivere almeno una volta. Sto diventando anche pratico delle strade di Kuala Lumpur, e a differenza del primo giorno, arrivare a piedi alla fermata della metropolitana Maijd Jamek è un gioco da ragazzi. Anche in queste strade laterali, fuori dai caotici mercati, il mix di genti e culture indo-orientali è evidente, perfino le diverse musiche emesse da qualche negozio si mescolano tra loro e tra i rumori del traffico di auto e bus. Scendo in metropolitana e dopo 3 fermate sono a KLCC: neanche il tempo di salire in superficie che mi ritrovo al piano sotterraneo del grande Centro Commerciale Suria, 6 piani illuminatissimi di negozi, ristoranti e…sorpresa inaspettata ma gradita, un ristorante della catena Secret Recipe, la stessa delle enormi fette di torta di Terenggan; come ultima cena qua in Malaysia non potevo sperare di meglio! Baked Fish with cheese e ben due fette gigantesche di torta, alla Chocolate Indulgence non si può dire di no! Pieno come una botte esco da centro commerciale, sono quasi le 21, appena risalite le scale mobili ecco davanti a me il maestoso spettacolo delle Petronas Towers illuminate: alzare gli occhi al cielo è d’obblico, sono davvero belle di notte, ancor più che di giorno, con anche i bei giochi di acqua delle fontane nel piccolo lago artificiale attorno al quale tanta gente è intenta ad ammirare il panorama by night delle torri e a scattare foto. Questo è un altro dei volti di Kuala Lumpur. Ozio un pò qua, poi di nuovo giù in metropolitana, semivuota ormai, così come le buie vie che ripercorro per tornare a Jalan Petaling; qui invece no, i tavolini dei ristoranti e le strette vie del mercato sono ancora affollate. Un ultimo giro fra gli stretti passaggi di questa babele fino a quando, intorno alle 23, i banchi cominciano a trasformarsi in piccoli carretti che vengono trascinati altrove: il night market sta smontando, gli ultimi due sacchetti di frutta fresca a pezzetti e poi in camera a chiudere lo zaino. Ultima notte malese, fra poche ore, prima dell’alba, suonerà la sveglia.

17 Settembre Kuala Lumpur

Il taxi con cui avevo preso appuntamento ieri ancora non si vede, sono le 6 del mattino, per fortuna ne trovo un altro. E’ ancora buio, non c’è nessuno in giro quando comincia la corsa verso l’aeroporto, nel vero senso della parola visto quanto spinge il tassista sull’ accelleratore. Piove. Arrivo al check in tra i primi, in largo anticipo: anche se di poco, sono dentro a i 30 kg consentiti. Mi sono avanzati pochi Ringgit, sufficienti per l’ultima colazione da Starbucks e per gli ultimi acquisti nei negozi del grande e moderno hangar dell’aeroporto. L’umore non è dei migliori e la pioggia non centra…un viaggio, l’ennesimo, sta per concludersi: come sempre tante scoperte, tante piccole e grandi emozioni. L’ Oriente mi affascina e non mi ha tradito neanche stavolta. Sono le 11.01 quando il comandante del volo Emirates annuncia “cabine cruise”; siamo pronti al decollo, si torna a casa. Purtroppo.

(le foto di questo e di altri miei viaggi le trovi sul mio sito: www.vagamondi.it)



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