I signori in giallo di tra Canada, New England e dintorni
Giorno 1. Venerdì 18 Agosto 2017.
La partenza è stata straziante: la guardavo dritto in quei suoi magnifici occhioni lucidi e lei, con quella sua espressione tra il triste e l’incredulo, sentiva già che non ci saremmo visti per un paio di settimane. Sì, ok, va bene: mi sono trasformato in un fottuto gattaro e mai, ma proprio mai, avrei pensato di poter diventare un patetico co-protagonista di una scenetta tanto penosa. Ma è così, malgrado per tutta la vita mi fossi ripromesso di non far mai entrare un animale nella mia casa e tantomeno -orrore!- farne salire uno sul mio letto. Ma il pacchetto era quello (Linda con Gatta Sofia, tipo quelli di Sky quando ti propongono il pacchetto Cinema che ti interessa in abbinata ad uno sul golf per sub che non guarderesti neppure sotto tortura), perciò l’ho preso senza pentirmene, conscio anche delle figure imbarazzanti che avrei fatto in futuro, tipo questa. Linda non smetteva di ridere mentre cercavo di tranquillizzare la gatta con rassicuranti frasi del tipo “vedrai che queste giornate passeranno velocemente, sta’ tranquilla, dai…” che lei avrà interpretato più o meno come “ci dobbiamo disfare di te perché perdi troppo pelo, sei eccessivamente schizzinosa sul cibo e oggi hai pure vomitato tre volte”. Almeno, dallo sguardo, sembrava così.
Indice dei contenuti
“Se partiamo il 18 vedrai che ci sarà molto meno casino che nelle prime due settimane di agosto”. È bello poter condividere un unico pensiero positivo con altre persone. Tipo 182.327. Tutte all’aeroporto di Venezia. Oggi.
Per la prima volta voliamo con Air Canada, diretti su Toronto. Per qualche giorno dopo la prenotazione siamo stati davvero felici, perché avevamo sentito parlare un gran bene di questa compagnia; poi, come spesso accade, arriva quello che fa il guastafeste dicendo che, in realtà, questa è Air Canada Rouge, cioè la versione low cost per poveracci di quella di bandiera e che sull’aereo non ci sarebbero stati neppure gli schermi per l’intrattenimento, ma che avremmo dovuto scaricare un’app sul nostro tablet o smartphone personale per poter vedere film da cineforum e documentari sulla vita del Muflone Scarpinato in Alaska. Con sottotitoli.
Stiamo per imbarcarci e mi sovviene che, probabilmente, avremmo dovuto portarci anche il pranzo al sacco.
Sono le 15,22 e, malgrado le sarcastiche previsioni, abbiamo appena terminato di pranzare in ritardo, o di cenare in anticipo, a bordo di questo piccolo Boeing 767 (formazione delle file: 2-3-2). Il pasto non è stato né peggio e né meglio di quello di tanti altri voli, infatti faceva schifo uguale, però non vorrei che qualche chef della compagnia se la prendesse a male: sappiamo bene quanto possa essere difficile preparare della pasta scotta al microonde a dei passeggeri italiani noti per essere inutilmente esigenti perché rovinati dalle mille trasmissioni televisive di cucina, per questo abbiamo optato per un più rassicurante pollo con pesto alla genovese, salsa ai peperoni e purè, anche se Linda continua a ribadire che si trattava di polenta (colpa mia: l’ho portata a troppe sagre questa estate). Una Razione K che ha assolto alla sua funzione: saziare. Per mangiare bene ci sarà tempo e modo, di certo rimarrei stupito se dovesse capitarmi un giorno durante un volo in Economy Class.
L’app della compagnia aerea funziona un po’ come Netflix e, anche se abbiamo già visto 19 tra i 23 film disponibili nella nostra lingua, non c’è di che lamentarsi e, in ogni caso, prima di partire avevo già dopato a dovere il tablet riempiendolo di ogni “bendiddio” (ciononostante ci riguardiamo “Mean Girls” per entrare nel mood giusto, qualsiasi cosa questo significhi).
Al di là dell’impostazione economica, compagnia aerea promossa a pieni voti e non solo perché per andare da Venezia a Toronto e ritorno si spendono 420€.
Ah già, ma dove stiamo andando esattamente? Allora, ecco gli Stati che toccheremo in auto in questi 15 giorni: Ontario, Quebec, Vermont, Maine, New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New Jersey, Maryland, Washington D.C., Pennsylvania, New York. Naturalmente si ringrazia “Cicciobombo Kim” per non aver nuclearizzato gli Stati Uniti e “Orange is the new Mad” per non aver polverizzato la Corea del Nord lo scorso Ferragosto. Finché giocano a chi ce l’ha più piccolo (il cervello) noi potremo farci la tanto agognata vacanza sulle tracce della Signora Fletcher, anche se quando c’è lei in giro la gente si tocca perché qualcuno schiatta sempre.
La cosa bella di volare di giorno è che non si dorme; la cosa brutta di arrivare di giorno è che in Italia sarebbe quasi ora di andare a dormire, invece qua bisogna passare i controlli con un inglese imbarazzante fatto di “sorry, i don’t understand”, recarsi all’autonoleggio cercando di interagire sempre con la frase di cui sopra con l’impiegato di turno che tenta di affibbiarti altri piccoli optional o upgrade, tipo una Hammer al posto dell’utilitaria precedentemente prenotata, e guidare con la palpebra a mezz’asta per un’ora e mezza circa fino al suggestivo B&B “Mackechnie House” a Cobourg, ridente cittadina sul Lago Ontario (circa 51 volte più grande del Lago di Garda…) che ha molte ragioni per le quali ridere: una di queste è la Ribfest, ovvero la sagra locale a base di costine (c’è pure la gara a chi le fa meglio e ogni stand espone in bella vista i propri precedenti trofei), birra e musica. Naturalmente non ci tiriamo indietro (sia mai che ci perdiamo una sagra!!!) e ci gustiamo queste prelibate “ribs” alle 3 del mattino ora italiana (qui bisogna tirare indietro l’orologio di 6 ore, perciò siamo giustificati). L’atmosfera è gioviale, tutti sembrano divertirsi in modo sano e rilassato e le persone si rivolgono a noi sempre con un sorriso, forse per educazione o forse per la birra, ma come primo approccio direi che è proprio incoraggiante.
Ed ora un Gaviscon e proveremo a dormire, perché la giornata è stata un po’ lunga, vero Linda? Linda?? Linda??? Seee, vabbè, è andata.
Giorno 2. Sabato 19 Agosto 2017
Ottenebrato dalla fame e dalla voglia di visitare i dintorni, ieri non ho dato peso ad una cosa pronunciata dall’anziana signora proprietaria del B&B: a qualsiasi ora avremmo trovato la porta d’ingresso aperta. E non solo quella, visto che la porta della camera non ha la serratura e si può chiudere solo dall’interno con un piccolo chiavistello, probabilmente più per una sicurezza psicologica degli ospiti che per altro. Bello questo inconsueto senso di sicurezza ed è inutile fare i finti nostalgici, visto che ho sempre vissuto con serrature ed allarmi, però ora una certa paura mi è all’improvviso venuta: ma avete idea di quanti post farebbe un Salvini se venisse da queste parti a farsi le vacanze? Meglio non pensarci.
Ma, a proposito di fame, ecco la colazione: macedonia, dolce, pancake con formaggio, frittata, bacon e patate, più caffè e succo d’arancia. Tutto molto buono, ma avevamo pochi dubbi in proposito, vista la cura e la gentilezza che la signora ed i suoi figli hanno dei propri ospiti. Paghiamo, carichiamo le valigie ed imbocchiamo la Heroes Highway.
La macchina che abbiamo preso a noleggio si sta comportando bene, anche perché aveva poco più di 4.500 km sul lucente groppone, ma una cosa di questa Hyundai Slantra proprio non la capisco: perché mettere lo specchietto retrovisore destro normale e quello sinistro con un fattore d’ingrandimento un tantinello esagerato, tipo che potrei schiacciare i punti neri all’autista della macchina dietro?
Arriviamo alle 11,30 circa a Gananoque, dove poco dopo ci imbarchiamo per il giro delle Mille Isole, caldamente suggeritoci da un amico che ci era stato qualche anno fa.
Navighiamo sul fiume San Lorenzo che, più che un fiume, sembrerebbe il Lago di Garda, viste le generose dimensioni; ogni micro isoletta ha la sua casa più o meno di lusso, naturalmente in legno e con almeno una barchetta per potersi muovere e qui mi sovviene una domanda: ma la fibra a 100MB qui arriverà?
Il paesaggio è bellissimo, grazie anche a delle grosse nuvole che fanno da sfondo naturale alle foto che scattiamo. Pensare che c’è gente che abita qui, in mezzo ad una pace interrotta solo dalla curiosità dei turisti sui traghetti e dai ragazzotti sulle moto d’acqua, ti fa pensare alla caotica vita che abbiamo in città. Almeno fino a quando non pensi al tempo che si impiegherebbe per raggiungere la gelateria più vicina.
A proposito di gelati, nei prossimi giorni visiteremo una gustosa realtà industriale che ha dell’incredibile. Ne riparleremo a tempo e debito.
Costeggiamo in auto il fiume San Lorenzo, con una tappa a Prescott, dove stanno preparando la rievocazione di una battaglia (Loyalist Day), con persone in costume e vecchie tende… ovviamente canadesi. La tranquillità di questi posti è tangibile, c’è un senso di rilassatezza che non ricordo di aver provato in altri luoghi e, per interrompere l’abbiocco in agguato, cosa c’è di meglio di una bella pausa pranzo delle 15,30? Wrap con tacchino, bacon, formaggio ed insalata (per quel tocco salutista che non guasta mai), accompagnato dalle immancabili patatine fritte. Il cameriere ci porta al tavolo anche delle salse e… e niente, ne ho provata una al cetriolo con un colore verde radioattivo che ti fa venire subito voglia di chiamare un notaio per il testamento. Terribile. “Ma chi te lo ha fatto fare di assaggiarla?!?”, tuona Linda. La gola, sempre la solita gola profonda, maledizione!
Si giunge così a Ottawa ed il pernotto questa volta è in un hotel come tanti, a parte il fatto di dover prendere un ascensore fino al secondo piano, farsi dei corridoi a piedi e prenderne un altro per arrivare al primo piano, il nostro. Sì, nel primo ascensore mancava proprio un piano, ma siccome non sono un architetto evito di chiedermi il perché.
Ottawa vale qualche ora di visita, specialmente per la collina del Parlamento e per la zona del canale Rideau con tutta una serie di chiuse, ma abbiamo giusto il tempo di fare due passi che delle gentili poliziotte in bicicletta ci chiedono di tornare indietro perché la zona da lì a due ore sarebbe stata accessibile solo a chi ha acquistato il biglietto da 10$ per poter vedere i fuochi d’artificio. Eh?!? Cioè, spiegatemi: qui si deve pagare per uno “spettacolo” che da noi scandisce l’estate perseguitandoci praticamente ad ogni sagra? Sì, esatto. E, per quello che abbiamo potuto vedere da lontano, non si sta parlando di qualcosa di propriamente imperdibile. Di imperdibile, invece, c’è uno spettacolo di luci e proiezioni sul Parlamento che, in un’incalzante mezz’ora, racconta enfaticamente in doppia lingua (inglese e francese, qui è la prassi) la storia del Canada in occasione dell’anniversario dei suoi 150 anni. Davvero molto bello, anche se Linda fa giustamente notare che, se l’avessimo fatto in Italia con la Storia che abbiamo, forse non sarebbe bastata una nottata per raccontare tutto. Ma, si sa, questi so’ ggiovani, so’ ragazzi…
Sono conscio che la cosa potrà sembrare incredibile, ma questa sera non abbiamo cenato. Forse per questo per un po’ ci siamo beccati un acquazzone passeggero, ma le calorie ingurgitate a colazione e a pranzo non ci hanno fatto sentire la mancanza di altro cibo (comunque da queste parti mangiano senza tregua, ma non è che la cosa non si noti, vista la sovrabbondanza di taglie forti).
Rientrando a piedi in hotel abbiamo la conferma che qui la gente strana non manca, a meno che di non ritenere normale un tipo di una certa età, in canottiera e con i capelli lunghi e biondi, che si fuma una sigaretta sul marciapiede mentre il suo camper parcheggiato ad un semaforo diffonde musica a tutto volume, oppure quella signora di colore in carne, tanta carne, ferma immobile alla finestrona ben illuminata del secondo piano di un palazzo, con indosso solo un completino intimo tigrato. Ma perché? Come mai? Torniamo alla risposta di prima: non sono un architetto ed evito di arrovellarmi il cervello cercando risposte che, tanto, non arriverebbero.
