Isole Svalbard, spedizione tra i ghiacci

Nell'alto Artico a bordo di una nave rompighiaccio
Scritto da: dabi
isole svalbard, spedizione tra i ghiacci
Partenza il: 18/08/2012
Ritorno il: 26/08/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €

Svalbard

Un arcipelago remoto e poco conosciuto, un nome sentito di rado che si affaccia per caso o, per chi crede al destino, per un preciso disegno nella mia mente cosciente circa 18 mesi fa, durante un meraviglioso “sogno a occhi aperti” vissuto tra i ghiacci eterni dell’Antartide, a bordo di una nave rompighiaccio.

Nei corridoi, nei saloni e nelle cabine, sono esposte numerose gigantografie che ritraggono paesaggi, flora e fauna artica e antartica: un orso polare, una coppia di trichechi, gruppi di pinguini, la coda di una balena, il primo piano di una pulcinella di mare, un iceberg irrorato di luce rosata, imponenti ghiacciai che si riflettono nell’acqua placida, isole scure spruzzate di neve. Una galleria di scatti straordinari, molti dei quali recano la “firma” Rinie van Meurs, Expedition Leader.

A ricordo del viaggio acquistiamo un libro fotografico che Rinie completa con una dedica augurale. Volume che, Alessandro e io, sfogliamo all’infinito ammirandone le immagini e memorizzando le didascalie.

Tra le tante, una foto in particolare stuzzica i nostri sensi, si tratta di un orso polare, dalla folta e morbida pelliccia bianca, che dorme sul pack artico in una posizione decisamente buffa.

La passione per gli animali cui si aggiunge la recente fascinazione per i ghiacci, nonché i programmi della compagnia di navigazione già utilizzata che coprono anche le zone artiche, la “nostra” nave che nella stagione estiva, dopo una lunga traversata, si sposta dall’estremo sud all’estremo opposto, il prezioso contributo di Debora e Manuel (Arctic Team), fanno si che – già a settembre dello scorso anno – le Svalbard e il programma “North Spitsbergen, polar bear special” si tramutino in un traguardo da raggiungere 11 mesi dopo.

Un conto alla rovescia lunghissimo, ma necessario per fruire di un discreto sconto e garantirsi tariffe aeree accettabili.

L’arcipelago delle Svalbard comprende alcune isole polari racchiuse tra i 74° e gli 81° di Latitudine Nord e tra i 10° e i 35° di Longitudine Est.

Spitsbergen è la più grande di queste isole ed è anche la più conosciuta, essendo già storicamente l’unica ad avere centri abitati.

La superficie delle Svalbard è di oltre 62000 kmq, pari cioè a quella di tutto il Nord Italia transpadano.

Oltre all’isola di Spitsbergen vi sono la cosiddetta Terra del Nord-Est (Nord Austlandet), l’isola di Edgeøya e l’isola Barentsøya che sono, in ordine decrescente, le più estese dell’arcipelago. Oltre ad esse una miriade di altre isole e isolotti.

Tra Sørkapp (Capo Sud) ed il punto più a Nord della stessa isola vi sono 637 km.

Il nome Svalbard significa “coste fredde” mentre il termine Spitsbergen significa “costa aguzza” per la presenza di picchi montagnosi appuntiti.

Le Svalbard sorgono sulla medesima piattaforma continentale sottomarina su cui è posto anche l’arcipelago russo di Francesco Giuseppe e, come le terre insulari ancora più nordiche, sono considerate parte, nella loro estremità più settentrionale, dell’Alto Artico (insieme all’estremità Nord della Groenlandia, alla terra di Ellesmere, alla Severnaja Zeml’jà).

Le cime montane più elevate sono la Newtontoppen (1717 m) e la Perriertoppen.

La media delle temperature è in inverno di -15° (febbraio-marzo), mentre in estate è di +2°C (luglio).

Questo avviene grazie al benefico influsso della Corrente del Golfo che lambisce il versante Ovest dello Spitsbergen.

In altre zone delle Svalbard (Terra di Nord-Est, Terra di Re Carlo) si hanno, naturalmente, temperature medie diverse.

Un dato certo è che anche le Svalbard, come altre regioni polari, hanno avuto un innalzamento termico medio di circa 8°C in 81 anni (contro, ad esempio, i 4,5°C della Groenlandia). Questo non deve indurre a facili considerazioni poiché in climatologia si ragiona normalmente in termini di secoli e pertanto il periodo esaminato è troppo “breve” in termini assoluti.

Per quasi un anno culliamo il nostro progetto, ci crogioliamo nella certezza di risalire a bordo della Plancius e, soprattutto, di esplorare nuove terre e acque remote, ricche di fascino e di vita animale.

Passano i mesi, le stagioni, risolto un contrattempo per l’annullamento di un volo SAS, al culmine di un’estate calda e afosa è ormai tempo di recuperare, da cassetti e armadi, tutto l’occorrente per il viaggio.

E’ una sensazione strana, quasi fastidiosa, maneggiare indumenti invernali mentre si suda copiosamente per il gran caldo, ma il pensiero degli orsi polari aiuta a superare questa breve fase critica.

18 agosto 2012

La sveglia squilla nel cuore della notte. Lasciamo casa e, soprattutto, il buio che ritroveremo solo al ritorno. Alle Svalbard si prospettano 24 ore di luce al giorno.

Nonostante la non eccessiva distanza, il viaggio verso Longyearbyen (principale centro abitato dell’intero arcipelago) sarà interminabile e segnato da vari accadimenti.

