Le Svalbard di Patrizio

"Cogli l'attimo" recita l'ormai abustata frase. L'attimo alle isole Svalbard dura circa poco più di un mese. Ma cominciamo dall'inizio: dove diavolo sono le Isole Svalbard? Difficile trovarle sul mappamondo, perchè spesso sono coperte dalla parte superiore del perno che fa girare la sfera della terra sul suo asse....

Scritto da: Redazione TPC
le svalbard di patrizio

“Cogli l’attimo” recita l’ormai abustata frase. L’attimo alle isole Svalbard dura circa poco più di un mese. Ma cominciamo dall’inizio: dove diavolo sono le Isole Svalbard? Difficile trovarle sul mappamondo, perchè spesso sono coperte dalla parte superiore del perno che fa girare la sfera della terra sul suo asse. Infatti le Isole Svalbard sono praticamente al Polo Nord! Sono forse le terre più a nord del mondo: attorno a 80 gradi di latitudine. All’inizio di questo secolo sono state usate come estremo avamposto per le spedizioni polari di Amundesen, di Nansen, di Nobile e di altri famosi esploratori.

Ma cosa ci sarà in un posto così? Me lo chiedo anch’io mentre, all’aereoporto di Tromso (nord della Norvegia), aspetto la coincidenza per Longyearbyen, la “capitale” delle Svalbard. Sono solo, Syusy non è voluta venire: lei odia il freddo e ama il caldo. Mi sono lasciato coinvolgere da un amico, Antonio, lo stesso col quale sono andato a fare la Maratona di New York: “Vieni, andiamo con un gruppo di podisti a fare la maratona più a nord del mondo! Tre tappe a piedi in un’isola piena di orsi bianchi!”. Ed eccomi qui, morto di sonno, perchè l’unico aereo della Scandinavian Airlines che atterra alle Svalbard viaggia di notte. In realtà l’orario non importa: d’inverno là è sempre buio e d’estate è sempre giorno, per cui notte o giorno non fa differenza…

Sbarchiamo a Lonyearbyen alle tre di notte. Tutto normale. Salvo due cose. La prima che c’è chiaro e una specie di sole, come da noi verso l’alba. La seconda è che sento una specie di pizzicorino alle guance, alle gambe e alle braccia. Indosso una tuta di lana con sopra pantaloni da sci, maglione e giacca a vento, eppure il pizzicorino è dato dal freddo. Mi porto una mano sulla bocca e sento tutti i baffi ghiacciati: è il fiato che non fa in tempo ad uscire dal naso che subito si cristallizza. Poco male: tanto io ho i baffi bianchi già di mio e quasi non si nota nulla. Siamo a circa meno 20 gradi sottozero.

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In corriera ci portano in albergo. Come sarà? Una tenda? Una baracca? Un igloo?! Niente paura: è un albergo bellissimo e confortevolissimo. I norvegesi, che non sono i “padroni” delle isole ma che le amministrano per conto di una cinquantina di Paesi che hanno firmato un apposito trattato per lo sfruttamento di questa terra-di-nessuno ai confini dell’Europa, hanno smontato un albergo che era servito per le Olimpiadi e lo hanno trasferito qui.

Sveglia alle sei, tra poco più di due ore: “Alle Svalbard quando arriva il sole non si dorme mai, e comunque non preoccupatevi, tanto ci penserà il freddo a tenervi svegli” dice Stefano Poli, la nostra Guida, unico membro della Comunità italiana alle Svalbard.

Dopo una doccia (calda!) e una colazione alla norvegese (frittelle, salmone e quant’altro, per combattere il freddo) sono fuori.

