Il vento del Bengala

Un viaggio in uno degli stati indiani meno visitati dai turisti
Scritto da: giubren
il vento del bengala
Partenza il: 01/11/2012
Ritorno il: 17/11/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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Calcutta, novembre 2012

Non sono mai riuscito ad abituarmi ai nuovi nomi delle città, un’ondata di nazionalismo che perdura in India da più di 10 anni, tende a modificare tutto ciò che possa ricordare un’origine non autoctona e a traslitterare le denominazioni in una versione vernacolare o più simile alla pronuncia locale…

Dal 2001 la seconda città del subcontinente è stata ribattezzata Kolkata, ma lo spirito evocativo, il fascino e le tragiche memorie del recente passato restano indissolubilmente legati a Calcutta, capitale del Raj Britannico fino al 1911 e oggi considerata capitale culturale del Paese.

Le propaggini del ciclone, che solo una settimana prima del nostro arrivo aveva colpito le coste meridionali del Coromandel sono giunte nei cieli del Bengala, insolitamente coperti per questo periodo dell’anno. Lo stile dell’aeroporto ricorda ancora gli anni ’60, tuttavia i progetti per la costruzione di un modernissimo hub internazionale sono ormai prossimi alla realizzazione. Superato il controllo passaporti, ci attende il nostro taxi all’uscita per trasferirci in hotel. Sono passate le 2 di notte e le strade sono per lo più sgombre dal traffico che le intasa sin dalle prime ore del mattino. Lo sguardo al di là del finestrino inizia a familiarizzare con la nuova realtà e il piatto paesaggio del Bengala, senza alcuna traccia di alture all’orizzonte. Nuove strade e immense sopraelevate sono in costruzione e si intravedono nelle periferie le sagome di grandi palazzi destinati ad ospitare la sovrabbondante popolazione della città. Piccole baracche coperte da incerate ai lati delle strade testimoniano ancora le misere condizioni di vita di alcuni degli abitanti, tuttavia la prima impressione è che le cose stiano rapidamente cambiando anche per Calcutta, la città tristemente nota al mondo occidentale per le tragiche condizioni igienicosanitarie.

Ci alziamo piuttosto tardi per la stanchezza del lungo viaggio e del fuso orario e iniziamo l’esplorazione della “città della gioia”. L’albergo è a venti minuti di distanza dal Victoria Memorial, il monumento forse più noto che decidiamo di raggiungere a piedi. Le strade sono ingolfate dal traffico e i clacson dei variopinti autobus e dei caratteristici taxi gialli suonano continuamente. I marciapiedi sono stretti e pieni di gente, oltre ad essere ingombrati dalle piccole baracche che servono il cibo ai loro avventori in mezzo alla confusione. Molti sono i giovani studenti che incrociamo, alcuni di loro ci salutano con un sorriso, ma la gran parte delle persone guarda fugacemente senza alcuna invadenza. Si nota una progressiva occidentalizzazione dei costumi, persino il tradizionale “namasté” con le mani giunte sembra aver perso terreno nel Bengala e molti preferiscono la stretta di mano.

Il tempo è piuttosto uggioso, a tratti scende dal cielo un’insistente pioggerellina, l’umidità è alle stelle: sembrerebbe quasi di trovarsi nel pieno della stagione monsonica. Attraversiamo gli incroci a fatica, preferibilmente aggregandoci agli altri gruppi di indiani, gli odori di spezie, il profumo del betel e gli effluvi di immondizie e smog si fondono insieme mentre si attraversa Calcutta, una città vibrante nella sua vita di strada. Il Victoria Memorial è immerso in un grande giardino tropicale, nel quale i rumori giungono attutiti, sembrando un ricordo lontano. Dopo aver pagato il nostro biglietto, iniziamo a visitare questo grandioso edificio di epoca coloniale, celebrativo del giubileo di diamante della regina Vittoria, Imperatrice delle Indie. La profusione di marmi bianchi e le cupole evidenziano l’influenza dell’architettura del Taj Mahal, anche se lo stile eclettico dell’edificio è per lo più neoclassico. Una grandiosa statua bronzea della regina assisa sul trono fa bella mostra di sé e molti sono i visitatori indiani che si soffermano per le foto ricordo. Gli interni ospitano una nostalgica raccolta di memorabilia dell’epoca coloniale tra statue di governatori, antiche stampe e quadri ad olio che ritraggono un mondo temporalmente lontano (ed incredibilmente affascinante), che ci è giunto fino a noi solo parzialmente… Sotto la cupola principale, si trova un’altra statua di una giovane regina Vittoria circondata da un’esposizione di vecchie fotografie che ritraggono le varie sedi del governo coloniale sorte nelle più diverse parti del Paese. L’edificio sembra essere rimasto esattamente come l’hanno lasciato gli inglesi e risuona del vociare dei numerosi visitatori locali. E’ severamente proibito fotografare all’interno, un divieto ormai esteso a gran parte degli edifici turistici e religiosi ed assolutamente ragionevole, altrimenti, non essendo ormai gli apparecchi fotografici di esclusivo appannaggio degli occidentali, sarebbe un vero caos di scatti e di flash.