Buonanotte, o buongiorno, e a domani!
Giorno 3. Domenica 20 Agosto 2017
Lasciamo serenamente e senza rimpianti il Business Inn Hotel di Ottawa con il suo letto matrimoniale alla francese (il bilinguismo in camera da letto evidentemente non vale… e non fate i maliziosi…), non prima di aver fatto colazione in una specie di mensa abbastanza triste ed esserci riappropriati dell’anomala “caparra” che ci è stata richiesta al nostro arrivo: 300$. Credo che mi avessero scambiato per una rockstar in vena di distruggere la stanza dopo festini a base di coca, chinotto e prostitute. In effetti è una cosa che mi capita abbastanza spesso…
Ciò che abbiamo notato durante la breve permanenza nella capitale del Canada è la multiculturalità: persone di ogni religione e provenienza convivono e si comportano apparentemente nella medesima maniera. Ieri, ad esempio, dei bimbi mussulmani osservanti si arrampicavano su delle belle e fragili statue in bronzo allo stesso modo dei loro coetanei cristiani e tutti sotto lo sguardo compiaciuto dei propri genitori. Vuoi vedere che il vero collante tra i popoli alla fine sarà l’idiozia?
Ci incamminiamo per andare ad assistere al cambio della guardia davanti al solito Parlamento, previsto alle 10 di ogni mattina, ma che effettivamente comincia alle 9,45, va’ un po’ a capire il perché. Un mare di gente anche in quest’occasione, anche di domenica. Dopo 45 estenuanti, seppur piacevoli, minuti fatti di “togli-la-baionetta” e “metti-la-baionetta” sottolineati da una simpatica colonna sonora di una “banda con strani e giganti cappelli pelosi” composta prevalentemente da fiati e cornamuse, decidiamo che è giunta l’ora di recuperare la macchina per dirigerci a Montreal. Ma ecco che inciampiamo in un simpatico fuori programma: un piccolo corteo di indiani (dell’India) che, ballando al ritmo di bollywoodiane canzoni tutte uguali, viene preceduto da una piccola banda canadese che suona brani tradizionali locali. Insomma, un casino. Ma tutti ridono e ballano sventolando bandiere dell’India e del Canada e la cosa, vi assicuro, è davvero bellissima e contagiosa. Un signore indiano ci ferma e ci fa fare una foto insieme a Vikas Swarup, diplomatico e scrittore, noto per aver scritto il romanzo dal quale Danny Boyle ha tratto il film premio Oscar “The Millionaire”. Cioè, mica pizza e fichi, semmai pollo tandoori e chapati! Comunque grazie a Wikipedia che mi è venuta in aiuto come sempre facendomi fare la figura di quello che sa tutto e che riconosce tutti. Ah, forse non lo avrei dovuto scrivere… Vabbè.
Abbandonati i simpatici scoiattoli di Ottawa e la mansueta marmotta cicciottella che abbiamo incrociato su un prato anche se non era il suo giorno, percorriamo un’oretta di strada quando Linda se ne esce con un “Ma sai che nel prossimo paesello c’è una fiera?”. Non c’è bisogno di ripeterlo due volte che ci ritroviamo all’ingresso con in mano il biglietto d’entrata da 8$, giusto dopo aver parlato con una ragazzotta di lontane origini italiane che, con il suo leggerisssssimo accento di Campobasso ereditato dalla nonna, ci dice che la domenica il prezzo è pure più economico. Cioè, fatemi capire: i canadesi pagano per andare ad una sagra-con-giostrine a Vankleek Hill che impallidisce dinnanzi a quella di un qualsiasi paesino in provincia di Verona?!? Sì, esattamente così. Ma noi abbiamo dovuto verificare di persona, perché dovremo pur bullarci con gli amici di qualcosa, che diamine! Tra uno stand di pizza dalla dubbia fattura (che abbiamo comunque assaggiato) ed un ring sul quale dopo poche ore si sarebbero esibiti dei wrestler (ma esistono ancora?), siamo rimasti increduli e stupiti nel vedere uno spalto pieno di gente osservare con partecipazione dei trattori che, in competizione l’uno con l’altro, provavano a trainare un mezzo pesante, roba che una gara di tartarughe zoppe al confronto regala emozioni da cardiopalma; almeno per il sottoscritto, perché il sogno di Linda è sempre stato quello d’incontrare l’uomo della sua vita non alla guida di una comunissima Ferrari, ma di un rombante Landini. Comincio a sospettare che la sua passione per le sagre di paese nasconda uno scopo ben preciso…
Avevo appena finito di dire a Linda che il navigatore offline che ci era stato suggerito funzionava perfettamente, quando all’improvviso impazzisce proprio nel caotico traffico di Montreal, non riconoscendo la città e creandosene arbitrariamente una di fantasia: “gira a destra” e non c’è la strada, “procedi dritto” e c’è un muro, “svolta a sinistra” e la sinistra è morta da tempo, come si dice in giro.
Alla fine restiamo imbottigliati nel traffico per oltre un’ora, ma poi capiamo che il tutto è dovuto ad un Gay Pride che purtroppo ci siamo persi. E non lo dico per scherzare, perché ci saremmo andati volentieri.
Primo approccio a Montreal certamente non entusiasmante, anche se le occasioni per ridere in mezzo al traffico non sono mancate, come quando abbiamo notato che l’inglese qui nel Québec è proprio sparito del tutto, anche dai segnali stradali, raggiungendo un nazionalismo addirittura imbarazzante, tipo l’insegna della catena KFC (Kentucky Fried Chicken) trasformata in PFK (molto probabilmente Poulet Frit Kentucky). Insomma, i francesi non sono ancora usciti dal tunnel delle traduzioni ad ogni costo dai tempi del loro “ordinateur” al posto del più universale “computer”, ma è anche vero che le similitudini tra loro ed i canadesi si fermano veramente a poche cose ed una di queste non è certo la buona cucina: infatti, dopo aver scaricato i bagagli all’hotel “Le Dauphin”, aver preso la metro fino alla “città vecchia” ed aver fatto una bella passeggiata, ci infiliamo in una specie di grazioso pub situato all’interno di una piccola corte e ordiniamo il piatto tipico locale; dunque, cosa potrà mai essere? Roba da alta cucina francese che si sposa con la semplicità canadese? Più o meno, esatto: arriva in tavola il rinomato “poutine”, che è composto da una montagna di patatine fritte con formaggio inzuppate di sugo di carne, sul quale abbiamo aggiunto un’altra specialità a causa di una certa fame, ovvero della carne affumicata (e pepata!) tagliata a pezzetti. Cosa dire? Niente, a parte che al momento siamo ancora vivi, che abbiamo già allertato la Farnesina e che stasera non ho avuto alcuna difficoltà nel ricordarmi di prendere la pastiglia per il colesterolo…
Un po’ stanchetti ci viziamo tornando all’hotel con un taxi e… e niente, buonanotte o buongiorno e a domani, se passeremo indenni la nottata..!
Giorno 4. Lunedì 21 Agosto 2017.
Per Linda “ammortizzare il costo dell’hotel” significa dormire non appena apre la porta della stanza fino all’ultimo istante del check-out e, soprattutto, mandare in rovina la struttura divorando tutto il commestibile a colazione, burro salato in primis. Però di sera consuma una cena leggera, eh.
Ci concediamo ancora qualche ora a Montreal, anche perché siamo curiosi di vedere la… città sotterranea. No, niente di antico, siamo pur sempre in una nazione che definisce “Storia” ciò che le è accaduto la sera precedente, bensì un astuto stratagemma per far uscire le persone anche durante i rigidi inverni, quando la temperatura scende di 20 gradi sotto lo zero: una ragnatela di ben 29 chilometri di gallerie climatizzate che collegano le attività di superficie, dai centri commerciali ai teatri, ma dove non mancano negozi, caffè, ecc. Un’idea tanto bizzarra quanto geniale per far girare l’economia, in pratica.
Risaliamo brevemente alla luce del sole e paghiamo i 6$ di ingresso per ammirare l’interno della cattedrale di Notre Dame: poco marmo e tantissimo legno, a dir poco particolare nella sua magnificenza e magistralmente illuminata (è molto diversa da altre chiese, fidatevi che ne vale la pena a dispetto di quanto possa far pensare dall’esterno).
La strada scelta per raggiungere gli Stati Uniti è una “scenic drive”, perché le highway sono eccessivamente monotone e gli unici sussulti che regalano sono per i diversi limiti di velocità a seconda dei tratti.
Laghi e laghetti, graziose case in legno con le immancabili verande e persone intente a tagliare l’erba con il proprio trattorino ci fanno da ideale scenografia fino al temuto confine. “Facciamo i disinvolti, questi non scherzano!”, ci diciamo come se nascondessimo un quintale di droga ed un cadavere avvolto in un tappeto nel bagagliaio.
Siamo allo stop e dobbiamo attendere il semaforo verde per avanzare lentamente fino al “gabbiotto” dove si trova un poliziotto; non siamo riusciti a contare tutte le telecamere, ma di certo ce n’erano tante, tantissime, chissà quante di vere e quante solo per intimorire gli sprovveduti come noi. Allunghiamo i passaporti e le stampe dell’Esta (il visto elettronico) al poliziotto, il quale ci guarda e comincia a farci qualche domanda; saggiamente lascio a Linda l’onere delle risposte. A parte una. “Dove state andando?”. Linda: “Nel Vermont, verso Waterbury…”, quando improvvisamente entro io a gamba tesa con un sorrisone “…e alla fabbrica di gelato di Ben & Jerry!”. Il tipo scoppia fragorosamente a ridere, aggiungendo “E voi venite dall’Italia per andare da Ben & Jerry? Ok, parcheggiate là avanti ed entrate in ufficio dal mio collega”. Ecco, fottuti. Già ci immagino in una straziante scena con tanto di guanti in lattice e idranti minacciosi; entriamo in questo vecchio ufficio con dieci gradi sotto zero ed un poco affabile poliziotto, con indosso giubbotto antiproiettile e qualsiasi cosa che faccia male che vi possa venire in mente (una via di mezzo tra l’Ispettore Gadget e James Bond), ci fa altre domande, ci fotografa e ci prende le impronte digitali di tutte le dita delle mani. Ah, sì, quasi scordavo: “Fanno 12$ in tutto, grazie”. Salutiamo sorridendo a denti stretti e ripensando a quanto avevamo letto sul fatto di fare prima l’Esta che così poi non avremmo dovuto né aspettare, né pagare, ma non ci sembrava quello il momento di fare polemica.
Benvenuti negli USA!
Il paesaggio cambia di poco, a parte le numerose bandiere americane che prendono il posto di quelle canadesi e, dopo un paio d’ore, arriviamo alla fabbrica di gelato “Ben & Jerry’s”. Da un corso per corrispondenza su come fare un gelato alla creazione di un impero il passo non è stato tanto breve, ma neppure così lungo, se si pensa che i due ex ragazzotti cominciarono sul finire degli anni ’70. Paghiamo 4$ a testa ed entriamo per il tour guidato: un breve documentario che ne racconta la genesi (il primo negozio, l’acquisto della società da parte di una multinazionale, l’impegno benefico, le battaglie sociali) e poi si può osservare il ciclo produttivo da delle grandi vetrate, fino all’agognato assaggio di una pallina, nella quale c’erano quasi più cioccolatini ripieni che gelato. Ma quello che producono qua è così, non c’è nulla da fare: sono americani e più roba ci mettono dentro e più sono felici. E obesi. Per non essere da meno usciamo e ci mettiamo in coda, insieme ad intere famiglie con evidenti problemi di peso, per acquistare un mega cono con tre gusti io e due Linda (che poi abbandonerà sconfitta dall’esagerata quantità). Dopo aver ingurgitato un quantitativo di calorie pari al fabbisogno annuale di un paese del terzo mondo, mi rendo definitivamente conto che nei tre gusti da me scelti c’erano più “cose da masticare” che gelato vero e proprio. Buono? Beh, sì, per forza: tra l’altro è pure meno nauseante di quanto ricordassi, ma forse l’aver saltato il pranzo un po’ mi ha aiutato. Ad ogni modo il vero gelato per me è decisamente altro, ma questo già lo sapevo…
Questa mattina sono uscito indossando tatticamente la maglietta “Ice cream addicted” che Linda realizzò per me tre anni fa, ma lei è uscita con un vestitino nella speranza di trovare dei vecchi ponti di legno coperti che aveva cercato prima della partenza. Perché? Il tempo di scovarne uno baciato dal sole del tramonto e, in un attimo, ci siamo ritrovati nel remake alla peara’ de “I ponti di Madison County”, con il sottoscritto a tempestare di fotografie la sua dolce compagna. Ogni tanto un po’ di romanticismo non guasta e la botta di zucchero di qualche ora prima ha di sicuro fatto la sua parte.