I voli Linate/Francoforte e Francoforte/Oslo si susseguono senza annotazioni di rilievo, salvo che – superate le Alpi – si materializza uno spesso strato di nubi e che a Oslo piove a dirotto. Il tempo di scalo nella capitale norvegese è sufficientemente lungo. Tuttavia, per motivi che ci risultano incomprensibili, si è costretti a ritirare il bagaglio per riconsegnarlo subito dopo presso un banco “drop-off”. Si ripete quindi la trafila dei controlli doganali e il passaggio attraverso il metal detector. Fatto questo, essendo ancora presto per indirizzarci al gate di imbarco di cui vediamo le chiare indicazioni, temporeggiamo curiosando nei negozi e nei Duty Free. Non c’è un evidente sbarramento, senza renderci conto sconfiniamo dall’area voli nazionali a quella dei voli internazionali e quando manca poco all’imbarco torniamo sui nostri passi. Proseguendo diritto si arriverebbe al nostro gate, ma – a metà percorso – un funzionario, pretese le carte d’imbarco, ci indirizza da tutt’altra parte. E’ inutile spiegare al tizio che abbiamo già ritirato e riconsegnato i bagagli, che ci siamo già sottoposti al controllo doganale e che tra pochi minuti ci dovremmo imbarcare. Mentre il tempo sembra scorrere con maggior velocità, l’agente, irremovibile, non ci consente di tornare indietro. Di corsa, scendendo verso l’area ritiro bagagli e risalendo verso la zona partenze, ripercorriamo il giro già fatto, trovandoci infine davanti alla lunghissima serpentina con un display che segnala 30’ di coda. Vale a dire che perderemo il volo diretto a Longyearbyen. Disperata, esibendo le carte d’imbarco, mi rivolgo a un’addetta aeroportuale, ma questa ci invita a metterci in coda. Ci accodiamo e seguiamo il fluire della fila per due o tre minuti, ma è impensabile sottostare a tanta lentezza, non ce la faremo mai. Da lontano, gesticolando, nel tentativo di evidenziare la nostra urgenza, cerco di attirare l’attenzione di un secondo impiegato, ma non ottengo alcun risultato. Non posso permettere che il viaggio sfumi così, dopo averlo sognato e atteso per quasi un anno. In preda allo sconforto, mi infilo sotto i nastri che delimitano il percorso a serpentina. Raggiungo – tra sguardi allibiti e qualche insulto – il personale incaricato ai controlli, espongo il nostro problema dopo di che anche Sandro può raggiungermi. Il secondo passaggio attraverso il metal detector ci sottrae altri minuti preziosi. Mentre prima sono transitata senza problemi, ora il macchinario va in allarme e mi devo sottoporre a minuziosa perquisizione. Di nuovo di corsa, affannati, in ritardo vergognoso, siamo gli ultimi a sfilare – tra gli sguardi irritati degli altri passeggeri – nel corridoio dell’aeromobile. Mi accascio sul sedile con un senso di nausea e sfinimento anche se, mai prima d’ora, uno stretto posto in economy mi è parso tanto accogliente. La cappa di nuvole che ricopre la Norvegia dirada ogni tanto lasciando intravedere squarci di paesaggio caratterizzato da verdi foreste di abeti, zone totalmente disabitate e spettacolari fiordi che frastagliano la costa occidentale. Durante lo scalo a Tromso si scende dall’aereo apparentemente solo per compiere un “tour” del piccolo aeroporto, passando per corridoi alternativi e attraverso una zona di cantiere con evidenti lavori in corso. Si risale sullo stesso velivolo previa spunta dei nomi fatta in modalità manuale. Stranissima sosta! Al quarto decollo lo strato nuvoloso persiste, stiamo ormai viaggiando da molte ore, stanchezza e postumi dello spavento hanno la meglio, crollo addormentata. In uno sprazzo di lucidità, mi sveglio di soprassalto e sgrano gli occhi nel constatare che stiamo sorvolando Spitsbergen e che le nubi sono sparite. Sono impressionata dalla vastità dell’isola maggiore e dal candore inviolato di neve e ghiaccio, infinita distesa da cui emergono solo i neri picchi più elevati di aspre montagne. Voliamo per lungo tempo sopra la coltre bianca con i ghiacciai che terminano direttamente in mare e i piccoli laghi che punteggiano l’interno. Alle 20,30 atterriamo a Longyearbyen inondata di luce e con una temperatura tutto sommato mite. Un enorme orso polare imbalsamato accoglie i turisti accanto al nastro trasportatore dei bagagli. Saremo mica alle Svalbard? Facile individuare il bus che raggiunge il centro cittadino sito a soli 3 km di distanza e che ci scarica esattamente davanti all’hotel (Radisson Blu Polar). Anche qui, nella hall, troneggia un orso imbalsamato ricordandoci dove ci troviamo. Altrettanto facile è riconoscere la coppia di italiani che sta aspettando proprio noi. Una conoscenza virtuale si tramuta in un incontro concreto e in una sorta di passaggio delle consegne: per Stefania e consorte il viaggio è ormai terminato. Facciamo il pieno delle loro impressioni e racconti, chiacchierando per ore mentre il sole, che senza tramontare cala un poco verso l’orizzonte, colora il cielo terso di calde tonalità e la temperatura si mantiene gradevole. La luce costante inviterebbe a star svegli a oltranza, ma si è fatto molto tardi e ci dobbiamo salutare: buon viaggio di ritorno a loro, buon inizio a noi e “buona notte” a tutti!

19 agosto 2012

Svegliarsi alle Svalbard è meraviglioso.