Siamo in aprile, l’attimo lungo un mese di questa “Terra dalle coste fredde”, che sarebbe poi la traduzione letterale del nome islandese Svalbard. Pare che queste isole siano interessantissime anche in inverno e bellissime anche d’estate, ma in aprile succede che il panorama è ancora perfettamente bianco-polare come d’inverno, ma allo stesso tempo è già arrivato il sole, cioè la luce durante tutto l’arco delle 24 ore. E’ questo il momento magico. Infatti il paesaggio è un insieme di roccioni a picco ai bordi della Valle e del Fiordo (Adventfjorden) che sembrano un po’ le montagne rocciose e un po’ un enorme pandoro. E tutto il resto è panna montata: una coltre di neve candida che ricopre tutto. Tutto bianco, salvo qualche macchia nerissima, come la bocca di un pupazzo di neve disegnata da un blocchetto di carbone. E infatti è carbone: sono le entrate delle numerose miniere, ora in gran parte chiuse. Qua e là ci sono delle lunghe file di tralicci di legno, levigato e pre-fossilizzato da gelo e vento. Ma non sono skylift: sono gli scheletri delle antiche teleferiche che trasportavano appunto il carbone dalle miniere al porto, dove le navi venivano a caricarlo. Ho detto “antiche”, forse avrei dovuto dire semplicemente “vecchie”, perchè erano in funzione fino a non molto tempo fa. Però alle Svalbard tutto ciò che testimonia la presenza dell’uomo è protetto e considerato come monumento storico. Perchè qui non ci sono mai stati Eschimesi e l’uomo è arrivato da pochissimo tempo: è vero che fin dal 1600 gli Olandesi passavano di qui a cacciare balene e fondarono una cittadina che si chiamava “Il Paese del Grasso” (Smeeremburg), ma è soltanto da circa 100 anni che cacciatori e minatori hanno cominciato ad abitarci stabilmente.

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Lì per lì mi sembra una mossa da “gita scolastica” ma poi capisco perchè Stefano Poli insiste per portarci, come prima cosa, al piccolo Museo. Nelle due camerette del Museo (che una volta era la stalla del paese) ci sono le cose che servono per capire in che razza di posto sei capitato: gli orsi impagliati, le trappole dei cacciatori, la tenda dove cercavano di sopravvivere, le miniere, i fossili, ecc. Poi facciamo un giro per la “città”. Ci abitano poco meno di 1500 persone. E’ a metà fra un villaggio di frontiera del Klondike (il passato) e una Base su Marte (il futuro). Ci sono casette colorate in stile norvegese dall’aspetto tradizionale accanto ad edifici moderni dall’aspetto tecnologico (ad esempio l’Università). L’asilo infantile (bellissimo) è circondato da una rete metallica robustissima e alta più di due metri. Possibile che siano così vivaci e intraprendenti i bambini di qui? Ma la rete non è fatta per tenere dentro i bambini, è fatta per tenere fuori gli orsi bianchi. Sui circa 2.000 esseri umani che popolano l’intero arcipelago ci sono 4000 orsi, per una media di due orsi per abitante. E in albergo, al supermercato e all’aereoporto si vede il solito cartello illustrato con una foto in cui due orsi stanno divorando qualcosa di sanguinolento.

Quella della foto è una renna (ce ne sono tante, libere, che pascolano nella neve), ma l’ultima turista è stata sbranata solo due anni fa, poco lontano dal paese. Se uno esce anche di poco dall’abitato deve esser scortato o armato. E infatti le ragazze che vanno a fare la spesa sugli sci o i babbi che accompagnano i bambini all’asilo hanno il fucile a tracolla. Di nuovo sorge spontaena la domanda: ma dove sono capitato? OK, sono in un posto dalla bellezza unica, che toglie il fiato e che non assomiglia a nulla che avessi visto prima, a niente che avessi soltanto immaginato, ma non sarà “troppo”? Io sono un turista, mica un esploratore… Nel primo giorno si consumano altri piccoli approcci: la visita guidata alla Miniera (molto interessante: ti fanno indossare la divisa del minatore, ti infilano all’inizio di una galleria, ti spiegano e ti raccontano la durezza di questo lavoro), poi un giro per la città a piedi con la gente tutta molto ospitale e disponibile, la cena a base di stufato di renna (sa un po’ di selvatico, ma non troppo), la passeggiata a mezzanotte col cielo ancora chiaro (senza allontanarsi troppo, per via degli orsi) e un salto al saloon-discoteca dove tutti o quasi i mille abitanti si trovano fino a “notte” fonda. Infatti la maggior parte della popolazione è fatta di giovani, che stanno qui alcuni mesi o alcuni anni, perlopiù sono funzionari Norvegesi, studenti che studiano i ghiacci e la geologia, ricercatori o guide che campano di turismo.