Un ultimo sguardo al riflesso del Victoria Memorial sugli specchi d’acqua dei giardini con le sue cupole sorvolate da stormi di grossi corvi, prima di dirigerci verso altri edifici d’epoca coloniale tra i quali la St.Paul Cathedral e il Birla Planetarium e di tornare in albergo, sperimentando la linea di metropolitana (che non avremmo più utilizzato per nostri spostamenti successivi …) Curioso, quanto lugubre, il divieto di trasportare cadaveri all’interno dei vagoni.

Tra i luoghi più romantici della città, è forse da annoverare il vecchio cimitero coloniale di Park Street. L’area intorno al cimitero era un tempo paludosa ed isolata e qui venivano sepolti i coloni britannici ed i personaggi più in vista della città a partire dalla fine del 600. Nel mezzo di una lussureggiante vegetazione tropicale, sorgono molte tombe neoclassiche a forma di cupola o di obelisco, spesso ricoperte da muschi o rampicanti. La giovane età dei deceduti, ricorda ai passanti quanto dovessero essere difficili le condizioni di vita dell’epoca, dal momento che molti non superavano i 30 anni.

Immancabile poi la visita a quella che tutti conoscono come la “Mother House” nei quartieri più poveri, luogo di sepoltura di Madre Teresa. La raggiungiamo a piedi, facendoci largo tra le officine di ferramenta che occupano gran parte dei marciapiedi e le baracche.

Tre neonati seminudi giacciono a terra su una piccola stuoia, a un metro di distanza una cucciolata di cagnolini è riposta allo stesso modo.

Le sorelle della carità ci accolgono sorridenti nella loro casa madre, invitandoci a visitare anche un piccolo museo, posto al fianco della tomba, che conserva gli oggetti di uso quotidiano e testimonia le terribili condizioni di vita nelle strade nel periodo in cui la città fu colpita dalla fame e da gravissime epidemie di colera: queste furono le condizioni in cui si trovò ad operare l’angelo di Calcutta, probabilmente inimmaginabili se paragonate a ciò che noi abbiamo visto durante il nostro girovagare. “Mani per servire ed un cuore per amare” è il messaggio in lingua inglese scritto con i petali sulla candida tomba della Madre che inevitabilmente coinvolge ed emoziona anche gli animi più secolarizzati.

Il cuore della città coloniale si trova nei pressi dell’Esplanade e nei suoi quartieri immediatamente a nord, con i suoi grandiosi edifici decadenti dell’epoca del Raj e il Grand Hotel Oberoi, vera e propria oasi rispetto al trambusto implacabile appena al di fuori del suo perimetro. A breve distanza dal Grand Hotel, l’Indian Museum accoglie i visitatori nelle sua immense sale costruite dagli inglesi nell’800. I ventilatori, le statue provenienti dalle regioni meridionali, le infinite collezioni di fossili e minerali conservate nelle polverose vetrine lignee caratterizzano gli ambienti espositivi immersi in un atmosfera senza tempo. Nelle vicinanze, sorge il settecentesco e brulicante Central Market, dai muri in mattoni rossi di cui nessuno sembra essersi mai preso cura dall’epoca della sua costruzione. Particolarmente oscura e angosciante, la zona del mattatoio sorvolata dagli onnipresenti grandi corvi neri, il loro gracchiare è infatti un leit-motiv sonoro caratteristico della città quanto il rumore del traffico. Stazionano, nei vari angoli delle strade, i portatori (horse men/uomini cavallo) dei rickshaw in attesa dei clienti: Calcutta è ormai l’ultima città dell’Asia a ospitare ancora questo desueto mezzo di trasporto pubblico. Il governo del Bengala Occidentale lo ha formalmente soppresso, tuttavia la legge non viene applicata per non privare fasce poverissime della popolazione dell’unica fonte di reddito. I rickshaw che si inseriscono nelle strade trafficate sono un’immagine caratteristica, con il tintinnante campanello che dovrebbe annunciare la loro presenza agli altri veicoli e che svolge ormai una funzione superflua, venendo soverchiato dal suono dei clacson.