Decisi a goderci qualche ora di relax, ignoriamo la sveglia, ce la prendiamo comoda e facciamo colazione quasi all’ora di pranzo. Ci sarebbe un museo da visitare, ma preferiamo trascorrere il nostro tempo all’aperto. Longyearbyen è un insieme di casette colorate, distribuite lungo due strade principali, circondate da verdi prati punteggiati di fiori bianchi che ricordano i fiocchi di cotone, con le motoslitte parcheggiate in ordinate file e coperte da una sorta di “cappottino” che a breve – quando nevicherà – verrà rimosso. Un torrente, una serie di empori, uffici e locali completano il puzzle di questa cittadina, affacciata su un fiordo e circondata da montagne, che – con i tralicci in legno e i carrelli sospesi che sferragliando trasportavano incessantemente il carbone estratto dalle miniere – reca ancora evidenti i segni di un passato pionieristico. Da lontano riconosciamo l’inconfondibile sagoma della Plancius, ora attraccata al molo. L’imbarco è previsto tra qualche ora, ma allunghiamo la passeggiata fino al porto. La nostra bella nave ha un aspetto magnifico, è impressionante rivederla qui dopo averla lasciata a Ushuaia, circa 18.000 km più a sud. Ne osserviamo ogni dettaglio ricordando con nostalgia che dalla prua abbiamo ammirato il paesaggio antartico, che abbiamo corso lungo le sue fiancate per seguire le evoluzioni delle balene, che dalle lunghe soste sul ponte superiore abbiamo tratto beneficio durante la navigazione nello Stretto di Drake e una miriade di altri ricordi. Incamminatici nuovamente verso il centro cittadino, incontriamo un uomo, molto alto, dalla fisionomia familiare, in lui riconosciamo il Capitano Levakov, ma esitiamo qualche secondo di troppo perdendo così l’occasione di salutarlo e di scambiare due parole.

Nei pochi negozi aperti (oggi è domenica), tranne una t-shirt con stampata la sagoma appena abbozzata di un orso, non troviamo altri spunti che solletichino la voglia di shopping.

Il vento gelido che soffia a tratti ci fa optare per una sosta nelle comode poltrone dell’hotel.

Recuperato il bagaglio, ci avviamo – di nuovo a piedi – verso il porto.

Ci sediamo su un muricciolo e “inventariamo”, man mano che arrivano, gli altri passeggeri, in prevalenza tedeschi. L’età media è piuttosto alta, fatta eccezione per 4 adolescenti. Rivediamo e salutiamo con piacere 3 componenti lo Staff a noi già noti (Delphine, Jim, Kelvin) e, inaspettatamente, ritroviamo un passeggero conosciuto nella stessa occasione: si tratta di Elizabeth, anziana signora australiana. Un’habitué sulla Plancius, scopriremo nei giorni a venire. Ex insegnante ora in pensione, molto parsimoniosa nella quotidianità, investe tutto ciò che risparmia in questo genere di viaggi. Antartide, South Georgia, Falkland, Mare di Weddell, Groenlandia, Svalbard…

Ci sbalordirà con i suoi racconti e per il numero di spedizioni tra i ghiacci cui ha partecipato: venti o forse più… difficile tenere il conto! Afferma con un sorriso soddisfatto.

Si parte. La prima tratta di navigazione, all’interno del fiordo, è pacifica.

Si susseguono un briefing, la presentazione dello Staff, il saluto augurale del Capitano (era proprio lui!), un brindisi e l’esercitazione pratica di evacuazione.

Il clima è parecchio mutevole: sprazzi di sereno si alternano a folate di gelido vento artico e nubi dal colore grigio cupo.

Usciti dal fiordo, il vento rinforza, il mare è sempre più mosso.

Nonostante la pasticca di Valontan, avverto già un discreto malessere che mi costringe a sospendere la cena.

Esattamente durante i pasti si notano le defezioni: i passeggeri si ritirano uno ad uno, raggiungendo più in fretta possibile le rispettive cabine.

In posizione orizzontale sopporto meglio il rollio della nave, anche se sarà una notte molto turbolenta. Riesco, nonostante più di un brusco risveglio, a non star male e va bene così, ma spero che la navigazione non si svolga per tutto il tempo in questi termini.

20 agosto 2012

Superato l’angolo nord-ovest di Spitsbergen, navighiamo verso est per l’intera mattina e parte del pomeriggio, tenendoci lontani dalla costa. Quale unico panorama il mare, una distesa d’acqua plumbea a perdita d’occhio.

Il sole si rivela timidamente, ma la sua apparizione è di breve durata.

Nelle prime ore della giornata vengono distribuiti gli stivali che utilizzeremo per qualsiasi tipo di escursione. Calzature eccezionali, già testate, che riceviamo con una buona dose di “impazienza”, pronti a indossarle al più presto e ben predisposti a nuove avventure.

Ha luogo, inoltre, una serie di conferenze. La prima ha lo scopo di informare i passeggeri relativamente alle procedure di sbarco, la seconda ci introduce nel mondo dei predatori artici, la terza consiste in un workshop di fotografia.

Prendiamo altresì confidenza con la mappa delle Svalbard notando come la desinenza dei nomi riportati, che ora ci sembrano un po’ meno incomprensibili, dia una precisa indicazione del luogo cui si riferisce. Qualche esempio:

breen = ghiacciaio

bukta = baia

fjorden = fiordo

øya = isola

øyane = arcipelago

sundet = stretto

Dopo pranzo, imboccato Liefdefjorden, ci approssimiamo a Andøyane (øyane = arcipelago) dove è previsto il primo sbarco a terra, ma sono stati avvistati almeno tre orsi, si rende quindi necessario un cambiamento di programma.

Per quanto bello e dall’apparenza innocua, l’orso è un predatore abile e molto pericoloso, sono pertanto proibiti gli sbarchi a terra se se ne accerta la presenza.

L’attività odierna consiste in una zodiac cruise che, causa mare piuttosto mosso, si traduce in un’avventurosa escursione all’insegna di un clima uggioso, decisamente artico, con i gommoni che sobbalzano e qualche inevitabile spruzzo di acqua gelida che ci investe senza però bagnarci perché siamo adeguatamente equipaggiati.

In lontananza riconosciamo un orso, una macchia color panna nella tundra, che tuttavia non ci procura forti emozioni se non quella di essere ormai certi della sua esistenza qui, alle Svalbard.