Un inebetito impiegato del Best Western Waterbury ci accoglie con l’entusiasmo di un bradipo sotto benzodiazepine, ma entriamo in stanza giusto il tempo per abbandonare i bagagli e riprendiamo subito l’automobile per recarci al “The Reservoir”, un pub del quale avevamo letto bene su TripAdvisor.
Non so ancora come sia riuscito a finire lo squisito quanto enorme hamburger “Special” che mi è arrivato, ma se supererò questa notte giuro che da domani mi metterò a dieta. Dieta americana, ovvio.
Buonanotte, o buongiorno, e… meno analisi del sangue per tutti!
Giorno 5. Martedì 22 Agosto 2017.
Dopo una colazione non propriamente esaltante, facciamo il check-out con una sorridente e simpatica impiegata che compensa ampiamente l’apatia del collega della sera precedente.
La giornata si prospetta un po’ pesantina per via delle troppe ore di guida (poco meno di otto), ma trascorrono neanche venti minuti che già ci fermiamo ad una fattoria, con annesso negozio, dove producono lo sciroppo d’acero, una prelibata specialità della zona. Dopo un breve documentario e, soprattutto, dopo alcuni gustosi assaggi, capiamo di non aver mai saputo nulla su questo nettare e che quello che avevamo assaggiato in altre occasioni era, molto probabilmente, qualcosa di contraffatto, un po’ come gli “spaghetti alla bolognaise” che si trovano ovunque nel mondo fuorché a Bologna.
Usciamo con la voglia di perforare uno degli aceri che abbelliscono il paesaggio per succhiarne la linfa, ma a parte che la scena già così è abbastanza disgustosa da immaginare, il tempo corre e noi ne abbiamo ben poco a disposizione. Infatti, dopo neppure un’ora, vedo un cartello che mi pare interessante e sterzo all’improvviso: “Old Man of the Mountain – The Great Stone Face” che, a leggerlo così, sembrerebbe proprio una cosa imperdibile, vero? E, invece, è la solita boiata che ti verrebbe da prendere a botte chi se la è inventata. In pratica, nel 1800 e rotti, qualcuno pensò di vedere lassù, in alto sul cocuzzolo della montagna, il profilo di un uomo anziano e ci costruì un punto di osservazione inspiegabilmente visitato da milioni di americani. Il genio che si è immaginato ‘sta cosa dev’essere stato il nonno di quello che, qualche anno più tardi, esultò per aver individuato a Washington la sagoma del membro di John Holmes, fino a quando qualcuno gli fece notare che era solo l’obelisco di marmo in memoria del primo Presidente degli Stati Uniti. Ma non è finita: il pezzo di roccia qualche anno fa si staccò, rendendo di fatto inutile il già ridicolo punto di osservazione. E, quindi, che fare per salvare la situazione? Detto, fatto: viene chiamato un “artista” per costruire una scultura in acciaio che, se ci si mette in un punto preciso e la si osserva di taglio con un occhio chiuso, una gamba alzata e pronunciando le parole magiche “I’m an idiot”, riappare magicamente sulla montagna il profilo dell’Old Man. Insomma, una puttanata da non credere. Ma siamo in America e una risata riesce a seppellire il fastidio di aver perso del tempo dietro a ‘sta cosa.
Stiamo ancora parlando dell’imperdibile sosta, quando qualche miglio più avanti decine di cartelli pubblicizzano l’Indian Head, ovvero un “punto esclusivo di osservazione” dal quale si può vedere sulla montagna il profilo di un vecchio indiano. No, non è possibile! Acceleriamo incuranti dei limiti di velocità ed abbandoniamo ‘sta zona di matti visionari.
Il Vermont lascia il posto al Maine e gli aceri ai pini, ma il paesaggio resta ugualmente rigoglioso ed affascinante; nel frattempo abbiamo anche avuto l’occasione di sgranchirci le gambe per ammirare dei torrenti e delle piccole cascate, dove intere famiglie facevano il bagno incuranti della temperatura dell’acqua. Ci è capitato anche di incrociare un signore che ha agguantato al volo e a mani nude due serpentelli sotto ad un cespuglio, così, solo per farli vedere alla compagna e a noi. La gente strana non manca neppure qua.
I numerosi “Point of Interest” sul percorso sono veramente trascurabili, perché per restare a bocca aperta bisognerebbe attendere i caldi colori autunnali e non la foschia che c’è oggi, perciò procediamo perché è pomeriggio e ci sono ancora quattro ore e passa di guida.
Arriviamo che c’è già buio al “Mount Desert Street Motel” nella cittadina di Bar Harbor. Dobbiamo mettercela via: nei paesi di mare i prezzi che troveremo d’ora in avanti saranno un po’ più alti, anche se si tratterà di dormire in motel con una moquette che di acari ne ha visti passare e sostare in abbondanza. L’odore di chiuso non aiuta, il rumore di un vecchio condizionatore neppure, ma il ragazzo dell’ufficio invece sì: amabilmente chiacchierone e prodigo di consigli, ci suggerisce anche dove mangiare in paese, dopo che Linda gli ha detto che avrebbe voluto cenare a base del tipico “lobster roll”, cioè un panino all’astice.
Entriamo nell’informale “Geddy’s”, un locale piuttosto grande e colorato (ci sono pure i pastelli per divertirsi con le tovagliette); dopo aver ordinato le due versioni (caldo e freddo) del già citato panino, una simpatica cameriera ci accompagna a vedere gli astici ancora vivi nelle vasche piene d’acqua. E subito scatta il rimorso per quelle povere bestiole che da lì a poco ci saremmo trovate in tavola, ma è stato brillantemente superato dalla frase “Scusa Linda, ma gli animali del mare chi se li è mai filati, a parte delfini e balene? Persino la Brambilla, che vorrebbe dichiarare animali da compagnia i cavalli, campa con il commercio ittico…”. Evidentemente l’avevo già convinta a “Scus…”, perché stava già divorando il suo panino.
Ma ora un accorato appello: mentre in Italia c’è gente che perde tempo a discutere su argomenti come “canditi sì o canditi no?” e su “rucola sì o rucola no?”, qui negli USA non arriva un piatto che sia uno che non ci sia dentro almeno un mezzo cetriolo sottaceto. Vogliamo fare qualcosa per questa terribile piaga sì o no?!?
Mi spiace lasciarvi con questa triste immagine del cetriolo, ma ora devo augurarvi la buonanotte, o il buongiorno, e mettere le mie batterie in carica per la giornata di domani, che purtroppo si preannuncia un po’ uggiosa… A presto!
Giorno 6. Mercoledì 23 Agosto 2017.
Ieri sera: “Con questo vento possono capitare solo due cose: o un temporale pazzesco, oppure che vengano spazzate via le nuvole e faccia bello”. “Sì, ok Linda, ma se il ragazzo del motel ci ha detto che domani farà brutto tempo, perché non fidarsi? Ne saprà qualcosa di più lui, visto che è del posto, o no?!?”.
È mattina e stiamo passeggiando per Bar Harbor sotto ad un piacevole soletto e Linda, sono più che certo, smetterà a breve di prendermi in giro. Tipo a settembre. Del 2024.
La colazione questa volta non solo non era inclusa, ma neppure contemplata nello statuto del motel, perciò cerchiamo in paese qualcosa di valido, dopo aver evitato un posto pieno zeppo di gente dentro e pure fuori in attesa di un tavolo, neanche regalassero astici da inzuppare nel caffè.
Notiamo un posticino senza tavoli né sedie, cosa non buona, ma con le vetrine piene zeppe di dolci, cosa molto buona che supera qualsiasi barriera. Due robuste ragazze (mi sarei stupito del contrario) ci preparano i caffè e ci consegnano una colazione a base di dolci ai mirtilli: non potete capire perché neppure noi potevamo sperare in cotanta bontà, ma la torta (tipo l’American Pie, ma senza ciliegie né pisello del tipo del film omonimo) è qualcosa di incredibile, per non parlare del “donut” o dello “scone”, che per un paio d’ore ci hanno lasciato in bocca un dolce sapore che ha superato addirittura quello normalmente più invadente del caffè. Ah, la pasticceria si chiama “Pinky Pastry Shop”, nel caso quelli della scientifica dovessero chiedere come sono morto.
Con in sottofondo la compilation gentilmente preparataci per il viaggio dal nostro amico DJ Pac, entriamo nell’Acadia Park; 25$ ad automobile, per due ore circa di percorso, se non ci si ferma troppo a lungo per strada. Certo, qualcuno potrebbe farlo anche a piedi mettendoci molto di più, ma questa è scienza e non fantascienza, perciò comincia il tour al profumo di benzina con le solite soste nei punti d’interesse indicati.
Allora, che dire: il parco sarebbe anche carino, ma a parte che la giornata è penalizzata da una certa foschia e dalla mancanza di nuvole che rendono il tutto abbastanza piatto (sì, anche fotograficamente parlando), il vero problema è che per chi ha girato un pochino anche solo in Italia, il tutto sa di già visto. Mi spiego meglio perché non vorrei sembrare troppo snobbino per non dire altro: migliaia di persone che si riversano in quella che è una delle attrazioni maggiori, ovvero la “Sand Beach”. Sì, avete capito bene: la spiaggia di sabbia. E com’è? Eh, è proprio una normalissima spiaggia di sabbia. Bella, per carità, anche con i 14 gradi dell’acqua che tonificano o direttamente uccidono i coraggiosi bagnanti, ma resta pur sempre una spiaggia come ne abbiamo viste tante. Il fatto è che è l’unica di sabbia del Maine, ecco svelato il motivo di tutto questo entusiasmo da parte degli americani in visita. Per il resto del parco vale, più o meno, lo stesso discorso appena fatto: scogliere e panorami vari che sanno di déjà vu, ma che sono comunque piacevoli da vedere, sempre che si riesca a trovare parcheggio nelle affollate aree di sosta.
Una piccola precisazione: quando abbiamo scelto questa meta per le nostre vacanze, eravamo ben consci che avremmo visto qualcosa di più “normale” per noi europei, almeno rispetto a quella parte degli Stati Uniti costellata da magnifici parchi come la Moument Valley, il Bryce Canyon, il Grand Canyon, ecc.ecc., ma lo scopo era proprio visitare un’America un po’ meno “gettonata” e, anche se sarebbe facile fare la battuta “e ora capiamo il perché”, non è proprio così. Nei circa 2.000 chilometri fatti in questi giorni siamo rimasti più volte a bocca aperta, vuoi per alcuni incredibili scorci, vuoi per le casette che sembrano sbucare dritte da un film, vuoi proprio per la sensazione di esserci, dentro ad un film, vuoi per la cordialità della gente, vuoi per il cibo, vuoi per inattese scene come quella vista oggi quando siamo passati vicino ad un giardino dove una cerbiatta stava mangiando l’erba con il suo piccolo, vuoi per l’atmosfera che si respira Stato dopo Stato, vuoi per… Calma, siamo neanche a metà del viaggio, un po’ di pazienza!
Chilometri e chilometri dopo e giunge il momento di visitare i famosi fari. Cominciamo con i primi due, perché le lancette corrono e noi cazzeggiamo troppo tra un salto in un supermercato (sapevate che esistono dei kit di sopravvivenza composti da creaker tondi, formaggio tondo, prosciutto tondo e biscotti tondi? E come diventeremo noi, se continueremo a mangiare queste cose tonde? Appunto.) e soste improvvise per scattare qualche foto ad un molo piuttosto che ad una vecchia macchina restaurata parcheggiata davanti ad un granaio con tanto di bandiera americana dipinta sopra. È il bello di girare autonomamente in macchina, anche se alle volte capita di sbagliare i tempi.
Dopo il tozzo faro di “Owls Head”, corriamo verso quello piccolino di “Marshall Point”, famoso perché presente in una scena di “Forrest Gump”, con quella sua passerella di legno bianco sulla quale correva il protagonista del film. Arriviamo al tramonto, momento ideale per scattare quelle seicentoventisette inutili foto che al solo pensiero di doverle selezionare già mi viene sonno.