La zona del BBD Bagh (o di Dalhousie Square, come ancora molti indiani continuano a chiamarla…) è invece decisamente più tranquilla, considerando come molte strade siano chiuse al traffico privato. Molti degli edifici sono fatiscenti: i proprietari infatti si sono disinteressati del loro mantenimento a causa dei canoni di locazione troppo bassi imposti dal governo. Targhe sui muri ricordano le funzioni che un tempo vi si svolgevano da parte di pubblici dipendenti, avvocati, club di professionisti e scrivani (indispensabili nel passato per il bassissimo grado di alfabetizzazione). Al centro della piazza si trova una grande cisterna rettangolare, un tempo la principale riserva d’acqua attorno alla quale sorse il primo nucleo della città. Job Charnock, il mercante inglese fondatore di Calcutta, è sepolto nel suo mausoleo a breve distanza, all’interno del giardino della chiesa di St. John.

Si sta facendo sera, prendiamo di fronte alla vecchia sede del governatore britannico uno dei taxi gialli e ci dirigiamo al Kali Ghat, cioè al tempio della dea Kali, particolarmente frequentato dai fedeli verso il tramonto. Affianco al tempio, sorge il vecchio ospedale dei moribondi di Madre Teresa, ormai abbandonato, riconoscibile dalla scritta “I thrust” (ho sete) che ancora campeggia al fianco di un crocifisso dall’altro di una cupola. E’ praticamente impossibile sfuggire alle guide al momento di entrare nel tempio, il nostro accompagnatore tuttavia è sufficientemente gentile e ci spiega le funzioni che si svolgono all’interno del recinto sacro. L’edificio non è di particolare interesse dal punto di vista architettonico, per cui preferiamo non levarci le scarpe per entrare. La calca è tale da rendere impossibile la vista dell’idolo, i fedeli con in mano le offerte si spingono e sembrano cadere in trance al suo cospetto … la nostra “guida” cerca di farci vedere altre zone interessanti, ma riusciamo a seminarlo tra la folla e a raggiungere il nostro taxi per tornare in albergo.

Il Bengala Occidentale è tra gli stati indiani meno visitati dai turisti e le guide indicano numerose città d’interesse artistico, tuttavia non tutte sono raggiungibili per essere visitate in giornata da Calcutta, così optiamo per una gita sul fiume Hoogly in macchina privata. Nel corso del 600, diversi Paesi europei avevano fondato lungo le sue rive degli stabilimenti, essendo il Bengala terra contesa per l’apertura di lucrosi commerci. Serampore è il primo degli scali europei che incontriamo lungo il percorso: fondata dai danesi, ospita un grande collegio (tutt’ora in attività) di stile neoclassico. Uno dei professori ci accoglie e ci fa visitare la biblioteca che conserva testi antichi di un certo pregio, ricordandoci che la scalinata interna dalla ringhiera in ferro battuto e la cancellata esterna sono originali dell’epoca coloniale. La Danimarca sembra non essersi dimenticata di questo suo remoto avamposto, ceduto nel 1845 agli inglesi, ed una targa commemorativa ricorda una recente visita dell’ambasciatore danese in questo luogo.

Segue la cittadina di Chandernagore, comptoir francese fino al 1952, dove il lungo fiume evidenzia l’inconfondibile stile d’oltralpe con le sue panchine, i lampioni in ferro battuto e l’edicola “belle epoque”. Il Palais Dupleix, antica residenza del governatore francese, è oggi un museo dove sono custoditi numerosi oggetti legati alla passata dominazione. A breve distanza, tra vecchi edifici dai muri ocra, sorge l’imponente facciata della chiesa del Sacre Cœur con una piccola statua di Giovanna d’Arco all’esterno.