Terminata la scorribanda tra isole e isolotti, proseguiamo la navigazione all’interno del fiordo, spingendoci in profondità, sino a raggiungere Monacobreen (breen = ghiacciaio).

Ora il clima è nebbioso, ma i colori del mare, dei blocchi di ghiaccio galleggianti e dell’imponente fronte del ghiacciaio sono un’esplosione di azzurro, turchese, blu e svariate altre sfumature intermedie.

Una nave ferma in prossimità del “muro” di ghiaccio sembra minuscola, rendendone ancora più evidenti le colossali dimensioni.

Grossi blocchi si staccano dal ghiacciaio cadendo in mare con fragorosi boati.

Ci godiamo a lungo l’atmosfera ovattata di questo spicchio di artico, i suoi “freddi” colori e i repentini mutamenti climatici.

Mentre costeggiamo il ghiacciaio e l’altro lato del fiordo, la nebbia si infittisce e cadono i primi fiocchi di neve. Non c’è miglior abbinamento, a 79° gradi di latitudine nord, di una nevicata sempre più copiosa al ghiaccio, al mare dall’acqua “densa”, a piccoli iceberg.

Ceniamo, ammirando attraverso le vetrate il sole che ha dissolto la nebbia e che illumina le montagne, alcune con la cima piatta, imbiancate dalla recente nevicata.

Anche nella versione “acquerellata” il paesaggio è molto suggestivo.

La luce del sole che non tramonta mai ci invita a indugiare sul ponte superiore nonostante l’ora tarda.

Rientriamo in cabina solo quando il mare si fa grosso mentre, lasciato il fiordo e la terra, puntiamo verso nord, il mare aperto e l’orizzonte infinito.

21 agosto 2012

Ore 7,45 – 81° Nord

Lo spettacolo che osserviamo è indescrivibile.

Il pack-ice, con le sue differenti sfumature che cambiano con il variare delle condizioni di luce e della copertura nuvolosa, è un elemento della natura prodigioso, silenzioso, dove le sensazioni, le emozioni, si amplificano e i confini si espandono.

Nessuna terra emergente, nessun punto di riferimento, solo un’immacolata e irregolare distesa di mare ghiacciato, un insieme di creste, cumuli di neve, lastroni sovrapposti.

Il pack è intervallato, striato, da canali e punteggiato di pozze d’acqua, più o meno estese. Queste ultime sono ricoperte da uno strato di ghiaccio sottile, trasparente e, con il mutare della luce, spezzano il bianco globale con colorazioni argentee, grigio piombo, blu scuro o turchesi.

Il clima artico si avverte a fior di pelle, il freddo è tagliente, ma il Polo Nord dista solo 500 miglia e, pensandoci, il fascino di questo luogo/non luogo è innegabile.

La Plancius avanza rompendo il ghiaccio che, a seconda del suo spessore, si frantuma in grossi blocchi o sottili frammenti al pari di lastre di vetro ridotte in mille pezzi; lascia dietro di sé una scia, un lungo “canale” di acqua grigia, che presto verrà cancellata. I lembi di ghiaccio torneranno a toccarsi, sospinti e sigillati dal vento gelido. Una spruzzata di neve completerà l’opera.

Presi dall’incanto del paesaggio quasi dimentichiamo cosa ci aspettiamo dall’Artico, ma alle 10,30 circa, un orso ci riporta alla realtà; cammina sul pack, salta da una lastra di ghiaccio all’altra, guada pozze poco profonde sino a raggiungere il limite che separa la banchisa da un tratto di mare liquido. Lo splendido animale si accovaccia, si guarda attorno, annusa l’aria, sbadiglia, offrendosi alla raffica di scatti di un “esercito” di fotografi allineato lungo le murate e “armato” di un impressionante campionario di apparecchi fotografici che vanno dalle compattine tascabili alle reflex professionali, corredate di obiettivi dalle dimensioni più disparate.

L’euforia è incontenibile, ovviamente tutta la nostra attenzione è concentrata sull’orso.

Per noi si tratta del primo orso polare, non un’apparizione fugace e indefinita, non tralasciamo tuttavia di immortalare anche i passeggeri schierati, con gli obiettivi puntati nella stessa direzione, e di osservarne le buffe espressioni, le non sempre perfette acrobazie dietro ingombranti cavalletti e, qualche volta, gli sguardi delusi nel controllare cosa appare sul display. Sembra davvero che alcuni abbiano più accessori che competenza e dimestichezza nell’utilizzarli.

Nonostante la temperatura rigida, ci tratteniamo per molte ore all’aperto.

La torretta di prua, anche se risulta il luogo più esposto al vento, fornisce un ottimo punto di osservazione, da qui vedo distintamente l’avanzata nel pack e lo sgretolarsi del ghiaccio.

Il secondo orso si materializza poco prima di pranzo, ma si tratta di un’apparizione breve e lontana. In compenso le impronte che ha lasciato prima del nostro passaggio risultano nitide e vicine.

Nel silenzio assoluto echeggia solo il verso dei gabbiani avorio.

Navighiamo ancora in direzione nord, lo strato ghiacciato è sempre più spesso e compatto, difficile non bearsi di questa straordinaria visione, ma la chiamata per il pranzo spezza l’incantesimo.

Approfittiamo della pausa per scaldarci e, mentre – a tavola – commentiamo eccitati gli accadimenti della prima parte di giornata, l’annuncio “polar bear!” fa sì che ci si affolli dietro le grandi vetrate per localizzarlo.

L’orso è ancora molto distante, ma anticipiamo la fine del pasto limitandoci a mangiare solo qualche altro boccone. Ci piazziamo poi all’esterno, il Capitano ferma la nave e ci predisponiamo al nuovo incontro.

L’animale è curioso, cammina nella nostra direzione, si blocca, annusandoci, a una distanza non superiore a una ventina di metri, si concede ai nostri sguardi ammirati per una buona mezz’ora, rotola nella neve in cerca di refrigerio, si adagia su una montagnola ghiacciata incrociando le zampe anteriori sulla pancia, con un’espressione ridicola e soddisfatta allo stesso tempo.