Ci accorgiamo che sono passate le 19,30 e che il check-in presso il B&B prenotato la sera prima era da fare entro le 19,00; calcolando che ci manca più di un’ora per arrivare… Proviamo a telefonare per avvisare del ritardo dopo aver riattivato il roaming sul telefono (da quando siamo partiti siamo collegati in Wi-Fi e basta solo dove pernottiamo), ma qualcosa non va per il verso giusto e lo smartphone non si collega alla rete; poco male, perché quando arriviamo il gentile titolare del bellissimo “Hawks House Inn” a Walpole è tranquillo e sereno più di noi che temevamo di aver fatto una figuraccia, tanto che si preoccupa di prenotarci un tavolo in un buon pub nel paese più vicino (ma si nota così tanto quando abbiamo fame..?).
Lo so che vi auguro la buonanotte, o il buongiorno, sempre a pancia (eccessivamente) piena, però questo è l’unico momento che ho per scrivere il diario del viaggio: smartphone in mano, Gaviscon pronto sul comodino e Linda che dorme alla grande già da un pezzo. Siamo proprio gente da folli nottate a Ibiza, non c’è che dire!
A presto!
Giorno 7. Giovedì 24 Agosto 2017.
Se il buongiorno si vede dal mattino, allora questa settima giornata si prospetta davvero bene: l’affabile Steve Hawks ci accoglie nella sua veranda per la colazione a base di… tutto ciò che si vuole! Dunque, come potrei descrivere la sua casa? Ecco, sì: avete presente quando nei film americani vediamo quelle magnifiche cucine in legno, quei soggiorni così curati, quei salotti dove ogni cosa è al posto giusto, tanto che ci si vorrebbe complimentare con lo scenografo? Ecco, non esistono solo nella finzione. Per dire: la sua grande veranda, naturalmente tutta in legno come il resto della casa, è completamente protetta da una zanzariera e, a disposizione degli ospiti, ci sono dei binocoli per osservare gli scoiattoli che zompettano nel giardino e i numerosi volatili che vengono a cibarsi nelle casette appese agli alberi. Oltre a qualche colorato uccellino, abbiamo potuto ammirare anche un colibrì che se ne restava immobile a mezz’aria e tutto ciò mentre ci gustavamo la lauta colazione. Anche queste cose, anche la gentilezza di un titolare di un B&B, fanno ricordare un viaggio, non solamente le mete obbligate indicate da qualsiasi guida, a patto però di essere “ben disposti verso il mondo”, perché altrimenti si rischierebbe di notare solo il letto che cigola e i rumori notturni da film horror, anche se tipici di una casa di legno.
A malincuore salutiamo il nostro ospite e ci dirigiamo verso il primo faro della giornata: il Pemaquid Lighthouse. Saliamo in cima dove lo spazio è angusto e i gradi schizzano fino a farci desiderare una sauna per rinfrescarci e questo malgrado la lampada sia spenta. Completa la visita, da 3$ a testa, un salto al piccolo museo adiacente, neanche da dire in tema con il faro, le navi, i galleggianti, le vecchie foto e l’immancabile pesca di astici (esposto ce n’è uno “imbalsamato” di veramente enorme). Se vi state ancora domandando cosa si mangia nel Maine la risposta è “astici e mirtilli”, con un’invidiabile capacità di creare ricette su ricette con questi due nobili ingredienti come protagonisti principali dei piatti.
Ma a proposito di cibo e di astici, dopo un’ora di strada ci troviamo nei pressi del secondo faro, il Portland Lightouse, ed è casualmente ora di pranzo; Linda riesce a trovare sulla piantina, non so come, il “Bite into Maine”, ovvero un furgoncino che cucina panini e poco altro, a neanche 200 metri dalla meta. Se state pensando al “lurido” (o “lo sporco” o “il merda”, a seconda della raffinatezza dello chef) che vi sfama in piena notte con un panino alla salsiccia e cipolla, beh, significa che non siete ancora entrati nel magico mondo dello “street food”. Dicasi “street food” quel cibo fighetto, spesso a chilometro zero (solo perché chi si procura le materie prime azzera il contachilometri), per fighetti che viene dispensato da furgoncini dall’aspetto fighetto. Ma sì, è una moda, anche se non so quanto passeggera perché il mercato della ristorazione più o meno low cost ha sempre un suo seguito, specialmente in periodi di crisi durante i quali, però, la gente non vuole rinunciare ad appagare la gola.
Alla faccia del low cost, prendiamo due panini con astice da 17,95$ più tasse, visto che è la specialità e bla bla bla e che siamo in vacanza e bla bla bla (però, giusto per fare un paragone, l’altro giorno avevamo preso un panino piuttosto normale in un piccolo fast food a poco più di 10$, quindi non è che gli Stati Uniti siano poi così economici in fatto di cibo, a meno di non rivolgersi ai soliti Mc, in verità più tristi qua che da noi).
Panini buoni, buonissimi (e te credo…), accompagnati da una soda… al mirtillo (bevibile qui, ma invendibile in Italia dove persino il chinotto ha solo una piccola nicchia di appassionati).
Qualche foto al faro e di nuovo in automobile.
Passiamo di sfuggita da Ogunquit, un paesino di mare, e poi dritti al terzo faro, questa volta visibile solo a distanza: il Nubble Lightouse.
‘Sti fari, ammettiamolo, cominciano ad essere un po’ troppi anche per chi li ha scelti come tappe del viaggio, quindi due foto dopo siamo già in viaggio per Salem, la cittadina nota per la vergognosa caccia alle streghe che nel 1600 portò alla morte di una ventina di persone innocenti, gran parte delle quali donne, e che ha generato un remunerativo filone horror tra libri e cinema.
Lo ammetto: un pochino sono rimasto deluso dalla breve visita, ma forse perché mi aspettavo qualcosa di un po’ più fuori dal tempo e, invece, mi sono ritrovato in un comunissimo paese di mare che ha dato vita ad un business legato a streghe e leggende, con musei farlocchi e baracconate varie. Però, almeno, adesso ho una foto davanti ad un cartello con la scritta “Salem”, per l’invidia dei miei amici della “serata horror” (cinema o film da me, purché ci sia qualche spavento e molti zampilli di sangue).
Boston per dormire è molto cara, ma è una caratteristica comune a molte città statunitensi; malediciamo per una volta Booking che ci lascia poca scelta e prenotiamo per due notti all’AC Hotel Boston North, strategicamente situato fuori dal centro, più o meno ai bordi della consunta carta di credito.
Hotel molto moderno, dotato di ogni comfort, però la tipologia di sistemazione del nostro cuore rimane, manco a dirlo, quello della sera precedente. Ma vabbè, questo giro accontentiamoci pure della doccia da ventiquattro posti e del letto matrimoniale dove per comunicare tra noi si deve urlare o usare WhatsApp.
Cenetta veloce e “leggera” al ristorante messicano di fronte all’albergo, perché è già tardi, e poi subito in stanza.
Linda: “Amore, questa sera facciamo i numeri?”
Io: “Ma certo: in 3, 2, 1 sarai già addormentata.”
Ecco, le vacanze di quel tipo fatele alle Maldive o a Rosolina Mare, perché qui di sera gira una certa stanchezza e, a questo proposito, vi auguro la buonanotte, o il buongiorno, e spengo subito la luce.
A domani!
Giorno 8. Venerdì 25 Agosto 2017.
“Se la sono presa con la città sbagliata!”, è la frase pronunciata da un arrabbiato Mark Wahlberg nel film “Boston – Caccia all’uomo” sull’attacco terroristico del 2013 e riecheggia mentre ci accingiamo a prendere la metro per raggiungere la parte “antica” di Boston. Ok, ma possibile che non mi vengano in mente altri film più rassicuranti? Adesso mi tranquillizzo e penso a “Gone, baby gone”; ah no, lì c’era un pedofilo assassino. Riproviamo: “Mystic River”; macché, sangue pure lì. “The Departed”; peggio ancora… Niente, non se ne viene fuori perché, in realtà, le commedie ambientate in questa città sono ben poche (tipo il disneyano “Operazione Gatto”, ma non lo scrivo perché poi qualcuno mi prenderebbe in giro per eccessive affezioni feline); evidentemente Boston ispira poca sicurezza, anche se non sembrerebbe. Oddio, in questo preciso momento sto aggiornando il diario seduto in un vagone di una cigolante metro (o sopraelevata, perché qui si sale e si scende di continuo), quindi forse sto parlando troppo presto, ma durante il giro di oggi si respirava un’aria piuttosto tranquilla.
Ci sono più modi di esplorare una città: viverla (ma ci vuole tempo, tanto tempo), visitarla in modo approfondito (non mancando neppure il museo sulle biglie colorate del nipote dell’autista del primo sindaco) e vederla il più possibile nel minor tempo possibile; inutile dire che la terza opzione è quella che possiamo permetterci avendo a disposizione poco più di due settimane per girare una zona un po’ ampia degli Stati Uniti.
La parte più vecchia (dai, “antica” fa ridere…) di Boston è esattamente come me la immaginavo: splendidi edifici di mattoni rossi in una piccola zona che, dal punto di vista immobiliare, è ancora molto quotata. L’unica nota stonata è che anche qui fanno la raccolta differenziata porta a porta, con tanti antiestetici sacchetti trasparenti posti sull’uscio delle ricche abitazioni. Volendo uno potrebbe anche fare i conti in tasca a chi ci abita: “Ma come, ‘sto pezzente in questi giorni si è nutrito solo di scatolette di tonno?!? E chi mi dice che arriverà a pagare l’affitto a fine mese?”.
La città fa 556.000 abitanti, quindi non è grandissima; giriamo per altre zone, sostiamo in una gettonatissima pasticceria, andiamo verso il porto e ci prendiamo ad un baracchino due grossi cookie con del gelato nel mezzo (che non riusciamo a finire perché non abbiamo ancora lo stomaco a stelle e strisce).
Rientriamo in hotel per darci una rinfrescata perché, per una volta, ci attende una serata diversa dal solito ristorante: la partita dei Red Sox contro i Baltimore Orioles!
“Ma una volta scesi dalla metro come faremo ad individuare lo stadio?”. Un fiume di gente ci fa strada fino all’ingresso, tra reduci del Vietnam che chiedono l’elemosina, detrattori di Trump e della sua politica estera, sostenitori di un qualche dio contro un qualche demonio.
“I due biglietti meno cari, grazie!” e ci vengono consegnati due ingressi da 35$ l’uno che, scopriamo a breve, essere posti in piedi; siccome “business is business”, i posti in piedi godono di un appoggio per il cibo che si acquisterà durante la partita. Ora, io ho poca esperienza di stadi perché ho visto pochissime partite di calcio in Italia, ma qui sono veramente dei pazzi, pazzi organizzatissimi: giriamo mezz’ora per trovare la nostra postazione, superando negozi di souvenir e punti dove vendono cibo (onestamente segnalano sui tabelloni anche le calorie, ma tutti se ne fregano, visto che il prodotto meno calorico è il classico hot-dog), fino ad arrivare all’omino che ci timbra biglietti e dorso della mano, neanche fossimo in una discoteca degli anni ’80. Arriviamo giusto in tempo per l’emozionante inno americano, con migliaia di persone che si levano il cappello e poggiano la mano destra sul cuore. Possiamo criticare quanto vogliamo questo popolo, ma nella sua semplicità riesce ad entusiasmare anche il primo tra i detrattori. Ma sì, noi siamo turisti e beneficiamo solo della parte epidermica, lo so, ma in questo preciso momento siamo in uno stadio a vedere una partita di baseball (siano benedetti i film che ci hanno insegnato le regole di base) e vi assicuro che non riusciamo a trovare altri sinonimi abbastanza efficaci al termine “emozionante”. Bello, bellissimo, un’esperienza da pelle d’oca che consiglierei a chiunque e ve lo dice un antisportivo cronico!
Due hot-dog da 5,25$ l’uno, delle striminzite patatine dallo stesso costo e due birre da circa 10$ l’una, per le quali a Linda viene chiesto un documento; se la ride, anche se lo chiedono pure a chi ha combattuto la Prima Guerra Mondiale (chissà perché poi, boh!).
Tutti bevono, tutti mangiano (l’indotto alimentare supera sicuramente gli introiti dovuti ai biglietti d’entrata), tutti parlano, ridono, applaudono ed esultano, creando un’atmosfera unica che va ben al di là del semplice “tifo da stadio”.
La birra comincia a fare effetto su Linda; sarebbe bello pensare di vederla ballare sugli spalti ed urlare “Forza calzini rossi!!!”, ma un più consono abbiocco si abbatte inesorabilmente su di lei.
Lasciamo lo stadio, anche perché abbiamo un po’ di cose da prenotare per i prossimi giorni prima della buonanotte.