Segue il grande Imambara (moschea scita) nella cittadina di Hoogly: affacciato sul fiume, trattasi di un luogo di grande fascino decadente, dove è possibile salire sulla torre dell’orologio per ammirare il panorama attraverso due scale (una riservata agli uomini ed una alle donne). Dopo Bandel, dove sorge la chiesa di nostra signora fondata dai portoghesi, raggiungiamo Bansberia, ultima tappa del nostro tour. La cittadina ospita 2 interessanti templi indù immersi in un’atmosfera bucolica. Il Tempio Hanseswari, con le sue caratteristiche cupole a cipolla, ricorda una chiesa moscovita; immediatamente dopo il tempio di Ananta Vasudeva con le sue piastrelle di terracotta di epoca Malla, permette di farsi un’idea di un’arte decorativa caratteristica del Bengala che è possibile ammirare anche a Vishnupur (città a sei ore da Calcutta) o in altre località del Bangladesh.

Lasciamo Calcutta e partiamo per il Bhutan; torneremo dopo 8 giorni nel Bengala e precisamente a Darjeeling, la più famosa tra le Hill Station britanniche dell’epoca coloniale. Un volo di soli 30 minuti dalla città di Paro (Bhutan) atterra all’aeroporto di Bagdogra. Anche qui ci aspetta il nostro taxi all’uscita, che ci condurrà a destinazione dopo quasi 3 ore. La temperatura è estremamente elevata, attraversando l’assolata pianura iniziamo a familiarizzare con le sconfinate piantagioni di tè, per le quali la zona è famosa in tutto il mondo. Improvvisamente, come un muro, si staglia sull’orizzonte la catena himalayana e il taxi incomincia la salita lungo infiniti tornanti ad una velocità non particolarmente rassicurante. Finalmente raggiungiamo la nostra destinazione, rallentata anche dalla strada non sempre in ottime condizioni e prendiamo possesso della nostra suite “Knebswoth” al Windamere Hotel, un gioiello di epoca coloniale. L’albergo non è particolarmente lussuoso, ma la sua caratteristica è quella di aver preservato lo stile dell’epoca britannica nei suoi minimi particolari. Se Darjeeling e l’India sono cambiate, probabilmente non è cambiato di molto l’Hotel Windamere che vive nei suoi lenti ritmi del passato: il gong che annuncia agli ospiti i pasti, i camerieri gurkha con le loro vecchie divise, il tè delle 5 nelle accoglienti sale riscaldate dai caminetti accesi (presenti anche nelle stanze ed accesi dai camerieri verso le 6 di sera), le cene a lume di candela con squisita cucina continentale ed indiana con sottofondo della “graffiante” musica anni ’30.

Il Windamere sorge sulla Observatory Hill, da cui si gode un bellissimo panorama sulle montagne circostanti e popolato da simpatiche scimmiette che, non di rado, si vedono camminare sui tetti.

Darjeeling è una città piuttosto stancante da visitare in quanto i vari luoghi di interesse si raggiungono solamente a piedi attraverso sentieri piuttosto faticosi da ripercorre in salita. Tra le principali attrazioni, il trenino a scartamento ridotto (o toy train/treno giocattolo) ancora in funzione dall’800 ed iscritto alla lista dell’Unesco come patrimonio dell’umanità. Dalla stazione di Darjeeling, è possibile raggiungere il sobborgo di Ghoom e visitare un piccolo museo dedicato a quest’antica ferrovia. Un tempo, il trenino raggiungeva in diverse ore anche la cittadina di Kurseong, ma ormai sono 5 anni che tale servizio è stato interrotto. Le sbuffanti locomotive a vapore non sono sempre quelle impiegate, a noi purtroppo ne è toccata una diesel e decisamente più rumorosa oltre che meno romantica.

Darjeeling è decisamente un luogo poco battuto dai turisti, si è sviluppata in modo disordinato sulle pendici dell’Himalaya, ma gli edifici coloniali sono ancora piuttosto numerosi, dal municipio e la sua torre dell’orologio, al Central Post Office al Planters’ Club, tutt’ora utilizzato proprietari delle piantagioni di tè. Ma il luogo che probabilmente attira i visitatori (soprattutto locali) è forse la Tiger Hill, un osservatorio sul monte Kanchendzonga (fortezza dalle 5 vette), il più alto dell’India, da cui si ammirano all’alba i primi raggi del sole tingere di rosa la sua vetta innevata.

Un dolce vento ha reso questa volta estremamente tersi i cieli del Bengala e regalato a noi l’emozione di un’ultima e grandiosa visione, appena in tempo prima del nostro rientro in Italia…

Con l’India è sempre un arrivederci…

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Ananda Vasudeva Temple, Bansberia



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