Si allontana, infine, con lentezza, nel bianco ininterrotto del pack, regalandoci immagini straordinarie.

Per ritemprarci dal freddo, ci rifugiamo in cabina, senza mai smettere di guardare – attraverso il finestrone – il paesaggio, ma non ci è concessa una lunga pausa, un nuovo annuncio “polar bear!” provoca l’ennesimo trambusto.

L’orso nuota nell’acqua gelida, raggiunta la superficie ghiacciata vi si abbandona per qualche minuto, in seguito si incammina spostandosi in orizzontale verso Est, senza però dimostrare interesse nei nostri confronti.

Possiamo seguirlo a lungo approfittando di un tratto di mare, una sorta di canale, non ghiacciato che ci consente un più facile spostamento.

L’ultimo orso di questa lunga, movimentata ed emozionante giornata, si palesa verso le 19.

Dalla prua, camminando accanto alla fiancata sinistra, si sposta verso poppa, superata la quale annusa i segni lasciati dal nostro passaggio. Scavalca piccole creste ghiacciate e slitta sulle superfici gelate delle pozze come se avesse i pattini.

Si accovaccia indifferente alle mitragliate di clic di decine di obiettivi, per poi allontanarsi definitivamente.

Alcune foche guizzano veloci in uno specchio d’acqua, ben attente a tenere le distanze da quello che è un abilissimo nuotatore e predatore.

La giornata termina con una copiosa nevicata, la luce si attenua e noi siamo grati alla natura per le suggestive immagini che ci si fissano nella memoria.

Magico, surreale, affascinante questo “nulla” infinito, ghiacciato, inospitale, ovattato, dove gli orsi vagano apparentemente senza meta e con il solo scopo di cibarsi.

Ci godiamo il paesaggio fino a notte inoltrata, quando, raggiunto il punto più a Nord del nostro itinerario (81° 28.226’ N) il Capitano Levakov inverte la rotta, indirizzando la Plancius verso Sud-Est.

Ci addormentiamo mentre ancora solchiamo il pack-ice, sperando di risentire il grido “Polar bear”, ma il nostro sonno non verrà interrotto.

Poco male, non possiamo certo lamentarci!

22 agosto 2012

Il nuovo giorno inizia con la Plancius già ancorata nei pressi di Karl XII øya (øya = isola): un cono di cioccolato fondente, spolverato di zucchero a velo (neve), digradante in una lunga, lunghissima, lingua di terra scura.

Nevica e soffia una discreta brezza gelida che muove il mare, il colore predominante è il grigio.

Karl XII è situata a nord, al largo di Nordaustlandet seconda isola in ordine di grandezza dell’arcipelago delle Svalbard.

Sull’isola, luogo stabilito per un eventuale sbarco, sono stati avvistati diversi orsi, cambiano quindi i programmi e in alternativa ci viene proposta una zodiac cruise.

L’escursione si protrae per due ore abbondanti.

Il freddo, una nevicata e il movimento provocato dalle onde non concedono tregua. Siamo bardati e coperti fino agli occhi, di rado riusciamo a scattare qualche fotografia, ma il periplo dell’isola, un territorio aspro e inospitale per gli esseri umani, ci ripaga più volte:

– con il verso e lo svolazzare di migliaia di uccelli che ne popolano le verticali pareti rocciose;

– con un orso che, spaparanzato su un nevaio, si desta, rizzandosi sulle zampe posteriori e si arrampica sulle rocce sempre più su, sino a guadagnare una nuova postazione ancor più elevata e dominante;

– e, infine, con una vivace colonia di trichechi che nuota veloce nell’acqua scura.

Risulta difficile scattare fotografie, i trichechi emergono a sorpresa solo per pochi secondi, inoltre il moto ondoso non aiuta a trovare l’equilibrio necessario per scatti fermi. Va però meglio con i trichechi ammassati sulla spiaggia e pressoché immobili.

Quando torniamo a “casa”, a bordo della Plancius, sta ancora nevicando, siamo un po’ infreddoliti, ma soprattutto arricchiti da sensazioni forti e gratificanti, possiamo vantare inoltre nuovi incontri: oltre a diverse specie di volatili mai viste prima d’ora, anche il tricheco è una novità che si aggiunge alla nostra “collezione” di animali.

Mentre pranziamo si naviga fino a raggiungere la costa di Nordaustlandet e il punto più orientale dell’intero itinerario.

Imbocchiamo la suggestiva e quieta Albertinibukta (bukta = baia), con le montagne imbiancate che fanno da contorno.

In mare galleggiano iceberg degni di questo nome, dalle forme aguzze e dai colori forti. Alcuni sono molto vecchi e il ghiaccio è ormai trasparente, altri sono venati di scuro e opachi come alabastro, altri ancora sono di un colore azzurro/turchese molto intenso e contrastano con il cielo drammaticamente nuvoloso e grigio, perfetti per fotografie non comuni.

In fondo alla baia domina Schweigaardbreen (breen = ghiacciaio), uno dei molti ghiacciai che terminano in mare e che, insieme, costituiscono la grande calotta glaciale denominata Austfonna di cui è ricoperta gran parte di Nordaustlandet.

Ci avventuriamo, con gli zodiac, tra gli iceberg e lungo il fronte glaciale, ammirando incantati la gamma di colori e di forme che assume il ghiaccio.

Il mare ha un bel colore verde. La falesia è un insieme di torri mozzate che ricordano i ruderi di un’antica città il cui color mattone è sostituito dall’azzurro intenso appena smorzato da un leggero strato di neve candida.

Un iceberg si spacca rumorosamente in due esattamente davanti a noi e il ghiaccio continua a crepitare a lungo.