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Dalla primavera in poi non dormono mai e c’è un gran bel giro… Il giorno dopo Stefano prima ci veste come dei marziani (super-tuta, occhialoni, maschera anti-gelo, cappello di pelo) e poi ci mette su una motoslitta, dopo averci spiegato in poche parole come funziona. Caricati i bagagli con lo stretto necessario di mutande di lana di ricambio, taniche di benzina, viveri, fucili e una grande cassa di alluminio che contiene la “dotazione di emergenza” sulle slitte-rimorchio, si parte. Io so a malapena andare in moto-e-basta, come si guida una moto-slitta? Per un po’ rimango concentrato sulle curve, sui dossi innevati e sui pattini ma dura poco: ben presto sono preso da ben altro. Canyon di roccia e ghiaccio, altipiani di neve vergine dove mi sembra di essere il primo uomo a mettere piede (anzi, il secondo uomo a mettere pattini, perchè per non sbagliare strada io sono incollato alla slitta di Stefano), e poi ghiacciai che in confronto il Perito Moreno o la Marmolada sono granite, di un azzurro che a volte tende al verde e a volte al blu. La slitta di Stefano sparisce giù da un dosso. Gli vado dietro ma in cima mi accorgo che la discesa è quasi a picco. Fifa. Freno (si fa per dire, perchè la motoslitta non ha i freni a disco come una macchina). Non l’avessi mai fatto: mi capovolgo. Nei lunghissimi due secondi della caduta mi ricordo quel che mi aveva detto Stefano: “Se vi ribaltate tenete le gambe dentro la sagoma della slitta, altrimenti vi sega le caviglie in due”. Obbedisco e non mi faccio niente. Anzi, dopo sono molto fiero di me e ad ogni salita o discesa do’ gas a tutto spiano: ho quell’espessione un po’ così, quella faccia un po’ così che abbiamo noi che nella vita sono già caduti in motoslitta…

Alla sera arriviamo… In Russia. Siamo a Barentsburg, una cittadina mineraria fondata dai russi, abitata dai russi, con le case russe, le scritte russe, le facce russe e dove si parla russo.

I miei amici maratoneti del Gruppo di Terramia si preparano a correre la prima tappa della loro Maratona Polare, con gli abitanti che li guardano esterrefatti e Stefano che li scorta armato contro gli orsi. Io invece vado a visitare la serra e la stalla, grazie alle quali la comunità è quasi autosufficiente. Tutti mi salutano e mi offrono da bere. Due giovani ingegneri coi quali comunico in inglese però mi dicono che noi italiani non avremmo dovuto bombardare i Serbi, perchè i Serbi sono loro fratelli e loro sarebbero pronti a morire per la Serbia. Non sono affatto aggressivi, sono accorati e preoccupati. Io sono spaventato: anche qui, in capo al mondo, è arrivata l’eco della guerra, a sporcare quest’aria così pura, a riportarmi impietosamente con i piedi per terra, una Terra che è molto piccola, molto fragile. Dormo in un albergo dallo stile post-sovietico, essenziale, colorato di verdino ma assolutamente confortevole.

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Il giorno dopo altri centro e più chilometri tra ghiacciai, iceberg imprigionati nelle baie e fiordi ghiacciati sui quali le motoslitte viaggiano a più di 70-80 all’ora. Ci sono tracce di orso, ma non ne vediamo nessuno per colpa del rumore che facciamo. Mi sento un po’ in colpa: non è che siamo i soliti turisti inquinatori e fracassoni? Stefano mi rassicura: il turismo qui è ancora molto limitato e controllato e per ora non minaccia l’equilibrio di questo paradiso. Ma io temo che il problema sia solo questione di pochi anni. Arriviamo a Sveagruva (detta Svea) una cittadina piccolissima dove pernottiamo in una sorta di Rifugio prefabbricato, pieno di aitanti nordici che fanno trekking da queste parti.