Andando verso la metro, incrociamo un venditore di magliette che ce ne mostra orgoglioso una con la scritta “Trump is a douche” che, nello slang americano, significa più o meno stupido/spregevole/stronzo. A occhio non era un suo sostenitore, come molti abitanti degli Stati che stiamo attraversando.
Ed ora a nanna, a domani!
Giorno 9. Sabato 26 Agosto 2017
Neanche il tempo di scrivere che Boston non è una città pericolosa, quando in doccia mi pungo il polpastrello dell’indice della mano sinistra per colpa del doccino scheggiato. Dove sei Mark Wahlberg quando servi, eh?!? Dove?!?
Seppur gravemente ferito, Linda decide di non abbandonarmi per strada (santa donna); prima di congedarci da Boston, abbiamo ancora due tappe obbligatorie, sebbene non si trovino proprio in città: la zona di Cambridge, con l’Università di Harvard, e il “John F. Kennedy Library and Museum”.
Cambridge è un delizioso quartiere popolato prevalentemente da giovani che mirano a costruirsi un futuro o a divertirsi o ad entrambe le cose; austeri edifici e vecchi dormitori (sempre di mattoni rossi), colorate seggioline nei parchi del campus dove poter studiare e subire gli scatti dei soliti turisti curiosi (ehm…), un mercatino con ventilatori usati, mobiletti usati, letti usati, libri usati e, in pratica, nulla di nuovo in quanto oggetti che chi ha lasciato la facoltà desidera lasciare a qualcun altro (la quantità di frighetti è imbarazzante, ma si sa che per studiare bene è fondamentale idratarsi adeguatamente).
La cosa che balza subito all’occhio, passeggiando da queste parti, è la multirazzialità, cosa già evidente anche nel centro di Boston, ma che era praticamente scomparsa da quando avevamo lasciato Montreal e non ne abbiamo ancora capito il motivo.
Il “John F. Kennedy Library and Museum” si presenta come un bell’edificio moderno, lineare e glaciale, ideato da uno dei più famosi architetti del mondo, l’americano di origine cinese Ieoh Ming Pei. Qui il trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti viene celebrato a 360 gradi, qualcuno in meno se calcoliamo che non vengono citate le sue scappatelle, tra memorabilia e documenti audiovisivi che ne hanno decretato il mito, sia come uomo che come politico. Che piaccia o meno, il confronto con molto di quello che è venuto dopo è schiacciante (“massacrante” se parliamo dei nostri giorni…), al di là del periodo storico e di scelte discutibili.
Per chi non mastica benissimo la lingua locale come noi: la brochure è in italiano e tutti i filmati sono sottotitolati in un inglese facilmente comprensibile. La visita, per chi passa da queste parti, direi che è obbligatoria.
Pranziamo con un pezzo di pizza ammmerigana (ne ho mangiate di peggio in Italia) e con un’insalatina (indovinate cosa ho preso io e cosa Linda…), anche se la golosa memoria corre nostalgica al panino con l’astice di qualche giorno prima. A proposito di questo favoloso e costoso Lobster Roll, ieri abbiamo visto un McDonald’s pubblicizzarlo sulla propria vetrina a soli 9,90$, ma non abbiamo avuto il coraggio di verificare se era con astice o con mastice.
Un pieno di benzina da 25$ (da noi una molotov costa di più) ed un luuungo caffè dopo e giungiamo a “Quel motel vicino alla palude”, l’Ocean Park Inn a Cape Cod. Forse non era il caso di citare il titolo di un film horror, semmai de “La signora in giallo”, dal momento che questa è zona sua e dei suoi casi di omicidio sempre brillantemente risolti. Ma Hollywood è finzione e menzogna, perciò basta una scritta in sovrimpressione ed un finto cartello stradale per spacciare un paesino californiano per uno del Maine. Malgrado ciò al fascino del piccolo e del grande schermo non si resiste, quindi questa sera decidiamo di dedicarla ad un’altra esperienza tipicamente americana e ci fermiamo ad un… drive-in!
11$ a testa ed entriamo a fari spenti per non disturbare chi sta guardando il film precedente a quello nostro (io li ho visti entrambi: “La torre nera”, che per fortuna di Linda è quello che sta per finire, e “Baby Drive” che per me è già una delle pellicole dell’anno e che non mi dispiace rivedere, specie in questo modo); sui titoli di coda della precedente proiezione prendiamo posizione e sintonizziamo la radio sul canale 89,50 che diffonde in stereofonia l’audio del film, mentre arrugginiti altoparlanti riposano appesi a dei sostegni che delimitano i posti auto, consegnando alla tecnologia odierna il testimone.
Secchiello di popcorn di rito e comincia lo spettacolo, circondati da alcune famiglie che hanno avuto il coraggio di parcheggiare i suv al contrario, con i bauli aperti dotati di materassini sui quali sdraiarsi o, addirittura, con sedie da picnic e coperte (di sera si sfiorano i 16 gradi), alla faccia dello streaming sugli smartphone.
Un film nel film, questo è quanto abbiamo vissuto, per la prima volta in vita nostra, durante due bellissime ore!
Ok, domani ci toccherà ripulire l’auto dai popcorn che hanno evitato le nostre bocche, ma c’era troppo buio per riuscire ad centrarle sempre…
A proposito, ora avrei anche un po’ di fame, ma purtroppo per me è giunto il momento della buonanotte, o del buongiorno, perché la sveglia sarà tra poche ore per andare a stalkerare delle povere balene, sempre che decidano di mostrarsi a noi turisti!
A presto!
Giorno 10. Domenica 27 Agosto 2017.
Ho un dubbio: che ci si possa presentare ad un matrimonio in tuta da ginnastica? No, perché al rientro avrò ben due cerimonie alle quali presenziare e dubito che riuscirò mai a rientrare in un qualche vestito appeso nell’armadio. Ah, giusto per prevenire qualche frecciatina: le tute da ginnastica le possono indossare anche chi ginnastica non la fa come me dal ’78, almeno così mi disse tempo fa il mio consulente d’immagine che nel frattempo si è suicidato ingerendo delle megaspalline di una giacca da uomo.
La sveglia delle 7 a.m., puntata per andare ad imbarcarci a 30 km di distanza, viene simpaticamente anticipata dalle nostre vicine di stanza, con un tono della voce che supera in decibel la musica latineggiante che trasmette la loro televisione a tutto volume. La scelta è tra il mettersi a ballare non appena posati i piedi a terra, o comprare una pistola all’armeria più vicina. Le armerie aprono alle 9, quindi facciamo la doccia ballando ed imprecando con estrema disinvoltura e senso del ritmo.
Una volta aperta la porta salutiamo le nostre due enormi vicine afroamericane con un “good morning!” che neanche Robin Williams, accompagnato da un sorriso in lizza per l’espressione ipocrita dell’anno, anche se loro hanno gentilmente ricambiato un po’ perplesse quasi a dire “Ma come, in questo motel c’è anche altra gente?”.
Arriviamo nella colorata Provincetown e la fama di paese “gay friendly” viene confermata dalle numerose coppie di uomini che si tengono per mano o si abbracciano senza tanti problemi, come dovrebbe essere ovunque già da un pezzo.
“L’imbarco è sul molo vicino alla bandiera americana!”, ci dice la tipa della biglietteria. Sì, ok, ma quale delle 1.327 bandiere per metro quadro..? Da queste parti, e per “da queste parti” intendo tutti gli Stati Uniti, le bandiere a stelle e strisce vanno come a casa mia i gelati, anche se a Provincetown se la battono con quelle arcobaleno.
La coda per salire sul battello che ci dovrebbe portare a vedere le balene è molto breve, ma neanche il tempo di esultare per la certezza di accaparrarci i posti migliori, quando le poche persone davanti a noi vengono raggiunte dai 39 parenti che erano andati a rifornirsi di cappuccino e ciambelle. Per fortuna che lo spazio abbonda e che questa escursione non è da “tutto esaurito” e così ci posizioniamo non troppo dentro, non troppo fuori, non troppo al sole, non troppo all’ombra, non troppo all’aria, “che qui è un attimo prendersi un’insolazione o un raffreddore, signora mia!”.
La guida comunica delle importanti informazioni all’altoparlante, parlando ininterrottamente per una quarantina di minuti, durante i quali realizziamo che dovrebbero rendere fuorilegge gli americani che si esprimono senza sottotitoli (ok, magari sarà il caso di iscriverci ad un corso d’inglese, prima o poi…).
“Sai -mi dice eccitata Linda- questi biglietti sono validi a vita, nel senso che se oggi non dovessimo avvistare delle balene potremmo usarli nuovamente quando vogliamo!”. Beh, comodo: magari ritorneremo la settimana prossima o tra un mese, tanto basta uscire da Verona e prendere il 56 barrato…
Ma “Linda nostra Signora degli Animali” è la prima ad urlare “Eccole, eccole!!!” e tutti la seguono nell’ammirare tre grosse megattere che sembrano nuotare in sincrono, mentre la barca si inclina per lo spostamento del peso dei passeggeri. La scena si ripeterà ancora, incoronando Linda “Lady Balena”, il che non so se si possa considerare proprio un complimento.
Porto a casa un sacco di foto di pinne ed una certa nausea dovuta all’occhio sempre fisso nella macchina fotografica, ma ne valeva ampiamente la pena. Nel caso ci sarebbe a disposizione anche un video della gita a soli 25$ a download. Nel caso. Nel caso ci dovessero fregare macchina fotografica e smartphone, credo.
Nel frattempo sono già passate oltre tre ore e decidiamo di mangiare qualcosa al volo a Provincetown, visto che l’automobile è già comodamente parcheggiata a “soli” 3,50$ l’ora. Se la mattina avevamo notato molte coppie gay, nel pomeriggio è difficile trovarne di etero, così mentre Linda si rifà gli occhi con tutti questi ragazzotti palestrati e, spesso, a torso nudo, io continuo ad apprezzare la bellezza del paesino ed i suoi colori sgargianti che la rendono allegra e solare. Occhio che parte il luogo comune: quando la comunità gay adotta una zona, questa ne guadagna in fascino e stile, con grande soddisfazione del mercato immobiliare.
Ancora un faro?!? Ok, ma che sia l’ultimo…
L’Highland Lighthouse è famoso per essere il più “qualche cosa” d’America (qui ognuno è il più “qualche cosa” degli altri, che si tratti di monumenti o di fast food) ed è, effettivamente, un gran bel pezzo di faro. No, scusate, ma credo di aver raggiunto il limite consentito di fari per questo viaggio e, anche se è stato abbastanza interessante vedere ed ascoltare come siano riusciti a spostarlo di un centinaio di metri per salvarlo dall’erosione del terreno, resta pur sempre una torre con una lampadona, utile per allertare le navi che ora non se lo filano più perché hanno ben altri strumenti a bordo per evitare la costa. Schettino a parte.
C’è tanto traffico per strada, come se tutti dovessero rientrare al lavoro dopo un fine settimana al mare; schivato un uomo con un costume da pollo che si stava sbracciando per attirare clienti nel vicino ristorante “Il pollo investito”, imbocchiamo l’ingresso del motel ed i nostri sospetti diventano certezze: se ieri era difficile trovare parcheggio, questa sera ci sono solo quattro macchine in tutto, lontane l’una dall’altra. A posto, ora sì che abbiamo il set ideale per una scena con un maniaco omicida..!
Ci chiudiamo in stanza per una rinfrescata e per approfittare del Wi-Fi che ci consente di trovare un ristorante nei paraggi, facendo attenzione all’orario di chiusura (stranamente alle 21 la maggior parte delle cucine smettono di lavorare); trovato quello che pensiamo possa fare al caso nostro, scendiamo le scale poco illuminate e, a due metri dall’auto, un grosso cane ci abbaia nervosamente attraverso la sicurissima protezione di una zanzariera di una stanza, facendoci fare un bel salto. Percorro con la memoria tutti i titoli horror in mio possesso e non me ne viene in mente nessuno con un maniaco accompagnato da un cane. Di solito i maniaci i cani se li tengono impagliati in casa.
Al “Moby Dick’s” funziona tutto in modo un po’ diverso dai soliti ristoranti, ma questo non lo potevamo sapere: ci ritroviamo in un’ordinata coda di una decina di metri con tutte le persone intente a consultare il menù perché, una volta entrati, si ordina e si paga subito alla cassa, aspettando di essere chiamati dai camerieri una volta liberato un tavolo; la cosa più strana, però, è che non vengono serviti alcolici, perciò dividiamo l’attesa con gente che ha in mano bottiglie di birra o di vino e, addirittura, c’è chi si è portato il frighetto da picnic con le bevande alcoliche da consumare durante la cena. Cena, per altro, informale (informalissima) nella sua presentazione che rasenta il fast food, se non fosse per la qualità del cibo davvero ottima che fa la differenza.