Qui la corrente marina spinge i blocchi di ghiaccio contro la parete verticale del ghiacciaio.

Si osservano iceberg arenati, blocchi ammassati disordinatamente e infine uno strato di “cubetti” più piccoli che galleggiando e muovendosi al ritmo delle onde si sfregano l’uno contro l’altro producendo lo stesso suono, ma amplificato e continuo, dei cubetti di ghiaccio contenuti in un bicchiere.

Ci soffermiamo per diversi minuti e in assoluto silenzio in ascolto di questo straordinario “concerto”.

Il suono del ghiaccio, insieme al pack-ice, costituisce senza dubbio uno dei ricordi più vividi e belli di questo viaggio nell’alto Artico.

Rientriamo dopo un paio d’ore d’incanto e dopo aver percorso tutta la lunghezza del ghiacciaio.

Un raggio di luce soffusa fora la coltre di nubi proprio mentre riprende a nevicare creando un’atmosfera magica.

Raggiungiamo la Plancius, gigantesco fantasma sfumato dalla nebbia.

Continua a nevicare e termina un’altra indimenticabile giornata, ma la fine di ogni giorno è determinata solo dall’orologio e dal nostro bioritmo poiché il buio, nella stagione attuale e a questa latitudine, non esiste.

23 agosto 2012

Ci troviamo circondati dalla bellezza austera di Duvefjorden, le buone condizioni climatiche e l’esito del sopralluogo dello Staff confermano, finalmente, il primo sbarco a terra. Purtroppo mentre facciamo colazione tutto cambia: si alza un forte vento, il mare si agita e, come se non bastasse, inizia a fioccare.

Seguono lunghe consultazioni tra i componenti lo Staff per valutare l’opportunità di confermare o annullare la discesa a terra.

Con il trascorrere del tempo, il mare continua a essere mosso, ma smette di nevicare. Delphine – Expedition Leader – decide quindi di accompagnare a terra un primo gruppo e, verificata la fattibilità, autorizza lo sbarco per tutti.

Il trasbordo sugli zodiac si rivela difficoltoso, le precauzioni raddoppiano e si impiega molto più tempo del normale, ma tutto fila liscio.

Raggiunta una baia di ciottoli scuri, denominata Minebukta, i differenti gruppi si compongono. Scegliamo di aggregarci al “medium-fast group”.

Ci troviamo in un habitat in apparenza arido, tuttavia il constatare che le condizioni estreme non impediscono alla natura di seguire il suo corso, ammirare cioè alcune inaspettate fioriture, è fonte di stupore nonché di riflessione sull’importanza della preservazione dell’ambiente.

Il trekking fin da subito si rivela impegnativo, si sale faticosamente su ripido terreno pietroso e neve soffice.

Il fattore che più rallenta il nostro cammino, affaticandoci, non è tanto la conformazione del suolo, bensì il caldo.

Siamo inevitabilmente molto coperti, sudiamo sotto i vari strati di indumenti senza poterci spogliare. Le soste e l’esposizione ci fanno gelare il sudore addosso.

Compiamo un ampio giro, allungando il percorso con diverse varianti per raggiungere alcuni punti panoramici elevati.

Nonostante si sia optato per un trekking di media durata e difficoltà, camminiamo tanto quanto il gruppo “long walk” che ci precede di una mezz’ora.

Il clima mutevole e bizzoso ci propina di tutto: cielo grigio gravoso, nebbia, vento, bufera di neve e un’occhiata di pallido sole.

Facciamo ritorno al punto di partenza dopo oltre tre ore di intensa fatica, ma appagati dalla visione di panorami e fenomeni climatici inconsueti, come la neve che vola in orizzontale, sollevata dal vento e che pare salire dal mare.

Un’ultima diversione ci porta a osservare la carcassa di un orso, triste immagine che non mi va di fotografare. Non è chiaro come e perché l’animale sia morto, se per fame o malattia.

Comunque sia, lo Staff si fa carico di segnalare al Governatore delle Svalbard, a Longyearbyen, l’accaduto e le coordinate GPS.

Alle 14,30, ben oltre l’orario canonico per il pranzo, ci ritempriamo “assaltando” il buffet e, subito dopo, con una lunga doccia calda.

Apprezziamo questo differente modo di viaggiare: il panorama è sempre in bella mostra, lo si può ammirare attraverso le vetrate oppure è godibile, senza “barriere”, dai diversi ponti.

Per le sortite a terra o in mare non occorrono estenuanti trasferimenti, inoltre a livello alberghiero non manca nulla. Cabina e bagno sono comodi, spaziosi, si può optare di rilassarsi con un libro o di oziare in posizione orizzontale, cambiando programma in pochi minuti, spostandosi all’aperto o nella lounge per seguire una conferenza o una proiezione di immagini o anche semplicemente per osservare lo scorrere del paesaggio, sorseggiando una cioccolata calda o sgranocchiando stuzzichini e dolcetti, sempre disponibili.

Ci addentriamo ancor più nel fiordo per una seconda escursione a terra, di breve durata considerato che lo sbarco avviene attorno alle 18,30.

Rinunciamo, preferendo seguire, dal ponte superiore, i pochi che aderiscono all’iniziativa.

In serata, Duvefjorden è ancora il centro del nostro mondo, è infatti la cornice ideale per un barbecue artico: occasione per socializzare e divertisi, apprezzare una ricca grigliata di carne e abbondare con il vino che si beve volentieri anche per far fronte al gelido vento polare.

Musica, contagiosa allegria e il giorno che sembra non finire mai potrebbero far sì che la festa continui ancora a lungo, ma domani ci aspettano nuove avventure e le Seven Islands, questo pensiero aiuta a rendere meno traumatico l’inevitabile “stop alle danze!”.

24 agosto 2012

Sjuøyane (Seven Islands) – 80° 41’ N

Phippsøya (øya = isola) è la meta odierna.