Il giorno dopo, da lontano, Stefano dice di aver visto un’orso. Ci fermiamo. Passa il tempo. Qualcuno comincia a prenderlo in giro, perchè il silenzio è assoluto (un silenzio assordante) e non si vede muoversi nulla. Stiamo per ripartire quando, su un roccione, spunta una femmina con due orsacchiotti. Non sono allo zoo, non è un sogno: sono davvero faccia a faccia con un orso bianco (si fa per dire, per fortuna tra me e l’orso ci saranno duecento buoni metri, perchè le femmine con i piccoli sono le più pericolose…).

Prima di rientrare a Longyearbyen passiamo dalla casetta che si sta rimettendo a posto Stefano, una vecchia baita di legno, costruita ai primi del secolo dai cacciatori. Stefano è milanese, appassionato di montagna e poi di Norvegia e quindi finito qui alle Svalbard che sono diventate la sua sfida, la sua passione e poi la sua seconda casa. Gli sono profondamente grato per quello che mi ha fatto vedere qui: un’esperienza che non dimenticherò mai. E’ riuscito a trasformare, per una settimana, un turista in un esploratore avventuroso. Per carità, nulla di avven-turistico: tutte le cose che mi ha fatto fare erano in estrema sicurezza, possibili anche per un travet panciuto come me. Ma mi ha permesso di allargare – letteralmente – i miei orizzonti.

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E’ sera quando Stefano mi fa vedere un’altra meraviglia: un buco sotto ad una tenda. Il buco, attraverso il quale la mia pingue circonferenza fa fatica a passare, in realtà è una specie di pozzo, profondo sei o sette metri. Dopo il pozzo un tunnel, scavato nel ghiaccio, illuminate dalle luci da speleologo che mi ha infilato sulla testa. Siamo tra la parete del ghiacciaio e quella della montagna, nell’intercapedine scavata dall’acqua che si scioglie. E ci sono grotte, trasparenze che ora sembrano cristallo e ora làmine dorate, stalagtiti e stalagmiti interamente di ghiaccio. Pareti lisce e brune come l’interno delle budelle di un organismo di ghiaccio mi fanno sentire piccolo, praticamente una caccola nell’immenso colon della terra… A parte gli scherzi: pensavo che le Svalbard mi avessero già regalato il massimo, ma le grotte sono state la ciliegina sulla torta.

L’ultima avventura che ci aspetta è quella della slitta coi cani. Robin, che nella bellissima baita che si è costruito con le sue mani ha la raccolta completa delle opere di Jung, è un inglese, nato in Africa e arrivato qui a remi (sì, a remi) dalle Isole Falkland. Dice che qui la natura è assoluta, forte, estrema e solo qui si sente uomo. Mi porta sulla sua slitta, tirata da cani goenlandesi. La selezione dei groenlandesi viene fatta in questo modo: si lascia un branco di cani da soli, senza cibo, su un iceberg o comunque su un’isoletta deserta. Poi si torna dopo un mese o due: quelli che sono sopravvissuti, che sono riusciti a mangiare foche, uccelli (o altri cani) sono i migliori. Solo che non hanno un buon carattere: infatti siamo partiti da poco che scoppia una rissa tra il capo-muta e il suo vice… Ma Robin si dimostra più cattivo di loro, è lui il vero capobranco, e dopo aver spezzato sulla testa dei contendenti una racchetta da neve e averli morsi sulle orecchie (sì, avere ri-capito bene: il famoso uomo-che-morde-un-cane) si riparte senza problemi. Lo spettacolo della natura è il solito, ma stavolta c’è l’incanto del silenzio e il fascino della fatica (dei cani ma anche degli uomini: provate voi a stare in bilico su una slitta di legno fatta come cent’anni fa, che scappa da tutte le parti). I turisti più “bravi” fanno dei trekking di una settimana con gli sci di fondo e le racchette, accompagnati da una slitta coi cani che porta il necessario per il campo.

Tornato a casa mi metto a dieta e mi iscrivo ad una palestra: prima che sia troppo tardi voglio tornare alle Svalbard, con Robin e Stefano e i cani…

PATRIZIO ROVERSI



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