Ed ora a nanna, che domani dovrò essere bello sveglio per una giornata di guida: più di sette ore tra tappe varie e la città di Rocky da raggiungere.
Buonanotte, o buongiorno, e a domani!
Giorno 11. Lunedì 28 Agosto 2017
Questa mattina, scendendo dal letto, ho poggiato inavvertitamente un piede sulla moquette della stanza del motel e credo che ora dovrò amputarlo.
Colazione take away ad un vicino Dunkin’ Donuts per sentirsi sempre più come Homer Simpson (la panza ormai è quella e per il colorito ci sto lavorando) e comincia la giornata che, ahinoi, presenterà ben poche cose da vedere a causa delle infinite ore che dovremo trascorrere in auto per raggiungere Philadelphia.
Dopo neppure due ore, però, sentiamo già il bisogno di sgranchirci le gambe e decidiamo di fare due passi sulla scogliera a Newport, ammirando i bei villoni tipici della zona e tipici dei miliardari. Invidia? Nessuna: ‘sti barboni hanno davanti solo scogli e neppure una spiaggia privata.
Riprendiamo il viaggio e non passano neanche dieci minuti che inchiodiamo davanti ad un locale che cucina solo “cheesesteak”, teoricamente un piatto tipico di Philadelphia, anche se ci troviamo ancora a circa cinque ore dalla città dell’amore fraterno. Ma a noi questi dettagli potrebbero mai sfiorarci? Appunto. Entriamo ed ordiniamo due cheesesteak nella versione classica, ovvero con carne di manzo tagliuzzata e formaggio; ci arrivano al tavolo due sberle di panini che necessiterebbero di veri professionisti per finirli, tanto che Linda, intimorita dalle dimensioni e convinta di essere stata scambiata per Linda Lovelace, dice a me “Non li finiremo mai: ce li faremo incartare e li porteremo via!” e, al robusto tizio che soddisfatto ce li ha preparati e portati (traduco dall’inglese maccheronico) “Sono giganti, non pensavamo che fossero così grandi!”, ricevendo in tutta risposta un “That’s America!” con annessa risata.
E come va a finire? Dai, tanto già lo immaginate: piatti puliti, panini ingoiati in meno di dieci minuti insieme ai nachos di contorno. Squisiti, prelibati e pure leggeri (una delle tre definizioni non è vera).
Ed ecco che comincia la parte meno divertente: il consolatorio e falsissimo navigatore ci prospetta un viaggio di cinque ore circa, ma la realtà è ben diversa, perché all’altezza di New York (della quale vediamo lontano lontano lo skyline di Manhattan che ci fa versare l’inevitabile lacrimuccia e promettere di tornarci insieme) restiamo imbottigliati in un ingorgo che sembrerebbe senza fine, una cosa che pare partorita dal traffico romano dopo che ha copulato con quello milanese, con dei simpatici momenti claustrofobici dentro ad un tunnel con davanti e ai lati degli enormi camion (e chi ha visto l’imprescindibile “Over the top” -sigh!- sa di cosa parlo).
Dal New Jersey in poi è tutta discesa e arriviamo all’imbrunire al “Best Western Plus Independence Hotel Park”, uno storico albergo entrato a far parte della famosa catena, che abbiamo scelto per il buon rapporto qualità/prezzo e, soprattutto, perché era quello con il parcheggio più economico: 18$ contro quelli di altre strutture che superavano anche i 50.
Due passi in zona (Historic District) mentre tutte le attività stanno chiudendo i battenti, qualche foto con le luci gialle dei lampioni che illuminano i vecchi edifici e del trascurabile, ma non disprezzabile del tutto, cibo preso al volo prima della chiusura di un negozio per gente magra, che consumiamo mestamente in stanza.
Qualche prenotazione su Booking, il diario da aggiornare e siamo pronti per la notte, più o meno (una parte dell’insonnia me la sono portata in vacanza, mi dispiaceva abbandonarla tutta sola a casa…).
Ed ora buonanotte, o buongiorno, e a presto!
Giorno 12. Martedì 29 Agosto 2017
Doveva accadere, prima o poi: c’è brutto tempo. “Tranquilla che tra poco questa fastidiosa pioggerellina cesserà!”, dico con fare rassicurante a Linda; infatti, poco dopo, la pioggerellina smette di scendere per lasciare il posto alla pioggia vera e propria. Giuliacci me fa ‘na pippa.
Già abbiamo le ore contate per vedere un po’ di Philadelphia, con la pioggia poi è un vero spasso, specialmente per me che vorrei anche scattare qualche foto. Ma facciamo buon viso a cattivo tempo e cerchiamo di visitare almeno le cose fondamentali, quelle che fanno curriculum e che alla domanda -che prima o poi nella vita arriverà- “Com’è Philadelphia, bella?”, ti permettono di rispondere con un sicuro “Sì, carina, anche se di certo non è la città più imperdibile vista in America…”.
Dunque, cominciamo subito con l’irrinunciabile “Liberty Bell Center” (ingresso gratuito), nel quale una gentile signora ci fa assistere ad un breve, ma esaustivo, documentario nella nostra lingua sulla genesi di questa Campana della Libertà così fondamentale per il popolo americano, ma che ha avuto un certo peso anche sul resto del mondo. Poi, facendoci largo tra bacheche con disegni e documenti storici, ecco che ci ritroviamo d’innanzi a questa famosa campana; ok, una campana è quasi sempre “solo” una campana, sopportabile giusto nei film con Don Camillo e a qualche matrimonio, ma sarà stato per il filmato introduttivo, però per una volta un “pezzo di ferro” è riuscito quasi a commuovermi. Ok, togliete pure quel “quasi”, volevo fare l’uomo duro.
Di fronte al sopra citato centro, si trova l’Independence Hall (ingresso gratuito, ma con biglietto), un edificio entrato a far parte della Storia perché lì è stata firmata la Dichiarazione d’Indipendenza, mica una dichiarazione qualunque. Una guida simpatica e brillante (almeno stando alle risate dei visitatori che noi seguivamo a ruota per non fare brutta figura, ridendo fuori sincrono come neanche Ghezzi), ci dà dei cenni storici che poi Linda approfondirà e mi tradurrà con il suo “Grande Libro della Vacanza”, un patchwork di informazioni prese un po’ qua ed un po’ là ed un po’ chissà dove che ha creato appositamente per il viaggio (ma la cosa dev’esserle sfuggita di mano, perché dalle dimensioni somiglia più ad un’enciclopedia che ad una guida).
Continua a piovere. Decidiamo di esplorare la città in auto passando dalla celebre “scalinata di Rocky” (purtroppo inaccessibile causa lavori), fino a fermarci al “Reading Terminal Market”, praticamente un mercato di cibo vario al coperto, nel quale è possibile non solo comprare i prodotti, ma anche consumarli. Chissà perché ci ritroviamo sempre a doverci confrontare con il cibo, questa volta con un eccezionale Pretzel di burro (il consumo pro capite in questa città è di gran lunga maggiore rispetto a quello di tutte le altre negli USA) ed un altro Cheesesteak, dal momento che è la specialità locale, anche se questa volta lo abbiamo provato con della provola piccante (buono, ma che ve lo dico a fare?).
Siamo stufi di dover dribblare le gocce d’acqua quindi, rassegnati ed un po’ sconsolati, ci mettiamo alla guida in direzione di Washington nella speranza di trovare un tempo migliore. Speranza vana, perché non smette mai di piovere e, anzi, durante il tragitto si fa davvero più che fastidiosa, anche perché l’asfalto delle strade americane sembra quello nostro degli anni ’70 ed è tutto fuorché drenante. Ma a proposito di tragitto: sulla strada notiamo un enorme cartello pubblicitario con il viso sorridente di un ragazzo e la frase “Segui il Dott. Subbio su Instagram!”; la prima cosa che abbiamo pensato è che si trattasse di una serie televisiva tipo “Scrubs”, ma poi leggiamo anche le scritte più in piccolo e capiamo che è il modo scelto da un chirurgo estetico per trovare clienti. Mi sa che al rientro dovrò dare un paio di dritte alla mia dentista, anche se potrei correre il rischio di ritrovarmi la foto di una mia otturazione con qualche centinaio di “like”, ma in ogni caso sempre meglio che dirlo all’urologo.
Parcheggiamo proprio davanti alla colorata e stretta casetta che ospita il “Birdhouse Bed and Breakfast”; ad accoglierci non c’è la padrona di casa, ma una ragazza brasiliana che è negli Stati Uniti da soli quattro mesi e che si scusa subito per il suo inglese. Lei si scusa, non noi. Ogni tanto infila nelle frasi qualche parola in brasiliano e sono le uniche che riesco a capire.
Portiamo le valigie nella “Camera King”, chiamata così perché un letto enorme occupa ogni centimetro quadrato della stanza costringendoci ad andare a turno nel bagno solo per riuscire ad infilarci i calzini, ed usciamo subito per approfittare delle ore di luce, seppur filtrata dai plumbei nuvoloni.
Sfidiamo il mal tempo e parcheggiamo nella zona di Georgetown, solamente perché uno dei due (e non vi dirò chi) ha fatto i capricci per poter vedere la ripida scalinata presente nelle ultime scene del film “L’esorcista” che si trova proprio lì. “Caspita, è proprio una ripida scalinata!” ed è terminata la visita.
Per fortuna Georgetown si rivela essere una delle zone residenziali più belle, se non la più bella, che abbia mai visto in vita mia: casette massimo a due piani, colori pastello, ciottoli e mattoni rossi, per non parlare della magnifica ed imponente università… Insomma, una gioia per gli occhi, inquinata solo dall’eccessivo traffico di alcune vie. Ma ci farei la firma ad abitare in un quartiere come questo, credetemi. Certo, ammetto che il “Georgetown Cupcake” ha avuto un certo peso su questa affermazione, ma ho notato con piacere che anche Linda, che non è come il sottoscritto un’amante dei dolci, ha apprezzato le incredibili leccornie che producono in questo negozietto (la Blueberry Cheesecake è qualcosa che ricorderemo a lungo e non solo perché dovremo smaltirla con giorni di dieta ferrea…).
Cessa la pioggia e cala il buio, una beffa perfetta per chi avrebbe voluto fotografare per tutto il tempo.
Navigatore alla mano, Linda programma un giro serale in auto con alcune possibili brevi soste (causa mancanza di parcheggi), giusto per avere un’anticipazione sulla giornata di domani: la Casa Bianca, l’Obelisco ed il Campidoglio. La fermata più emozionante, inutile dirlo, è quella all’abitazione del Presidente Frank Underwood, indiscutibilmente più capace e simpatico (anche se è un bastardo assassino…) di quello realmente in carica.
Qualche manifestante per il Nepal, una matta microfonata che tiene un interminabile comizio seguito da nessuno, un ragazzo indiano con un cartello sul petto con la scritta “Free Hugs”; poverino, mi ha fatto quasi tenerezza che per poco non lo abbracciavo, ma poi avrei dovuto farmi pagare.
Transenne ovunque “Perché -ci dice una coppia italiana di mezza età (cioè la nostra)- stanno aspettando l’arrivo del Presidente!”. “Per cena?”, chiedo. Linda mi fa notare che il Presidente sarà occupatissimo con i disastri che stanno accadendo in Texas, ma le ricordo di chi sta parlando e subito rinsavisce.
Ok, liberi di non crederci, ma questa sera ho saltato la cena e la pancia sta disturbando il vicinato con i suoi brontolii, perciò ora vi auguro la buonanotte, o il buongiorno, e cercherò di dormire per non pensare a cosa addentare. Linda, meglio se ti allontani un po’…
Giorno 13. Mercoledì 30 Agosto 2017
Colazione un po’ più “normale” delle aspettative (che, quando siamo in un B&B, sono sempre molto alte, esattamente come i trigliceridi ed il colesterolo) e ci dirigiamo verso il più vicino ingresso della metropolitana. E qui entriamo in confusione. Al posto delle solite modernissime macchine con mega display touch, ci troviamo di fronte a delle robe che sembrano venute fuori da un film di fantascienza degli anni ’50, con dei tastoni ed interruttori meccanici da pigiare, se solo sapessimo cosa pigiare. Cioè, spiegatemi: siamo nella capitale della più grande potenza mondiale e dovremmo usare una consolle vintage de “Il Pianeta proibito”?!? Ma ecco che arriva in aiuto un gentilissimo signore, anch’egli vintage, che evidentemente lavora lì e ci spiega chiaramente come fare: “Pigia questo se vuoi un abbonamento, poi questo se ne vuoi due, invece pigia questo se vuoi un biglietto e quest’altro se ne vuoi due, ma prima si deve decidere quanto caricare sulla tessera che costa 2$, pigiando questo per i dollari e questo per i centesimi, però attenzione che i biglietti hanno un prezzo differente a seconda del tragitto e degli orari, ma comunque pigiate anche questo che tanto non avete capito una cippa di quello che vi ho detto, si vede benissimo da come mi guardate”.