Mare piatto, sprazzi di sole, temperatura piacevolmente tiepida.

Un orso, come ormai di consueto, tramuta lo sbarco e relativo trekking in una zodiac cruise.

Ci avviciniamo a una spiaggia costituita da un insieme di massi tondeggianti.

Un “sasso” è più “giallo” degli altri, a me sembra l’inconfondibile colore della pelliccia di un orso e lo indico, ma chi mi sta seduto accanto continua a vedere solo un sasso.

I fotografi che occupano gli altri zodiac sfoderano le “armi” e si schierano pronti allo scatto.

Ho ragione e, infatti, un movimento conferma la mia tesi: si tratta di una femmina che, spostandosi da una roccia all’altra, si porta vicina all’acqua.

Per lunghi minuti osserviamo lo splendido animale mentre, a sua volta, ricambia gli sguardi e ci annusa.

Dopo la raffica di clic, proseguiamo l’escursione indirizzandoci verso una diversa spiaggia, di sabbia chiara, che ospita un’apatica colonia di trichechi.

I grossi pinnipedi, uno addossato all’altro, condividono un’indolente promiscuità. Salvo qualche raro e brusco movimento per prendersi a zannate, procurandosi sanguinose ferite, non si nota altra attività. Situazione ottimale per le foto.

Un raggio di sole e il fondale di sabbia esaltano colore e trasparenza del mare che ricorda molto quello di Sardegna.

Dimenticando la sua bassa temperatura e che vi nuotano i trichechi a decine, il bel colore verde smeraldo inviterebbe a tuffarsi.

Ci spostiamo con i gommoni tra le varie isole scure spolverate di neve, ne ammiriamo i ghiaioni grigi e i rilievi arrotondati. Bello e aspro al tempo stesso questo piccolo arcipelago remoto e sconosciuto.

Risaliti sulla Plancius, la fauna artica ci regala un incontro raro e, pertanto, molto fortunato.

L’annuncio “Blue Whale!”, seguito dall’inconfondibile spruzzo d’acqua e dal dorso bluastro che emerge più volte, è un avvenimento che invita anche i meno propensi a stare all’aperto ad affollare i ponti.

La balena nuota e affiora piuttosto distante, tranne una volta, quando sfila proprio sotto la fiancata dove sto io insieme a pochi altri fortunati passeggeri.

Il grande cetaceo prende, infine, il largo, soffiando alte colonne d’acqua in rapida sequenza.

Ci tratteniamo all’esterno ancora a lungo, beneficiando del tepore del sole, del mare calmo e beandoci dello spettacolo offerto da alcuni nuvoloni neri che, catturati i raggi solari, producono straordinari effetti speciali.

Navighiamo per il resto del pomeriggio in direzione Sud-Ovest, stiamo per lasciare definitivamente la grande Nordaustlandet. Per l’ultima sosta in questo territorio, ci approssimiamo a Lågøya: isola lunga e piatta dove si radunano numerosi trichechi il cui verso somiglia a quello degli ippopotami.

L’acqua brulica di altri gruppi di trichechi che nuotano e che emergono solo per brevi istanti.

Gli isolotti rocciosi sono colonizzati da una moltitudine di uccelli.

I colori delle giacche a vento e i profili dei fotografi si riflettono nell’acqua calma. Altra “fauna”, oltre a volatili e mammiferi, che merita di essere fotografata.

Spiace quando viene dato il segnale di rientrare e gli zodiac si allineano prima di raggiungere la scaletta di imbarco.

Navigando verso Spitsbergen, trascorriamo il dopocena trattenendoci sul ponte superiore per prolungare il piacere di questa giornata dal clima insolitamente mite.

Alle 23 circa, una seconda balena viene a farci visita. E’ ancora più grossa della prima.

Meno timida, si avvicina alla nave, girandoci attorno diverse volte, mentre noi, frenetici, corriamo da un’estremità all’altra per seguirne i movimenti.

Scrutando il mare, attendiamo la sua comparsa, il poderoso spruzzo e il lungo dorso blu che affiora. Non mostra mai la coda, ma – tra le tante – emerge due volte con la pancia chiara e rigata, si gira di lato mostrando una lunga pinna quasi a volerci salutare.

Siamo emozionati ed eccitati per il rumore dello sfiato e tutto quel che segue e grati, ancora una volta, al Capitano Levakov che, vista la balena da lontano, ha invertito la rotta, tracciando un ampio semicerchio sulla superficie del mare, andandole incontro e fermandosi per consentirci di beneficiare dell’intera straordinaria sequenza.

25 agosto 2012

Ytre Norskøya – 79° 51’ N

“Good morning to everyone, good morning!”

La sveglia scatta molto presto, ma scostate le pesanti tende non possiamo che essere riconoscenti a chi ha ritenuto che una giornata inequivocabilmente soleggiata meritasse di essere sfruttata, sacrificando un’oretta di sonno.

Lo sbarco avviene con facilità, in pochi minuti siamo a terra mentre la Plancius, ancorata in una baia, si offre fotogenica ai nostri obiettivi che immortalano il suo bel profilo, il blu/turchese del mare calmo e i diversi strati di colore delle montagne che racchiudono l’insenatura.

Ytre Norskøya è sita all’estremità nord occidentale di Spitsbergen. In passato fu una fiorente stazione baleniera. Oggi, con i resti di oltre 150 tombe, costituisce il più grande cimitero della maggiore isola delle Svalbard.

Le tombe sono ormai difficilmente identificabili, si nota più che altro un insieme di pietre, ricoperte di licheni, sparse sul terreno soffice e muschioso (permafrost) i cui colori – giallo, verde, rossiccio, marrone – vengono esaltati dalla luce e dalla limpidezza dell’aria.

Camminiamo in piano, lungo la costa, ammirando le fioriture e provando una forte emozione nel ritrovare, qui, le sterne artiche.

Gli uccelli si dimostrano aggressivi, volano minacciosi sopra le nostre teste.

Delphine ci segnala la presenza di molti piccoli, stanno infatti posati a terra, tra le rocce, tenere “palle” di piumino grigio.

Ci fermiamo mentre la nostra accompagnatrice avanza cautamente, aggira i piccoli e aumenta la distanza fino a che le sterne, rilassatesi, tornano a volare normalmente, a nutrire la prole e a procurarsi nuovo cibo.

La sterna artica oltre che un bellissimo volatile è anche un incredibile migratore. Dopo aver trascorso i mesi estivi nell’Artico, compiendo un volo lungo ben 20 mila chilometri, si trasferisce nell’emisfero australe per andare a vivere una seconda estate in Antartide.

Ci tratteniamo a lungo, e in silenzio, nei pressi della “nursery” a osservare con ammirazione le attività di questi prodigiosi uccelli.

L’escursione, come il clima, è molto piacevole, il paesaggio stupendo, ma siamo ormai alle ultime battute ed è tempo di tornare a bordo.

Gli sbarchi sono terminati, ora non ci resta che “svoltare l’angolo” e indirizzarci a sud, costeggiando il versante occidentale di Spitsbergen, imboccando, infine, il fiordo che racchiude Longyearbyen.

Il sole continua a splendere nel cielo terso, i colori sono brillanti. Felice conclusione di un viaggio perfetto!

Il mare, in assenza di vento, è una tavola, l’acqua sembra densa e qualsiasi cosa vi si riflette nitida come in uno specchio.

Trascorriamo l’intero pomeriggio all’aperto, fotografando gli uccelli che seguono la nostra scia, le pulcinella di mare che si tuffano in picchiata e che galleggiano, il susseguirsi di isole, ghiacciai e montagne innevate.

Mai come oggi i ponti e le panchine sono tanto affollati.

Qualcuno dello Staff, nel constatare tanto rilassamento, con un sorriso e un poco credibile tono burbero, ci “rimprovera” ricordando che questa è una spedizione, non una crociera.

Restituiamo gli stivali e ci sottoponiamo a diversi “rituali”, che già conosciamo, quali il discorso finale di Delphine e dei suoi collaboratori, il saluto del Capitano seguito da un brindisi, la consegna degli attestati e, per finire, una novità, la premiazione del vincitore tra i partecipanti al concorso fotografico.

Vince il gruppetto composto da giovanissimi con una foto molto spiritosa che ritrae la piramide di dolcetti serviti a merenda qualche giorno fa.

Scoppiano risate e applausi per la scelta della commissione giudicatrice che smorza le rivalità tra fotografi più o meno professionisti e dilettanti. Sicuramente il premio attribuito ai più giovani non genera conflitti, non scontenta nessuno.

Conclusa la serie di eventi, ci trasferiamo di nuovo all’aperto per assistere al gran finale.

Dopo mesi di luce ininterrotta (24 ore al giorno), oggi, per la prima volta, il sole tramonta.

Lo spettacolo dura diverse ore, il cielo cambia più volte colore, si arrossa, piccole nuvole si trasformano in cerchi di fuoco, per un particolare effetto un raggio solare sale in verticale come il fascio di luce di un faro, il sole scende lentamente fin quasi a toccare l’orizzonte e poi pian piano risale, il cielo si fa sempre più scuro e schiarisce di nuovo, mentre il tripudio di colori infuocati sembra non esaurirsi mai.

Impossibile descrivere, con le sole parole, bellezza, intensità e colori di un fenomeno tanto raro che ci ha tenuto incollati alle murate fin oltre la mezzanotte e non solo, una volta a letto, decisi a dormire qualche ora, ci ha richiamato sul ponte un’ultima volta, in pigiama e giacca a vento infilata sopra di fretta.

Il “fuoco” artico è l’ultimo prezioso dono delle Svalbard.

26 agosto 2012

Longyearbyen – 78° 13,9’ N

Ore 6,30

Come una doccia gelata si susseguono sveglia, colazione, saluti frettolosi, sbarco, trasferimento in aeroporto.

Nonostante il cielo plumbeo e il vento gelido, prima di entrare nel terminal, indugio qualche minuto davanti al segnale stradale triangolare che indica “attenzione pericolo orsi”.

Esattamente qui è iniziata la nostra avventura e qui finisce.

Longyearbyen, luogo/non luogo, terra di confine, dove appunto inizia o finisce qualche cosa. Anche se diversa, urbanisticamente e architettonicamente, il paragone con Ushuaia (Terra del Fuoco / Fin del Mundo) per me è inevitabile.

Si tratta di due cittadine, collocate agli antipodi, sviluppatesi in modo disordinato, accomunate da un’affascinante caratteristica: entrambe costituiscono la porta di accesso agli estremi più remoti del globo, dalla bellezza esagerata, quali l’Artide e l’Antartide.

Un volo, due, tre…

Nell’arco di una decina di ore, dai -1°C delle Svalbard, transitando sotto la pioggia di Oslo e il diluvio di Stoccolma, approdiamo ai 32°C (ore 18) di Milano Linate.

L’impressione è quella di essere usciti troppo velocemente e bruscamente dalla “palla di vetro con la neve”: un mondo ovattato, fatto di silenzi rotti dal soffiare del vento, dallo sciabordio delle onde, dal verso degli uccelli e dei trichechi, dal soffiare delle balene, dal crepitare del ghiaccio, sopra il quale cadono spesso delicati fiocchi di neve.

Concludo il racconto con un simpatico “copia-incolla” dal diario di bordo, redatto dal mitico Capitano Levakov.

On this voyage:

the Galley team have cracked over 1,500 eggs,

we have seen 18 Polar bears,

the engineers have made 168 tonnes of fresh water,

you have taken as many photos as there are hairs on a bear,

and we have sailed 970 nautical miles!

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