Non so come, ma riusciamo a salire in metropolitana ed arrivare davanti al maestoso Campidoglio. Alla seconda scheda di memoria con imperdibili foto del Campidoglio nelle pose più varie, da quelle seriose a quelle sexy, proprio mentre sto per fare lo scatto della mia vita sento che la borsa che ho a tracolla si muove; mi giro di scatto e vedo un cagnone molecolare che me la sta sniffando con grande soddisfazione, al guinzaglio di un grosso poliziotto molecolare. Se non conoscete il termine “molecolare” vi viene subito in aiuto Wikipedia: “Dicasi cane molecolare quel cane che individua una fetta di bacon a miglia di distanza”. È scienza, non prendetevela con me.
Scendiamo per entrare nel Campidoglio e, sebbene non avessimo prenotato in anticipo la visita, ci va bene ugualmente perché una guardia dello “United States Capitol Visitor Center” ci consegna i biglietti per l’accesso gratuito con tanto di simpatica guida che, dopo un filmato che racconta sia la storia del palazzo che ci ospita che degli Stati Uniti, ci porta in giro per oltre un’ora ad illustrarci stanze, quadri e tantissime statue. E noi ne notiamo una in particolare: quella di Giuseppe Garibaldi, l’unica che rappresenti un italiano. Uno che i popoli li univa, mica li divideva, se anche la guida prova timidamente a descriverlo come “un piccolo Washington”. Per dire.
Dopo questa “botta de curtura” necessitiamo di aria e di una bella passeggiata all’aperto, visto che è pure una bella giornata di sole; così, goniometro e compasso alla mano, calcoliamo sulla piantina che dovremo camminare per oltre quattro chilometri per riuscire a vedere quello che desideriamo del National Mall. C’è di buono che è tutta discesa o, al massimo, pianura.
Accompagnati da numerosi scoiattoli (credo che ce ne metteremo un paio in valigia), dalle oche del Campidoglio (ci sono davvero e sono tante) e dall’assordante canto delle cicale americane (si distinguono dalle altre per via dell’accento), riusciamo a vedere e a fotografare quasi tutto, dall’obelisco di marmo dedicato a Washington (incredibile, quando si è sotto fa davvero impressione) al Lincoln Memorial con la statua gigante di Daniel Day-Lewis.
Troviamo il tempo per vedere anche il “Vietnam Veterans Memorial” e la transennata Casetta Bianca dalla quale il dissennato inquilino non mostra neppure il ciuffo arancione. E sì che un paio di cose da dirgli le avremmo anche avute.
“E se gli urlassimo qualcosa?”, chiede Linda.
“Amore, vedi quei puntini luminosi rossi che si muovono lì davanti sul tuo maglioncino?”
“Il giochino di Gatta Sofia!!!”
“Ecco, quasi…”
Se notate oggi ho omesso di dire con cosa abbiamo pranzato e cenato, ma solo per non dare cattivi esempi ai giovani di voi che hanno la pazienza di leggere questo diario. Ma sì, chi se ne frega, tanto lo so quanti anni avete: a pranzo ci siamo fermati ad un baracchino ai bordi del lungo prato del Mall, dove abbiamo strapagato degli hot-dog che difficilmente scorderemo, specialmente se stanotte per colpa loro non chiuderemo occhio.
A cena, invece, per spezzare le oltre due ore di guida che ci dividevano dell’hotel prenotato (“Sleep Inn & Suites Cumberland”, una catena di buon livello ad un costo contenuto, che ci ospiterà solo per qualche ora perché domani mattina avremo un appuntamento al quale non si potrà mancare), ci siamo fermati dal classicone “Denny’s”, ovvero IL ristorante per famiglie con il miglior rapporto qualità/prezzo degli USA. Un solo appunto: se ordino una “Avocado Chicken Caesar Salad” è evidente che lo faccio per la mia salute, altrimenti avrei preso una delle altre mille cose grasse e bisunte del listino, no? E allora perché quelle due fette di pane imburrato ad accompagnare il piatto? Solo perché la cameriera mi ha visto e ha avuto compassione di me? Allora sai cosa faccio? Intanto me le magno e poi ti ordino pure il dolce, tiè! Ed ecco che arriva un sublime “Caramel Apple Pie Crisp”, ricordando di averlo già assaporato durante un viaggio di quattro anni fa, con l’unica differenza che all’epoca sul listino mica ci mettevano le calorie. 740 per un dolcetto?!? Ma siamo matti?!? Comunque l’ho finito, sebbene con l’aiuto di Linda e della sua coscienza sporca.
Ed ora a nanna, a domani!
Giorno 14. Giovedì 31 Agosto 2017
Motel deserto. A colazione solo quattro signori piuttosto anziani che si muovono lentamente tra una fetta di bacon ed una tazza di caffè, ma comunque sempre molto meglio di me: a causa del cuscino e, soprattutto, del “chissà come cacchio ho tenuto la testa questa notte”, sono completamente bloccato con il collo e parte della schiena, roba che al confronto i succitati signori sembrano dei contorsionisti di un circo cinese. Per almeno mezza giornata, cioè fino a quando gli antidolorifici non faranno effetto, mi muoverò con la grazia di un paffuto Terminator arrugginito. Non è un bel vedere, ma neppure un bel sentire.
Con oggi cominciano “i due giorni delle cascate”, nonché l’inesorabile conto alla rovescia che ci condurrà al termine di questa vacanza. Alle volte sembra ieri che siamo partiti, altre che siano trascorsi sei mesi, ma la voglia di restarsene ancora in viaggio rimane in entrambi i casi.
Linda, quando ha cominciato ad organizzare nel dettaglio il viaggio (sì, gran parte del merito di ciò che abbiamo visto, se non proprio tutto, è solo suo), ha scovato anche questa perla che forse sarebbe sfuggita ad un turista poco attento o poco architetto: la “Fallingwater House” di Frank Lloyd Wright. Se avete un amico architetto, e questa è solitamente una disgrazia abbastanza comune insieme a quella di avere un amico ingegnere, chiedetegli se conosce questa “casa sulla cascata”; al 99,99% comincerà a sgranare gli occhi e a sciorinare informazioni sull’architetto che l’ha ideata per una famiglia di commercianti nel 1936, eccitandosi come un fotografo amatoriale ad un workshop di nudo per il fatto che all’epoca venne considerato un progetto impossibile da realizzare.
Dopo tanti anni, invece, siamo qui a visitarla grazie alla prenotazione -non molto economica- fatta da Linda (non ci si può presentare senza, senza Linda, intendo); i gruppi di una quindicina di persone partono ogni dieci minuti con una guida e le foto, sfortunatamente, si possono fare solo dall’esterno e non alle stanze ed agli incredibili arredi, opera sempre di Wright. Beh, mi credete se vi dico che è una delle cose più belle ed elettrizzanti viste in questa vacanza? Se avete tempo, cercate la storia di questa assurda casa su Internet, magari anche con qualche foto (le pubblicazioni in merito sono un’infinità) e poi moltiplicate lo stupore per cento; io avevo fatto esattamente così ed il mio pensiero era del tipo “ma sì, sarà solo una bella villona un po’ particolare…”, con la sufficienza tipica di uno stolto che diffida degli amici architetti, ma quando me la sono ritrovata davanti… Viene mal di testa al solo pensiero che un essere umano sia stato in grado di concepire una simile opera d’arte, perché di questo si tratta, dove nulla è lasciato al caso ed ogni dettaglio è stato minuziosamente progettato e, per di più, tutto sopra una cascata, sfruttandone la naturale struttura ed il corso d’acqua.
Lasciamo la casa dei sogni con addosso un entusiasmo che cerchiamo di mantenere ancora alto, infatti ci fermiamo al “Brenda’s Family Restaurant” per un obesissimo hamburger. Sacro e profano, ok, ma siamo sempre pronti a sfamare mente e panc… Vabbè, mi fermo qui per non rischiare ulteriori insulti.
L’enorme cameriera ci informa che, con gli hamburger, si possono scegliere le patatine fritte o un’insalata a buffet che si può prendere nell’altra stanza, ma dal tono della voce capisco subito che lei non ha mai creduto all’esistenza di un’altra stanza.
Ho citato questo locale perché è il tipico ristorantino americano di provincia che ha la sua dignità e la sua storia, senza contare che il cibo costa la metà di quello presente al bar del Visitor Center della poco distante “Casa sulla cascata”. La vera America si trova anche ai vecchi tavolini di “Brenda’s” e, cosa buona e giusta, il listino non riporta le calorie delle portate (quindi è un po’ come se non ne avessimo assunte, giusto?).
Guidando sulle strade americane alla folle velocità di 85km/h sulle statali e di ben 110 sulle highway (alcune volte a pagamento, molto spesso no), si comprende il successo di film con rombanti automobili come “Fast and Furious”. Gente repressa al volante.
Bisogna anche dire, però, che da queste parti c’è un morìa di animali sulla strada che è pazzesca, soprattutto procioni, ma non mancano puzzole, ricci ed istrici e, quando vedi dei cartelli che avvisano del pericolo di investire grossi animali come cervi, ripensi a “Misery” e stacchi immediatamente il piede dall’acceleratore.
Dove la velocità non serve è la zona abitata dalla comunità Amish a “Lawrence County”, nella quale piccoli calessi neri vengono trainati da cavalli, così come gli aratri nei campi. A che servono i motori quando ci sono gli amici equini? “Amici ‘sto crine!”, sembrano rispondere gli esausti cavalli.
Realizzo una volta per tutte come gran parte della mia vita sia stata implacabilmente segnata dal cinema americano quando punto il teleobiettivo (quindi sono anche piuttosto distante) su un povero amish e temo che si possa arrabbiare perché sotto la barba si nasconde, in realtà, un incazzoso Harrison Ford.
Il fatto è che sono stato davvero combattuto se scattare o meno delle foto, perché la pace e la tranquillità di questo luogo meritano rispetto, così come le persone che hanno scelto di vivere a modo loro qui. Però sono anche un turista capriccioso e difficilmente mi ricapiteranno altre occasioni come questa, quindi arrivo ad un compromesso con la mia coscienza: solo pochi scatti e da lontano, senza disturbare nessuno.
“Ma poi, diciamocelo: anche se dovessi postare su Facebook le loro foto, quando mai le vedrebbero che ‘sti pezzenti non hanno neppure l’elettricità?!?” Rispetto, appunto.
Notte in un hotel di passaggio a Erie (“Cobblestone Hotel & Suites – Harborcreek”), non prima però di un trancio di pizza da “Cicis”, un trascurabile locale in una zona commerciale che stava chiudendo, con un pizzaiolo che per fare una pizza all’italiana ha pensato bene di metterci sopra i maccheroni, quindi giretto in un enorme supermercato aperto 24h/24, spinti più dalla curiosità che dalla fame (incredibile, vero?).
Ed ora a nanna, perché domani… Niagara Falls!
Buonanotte, o buongiorno, e a presto!
Giorno 15. Venerdì 1 Settembre 2017
“Aria settembrina, fresco la sera e fresco la mattina”. I tipici proverbi canadesi non sbagliano quasi mai.
È giunto il momento di abbandonare gli Stati Uniti e di rientrare in Canada, ma prima facciamo il pieno di benzina, perché costa un po’ meno e perché necessitiamo di una breve pausa per il bagno. Finché armeggio con la pompa cercando di non sporcarmi (e qui in viaggio non mi è mai capitato perché stranamente anche quelle messe male sono sempre molto pulite), Linda è dentro alla piccola e vecchia stazione di servizio a pagare e per usufruire dei servizi igienici. Esce e mi dice: “Vai pure, anche se c’è solo un bagno privato me lo hanno fatto usare e ho già detto che sarebbe arrivato anche mio MARITO!”.
“Ah, ok. Senti, ma per quel corso d’inglese che si diceva…”. Entro e, davanti alla scalcagnata porta del bagno, ci sono sdraiati due grossi pastori tedeschi ed un altro cane di razza incerta, mentre una donna indiana tutta vestita di lilla se ne sta lì in piedi e mi accenna un mezzo sorriso; il titolare, un ragazzotto con barba incolta ed una canottiera scura, mi fa cenno di aspettare e, al suo fianco dietro alla cassa, c’è un anziano signore con un paio di grandi occhiali da vista che mi fissa. Ok, sono capitato in un episodio di “Fargo”, grazie Linda che mi hai avvisato. Il tempo si dilata, non so più dove e cosa guardare per fingere una certa disinvoltura per la surreale situazione, quando il ragazzo mi chiede quanto costa il viaggio in aereo per l’America perché suo padre, l’uomo lì con lui, lo vorrebbe sapere. Ecco, ci mancava solo di dover rispondere con il mio inglese per aggiungere un’altra cosa bizzarra al tutto; faccio mente locale, pensando bene ai numeri da dire per non fare come quella volta di tanti anni fa quando, al controllo passaporti all’aeroporto di New York, risposi ad un poliziotto che mi chiese quanta valuta stavo facendo entrare “600 mila dollari” anziché 600, ricevendo per tutta risposta un urlato “What???” che me lo sogno ancora di notte. “Costa circa 420 euro da Venezia a Toronto e ritorno, ma più o meno è lo stesso prezzo anche per New York…”. Nel frattempo la tipa indiana riesce ad entrare nel bagno perché un’altra sua colorata amica ha finito, quando ascolto il ragazzo che dice al padre che con il cambio sarebbero circa 650 dollari. L’anziano signore mi guarda e mi farfuglia un “Cheap!”, evidentemente ignorando che il figlio è da un po’ che non frequenta Wall Street, perché al cambio attuale i dollari sarebbero molti di meno. Ma non mi sembra il caso di polemizzare, perché forse il figlio non vuole mandare il padre in Italia e perché sicuramente dietro al bancone tiene un bel fucile; su quest’ultima ipotesi potrei scommetterci qualsiasi cosa. Finalmente entro in bagno e… vabbè: vedendo ciò che tengono dentro e di come le pulizie fatte a Capodanno del 2003 inizino a mostrare un po’ la corda, comincio a provare una sorta di nostalgia per i cari, vecchi scarafaggi.
Frontiera. Questa volta è un po’ come un casello autostradale, ma con più telecamere e più poliziotti. Mi avvicino con i passaporti in mano per le domande di rito, con l’automobile che si inclina sulla destra a causa di un dosso artificiale per permettere al lungo braccio della legge di guardarmi bene in faccia. “Quanti giorni vi fermate in Canada?”; mi lancio in uno spericolato “Ancora domani perché le vacanze purtroppo sono finite!” e, quando il monolitico poliziotto di colore mi restituisce i passaporti, leggo nei suoi occhi un “Ma a me quanto me ne può fregare delle tue vacanze che è da stamattina che sono chiuso dentro a ‘sto gabbiotto?!?”. Ha ragione lui.
Perché andare a vedere le cascate del Niagara dalla parte canadese? Semplicemente perché quando osserverete quelli che le vedono dal lato americano capirete che stanno godendosene solo la metà.
Se qualcuno che conoscete vi descrive con sufficienza le cascate del Niagara con un “Ma sì, sono cascate…”, non credetegli. E toglietegli l’amicizia su Facebook. E dite in giro che gli puzzano i piedi. Insomma, chi dice così o non è sincero, o si aspettava che Superman sorvolasse la zona come in un film che aveva visto. Già, perché le cascate del Niagara sono GRANDIOSE, ipnotiche, non si riesce a distogliere lo sguardo da quell’enorme potenza della natura, anche quando tira il vento, fa freddino e ci si bagna persino nel lontano parcheggio da 22 dollari canadesi. Uno spettacolo unico, irrinunciabile. E lasciate perdere tutto il business che ci è stato creato attorno, neanche fosse un brutto incrocio tra un parco Disney e Las Vegas, perché quello che davvero conta è lì, davanti ai vostri occhi.
Cediamo solo alla gita in battello che si avvicina così tanto alla base delle cascate da farci provare l’ebrezza di entrare in una nube d’acqua, dalla quale usciamo bagnati malgrado il poncho in dotazione (è incluso nei circa 30 dollari canadesi d’ingresso). Ne vale assolutamente la pena.
Le lancette corrono sempre più veloci e, tra passeggiata lungo il fiume e breve gita in barca, la giornata alle cascate è terminata; ora dobbiamo raggiungere il “Courtyard by Marriott Downtown” di Toronto per la notte e ci vorrà un’ora e mezza abbondante di auto.
L’arrivo a Toronto e la chiacchierata con il simpatico responsabile del parcheggio dell’hotel ve la racconterò domani nell’ultima parte del diario, perché sto veramente crollando dal sonno… Scusate, è raro che mi capiti, ma… Buonanotte, o buongiorno!
Giorno 16. Sabato 2 Settembre 2017
Torniamo a ieri sera, perché non ho raccontato dell’arrivo a Toronto.
Vediamo lo skyline avvicinarsi sempre più ed i nostri “Ooooh..!” di meraviglia si trasformano ben presto in semplici “Ah…” di delusione: la città si presenta con verdastri grattacieli di vetro che non vedono da tempo un tergicristalli. Il verde-grigio sembrerebbe essere il colore dominante di questa nostra ultima tappa. Percorriamo una delle strade principali, la Yonge Street, per raggiungere l’hotel e le mille luci e lucine delle insegne dei locali non riescono a nascondere la strana sensazione di non essere capitati esattamente nel posto più bello della nostra vacanza, anzi.
Per nostra fortuna l’albergo è in una poco trafficata via secondaria; ci fermiamo proprio davanti all’ingresso ed un signore subito si avvicina per chiedere se abbiamo bisogno di aiuto con bagagli ed automobile. Quando capisce che siamo italiani si illumina e, da quel momento in poi, comincerà a raccontarci la storia della sua vita (in italiano!), ma non prima di dirci che non ci conviene mettere l’auto nel parcheggio dell’hotel perché costa 35$ canadesi al giorno, contro il vicinissimo parcheggio pubblico a soli 18. Già si fa voler bene, ma quando stiamo per entrare nella hall ci regala anche due bottigliette d’acqua “perché qui ve le fanno pagare carissime!” e ci conquista del tutto. A questo punto la nostra curiosità viene soddisfatta: è eritreo, ma ha vissuto per tanto tempo in Italia, lavorando come autista di un famoso politico del quale non ci dirà mai il nome, anche se qualche indizio ce lo fa immaginare nell’area del centro-destra; lui si trovava molto bene, era ben pagato ed aveva persino aperto la Partita Iva per altri lavori, ma la sua famiglia non riusciva a vivere tranquillamente a Roma; così, sette anni fa, decide di trasferirsi in Canada, dove riesce anche a laurearsi, a mandare a scuola suo figlio e ad usufruire dell’assistenza sanitaria, il tutto senza spendere un centesimo. Non so voi, ma io le volte che ascolto la storia di chi ha vissuto più di una vita vi assicuro che mi sento molto piccolo e stupido, soprattutto quando mi lamento per le sciocchezze quotidiane. Così, giusto per aggiungere una banalità a qualcosa che tanto banale non è.
Ah, già: poi ci ha anche detto che l’italiano lo tiene allenato guardando il programma “Uomini e donne” ed immaginare Maria De Filippi come erede del Maestro Manzi è stato obiettivamente troppo e lo abbiamo cordialmente salutato (in realtà dovevamo proprio andare…).
Ci incamminiamo per due passi serali e per cercare qualcosa da mettere sotto ai denti proprio sulla via principale che abbiamo percorso in auto, venendo investiti da nubi di marjuana e dribblando tante, troppe persone sedute a terra che chiedono l’elemosina, tra senzatetto e quelli che sembrano essere dei tossicomani ad uno stadio molto avanzato; le insegne luminose dei fast food e di locali dal cibo poco invitante e ripetitivo non danno l’idea del Canada che pensavamo di trovare e che abbiamo visto durante i primi giorni del viaggio. Yonge Street pare la versione marcia di una brutta via newyorkese, un triste “vorrei, ma non posso” confermato anche dalla breve visita dell’indomani.
Poco convinti ci adattiamo all’offerta locale, preferendo una pizza nella capillare catena “Pizza Pizza” (l’agenzia di marketing deve aver pensato che è sempre meglio ripetere le cose due volte per chi è duro di comprendonio, per evitare che qualcuno entrasse a chiedere “Ma cos’è che fate da mangiare qui..?”). La cassiera ci dice che possiamo scegliere tre ingredienti; “Bene, allora vorrei una pizza con lievito madre, prosciutto crudo e burrata, grazie!”. Ci arriva un bollente, ma commestibile, disco volante con quattro non identificabili formaggi, del salamino e dei funghi freschi e lo facciamo fuori in pochi minuti, così come lui il nostro palato. Nel “combo” c’erano anche tre lattine, una delle quali la diamo ad una povera disperata seduta sul marciapiede in cambio di una canna. Scherzo. Erano due canne.
Rientriamo in stanza e Linda non fa neanche a tempo a dire “Ma che brutta che è Tor…” che crolla sul letto king size. Dalla mia parte.
Se c’è un pizzaiolo in ascolto potrebbe gentilmente spiegarmi come mai le pizze americane/canadesi di notte non fanno venire sete? Ah, ok: perché non sono pizze. Grazie.
Dopo un sonno ristoratore cerchiamo di affogare la tristezza dell’ultima mezza giornata di vacanza in un posto affatto entusiasmante in mezzo litro di caffè, sperando di trovarci dentro anche della caffeina. Gli ultimi dolci al blueberry riescono a metterci di buon umore ed usciamo dalla caffetteria pronti ad affrontare Toronto.
Cose positive di Toronto per quel poco che abbiamo potuto vedere: la piazza del nuovo Municipio (quello “vecchio” era del 1899…), un Batman di colore incrociato per strada (poi abbiamo capito che ci dev’essere stato un incontro di cosplayer), la zona del mercato coperto ed i localini che lo circondano, il “flat iron” copiato più in grande anni dopo da New York, un chiosco adiacente una chiesa dove gruppi di adulti vestiti con campanellini eseguivano balli folkloristici, qualche nuovo grattacielo tirato a lucido.
Cose negative di Toronto per quel poco che abbiamo potuto vedere: tutto il resto. Diciamo che è una città nella quale non credo torneremo, ecco.
La mia ansia da ritardo si accentua quando si parla di aeroporti e di voli da prendere e pure questa volta non fa eccezione; arriviamo tre ore e mezza prima dell’imbarco, restituendo l’automobile in dieci secondi netti contro l’ora prevista da me (“Come minimo ci sarà coda ed un solo impiegato con problemi motori, vedrai che rischieremo di perdere l’aereo!!!”), mentre per il check-in ci vogliono ben ventidue secondi contro la mezz’ora prevista sempre da me (“Con tutta la gente che viaggia in questo periodo e con le misure antiterrorismo che devono adottare, minimo minimo tra aprire le borse ed ispezioni corporali andrà a finire che non riusciremo a salire per tempo sull’aereo!!!”).
Le ore in aeroporto trascorrono velocemente solo se si mangia o si dorme, quindi andiamo a pranzare nel più lento fast food canadese, che magari ci scappa pure l’abbiocco: quasi venti minuti per avere nel piatto un hamburger ed un wrap all’aglio (doveva essere al pollo, problemi con la lingua, credo) che farà sognare film di Dracula ai miei vicini di posto, che si riveleranno essere dei casinisti pensionati francesi in libera uscita, peggio di una scolaresca in gita senza insegnanti al seguito.
Anche questa nostra piccola, grande avventura è finita: dopo più di 4.400 chilometri, posti alcuni fantastici ed altri solamente bellissimi (ok, a parte Toronto…), tra americani con pantaloni corti e calzini bianchi al polpaccio ed intere famiglie che viaggiano con la voglia di conoscere il proprio Paese e la sua Storia, per quanto recente possa essere. Il desiderio di stupirci è sempre una costante e pure questa volta siamo stati ampiamente accontentati, grazie anche a paesaggi ed incontri inaspettati, umani e non.
E dopo questo viaggio che ci ha nutrito sotto ogni aspetto (eh…), possiamo solo sperare di programmarne altri, perché drogarsi di cose belle è veramente troppo facile e non si vorrebbe mai uscire da questo splendido tunnel.
Grazie ancora a Linda per… per tutto (sì, anche per la pazienza) e grazie a chi ha seguito questo diario e per l’affetto che ci ha simpaticamente dimostrato (vai con i violini!).
A presto, spero!